domenica 27 settembre 2020

Giornata del Migrante: nel cuore del Papa gli sfollati nel proprio Paese

dalla pagina https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2020-09/migrante-giornata-sfollati-papa-francesco.html


Si celebra oggi la Giornata dedicata a migranti e rifugiati che, per questa 106.ma edizione, punta gli occhi su un fenomeno sempre più nascosto e in drammatica crescita, quello degli sfollati interni. Sono 50 milioni nel mondo, ma restano nascosti perché non escono dai confini nazionali

Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano

Il numero è aumentato a tal punto non solo da poter essere quello di una intera popolazione, ma anche così tanto da raggiungere il livello più alto di sempre. Gli sfollati interni sono 50 milioni, ma il loro destino, agli occhi del mondo, è ancor più nascosto di quello di qualsiasi altro rifugiato, e questo perché restano dentro i confini nazionali, seppur vittime di conflitti, violenze, disastri ambientali e, oggi, anche della pandemia di Covid-19. I Paesi in cui si contano i più alti numeri di sfollati sono gli stessi che negli ultimi anni sono i più conosciuti per le loro infinite guerre: Yemen, Siria, Libia e Iraq.

Negli sfollati è presente Gesù

E’ a loro che è dedicata l’odierna Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, la 106.ma, che chiede attenzione sulla “tragica condizione”, spesso “invisibile”, che vivono, come indicato da Papa Francesco nel messaggio dedicato alla ricorrenza e pubblicato nel maggio scorso, dal titolo “Come Gesù Cristo, costretti a fuggire. Accogliere, proteggere, promuovere e integrare gli sfollati interni”. “In ciascuno di loro è presente Gesù – scriveva il Papa – costretto , come ai tempi di Erode, a fuggire per salvarsi. Nei loro volti siamo chiamati a riconoscere il volto del Cristo affamato, assetato, nudo, malato, forestiero e carcerato che ci interpella. Se lo riconosciamo, saremo noi a ringraziarlo per averlo potuto incontrare, amare e servire”. Parole che ribadiscono la particolare attenzione di Francesco verso i più vulnerabili, come conferma padre Fabio Baggio, sottosegretario del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale.


R. – Sicuramente gli sfollati sono nel cuore di Papa Francesco, come tutti quanti gli abitanti delle periferie esistenziali. Sembra che il nostro Santo Padre stia cercando di evidenziare quelle vulnerabilità che sono molto speciali in questo contesto storico,  questa contingenza storica vissuta dalle varie regioni del mondo, identificando quelle categorie che stanno particolarmente soffrendo. In questo senso gli sfollati sono una di queste categorie che, come è stato dimostrato anche in altri casi, rischiano di passare inosservati di fronte ad altri drammi che, agli occhi dei responsabili, sembrano più importanti o più urgenti.

Il Papa ha sottolineato, come già in passato, i 4 verbi fondamentali, necessari, per rispondere a questa sfida pastorale e a questi verbi Francesco poi ha legato anche l'indicazione di alcune azioni pratiche...

R. – Questi quattro verbi sono dei paradigmi. L’accogliere, il proteggere, il  promuovere e l’integrare valgono per tutte le pastorali della mobilità umana ma, lo ha specificato (il Papa ndr) in uno dei suoi discorsi, di fatto valgono per tutta la pastorale, quando parliamo dei poveri, delle persone ammalate, delle persone sole, tutte le persone da accogliere, da proteggere, da promuovere, da integrare, perché sono rimaste ai margini delle nostre società o perché, per questa cultura dello scarto, vengono poste proprio nelle periferie esistenziali e relegate lì, senza  alcun tipo di aiuto. Questi verbi, però, si devono poi tradurre in azioni concrete e il Papa ci ha regalato 6 binomi, 6 coppie di verbi che vengono poi tradotti  in un modo molto concreto. Nel messaggio Francesco li ha voluti anche legare ad esempi molto chiari di quello che è successo durante la pandemia e che continua a succedere anche ai nostri giorni.

Nel messaggio è contenuta una forte indicazione che voi avete raccolto: viene sottolineata la necessità di una collaborazione tra gli attori della Chiesa e non solo. A che punto siamo?

R. – Tra le coppie dei verbi che vengono segnalate, vorrei sottolineare, come esempio, la prima e l'ultima. La prima è il "conoscere per comprendere", l'importante è portare fuori dalla invisibilità tutti i soggetti dello sfollamento interno, cioè fare in modo che il fenomeno sia conosciuto e, soprattutto, sia conosciuto dalle nostre comunità. Mi riferisco al fatto che nell'azione caritativa, che un po' è specifica di tutte le comunità cristiane cattoliche, c'è anche spazio per soggetti particolari che magari non sono tanto lontani da noi, perché i terremoti sono situazioni che colpiscono molti dei territori che noi conosciamo, così come alluvioni, disastri e incidenti che producono una serie di sfollati per i quali è necessario attivare un azione caritativa e una pastorale specifica. Al tempo stesso vale anche l'ultima coppia di verbi, che è  quella di essere capaci di "collaborare per costruire". Il motivo per il quale il Santo Padre insiste è perché pur essendo molte le forze, le organizzazioni cattoliche, le Caritas e tanti altri attori delle chiese locali, che stanno lavorando a favore degli sfollati, con iniziative che sono veramente lodevoli, molto spesso  rimangono scoordinate, non sono legate tra di loro e, a volte, rischiano anche di lavorare in modo parallelo. Allora, l'importanza è quella di imparare a collaborare tra di noi, innanzitutto tra tutte le forze cattoliche che sono impegnate, poi a collaborare con le altre forze religiose, ci sono tanti altri gruppi che appartengono a fedi e credenze diverse che stanno effettivamente lavorando, fondandosi sui principi e valori che sono comuni per lavorare insieme. Occorre poi anche collaborare con le agenzie governative e con le istituzioni, come le agenzie internazionali, che si preoccupano direttamente dello sfollamento interno o dei fenomeni di povertà, di resilienza, che sono collegati a questo fenomeno dello sfollamento interno. Collaborare è una parola chiave.

E’ importante ribadire, e il suo Dicastero lo ha fatto più di una volta, come, ad oggi, non esista neanche uno strumento che protegga, così come è per i rifugiati, gli sfollati …

R. – Purtroppo parliamo di strumenti che normalmente si attuano a livello internazionale. In questo caso, essendo persone che si muovono all'interno di un territorio nazionale, questo strumento deve essere forgiato da istanze legislative a livello nazionale o attingere a modelli, standard, paradigmi, presentati a livello internazionale ma poi tradotti in legislazione nazionale.  Questo fa sì che il processo sia più lungo rispetto ad altri casi che interessano persone che, attraversando un  confine nazionale, essendo quindi di interesse comune della comunità internazionale degli Stati, trovano arene di discussione che portano avanti le loro questioni in un modo più veloce. Dobbiamo dirlo onestamente: c'è tutto un dialogo in corso, anche a livello di comunità internazionale, che sta cercando di evidenziare questa problematica anche a fronte di precisi avvenimenti, come guerre scoppiate negli ultimi anni e che hanno continuato a produrre numeri ingentissimi di sfollati.

E’ vero anche che si viene chiamati a rispondere a questa sfida pastorale guardando agli sfollati interni come forza positiva e  importante per il cambiamento…

R. – Le persone che sono state costrette a fuggire, come recita il titolo del messaggio “Come Gesù Cristo costrette a fuggire”, rappresentano una doppia opportunità per noi. Da una parte abbiamo quell’opportunità di fede che ci è data dell'incontro con Gesù Cristo, che è presente negli sfollati e che bussa alla nostra porta, un incontro che noi ricerchiamo, perché è il fine ultimo della nostra vita, che ci realizza anche come persone in una crescita di incontro quotidiano con il Dio, che rappresenta l'orizzonte ultimo del nostro camminare terreno. Al tempo stesso, però, c'è anche un'opportunità molto più materiale. In questa costruzione della società, che deve sempre più raffigurare ed essere immagine del progetto di Dio, è necessario imparare a valorizzare le capacità, le esperienze ed i valori che ci vengono anche da persone provenienti da altre regioni, da altre città, che sono giunte, magari in un modo drammatico, a convivere con noi, ma che vengono a portare e non solamente a ricevere. Questo diventa una ricchezza enorme anche per la stessa voglia di riscatto, la voglia di rimettersi in gioco, la voglia di lavorare e di comunicare anche con gli altri e di portare quella ricchezza che è propria di ogni persona.



giovedì 24 settembre 2020

24 settembre 1961 – 2020

dalla pagina https://www.azionenonviolenta.it/24-settembre-1961-2020/

Oggi il Presidente del Parlamento Europeo, on. David Sassoli, ha voluto ricordare la Marcia di Aldo Capitini del 24 settembre del 1961, con parole giuste, misurate, corrette. Non era tenuto a farlo, segno di una sensibilità e conoscenza particolare.


Questo il testo diffuso da David Sassoli:

“Il 24 di settembre cadeva di domenica, quando Aldo Capitini, con un seguito di coraggiose e coraggiosi cittadini, diede vita sulla strada che conduce da Perugia ad Assisi alla prima Marcia della Pace e per la fratellanza dei popoli nel 1961.

Brillante filosofo che sotto il regime fascista aveva conosciuto l’isolamento, l’ostracismo e la galera, Capitini con l’iniziativa visionaria della Marcia testimoniò che “il pacifismo, la nonviolenza, non sono inerte e passiva accettazione dei mali esistenti, ma sono attivi e in lotta, con un proprio metodo che non lascia un momento di sosta nelle solidarietà così come nelle noncollaborazioni, nelle proteste, nelle denunce aperte”.
Un’intuizione formidabile, così come l’utilizzo, per la prima volta in Italia, della Bandiera della Pace con i colori dell’arcobaleno, oggi conservata presso la Biblioteca San Matteo degli Armeni a Perugia, con i colori un po’ sbiaditi dal tempo.
Dopo il grandissimo successo, molti enti ed associazioni gli chiesero di ripetere l’iniziativa annualmente. Capitini rifiutò sempre, per evitare il rischio che la Marcia, e di conseguenza lo stesso ideale di Pace, divenissero ritualità e stanca ricorrenza.
Oggi la responsabilità dell’eredità di quella visione di Pace la viviamo noi. Sta a noi tentare di esserne all’altezza, con uno sguardo sempre aperto verso il futuro che abbiamo dinanzi; non dimenticando, mai, il passato che l’ha reso possibile.”

Abbiamo voluto subito ringraziarlo, inviandogli questo messaggio:

Al Presidente del PE, on. David Sassoli

Come Movimento Nonviolento, fondato da Aldo Capitini all’indomani della Marcia Perugia-Assisi, desideriamo ringraziarLa per le parole che ha voluto dedicare a quel 24 settembre del 1961.
Nell’occasione Le alleghiamo il documento che sancisce la nascita di Rete italiana Pace e Disarmo, che si inserisce nel lungo e difficile cammino di chi – al di là della ritualità e della vana visibilità – vuole costruire dal basso percorsi concreti di pace e disarmo, con il metodo della nonviolenza.
Cordiali saluti e auguri per il Suo lavoro.

Mao Valpiana
Presidente del Movimento Nonviolento


L’inganno del fossile verde

dalla pagina https://ilmanifesto.it/perche-a-ravenna-leni-non-sostiene-le-rinnovabili/

Uno scienziato contesta il progetto dell’Eni per il più grande sito di stoccaggio di CO2 al mondo: un progetto fuori luogo e fuori tempo, un escamotage per continuare a produrre e utilizzare combustibili fossili

, Coordinatore del gruppo di scienziati energiaperlitalia

Caro Direttore,

Ho letto con piacere il supplemento ExtraTerrestre nel manifesto del 18 settembre. Ho particolarmente apprezzato i due titoli, densi di significato: «Il fondo del barile» e «A Ravenna l’anidride carbonica la nascondono sotto il tappeto».

Come tutti sanno, la transizione energetica in corso, dai combustibili fossili alle energie rinnovabili, è fortemente ostacolata dalla lobby dei combustibili fossili (in Italia, da Eni). Ci troviamo, pertanto, in una strana situazione: il futuro, cioè le energie rinnovabili, è già presente, ma il passato, cioè i combustibili fossili, non vuole passare perché è collegato a enormi interessi, non solo economici. Le energie rinnovabili forniscono energia elettrica con cui si possono alimentare direttamente i motori elettrici, che sono da 3 a 4 volte più efficienti dei motori a combustione; ecco allora che, per continuare a usare i combustibili fossili, le compagnie petrolifere hanno inventato diverse strategie che descrivo brevemente.

1. Sostenere che le energie rinnovabili non sono ancora mature, per cui ci sarà bisogno per molti decenni dei combustibili fossili. Per smentire la favola delle energie rinnovabili non mature, basta fare un semplice confronto: la fotosintesi naturale converte l’energia solare in energia chimica con un’efficienza energetica dello 0,2%, mentre il fotovoltaico converte l’energia solare in energia elettrica con un’efficienza del 20%, cioè cento volte maggiore! Si possono aggiungere altri due numeri: attualmente gli impianti fotovoltaici e le pale eoliche installati nel mondo generano una quantità di elettricità pari a quella generata, rispettivamente, da 170 e da 270 centrali nucleari. Il tutto, senza produrre scorie radioattive e anidride carbonica. Fotovoltaico ed eolico oggi sono le due tecnologie che forniscono energia elettrica ai costi più bassi. Nel mercato della nuova potenza elettrica installata surclassano, con una quota che sfiora il 70%, le tecnologie tradizionali basate su carbone, gas e nucleare.

2. Abbandonare al suo destino il carbone e, ormai, anche il diesel e puntare sul metano come combustibile ponte pulito. Il metano genera un po’ meno (76% ) di CO2 rispetto a benzina e gasolio, ma questo non basta per combattere il cambiamento climatico. Il metano, inoltre, è un gas serra decine di volte più potente della CO2 e, nella lunga filiera dai giacimenti all’utilizzazione finale, si stima ci siano perdite di almeno il 3% rispetto alla quantità di gas utilizzato. Quindi, usando il metano c’è addirittura il rischio di peggiorare gli effetti sul clima. Per quanto riguarda poi l’inquinamento, studi recenti indicano che il particolato prodotto dalla combustione del metano è, come massa, inferiore a quello prodotto dal gasolio, ma le particelle sono più piccole e in numero superiore, quindi potenzialmente più pericolose per la salute.

3. Continuare a usare i combustibili fossili e poi catturare e sotterrare l’anidride carbonica prodotta (CCS, carbon capture and storage). Si tratta di un progetto fuori da ogni logica, tecnicamente non ancora sviluppato, caratterizzato da alti costi e forti pericoli ambientali, soprattutto se lo storage avviene in zone sismiche o con forte subsidenza come la costa di Ravenna, dove Eni ha in progetto di costruire un impianto del genere. Questa strategia è semplicemente un escamotage per continuare a produrre ed utilizzare i combustibili fossili.

4. Supportare l’uso dei biocombustibili per mantenere in vita il motore a combustione e quindi per continuare a usare i combustibili fossili. In realtà i biocombustibili non possono giocare un ruolo importante nella transizione energetica semplicemente perché l’efficienza della fotosintesi naturale è molto bassa (0,1-0,2%). È stato calcolato che l’efficienza di conversione dei fotoni del Sole in energia meccanica alle ruote di un’automobile (sun-to-wheels efficiency) è oltre 100 volte superiore per la filiera che dal fotovoltaico porta alle auto elettriche rispetto alla filiera che dalle biomasse porta alle auto alimentate da biocombustibili. Quindi, dal punto di vista energetico la produzione di biocombustibili corrisponde ad uno spreco dell’energia solare. Può essere utile ottenere biometano da prodotti di scarto, ma si tratta di piccole quantità rispetto a quelle che ci vorrebbero per alimentare la mobilità. Per produrlo in quantità massicce sarebbe necessario utilizzare coltivazioni agricole dedicate, entrando così in competizione con la produzione di cibo. Ecco allora che, se si mantengono in circolazione i motori a combustione, c’è ampia opportunità per continuare ad usare grandi quantità di metano fossile.

5. Sostenere lo sviluppo dell’idrogeno da fonti rinnovabili, per miscelarlo (5-10%) al metano o al biometano (gas verde). Non si capisce che senso abbia sprecare idrogeno in questo modo, quando l’idrogeno, prodotto per immagazzinare l’elettricità generata dall’energia solare o eolica, può essere riconvertito in elettricità con pile a combustibile per alimentare i molto più efficienti motori elettrici. Il gas verde è semplicemente un ulteriore ingannevole tentativo per mantenere in vita gli inefficienti e inquinanti motori a combustione e procrastinare così per un tempo il più lungo possibile il passaggio dai combustibili fossili alle vere energie rinnovabili.

Sulla stessa linea, Eni è stata multata dall’Antitrust per aver «presentato come verde un diesel altamente inquinante».

Purtroppo, Eni è politicamente molto forte ed è riuscita ad imporre a Conte e alla Regione Emilia-Romagna la costruzione di un gigantesco impianto CCS nella zona di Ravenna. Fra non molti anni tutti capiranno che si tratta di una delle tante grandi opere costruite fuori luogo e fuori tempo. La speranza è che a Bruxelles si accorgano che questa proposta Eni non può entrare nel Green Deal e non può essere finanziata nell’ambito del Recovery Plan Next Generations EU. Anche perché nel 2009 l’UE aveva varato EEPR e NER300, due importanti programmi per la cattura e stoccaggio del carbonio (CCS). I soldi sono stati spesi, ma non si è riusciti «a realizzare nessun progresso e nessun progetto di successo per la cattura e stoccaggio del carbonio».


domenica 20 settembre 2020

La scuola ha bisogno di nuove priorità

dalla pagina https://comune-info.net/la-scuola-ha-bisogno-di-nuove-priorita/

Franco Lorenzoni


Cura dei territori che abitiamo, cura delle relazioni, cura dei contesti educativi devono diventare gli orizzonti di un cambiamento enorme, che coinvolge anche la scuola. “Domandiamoci allora quali curricoli possiamo immaginare, progettare e sperimentare per contrastare la miopia interessata di chi governa il mondo. E poiché anche noi partecipiamo attivamente a questa spirale distruttiva – scrive Franco Lorenzoni -, l’impresa del cambiare radicalmente il punto di vista non è per nulla facile…”. Si tratta, ad esempio, di creare nuovi curricoli: quello della lungimiranza, quello dell’incertezza e quello del rammendo

Foto di Giampiero Monaca

Quando sarà diminuita l’attenzione su questa difficile riapertura della scuola dovremo cominciare a riflettere a fondo su quale istruzione, educazione, scienza e cultura possano aiutarci ad affrontare con intelligenza e lungimiranza la pandemia ancora in corso e i problemi futuri.

Nell’ottobre 1957, quando i sovietici varcarono per primi i confini dell’atmosfera terrestre inviando lo Sputnik nello spazio, negli Stati Uniti lo sconcerto fu enorme. Per reagire allo shock di quella sconfitta scientifica e tecnologica che aveva importanti conseguenze militari, si ritenne necessario ripensare l’intero sistema di istruzione. Se si era rimasti così indietro, infatti, bisognava ristrutturare metodi e contenuti, fin dalla scuola primaria. Così, con pragmatismo anglosassone, furono riunite le migliori menti in campo scientifico, educativo e psicologico per ragionare su cosa si potesse apprendere efficacemente nelle diverse età, e come farlo. A coordinare quel vasto progetto di riforma statunitense fu chiamato Jerome Bruner, che ha segnato la pedagogia del secondo novecento inaugurando i curricoli, croce e delizia di ogni progettazione didattica.

Ho ricordato questo episodio perché, in quel caso, la reazione a una sconfitta inaugurò una fruttuosa stagione di ricerca e innovazione educativa di cui tutti abbiamo goduto.

La necessità di cambiare paradigma
Di fronte al diffondersi della pandemia e all’inarrestabile riscaldamento globale, il rischio è che oggi le sconfitte siano ben più gravi di quella che offese l’orgoglio della prima potenza mondiale. Ciononostante, siamo ben lontani dall’assumere scelte di ricerca e istruzione all’altezza delle sfide che abbiamo davanti.

Eppure, per la prima volta da quando il capitalismo e la finanza sono penetrati in ogni angolo del pianeta, in quasi tutti i paesi il primato indiscusso dell’economia ha dovuto cedere il passo, anche se per breve tempo, alla difesa della salute pubblica, che in tanti vorrebbero rapidamente dimenticare e rimuovere. È stato un avvertimento che ha sovvertito molte certezze ritenute inattaccabili e che potrebbe aprire uno spiraglio a idee coraggiose, lungimiranti e del tutto inedite, se non lo richiudiamo in tutta fretta.

Dobbiamo cambiare paradigma e questa azione non può non riguardare la scuola, la formazione e la ricerca. Non è semplice, sia perché possiamo contare solo su forze frammentate, sia perché chi non vuole rovesciare il dogma economico fondato su certezze e privilegi è ben piazzato ai vertici della società.

Ma il tema di quale cultura e quale educazione possano aiutarci nelle sfide dei prossimi decenni è urgente ed è stato sollevato con forza e lucidità in tutto il mondo da Greta Thunberg e dai giovani di Fridays for future.

Per dare vita a una conversione ecologica sempre più necessaria – dal punto di vista sia agricolo sia industriale, ma che deve riguardare anche il nostro modo di abitare le città, viaggiare e consumare – bisogna cominciare a pensare in altro modo e stabilire nuove scale di priorità.

Lo sconcerto e le tante incertezze che ci hanno colto devono esserci di insegnamento perché siamo tutti di fronte a domande legittime, a cui nessuno sa dare risposte certe. Si tratta di una straordinaria lezione di umiltà, che dovrebbe portarci a guardare al futuro provando ad abbandonare ogni strada già tracciata.

E allora, per far sì che le scuole restino aperte, non dobbiamo solo usare le giuste precauzioni per arginare la diffusione del virus, ma immaginare nuovi scenari ed evitare che noi insegnanti ci si chiuda come ricci in noi stessi, aspettando che passi la nottata.

Tre curricoli
Questo è il momento di osare e pensare in grande, coinvolgendo in prima persona bambine e bambini, ragazze e ragazzi. Bisogna ricercare e raccogliere tutti gli elementi utili a individuare le trasformazioni necessarie per prestare davvero attenzione alla salute di tutti e inaugurare un decennio dedicato alla cura.

Cura dei territori che abitiamo, con la coscienza che la Terra è una sola, che ogni cosa è interconnessa e che nessun confine ci può proteggere da quello che accade negli altri continenti. Cura delle relazioni, alla ricerca di un’arte del convivere all’altezza delle sfide poste dalle nuove migrazioni e dagli spostamenti massicci di persone, inevitabili nei prossimi decenni. Cura dei contesti educativi, perché a tutti sia data la possibilità di acquisire le conoscenze necessarie a operare scelte complesse e difficili, in grado di mettere in gioco consuetudini consolidate.

Domandiamoci allora quali curricoli possiamo immaginare, progettare e sperimentare per contrastare la miopia interessata di chi governa il mondo. E poiché anche noi partecipiamo attivamente a questa spirale distruttiva, l’impresa del cambiare radicalmente il punto di vista non è per nulla facile.

Per questo penso che dovremmo attraversare con intelligenza questa crisi senza rimuoverne le cause più profonde e lontane, elaborando nuovi curricoli. Curricoli della lungimiranza, capaci di azzardare nuove connessioni tra lo studio di arte, scienza e storia, e le domande dell’oggi, imparando ad arricchire la lettura del presente con il necessario aiuto di tanta matematica e statistica. Curricoli dell’incertezza, capaci di portare nella ricerca e nello studio il paradigma della complessità, come da decenni auspica l’approccio ecologico e sistemico alla conoscenza. Curricoli del rammendo per cercare di affrontare e ricucire le troppe discriminazioni e lacerazioni, una cosa possibile solo se impariamo a costruire relazioni tenendo presente diversi punti di vista e dando dignità alla presenza di ciascuno.

Una nuova educazione civica
Un appiglio interessante per cominciare l’impegnativa opera di revisione delle priorità la offre la nuova educazione civica, introdotta da una legge pasticciata votata nel 2019, che ha tuttavia il pregio di porre all’attenzione dei docenti una grande quantità di ambiti da trattare, auspicando necessari incroci interdisciplinari.

Prevede infatti lo studio della Costituzione e delle istituzioni nazionali e internazionali; l’approfondimento dei temi dell’agenda Onu 2030 per lo sviluppo sostenibile; l’educazione alla legalità, al rispetto e al patrimonio culturale; la promozione dell’educazione stradale e del volontariato; un’attenzione particolare alla cittadinanza digitale “per sviluppare le capacità di avvalersi consapevolmente e responsabilmente dei mezzi di comunicazione virtuale”.

Il mondo intero, insomma, da trattare in 33 ore all’anno. Ora, poiché è evidente che una mole così vasta di nodi concettuali e problemi non può essere confinata nell’ora settimanale prevista in ogni ordine di scuola, per prendere sul serio questa “provocazione legislativa” dobbiamo immaginare momenti del tutto inediti di cooperazione educativa tra docenti.

Al momento solo nella scuola primaria sono previste due ore alla settimana di programmazione per calibrare, confrontare e mettere a punto le proposte didattiche dei diversi insegnanti. Mentre nelle medie e nelle superiori i docenti si incontrano solo durante i consigli di classe, dedicati prevalentemente alla valutazione degli alunni. Sarebbe interessante mettere in discussione questo aspetto dell’organizzazione del lavoro, superato dalle stesse indicazioni nazionali per il curricolo, diventate legge nel 2012.

Bisognerebbe immaginare collaborazioni in grado di mettere a confronto le competenze disciplinari dei singoli docenti per nutrire conoscenze nuove e indispensabili, tutte da costruire. Tenendo conto che l’educazione civica è come un Giano bifronte. Se da una parte richiede la conoscenza delle leggi e della Costituzione, dall’altra non può che inverarsi in una pratica concreta e quotidiana di democrazia, fondata sul dialogo, l’ascolto reciproco e la capacità di fare delle mediazioni.

Insomma dobbiamo tutti convincerci che la scuola deve essere un luogo di costruzione culturale e non di pura trasmissione di conoscenze, e che mai come oggi nessun insegnante può trincerarsi dietro alla sua disciplina perché la sfida è quella del fare scuola e, insieme, fare la scuola.

Alla fine del secolo scorso, ormai anziano, Jerome Bruner criticò alcune rigidità degli anni Sessanta nell’elaborazione dei curricoli, scrivendo saggi di grande interesse sulla narrazione come struttura connettiva di ogni scienza e conoscenza. Definì il curricolo, in questa nuova prospettiva, come una “conversazione animata”. Ed è di questo che oggi ha estremo bisogno la scuola, che tra l’altro chiede di non risparmiarci.


Pubblicato su Internazionale (qui con l’autorizzazione dell’autore). Altri articoli di Franco Lorenzoni sono leggibili qui.


venerdì 18 settembre 2020

Sostenibilità: quando i valori creano valore

 dalla pagina https://www.smariadelcengio.it/attivita/28679/sostenibilita/

Si fa presto a dire “sostenibilità”: ma come promuovere un modello economico e di impresa capace di generare valore, superando le disuguaglianze (economiche, sociali, di genere) e senza consumare le risorse limitate del pianeta?
Per chi vuole approfondire questi temi, dal 18 settembre prende il via l’iniziativa “Sostenibilità: quando i valori creano valore”, un serie di incontri organizzati dalla Casa dei Sentieri e dell’Ecologia Integrale con la collaborazione della Federazione per l’Economia del Bene Comune in ItaliaGoForBenefit SRL Società Benefit e Scuola di Economia Civile.

Sarà l’occasione per incontrare ed ascoltare come oggi si sta lavorando per un un’economia più giusta, equa e rispettosa della nostra Madre Terra e quali possono essere i passi futuri per coniugare la prosperità, alla quale tutti aspiriamo, con la necessità di non compromettere la vita delle generazioni future.

Tanti gli ospiti di un programma che si divide in tre momenti

Venerdì 18 settembre, alle ore 20.30 in Convento di S. Maria del Cengio, l’incontro “Sostenibilità: quando i valori creano valore”. Una serata per parlare della necessità di un’economia attenta alla sostenibilità sociale e ambientale, capace di guardare alle persone, alle relazioni e al bene comune.

Dopo l’introduzione di Ermes Ronchi, saranno Andrea Degl’innocenti (co-fondatore di Italia che Cambia), Michele Dorigattidocente di etica economica e tra i fondatori della Scuola di Economia Civile e Stella Catto, vice presidente di Federazione per l’Economia del Bene Comune Italia a dialogare sul tema.

Maggiori informazioni sulla serata in questo link https://valorisostenibili.eventbrite.it al quale ci si potrà anche iscrivere (per le restrizioni dell’emergenza Covid l’incontro è infatti libero e aperto a tutti, ma con iscrizione gratuita obbligatoria).

Un ulteriore momento di approfondimento è previsto lunedì 28 settembre alle ore 20.30 nel webinar “Dalla crescita sostenibili alla crescita della sostenibilità”, che vedrà la partecipazione in live streaming sulla pagina facebook della Casa dei sentieri e dell’Ecologia Integrale il giornalista Enrico Fontana (della segreteria nazionale Legambiente), la formatrice e comunicatrice Eleonora Pinzuti e l’imprenditore Michil Costa. Per saperne di più l’invito è di cliccare qui https://bit.ly/33yiYWQ.

Rivolto in particolare a chi vuole approfondire gli aspetti legati alla sostenibilità d’impresa (imprenditori, manager, impiegati negli uffici amministrativi e finanziari, studenti di economia, componenti di organizzazioni profit e no profit) è il ciclo di 4 seminari che si terranno dal 2 ottobre al 6 novembre, dal titolo “Persone, relazioni, società, natura: i capitali che fanno la differenza”, in cui si affronteranno i temi del bilancio di sostenibilità e del report integrato, del bilancio del bene comune e delle società benefit.

Gli esperti invitati, anche in questo caso, sono di prim’ordine: Giuseppe Bruni e Beatrice Bettini di Go4BenefitMarta Avesani e Graziano Tolve della Federazione per l’Economia del Bene Comune ItaliaLuca Pereno, coordinatore Sviluppo Sostenibile di Leroy MerlinGilda Esposito dell’Università di Firenze e dell’Impresa Sociale Moca Future DesignerGiampaolo Quatraro di Forgreen Group.

Per partecipare ai seminari (e saperne di più sul programma e i relatori), basta cliccare in questo link https://seminarivalorisostenibili.eventbrite.it che consente l’iscrizione, per la quale è previsto un piccolo contributo solidale di partecipazione.

Di fronte ad una parola “sostenibilità” oggi sempre più usata (e in certi casi anche abusata), vale la pena, dunque capirne di più e soprattutto avere gli strumenti per mettere in pratica buone prassi sostenibili nei contesti in cui si opera (familiari, sociali, lavorativi).

Questo progetto ha proprio l’obiettivo di fornire alcuni strumenti utili alla portata di ciascuno perché tutto ciò che sta accadendo nella nostra amata Terra dipende anche da ognuno di noi, sia oggi, che per le generazioni future.

L’iniziativa inserita in “I Saperi del Fare”, parte del progetto #tuttamialacittà: le azioni di rigenerazione urbana del volontariato per le comunità locali ed è finanziata dal Comitato di Gestione del Fondo Speciale Regionale per il Volontariato del Veneto.

SCARICA IL PROGRAMMA


giovedì 17 settembre 2020

A che ora è la fine del mondo

dalle pagine 

Ghiacciai che si sciolgono, tempeste improvvise, cambiamenti climatici. Bisogna immaginare dal basso il futuro che vogliamo

  • autori di «A che ora è la fine del mondo? Scivolando verso il futuro», ebook a cura di Edizioni Ambiente

La biodiversità diminuisce progressivamente, l’ambiente naturale è sempre più inquinato, il clima sta inesorabilmente cambiando: i riscontri scientifici sono evidenti, così come le cause, prevalentemente di origine antropogenica. Se gli effetti della riduzione della biodiversità o dell’inquinamento da metalli pesanti, microplastiche o molecole di sintesi chimica sono più subdoli e meno lampanti, le conseguenze dell’innalzamento della temperatura le possiamo già letteralmente percepire e la montagna è diventata il primo testimone del riscaldamento globale.

I ghiacciai sono fortemente influenzati dal cambiamento climatico: uno studio pubblicato a giugno di quest’anno riporta i cambiamenti dei ghiacciai su tutte le Alpi europee tra il 2000 e il 2014, evidenziando che si sono rapidamente ritirati, con riduzioni della superficie di quasi quaranta km2 all’anno e riduzioni annuali dello spessore del ghiaccio che vanno da 50 cm a quasi 1 metro. Quando si calcola la perdita di massa di ghiaccio dell’intera area delle Alpi emergono numeri impressionanti.

Si stima che dal 2000 al 2014 si siano persi dai 200 milioni agli 1,3 miliardi di tonnellate di ghiaccio. I danni causati alle foreste dalle tempeste di vento si sono intensificati negli ultimi decenni a livello globale e si prevede che aumenteranno ulteriormente, sempre a causa degli effetti del cambiamento climatico.
Uno studio finlandese basato sui rapporti dell’Istituto forestale europeo sulle perdite forestali causate direttamente dalle tempeste di vento indica che è avvenuto un cambiamento statisticamente significativo nell’intensità delle tempeste nell’Europa occidentale, centrale e settentrionale. Il 1990 rappresenta il punto di cambiamento ed è l’anno da cui l’intensità media delle tempeste più distruttive è aumentata di oltre un fattore tre. Tutte, tranne una, delle sette tempeste più catastrofiche si sono infatti verificate a partire dal 1990. Anche le piante testimoniano l’effetto di inverni e primavere più calde, con un anticipo persino di alcune settimane del germogliamento e della fioritura che le espone, soprattutto in ambito agricolo, al rischio di pesanti danni da gelo.

Gli studi e i documenti che certificano il malessere del nostro Pianeta si accumulano, causando una sorta di assuefazione: tanto che ormai gli allarmi lanciati dai ricercatori passano quasi del tutto inosservati. Allo stesso modo, anche noi non stiamo bene, ci siamo allontanati dalle condizioni di vita in cui l’essere umano si è evoluto, la velocità e la competitività del sistema, basata quasi esclusivamente sul consumo di merci e sulla riduzione dei costi di produzione, invade pervasivamente la nostra quotidianità. E ne abbassa il livello, con una spirale senza fine che determina squilibri e divari sempre maggiori: di reddito, di educazione, di alimentazione. Ce lo diciamo (e lo scriviamo) da anni, ma nessuno fa qualcosa concretamente. Sappiamo bene che il nostro modello di vita non è sostenibile, ma non riusciamo ad agire per cambiarlo. Ci giustifichiamo, sostenendo che l’azione del singolo non possa nulla contro un sistema che fagocita gli individui nella sua spirale perversa. La progressione pandemica della stessa Covid-19 è il risultato dell’ampiezza e velocità degli scambi e dei movimenti globali, anche se non rappresenta l’unico segnale dei disequilibri generati dalla globalizzazione. Da anni infatti assistiamo alle invasioni nei nostri ambienti di specie vegetali e animali aliene che soppiantano le specie autoctone, Tuttavia, mentre l’arrivo di una specie vegetale invasiva passa inosservata ai più, la pandemia ci ha toccati direttamente e, in poche settimane, ha messo in crisi un sistema economico globale che si è rivelato estremamente fragile.

Il lockdown è stato però, a suo modo, un grande esercizio di consapevolezza. Chiusi in casa abbiamo capito che tanti viaggi erano inutili, che si poteva mangiare meglio rispetto a consumare un pasto precotto al bar e che i vestiti comodi sono più piacevoli di quelli eleganti. Abbiamo capito che intorno a noi ci sono luoghi molto belli e che per rilassarci non è necessario infliggerci cinque ore di aereo per trascorrere il week-end in un posto esotico dall’altra parte del mondo. Abbiamo capito che la velocità ci ha tolto la profondità: di visione, di pensiero, di vita. Mentre qualcuno o qualcosa di esterno decideva che cosa era buono per noi: i maghi del marketing che scavavano nei nostri bisogni inconsci e offrivano soluzioni a necessità di cui non ci eravamo neanche resi conto. Questa era la normalità.

Così è stato normale istituire le task force di esperti a livello nazionale, regionale, provinciale, comunale e financo di quartiere, per risolvere i problemi e tornare, appunto, alla normalità. Di nuovo, ancora esperti che ci dicono cosa fare e dove andare, calandoci dall’alto soluzioni e azioni che poi, spesso, non funzionano e si contraddicono l’un l’altra, generando solo entropia. Insomma c’è sempre qualcuno esterno a noi che ci dà la soluzione e ci guida verso il futuro. Però saremo noi a viverlo, dunque perché nessuno ci chiede il nostro parere?

Ora la pandemia, paradossalmente, ci ha dato una grande opportunità, perché è come se ci trovassimo davanti a un bivio: da una parte tornare alla rassicurante normalità di prima, dall’altra cogliere l’occasione per cambiare il nostro stile di vita, riducendone impatto sull’ambiente naturale. Cosa e come produciamo, cosa mangiamo, come lavoriamo, dove abitiamo, come ci muoviamo, come ci vestiamo e così via, sono azioni singole che, prese nella globalità, possono determinare dei cambiamenti sostanziali.

Ecco dunque una strada nuova: immaginare il futuro che vogliamo per poi dirigersi verso quella direzione, ma anche essere consapevoli delle nostre azioni e dei loro effetti. Così non solo si ribalta il punto di vista, ma si parte anche dal basso: non sono più (solo) gli esperti che trovano la soluzione, siamo noi che immaginiamo il nostro futuro.

È questo l’obiettivo del progetto «… e poi? Visioni di futuro» lanciato in anteprima a Trento Festival a fine agosto. Nella prossima tappa a Pordenonelegge (20 settembre 2020, ore 19) verrà presentato l’ebook A che ora è la fine del mondo. Scivolando verso il futuro che, a partire da questa data, si potrà scaricare gratuitamente dal sito di Edizioni Ambiente. È un racconto scientifico-letterario ambientato in montagna e dal finale aperto, che è alla base dell’esercizio collettivo di visione (crowd foresight). Ogni lettore, singolarmente o in gruppo, potrà scrivere come va a finire la storia, portando così la sua visione di futuro (crowd writing).
Partecipare sarà un’occasione per fermarci e pensare: chi siamo, dove andiamo, che cosa vogliamo, lo vogliamo veramente.


lunedì 14 settembre 2020

Luigino Bruni: «Vi racconto l'economia secondo Francesco»

dalla pagina https://m.famigliacristiana.it/articolo/luigino-bruni-vi-spiego-l-economia-secondo-francesco.htm

«E' stato il Papa in persona a volere che le grandi assisi dedicate a un modello di sviluppo finanziario sostenibile si tenessero ad Assisi e vi spiego perché»

di Francesco Anfossi

L’ economista Luigino Bruni, uno dei massimi studiosi del Terzo settore, grande appassionato di teologia e grande frequentatore dell’ Antico e del Nuovo Testamento (il suo ultimo libro si intitola “le donne nascoste nella Bibbia, anima Mundi edizioni), è il direttore scientifico del grande congresso dedicato all’ economia di Francesco che si terrà il prossimo novembre ad Assisi, dal 19 al 21. Quei giorni non sono così lontani ed è dunque l’ occasione per cominciare a capire di che cosa si parlerà e chi saranno i veri protagonisti di quegli incontri.
E’ vero che è stato lo stesso Bergoglio a volere che il convegno dedicato all’ economia si tenesse nella città di San Francesco?
«E’ vero. Io con gli altri economisti come Stefano Zamagni o suor Alessandra Smerilli pensavamo a Roma, o in Vaticano. Ma lui in udienza mi disse: bisogna farla ad Assisi».
Dunque la sede è stata scelta da papa Bergoglio…
«Sì, non solo. Noi volevamo organizzare una sorta di Davos all’ incontrarioma lui replicò con una sterzata: però devono essere i giovani i protagonisti, non voglio i vecchi, gli economisti adulti sono difficilmente convertibili, sono i giovani che cambieranno l’ economia».
Qual è il filo rosso di queste assise?
«Il filo rosso è il modello ideale  che garantisca la giustizia sociale, la giusta redistribuzione delel risorse e la compatibilità con l’ ambiente. Uno dei 12 temi è la diseguaglianza. Non è un titolo specifico ma una linea trasversale a tutti i temi. Non si può non parlarne perché in fondo l’ economia di papa Francesco e di San Francesco (c’ è una linea che li unisce, non a caso l’ enciclica sociale di Bergoglio si chiama Laudato si’ ), è proprio questa, con l’ attenzione all’ ambiente, alla natura, considerati imprescindibili per lo sviluppo e il benessere umano. C’ è un’ attenzione costante dei cristiani per l’ economia “buona”. i francescani hanno fatto nascere i monti di pietà. Bergoglio ha scelto questo nome, “economia buona”, quando io andai a proporgli questa iniziativa».
Warren Buffet, il sesto uomo più ricco del mondo, che ha accumulato alla venerabile età di  90 anni la cifra di 82,6 miliardi di dollari, ha destinato il 99 per cento delle sue fortune in beneficenza. Buffet è solo uno dei tanti tycoon che dopo una vita spesa ad accumulare fortune decidono di impiegare le loro risorse nel sociale. Come ad esempio Bill Gates, il padre della Microsoft che ha una fondazione insieme alla moglie attivissima negli aiuti umanitari, economici e sanitari in Africa e nel Terzo Mondo. Ma è corretto questa sorta di percorso esistenziale? La prima parte della vita spesa ad accumulare fortune, magari creando diseguaglianze sociali e finanziarie e la seconda a investire nella “charity”?
«Leggendo di Buffet ho subito pensato ai due modelli di capitalismo nella società e nel mondo: quello protestante, di marca anglosassone e quello latino – cattolico. Potremmo addirittura ridisegnare la storia dell’ economia seguendo questo asse che divide in due, questa prospettiva duplice che ha conseguenze enormi sul piano dei risultati, soprattutto dal punto di vista sociale e umano».
La filantropia di Buffet appartiene al primo?
«Sì, il modello filantropico – quello di Warren Buffet -  è tipicamente anglosassone, protestante, da Andrew Carnegie ai Rockefeller. Ma pensiamo allo svedese Alfred Nobel, che inventa la dinamite e diventa plurimiliardario vendendola in tutto il mondo e poi si converte a  filantropo illuminato con i Nobel della pace, della ricerca, dell’ economia, della letteratura eccetera. Il “restituire” è tipicamente protestante, ci sono Martin Lutero e Calvino dietro questo tipo di filosofia economica, se così possiamo chiamarla».
E perché?
«Perché si vive la ricchezza come senso di colpa. E’ la logica dei “due tempi” dei “due regni” per dirla con Martin Lutero».
Cosa diceva Lutero?
«Non dobbiamo dimenticare che Lutero, il padre della riforma protestante, era un monaco agostiniano che rifletteva teologicamente sulla città di Dio disegnata dal vescovo di Ippona e della città dell’ uomo. Per Lutero la grazia non c’ entra nulla con il mercato. C’ è il regno dell’ economia e il regno del dono.  Il mondo olandese e quello americano e inglese cercano di non mescolare gli affari con il “dono” della grazia.  Questa viene dopo, non durante, mentre sei intento a fare affari devi concentrarti su di essi, al resto, alla dimensione del dono, ci pensi dopo».
Ancora oggi?
«In parte sì, le radici in fondo sono rimaste le stesse. Bill Gates contribuisce al bene comune in quanto imprenditore, ma non gli importa poi granché della comunità sociale, poi come persona umana fa la Fondazione Bill e Melinda Gates  in aiuto del Terzo Mondo, salvando milioni di bambini grazie ai vaccini,  ma parallelamente all’ impresa o addirittura dopo aver concluso la sua attività imprenditoriale. Questo è il modello tipicamente nordico».
E quello latino-cattolico com’ è?
«
Quello latino comunitario cattolico è diverso. La parrocchia porta alla cooperativa, il partito politico fa nascere l’ impresa, la banca rurale (che a volta è fondata addirittura dal parroco). Ed è soprattutto il capitalismo familiare (e infatti le imprese italiana sono familiari all’ 80-90 per cento). La filantropia intesa come charity, all’ americana,  non è mai stata il modello di noi italiani, di noi latini di cultura cattolica. Come dice l’ economista cattolico Zamagni, il modello latino è “fare con”, quello anglosassone è “fare per”».
Fare con. Il modello latino insomma contempla una dimensione comunitaria.
«Certamente. In qualche modo la ricchezza viene già redistribuita durante il corso della vita. Pensiamo a Marzotto a Olivetti: si prendevano cura dei dipendenti, fondavano villaggi-vacanze, avevano quest’ idea un po’ paternalistica che tu mentre fai impresa fai anche comunità, investi società e territorio…».
Colpisce che spesso questi filantropi abbiano accumulato fortune enormi che evidenziano l’ enorme diseguaglianza economica tra loro e il resto del mondo. Posseggono fortune, come Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, pari al Pil di un piccolo Stato.
«In realtà quello che vediamo in questi grandi tycoon che accumulano fortune spropositate lo vediamo con più forza perché sono aumentate le distanze tra loro e il resto del mondo. L’ un per cento dei ricchi di cui parla l’ economista francese Thomas Piketty nei suoi libri ha fortune siderali. Nel “Capitale” scrive che nel XX e nel XXI secolo la vera differenza non è che aumenta la diseguaglianza ma che aumenta la distanza tra questo un per cento di ricconi e la rimanente popolazione mondiale. La diseguaglianza media in realtà si è abbassata: pensiamo a India e Cina e ai loro progressi economici. Quel che è cresciuta è la distanza tra il primo un per cento di ricchissimi e tutti gli altri. Sono diventati irraggiungibili».
E’ per questo che quando donano, quando fanno beneficenza, le loro donazioni diventano, per cosi dire, spettacolari?
«Possedere l’ uno per cento delle fortune non è poco in tutti I Paesi. Avendo molti più soldi le donazioni sono molto più spettacolari. Non è un caso che questi tycoon siano tutti anglosassoni o olandesi. E’ un punto interessante».
Quale dei due modelli è più funzionale?
«
Con il Covid il modello comunitario, dove c’ è rimasto un po’ di Welfare state, è risultato migliore. Non è un caso che i Paesi che sono andati peggio – gli Stati Uniti, L’ Inghilterra, il Brasile - hanno una base protestante hanno creduto molto questa logica individualistica massacrando il Welfare State. La dottrina sociale della Chiesa per istinto non ha mai accettato l’ idea dei due tempi, vale a dire prima l’ idea di ricchezza poi una parte ai poveri. Se li aiuti dopo, i poveri, rimarranno sempre dei pezzenti. La prima filosofia dell’ imprenditore cristiano è creare lavoro (e pagare le tasse per la collettività), non fare soldi».
Sono anche gli Stati dove sono più marcate le diseguaglianze.
«Questa crisi ha fatto vedere che il modello comunitario funziona meglio. Ecco perché il Covid non lascerà come prima il mercato. Anzi, direi  che nulla resterà come prima. C’ è in giro tutto un ripensamento per il sistema Stato-comunità-mercato. L’ Italia ne è uscita relativamente bene, o almeno con il male minore, limitando i danni, perchè eravamo più cooperativi di quanto pensassimo. Abbiamo una storia di modello comunitario alle spalle. Io credo che mentre dopo il crollo del Muro di Berlino i 30 anni successivi sono stati l’ apoteosi del modello filantropico americano questa crisi devastante, destabilizzante ci dirà che i prossimi decenni vedranno un ritorno della comunità e della redistribuzione della ricchezza».



sabato 12 settembre 2020

La proposta della Commissione Diocesana di Pastorale Sociale per il Mese del Creato

 Mese del Creato, 1˚ settembre - 4 ottobre

"vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà" (Tt 2,12)

Per nuovi stili di vita


Ciascuna delle seguenti schede (click per scaricare il relativo pdf): 

  1. Domenica 6 settembre
  2. Domenica 13 settembre 
  3. Domenica 20 settembre 
  4. Domenica 27 settembre 
  5. Domenica 4 ottobre

che accompagna la liturgia domenicale durante il Mese del Creato, segue lo stesso schema:

  • una parola chiave
  • una breve riflessione sulla parola chiave e su un brano della Laudato Si'
  • atto penitenziale 
  • preghiere dei fedeli
  • un impegno concreto.


Questi la parola chiave e il brano della Laudato Si' proposti per ciascuna delle cinque Domeniche:


1. Domenica 6 settembre

RESPONSABILITA'

Laudato Si'  n. 67

Anche se è vero che qualche volta i cristiani hanno interpretato le Scritture in modo non corretto, oggi dobbiamo rifiutare con forza che dal fatto di essere creati a immagine di Dio e dal mandato di soggiogare la terra si possa dedurre un dominio assoluto sulle altre creature. È importante leggere i testi biblici nel loro contesto, con una giusta ermeneutica, e ricordare che essi ci invitano a «coltivare e custodire» il giardino del mondo (cfr Gen 2,15). Mentre «coltivare» significa arare o lavorare un terreno, «custodire» vuol dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare. Ciò implica una relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura. Ogni comunità può prendere dalla bontà della terra ciò di cui ha bisogno per la propria sopravvivenza, ma ha anche il dovere di tutelarla e garantire la continuità della sua fertilità per le generazioni future.

 

2. Domenica 13 settembre

MISERICORDIA

Laudato Si'  n. 91

Non può essere autentico un sentimento di intima unione con gli altri esseri della natura, se nello stesso tempo nel cuore non c’è tenerezza, compassione e preoccupazione per gli esseri umani. È evidente lincoerenza di chi lotta contro il traffico di animali a rischio di estinzione, ma rimane del tutto indifferente davanti alla tratta di persone, si disinteressa dei poveri, o è determinato a distruggere un altro essere umano che non gli è gradito. Ciò mette a rischio il senso della lotta per lambiente. Non è un caso che, nel cantico in cui loda Dio per le creature, san Francesco aggiunga: «Laudato si, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore». Tutto è collegato. Per questo si richiede una preoccupazione per lambiente unita al sincero amore per gli esseri umani e un costante impegno riguardo ai problemi della società.

 

3. Domenica 20 settembre

DIGNITA'

Laudato Si'  n. 128

Siamo chiamati al lavoro fin dalla nostra creazione. Non si deve cercare di sostituire sempre più il lavoro umano con il progresso tecnologico: così facendo lumanità danneggerebbe sé stessa. Il lavoro è una necessità, è parte del senso della vita su questa terra, via di maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale. In questo senso, aiutare i poveri con il denaro devessere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro.

 

4. Domenica 27 settembre

AGIRE

Laudato Si'  n. 209

La coscienza della gravità della crisi culturale ed ecologica deve tradursi in nuove abitudini. Molti sanno che il progresso attuale e il semplice accumulo di oggetti o piaceri non bastano per dare senso e gioia al cuore umano, ma non si sentono capaci di rinunciare a quanto il mercato offre loro. Nei Paesi che dovrebbero produrre i maggiori cambiamenti di abitudini di consumo, i giovani hanno una nuova sensibilità ecologica e uno spirito generoso, e alcuni di loro lottano in modo ammirevole per la difesa dellambiente, ma sono cresciuti in un contesto di altissimo consumo e di benessere che rende difficile la maturazione di altre abitudini. Per questo ci troviamo davanti ad una sfida educativa.

 

5. Domenica 4 ottobre

POSSESSO

Laudato Si'  n. 93

Oggi, credenti e non credenti sono daccordo sul fatto che la terra è essenzialmente una eredità comune, i cui frutti devono andare a beneficio di tutti. Per i credenti questo diventa una questione di fedeltà al Creatore, perché Dio ha creato il mondo per tutti. Di conseguenza, ogni approccio ecologico deve integrare una prospettiva sociale che tenga conto dei diritti fondamentali dei più svantaggiati. Il principio della subordinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni e, perciò, il diritto universale al loro uso, è una regola doro” del comportamento sociale, e il «primo principio di tutto lordinamento etico-sociale».