Intervista a Zygmunt Bauman di Massimo Di Forti, [non recente ma attuale]
all'inizio parla di crisi economica e alla fine di Europa e immigrazione...
il Messaggero, 11 settembre 2012
«La ragione di questa crisi, che da almeno cinque anni coinvolge tutte
le democrazie e le istituzioni e che non si capisce quando e come
finirà, è il divorzio tra la politica e il potere». Zygmunt Bauman
riesce subito ad andare al dunque senza perdersi in giri di frase. Non a
caso possiede il dono di quella che Charles Wright Mills chiamava
l’immaginazione sociologica, la capacità di fissare in una frase, in
un’idea, la realtà di un’intera epoca, e il grande studioso polacco lo
ha fatto con la sua metafora della "Vita liquida" e della "Modernità
liquida" (cosa è più imprendibile e sfuggente dell’acqua e dei suoi
flussi?) per descrivere con geniale chiarezza la precarietà e
l’instabilità della società contemporanea.
Lui, liquido, non lo è
affatto anzi è un uomo di ferro, un ottantasettenne che gira il mondo
senza sosta (viaggia almeno cento giorni all’anno tra conferenze e
dibattiti!) e a Mantova è intervenuto a Festivaletteratura per un
dibattito sull’educazione. Non c’è traccia di stanchezza nel suo fisico
asciutto o nel volto scarno e autorevole ravvivato da occhiate
scintillanti, mentre parla in una sala della Loggia del Grano pochi
giorni dopo aver pubblicato un nuovo libro, Cose che abbiamo in comune (220 pagine, 15 euro) sempre per Laterza, editore dei celebri saggi come Vita liquida, La società sotto assedio, Modernità liquida, Dentro la globalizzazione e altri ancora.
Professor Bauman, è per questo che i politici sembrano girare a vuoto di fronte alla crisi?
«Sì.
Il potere è la capacità di esercitare un comando. E la politica quella
di prendere decisioni, di orientarle in un senso o nell’altro. Gli
stati-nazione avevano il potere di decidere e una sovranità
territoriale. Ma questo meccanismo è stato completamente travolto dalla
globalizzazione. Perché la globalizzazione ha globalizzato il vero
potere scavalcando la politica. I governi non hanno più un potere o un
controllo dei loro paesi perché il potere è ben al di là dei territori.
Sono attraversati dal potere globale della finanza, delle banche, dei
media, della criminalità, della mafia, del terrorismo… Ogni singolo
potere si fa beffe facilmente delle regole e del diritto locali. E anche
dei governi. La speculazione e i mercati sono senza un controllo,
mentre assistiamo alla crisi della Grecia o della Spagna o
dell’Italia…».
È l’età della proprietà assenteista, come la chiamava Veblen, della finanza: era meglio prima?
«Il
capitalismo di oggi è un grande parassita. Cerca ancora di appropriarsi
della ricchezza di territori vergini, intervenendo con il suo potere
finanziario dove è possibile accumulare i maggiori profitti. E’ la
chiusura di un cerchio, di un potere autoreferenziale, quello delle
banche e del grande capitale. Naturalmente questi interessi hanno sempre
spinto, anche con le carte di credito, ad alimentare il consumismo e il
debito: spendi subito, goditela e paga domani o dopo. La finanza ha
creato un’economia immaginaria, virtuale, spostando capitali da un posto
all’altro e guadagnando interessi. Il capitalismo produttivo era
migliore perché funzionava sulla creazione di beni, mentre ora non si
fanno affari producendo cose ma facendo lavorare il denaro. L’industria
ha lasciato il posto alla speculazione, ai banchieri, all’immagine»
Non ci sono regole, dovremmo crearle. Avremmo bisogno forse di una nuova Bretton Woods…
«Il
guaio è che oggi la politica internazionale non è globale mentre lo è
quella della finanza. E quindi tutto è più difficile rispetto ad alcuni
anni fa. Per questo i governi e le istituzioni non riescono a imporre
politiche efficaci. Ma è chiaro che non riusciremo a risolvere i
problemi globali se non con mezzi globali, restituendo alle istituzioni
la possibilità di interpretare la volontà e gli interessi delle
popolazioni. Però, questi mezzi non sono stati ancora creati».
A
proposito della crisi europea, non crede che i paesi dell’Unione siano
ancora divisi da interessi nazionalistici e da vecchi trucchi che
impediscono una reale integrazione politica e culturale?
«È
vero, ma è anche il risultato di un circolo vizioso che l’attuale
condizione di incertezza favorisce. La mancanza di decisioni e
l’impotenza dei governi attivano atteggiamenti nazionalistici di
popolazioni che si sentivano meglio tutelate dal vecchio sistema.
Viviamo in una condizione di vuoto, paragonabile all’idea di interregnum
di cui parlava Gramsci: c’è un vecchio sistema che non funziona più ma
non ne abbiamo ancora uno alternativo, che ne prenda il posto».
La
globalizzazione ha prodotto anche aspetti positivi. Vent’anni fa, in
Europa non c’era un africano, un asiatico un russo. Eravamo tutti
bianchi, francesi, tedeschi, italiani, inglesi… Ora potremmo finalmente
confrontarci: riusciremo a farlo su un terreno comune?
«È
un compito difficile, molto difficile. L’obiettivo dev’essere quello di
vivere insieme rispettando le differenze. Da una parte ci sono governi
che cercano di frenare o bloccare l’immigrazione, dall’altra ce ne sono
più tolleranti che cercano, però, di assimilare gli immigrati. In tutti e
due i casi si tratta di atteggiamenti negativi.
Le diaspore di
questi anni debbono essere accettate senza cancellare le tradizioni e le
identità degli immigrati. Dobbiamo crescere insieme, in pace e con un
comune beneficio, senza cancellare la diversità che rappresenta invece
una grande ricchezza».
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