giovedì 27 febbraio 2020

La ribellione chiamata pace

dalla pagina https://comune-info.net/la-rivoluzione-chiamata-pace/

Alessandra Ballerini 05 Gennaio 2020

Afghanistan, Burkina Faso, Camerun, Casamance, Colombia, Iraq, Kashmir, Kivu, (RDC), Libia, Mali, Myammar, Nagorno Karabakh, Niger, Nigeria, Pakistan, Repubblica Centrafricana, Siria, Somalia, Sud Sudan, Sudan, Terra Santa, Ucraina, Yemen. Sono i paesi delle guerre dimenticate. Molti di questi paesi sono stati inseriti, con il decreto sicurezza, in un elenco di paesi considerati “sicuri”. Abbiamo sempre più bisogno di recuperare e condividere speranza

Una rivoluzione mite. Come l’ha definita don Francisco mentre offriva la sua testimonianza dall'altare della basilica dell’Annunziata. Il fatto che quasi tremila cittadini genovesi decidano di iniziare l’anno ascoltando parole di giustizia all'interno di una chiesa e partecipino sorridenti alla marcia per la pace organizzata dalla comunità di San Egidio, in questi tempi cupi di odio e insofferenza, ha il fascino irresistibile di una magia. E la forza di una rivoluzione. Sapere che la stessa manifestazione di pace si stava svolgendo in contemporanea in novecento città del mondo fa anche sperare che questa rivoluzione sia contagiosa ed efficace. Ed è forse per questo che ci siamo ritrovati così numerosi nel primo giorno dell’anno: per recuperare e condividere la speranza necessaria ad affrontare questo nuovo inizio.
Nella basilica affollata da “rivoluzionari miti” di varie età, diverse o nessuna fede e molteplici nazionalità (e anche da alcuni compostissimi quattrozampe), don Francisco, giovane prete originario di El Salvador, “il paese più piccolo del Centro America” ricordava, attingendo anche alla sua personale memoria, come la pace sia un sogno ancora in moltissimi luoghi: “la mia generazione ha ereditato dagli anni del conflitto la violenza diffusa, la povertà, il rancore, la sete di vendetta di tanta gente…”.
I nomi dei paesi devastati dalle guerre sono stati elencati dall'altare, ad uno a uno, sgranati come come un tragico rosario: Afghanistan, Burkina Faso, Camerun, Casamance, Colombia, Iraq, Kashmir, Kivu, (RDC), Libia, Mali, Myammar, Nagorno Karabakh, Niger, Nigeria, Pakistan, Repubblica Centrafricana, Siria, Somalia, Sud Sudan, Sudan, Terra Santa, Ucraina, Yemen.
Tra il pubblico alcune teste annuiscono e si inumidiscono gli occhi di chi quelle guerre le ha vissute da vicino.
I nomi di questi Paesi e di altri violati da violenze diffuse ed endemiche (come l’Egitto), stampati sopra lo sfondo dei colori della pace, hanno sfilato per la città sbandierati da braccia di cittadini di qualsiasi nazionalità, non necessariamente coincidente con la regione di cui portavano e sorreggevano il peso.
Molti di questi paesi, sono stati inseriti di recente, in virtù (si fa per dire) del decreto sicurezza in un elenco di paesi considerati “sicuri” con la stesso arrogante cinismo con cui un uomo in buona salute potrebbe giudicare sano un malato terminale pur di evitare di prendersene cura.
In quei paesi che il nostro governo ritiene sicuri e dove invece – come ad esempio in Ucraina – si consumano sanguinarie quanto ignorate guerre civili, si è deciso per decreto, che sarà possibile rimpatriare i profughi che da lì erano faticosamente fuggiti.
Don Francisco sembra leggermi nel pensiero e cita il suo amico William, giovane maestro ucciso dalle bande armate locali: “la sicurezza non si ottiene solo con la fermezza, ma con l’amore”. E oggi, diversamente da quello appare leggendo i giornali, sembra esserci un’umanità silenziosa ma consapevole che crede e pretende questa “sicurezza amorosa”.
Se normalmente si preferisce non sapere e non vedere, i cittadini che hanno scelto di celebrare l’inizio del nuovo anno insieme alla comunità di San Egidio, hanno deciso di conoscere, anzi di “sentire” quello che succede fuori dai propri personali confini. Non mi viene in mente nessun modo migliore per affrontare i 365 giorni a venire.
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Alessandra Ballerini è avvocata civilista specializzata in diritti umani e immigrazione. Tra i suoi libri La vita ti sia lieve (per Melampo edizioni), storie di migranti e altri esclusi.

mercoledì 26 febbraio 2020

La vera emergenza

dalla pagina https://comune-info.net/la-vera-emergenza/ 

Luca Manes

Dalla firma dell’accordo di Parigi in poi, JP Morgan ha fornito 75 miliardi di dollari di servizi finanziari alle società più attive nel fracking e nella ricerca di petrolio e gas nell’Artico. Eppure gli alti papaveri della banca d’affari più amica dei combustibili fossili devono aver compreso che il global warming è un problema reale e hanno commissionato una ricerca a due dei loro migliori economisti. Il rapporto è finito nelle mani di Rupert Read, portavoce di Extinction Rebellion UK e docente di filosofia all’Università dell’East Anglia, che lo ha girato al Guardian, che nei giorni scorsi ne ha pubblicato stralci a dir poco eloquenti: la crisi climatica avrà un impatto sull’economia mondiale, sulla salute umana, sulle risorse idriche, sulle migrazioni e sulla sopravvivenza di altre specie sulla Terra. “Non possiamo escludere esiti catastrofici per l’umanità”, segnala il documento, datato 14 gennaio 2020



La vera e concreta minaccia per l’umanità? Elementare Watson: la crisi climatica. E se lo dicono gli economisti della banca d’affari JP Morgan ci troviamo di fronte alla prova regina che siamo tutti a rischio per come abbiamo strapazzato il Pianeta in tutti i modi possibili e immaginabili. Altro che sindrome influenzale impacchettata in una fin troppo malriposta psicosi…
Partiamo da un primo dato: dalla firma dell’accordo di Parigi, datato dicembre 2015, JP Morgan ha fornito 75 miliardi di dollari (61 miliardi di sterline) di servizi finanziari alle società più attive nel fracking e nella ricerca di petrolio e gas nell’Artico. Ma gli alti papaveri della banca d’affari più amica dei combustibili fossili devono aver compreso che il global warming è un problema reale – forse dovrebbero condividere i loro timori con qualche noto editorialista nostrano – e per capirne di più hanno commissionato una ricerca a due dei loro migliori economisti, David Mackie e Jessica Murray.
Il rapporto è finito nelle mani di Rupert Read, portavoce di Extinction Rebellion UK e docente di filosofia all’Università dell’East Anglia, che lo ha girato al Guardian.
Nell’articolo pubblicato nei giorni scorsi dal quotidiano inglese si leggono stralci dello studio a dir poco eloquenti: la crisi climatica avrà un impatto sull’economia mondiale, sulla salute umana, sulle risorse idriche, sulle migrazioni e sulla sopravvivenza di altre specie sulla Terra. “Non possiamo escludere esiti catastrofici per l’umanità”, segnala il documento, datato 14 gennaio 2020.

Attingendo alla vasta letteratura accademica e alle previsioni del Fondo Monetario Internazionale e del Gruppo Intergovernativo delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (IPCC), il rapporto rileva che siamo sulla buona strada per raggiungere i 3,5°C al di sopra dei livelli preindustriali entro la fine del secolo. Si afferma inoltre che la maggior parte delle stime dei probabili costi economici e sanitari sono troppo basse perché non tengono conto della perdita di ricchezza, del tasso di sconto e della possibilità di un aumento delle catastrofi naturali.
Gli autori sostengono che i governi devono cambiare direzione perché una politica climatica del tipo business as usual “spingerebbe probabilmente la terra in un luogo che non vediamo da molti milioni di anni”, con risultati che potrebbero essere impossibili da invertire.
“Anche se non sono possibili previsioni precise, è chiaro che la Terra si trova su una traiettoria insostenibile” è un altro dei moniti di Mackie & Murray.
La crisi climatica “riflette un fallimento del mercato globale, perché i produttori e i consumatori di emissioni di CO2 non pagano per i danni climatici causati dalle loro attività”. Per invertire questa tendenza, gli autori evidenziano la necessità di una carbon tax globale, ma avvertono che “non accadrà tanto presto” a causa delle preoccupazioni per l’occupazione e la competitività.
Di conseguenza è “probabile che la situazione continuerà a peggiorare, forse più che in qualsiasi scenario dell’IPCC”.
JP Morgan deve ancora fare tanta strada per una completa redenzione, ma è notizia delle ultime ore che almeno ha deciso di porre fine a tutti i prestiti alle aziende estrattive che operano nell’Artico.

sabato 22 febbraio 2020

Un pensiero fertile

un articolo del giugno 2019, dalla pagina https://comune-info.net/un-pensiero-fertile/

Gabriella Falcicchio

Gandhi, Rosa Parks, Tonino Bello, Aldo Capitini, Alexander Langer…: c’è poco spazio nella scuola e nell’università per gli uomini, le donne e i movimenti che hanno messo al centro la nonviolenza, con tutta la sua forza e la sua fragilità. «La nonviolenza non è una corrente culturale, non è un fenomeno letterario, non è un pensiero filosofico o politico – scrive Gabriella Falcicchio su Educazione aperta – È anche tutto questo e lo è in modo fine e innovativo, ma nessuno di questi aspetti né il loro insieme basta a qualificarla. Davanti alla domanda “cos’è la nonviolenza?”, una risposta sintetica ed efficace è “la nonviolenza è un metodo di lotta”… Un pensiero fertile e capace di fertilizzare il terreno dell’umano se diventa pratica, più disaccordo e dissenso che consenso, più conflitto che compromesso…»

Un disegno di Mauro Biani per la Marcia della pace Perugia-Assisi 2018

Abbiamo tentato di non dare la morte né col pensiero né con l’atto, per vedere se la realtà ci seguisse? [Aldo Capitini]
Da circa diciassette anni sono entrata in contatto con la tradizione di pensiero e di azione nonviolenta. Andando in profondità, sia sul piano culturale sia nel coinvolgimento esistenziale e nel cambiamento delle pratiche quotidiane, ho constatato che assumere come faro costante la tensione alla nonuccisione-nonmenzogna-noncollaborazione, la triade capitiniana della nonviolenza, illumina porzioni impreviste di realtà e ne mette in luce anche l’invisibile violenza. E dapprima impercettibilmente, poi in modo sempre più poderoso, qualcosa comincia a cambiare dentro e intorno a sé. Il faro è ben riassunto nella domanda che Aldo Capitini si pone in Religione aperta: “Abbiamo tentato di non dare la morte né con l’atto né col pensiero, per vedere se la realtà ci seguisse?”, una frase che interpella ogni essere umano alla concretezza di un’azione intimamente aderente al valore chiave della nonviolenza: il tu, i tu, i Tutti. E che mette ciascuno davanti alla propria responsabilità individuale, indipendentemente dall’entità dell’azione. Anche nel più piccolo ambito, l’azione nonviolenta apre un varco nella realtà-com’essa-è, avviando una tramutazione, cioè la sua trasformazione strutturale.
A febbraio ho cominciato un corso destinato ai giovani sotto i trent’anni finalizzato a far conoscere a un livello molto iniziale la storia appassionante di uomini e donne che hanno scelto di esercitare un’azione sociale e collettiva nonviolenta, per ottenere diritti ed emancipazione da forme di oppressione, talora estremamente violente, e per ritessere l’ordito della vita sociale su basi radicalmente diverse. Abbiamo cominciato partendo dai libri, molti dei quali in edizione originale, che mi porto dietro in una specie di valigetta delle meraviglie e ho preso a raccontare con quell’entusiasmo che vuole trasmettere curiosità e contagiare l’appassionamento.
Delle persone presenti, soprattutto quelle che si approcciavano al corso senza una conoscenza pregressa, la cifra comune è stato lo stupore. Era lo stupore di venire a conoscere per la prima volta episodi di vita, aneddoti, storie di uomini e donne talmente noti da essere del tutto sconosciuti (uno per tutti, Gandhi), di cui talvolta si ignorava del tutto l’esistenza e l’enorme impatto sulla vita socio-politica di popoli interi (si pensi a James Lawson, che condusse la celebre campagna di Nashville) o che si pensava capitati dentro un’azione di protesta quasi per caso, invece che con una precisa regia di lotta (è il caso di Rosa Parks).
A scuola non si raccontano queste storie, che pure darebbero respiro e speranza. A scuola si continua imperterriti a coltivare la retorica di guerra, non solo nelle discipline storiche, ma anche trasversalmente, e non si parla di tutto il resto, lasciando i bambini, i ragazzi, i giovani talmente affamati di senso da smettere di avere fame. Li abituiamo all’astenia, a un cibo privo di nutrienti.
C’è una enorme responsabilità educativa della generazione adulta in questo vuoto deprimente, dove si è smesso di dar da bere agli assetati, di dar da mangiare agli affamati, di consolare gli afflitti, di vestire gli ignudi e di accogliere gli stranieri. In quei princìpi così basilari per la convivenza umana (e oltre), c’è anche l’abc dell’educazione, alfabeto educativo che sembra una lingua incomprensibile per la deriva di disumanità a cui assistiamo.

La nonviolenza racconta e vuole continuare a raccontare una storia diversa, relazioni diverse, possibilità di apertura a un futuro diverso sia per gli umani che possono sceglierla, sia per tutti i viventi, che possono beneficiarne in conseguenza.
Questa storia si intesse tenendo conto di alcuni elementi chiave che servono a dare una cornice di comprensione a questa tradizione di pensiero e di azione. Il primo elemento è che la nonviolenza è un prodotto umano ed è stata incarnata in esseri umani. Essa non presenta dogmi a cui aderire fideisticamente, né assoluti di alcun tipo. Questo ci dice molte cose: innanzitutto che mitizzare o santificare gli uomini e le donne che l’hanno rappresentata è un errore. Abbiamo bisogno di conoscerla proprio per cogliere l’umano in ciascuna delle personalità, il limite, il radicamento tutto terreno che, anche se ha un forte afflato spirituale, resta storicamente collocato. Come tale, la tradizione nonviolenta è criticabile e rinnovabile di continuo, esprime cioè una generatività che non si ferma ai casi esemplari, ma riannoda ogni volta i nessi con la storia, con gli eventi, con i bisogni emergenti e da questi fa scaturire processi nonviolenti, dinamiche, addivenendo a orizzonti nuovi. Senza dubbio ci sono principi e valori di fondo che restano saldi come criteri orientativi di natura pratica (i tre sopra citati), rispetto ai quali occorre ricordare per un costante e salutare esercizio di umiltà che con ogni probabilità mille volte inciamperemo e cadremo, tuttavia neppure quei valori sono da intendere in senso assoluto e manicheo, quanto come punti di arrivo della tensione a sovvertire una realtà inadeguata, vettori di un processo progressivo di allargamento e gemmazione permanente.

In questo la saggezza che Alexander Langer possedeva nell’usare le parole si mostra in quei comparativi che lo identificano: lentius, profundius, suavius. Il senso di quel “più lenta, più profonda, più gentile” non è solo nei contenuti che ne fanno un manifesto della visione nonviolenta più vicina alla contemporaneità, ma anche nel suffisso comparativo, che rivela la logica prettamente nonviolenta dell’aggiunta, il metodo capitiniano che non distrugge ciò che è stato, ma “aggiunge tramutando”. Un processo dunque, un cammino.
E non è certo un caso che camminare rappresenti la pratica e la metafora più cara alla nonviolenza. Walking è uno dei libri di Henry David Thoreau, atto rivoluzionario sotto molti punti di vista allora, nell’800 americano che conservava i tratti della natura selvatica e della wilderness mostrando quanto stantia fosse la cultura umana rispetto alla vitalità della natura, come dopo, quando le “marce” (la marcia del sale, le marce di Selma, la marcia Perugia-Assisi) sono diventate espressione di collettività che lottano per i diritti e più che mai oggi, che optare per la pedovia rappresenta un atto di dissenso alla società dell’accelerazione.
In questo cammino, dunque, uno degli errori in cui è più facile incorrere è la mitizzazione o la riduzione a stereotipo. Quando voglio cominciare a sgretolare l’iconografia della nonviolenza, chiedo di descrivermi che immagine si formi nella mente quando pensiamo a Gandhi. Ecco che compare il vecchietto seminudo, molto magro, con un telo bianco intorno alla vita, seduto a gambe incrociate, alla meglio in piedi con un bastoncino in mano. L’icona di Gandhi insomma, peraltro unica presenza nell’immaginario comune che ignora il Gandhi brillante avvocato e giornalista che vestiva all’occidentale, con camicia, pantaloni e giacca, personalità piena di chiaroscuri che attraversa un tortuoso percorso di formazione tra tre continenti.
È facile che la costruzione del mito avvenga dopo morti tragiche e il rischio di depauperamento del valore delle opere è sempre dietro l’angolo. A proposito di Martin Luther King, questo è particolarmente evidente, come evidenzia Massimo Rubboli, se si pensa all’operazione di merchandising dell’icona del reverendo, con tanto di copyright su testi e immagini e royalties annesse.
Molto diversa la situazione di don Tonino Bello, intorno al quale non c’è business, ma il tentativo di istituzionalizzazione (come accadde a suo tempo con Francesco d’Assisi), con quel mix di elogio verboso e occultamento delle caratteristiche più rivoluzionarie che serve a normalizzare tutti i radicali, gli estremisti, quelli a cui ogni blando riformismo sta stretto perché vedono con quale dolore, con quali tragedie i deboli, i pallidi, gli smorti (il lessico è capitiniano) chiedono (e spesso non chiedono, in un tragico silenzio di resa alla sconfitta) aiuto perché la realtà venga rivoluzionata, non solo alleggerita di qualche gravame.
In questo processo di depotenziamento del messaggio tramutativo, Capitini sconta una sorte tutta particolare, perché non assurgendo alla notorietà dei “pezzi grossi” mondiali, il rischio di “provincializzazione” (o regionalizzazione) non è mai stato veramente superato. È come se quella descrizione di Calogero sia diventata un anatema: Capitini era e resta agli occhi dei più “spiacevolmente anormale”, fastidioso. Davanti al suo nome, si continua a storcere il naso, oppure ad assentire con posa di chi ben ricorda quei tempi. Difatti a conoscere Capitini sono in pochi, a parlare di Capitini sono spesso in pochissimi e si finisce per ripetere – non senza deformazioni a proprio gusto – quello che chiunque potrebbe conoscere leggendo direttamente i libri – fruibilissimi – di Aldo.
Peccato mortale, che però evidenzia un aspetto: la generatività di questo pensiero necessita di pratiche, non solo di analisi. Capitini e tutto il pensiero nonviolento hanno bisogno certamente di studiosi che sappiano andare a fondo, filologicamente e storicamente rigorosi, ma non è sufficiente. La nonviolenza non è una corrente culturale, non è un fenomeno letterario, non è un pensiero filosofico o politico. È anche tutto questo e lo è in modo fine e innovativo, ma nessuno di questi aspetti né il loro insieme basta a qualificarla. Davanti alla domanda “cos’è la nonviolenza?”, una risposta sintetica ed efficace è “la nonviolenza è un metodo di lotta”. Questa espressione racchiude la visione del mondo e delle relazioni, il radicamento nella persuasione personale, l’orizzonte politico, e soprattutto l’azione come componente necessaria alla sopravvivenza e alla vivezza della nonviolenza stessa. Studiare Capitini come un filosofo o come un pedagogista, come uomo di cultura è un errore di metodo, perché non si può comprendere in profondità senza accordarsi a lui nella compresenza. Se la nonviolenza cessa di essere “vita da provare”, in cui ognuno persegue i propri “esperimenti con la verità”, organizzare convegni, pubblicare volumi e curare numeri monografici di riviste può persino avere l’effetto di insterilire il dibattito in verbosità avvizzite sul consueto ripetersi. Si tratta invece di un pensiero fertile e capace di fertilizzare il terreno dell’umano se diventa pratica, incarnandosi, cercando nuove vie di espressione e di liberazione. Del resto, la nonviolenza serve a modificare la realtà, non a descriverla, né ancor meno a vagheggiarla in forma di perfezione; serve ad avviare e sostenere dinamiche in cui la realtà prende la forma di quello che ancora non è e richiede più divergenza che convergenza, più disaccordo e dissenso che consenso, più conflitto che compromesso. E senza dubbio, più disposizione al decentramento di sé che territorialità narcisistica. La nonviolenza è di tutti, è dei Tutti e se viene meno a questo richiamo, cessa di esistere.

venerdì 21 febbraio 2020

22/02, "Cattolici e politica, tra lievito e irrilevanza"


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La vita non è una merce

dalla pagina https://comune-info.net/la-vita-non-e-una-merce/

Un appello di 150 organizzazioni di tutta Europa denuncia la manovra, senza mandato, della Commissione europea, per chiudere un nuovo accordo TTIP [cerca TTIP nel blog] con gli Stati Uniti, perfino più segreto e non democratico del precedente. Vorrebbero concedere agli USA mano libera su standard importanti che riguardano la salute, la sicurezza alimentare, il principio di precauzione, l’ambiente e il clima


Foto tratta dal Flickr di Friends of the Earth Europe
Più di 150 organizzazioni della società civile in Europa e negli Stati Uniti chiedono di interrompere i negoziati commerciali che metteranno ulteriormente a repentaglio le norme dell’UE in materia di salute e ambiente e aggraveranno la crisi climatica. È necessario un cambio di rotta.
Abbiamo seguito i recenti colloqui tra la Commissione europea e le autorità statunitensi su un nuovo accordo commerciale (un nuovo TTIP) con incredulità e delusione. È chiaro che la Commissione è pronta a soddisfare le richieste di Trump di ridurre i livelli di sicurezza alimentare dell’UE, a scapito della salute pubblica, del benessere degli animali e dell’ambiente, e di compromettere anche gli impegni dell’UE in materia di cambiamenti climatici.
La paura delle minacce lanciate dal presidente degli Stati Uniti di imporre tariffe elevate alle auto europee non può essere una scusa per una ritirata dall'interesse pubblico. L’apparente cambiamento di paradigma all'interno della Commissione, che emerge dopo mesi di trattative a porte chiuse e in gran parte al riparo dal controllo pubblico, è estremamente allarmante.
Chiediamo ai governi e ai parlamentari dell’UE di spingere la Commissione a modificare questo approccio. Deve essere chiarito all'amministrazione americana che i nostri livelli di salute pubblica e protezione ambientale non sono in vendita.
La pressione esercitata dai negoziatori statunitensi sull'Unione europea per abbattere i nostri standard non è una novità. Recenti dichiarazioni rilasciate dal ministro dell’Agricoltura statunitense Perdue hanno chiarito che qualsiasi accordo dipenderà dalle concessioni dell’UE rispetto alla carne sterilizzata con acido o cloro o trattata con ormoni, ai residui di pesticidi negli alimenti e nei mangimi o per lo smantellamento delle norme di cautela rispetto agli OGM.



La novità è la risposta dell’UE. Quando in precedenza era stato negoziato con gli Stati Uniti un accordo di libero scambio globale (TTIP), la Commissione sosteneva che non avrebbe abbassato gli standard. Ma le recenti dichiarazioni del commissario commerciale Phil Hogan sugli attuali colloqui mostrano un approccio diverso. Ha parlato di “un lungo elenco di barriere normative in agricoltura” che potrebbero essere “risolte” in un accordo.
Queste “barriere normative” esistono per delle buone ragioni: abbiamo regole sui pesticidi e gli ormoni chimici nelle carni per proteggere la nostra salute e l’ambiente. Abbiamo restrizioni sugli OGM per proteggere la biodiversità e i consumatori. Abbiamo restrizioni sulle carni trattate con cloro o acido per proteggere il benessere degli animali e la sicurezza alimentare. L’impegno dei cittadini dell’UE nei confronti di un approccio precauzionale è stato fortemente confermato durante il dibattito pubblico sul TTIP, un accordo commerciale che non sarebbe sopravvissuto a un voto democratico all'interno dell’UE se avesse incluso concessioni sulla scala ora richiesta dagli Stati Uniti.
Riteniamo che la Commissione stia mettendo a rischio gli obiettivi (dichiarati) del “Green Deal europeo”. Questa strategia elenca, almeno sulla carta, diversi elementi ora nel mirino degli Stati Uniti. Ad esempio, secondo la strategia l’UE deve lavorare “per ridurre in modo significativo l’uso e il rischio dei pesticidi chimici”. I ripetuti richiami del Panel intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (IPCC) e della Piattaforma intergovernativa di politica scientifica sulla biodiversità e i servizi ecosistemici (IPBES) a sostegno di un’agricoltura sostenibile aggiungono ulteriore forza a questo impegno.
Tuttavia, la Commissione non ha respinto le richieste degli Stati Uniti di abbassare le ambizioni in questo settore, e quindi rischia di aggiungere potenza al tipo di agricoltura più inquinante. Inoltre, dato che l’approccio conciliante della Commissione è un tentativo di proteggere le esportazioni dall'UE di auto notoriamente dannose per il clima, la promessa del Green Deal europeo di attuare un approccio più ecologico all'agricoltura e al commercio sembra ora essere compromessa dalla stessa Commissione.

Inoltre, la Commissione non ha nemmeno il mandato per condurre negoziati su tali questioni. Il mandato adottato nell'aprile 2019 non lascia spazio ai negoziati su alimenti e altri standard di sicurezza. Il commissario commerciale Hogan ha affermato che “sta cercando di esaminare i modi in cui attraverso la cooperazione normativa potremmo essere in grado di considerare le barriere non tariffarie come un modo per mettere in discussione le questioni agricole”. Ciò suggerisce che il commissario per il commercio Hogan vuole stabilire un dialogo segreto a lungo termine dietro le quinte per trovare il modo di soddisfare le richieste degli Stati Uniti, per le quali ha il sostegno di alcuni Stati membri.
Non dobbiamo permettere che ciò accada. Ciò minerebbe le leggi e le procedure dell’UE concordate decenni fa, non rientra nell'attuale mandato e non dovrebbe rientrare in un nuovo mandato.
Alla luce di quanto affermato e motivato, chiediamo ai governi europei in seno al Consiglio dell’UE e ai parlamentari nazionali e europei di garantire che le nostre preoccupazioni in materia di protezione dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente, trasparenza e coinvolgimento della società civile siano considerate e accolte. I nostri eletti devono chiedere una revisione degli attuali colloqui commerciali con gli Stati Uniti. L’UE deve chiarire inequivocabilmente all'amministrazione degli Stati Uniti che i nostri livelli di salute pubblica e protezione ambientale non sono in vendita, che non soccomberemo alle minacce degli USA e che la politica commerciale deve mettere al primo posto le persone, l’ambiente e il clima.
Qui il link con l’elenco dei primi firmatari: 

mercoledì 19 febbraio 2020

Querida Amazonia

dalla pagina https://comune-info.net/querida-amazonia/

Antonio De Lellis

Alcuni hanno discusso l’Esortazione Apostolica Querida Amazonia per le attese aperture della chiesa al sacerdozio per i laici, trascurando completamente come i contenuti del documento sanciscono un solco invalicabile tra i popoli e l’economia predatrice. Non si può permettere che la globalizzazione diventi «un nuovo tipo di colonialismo», dice l’Esortazione. È tempo di ascoltare il grido degli impoveriti, senza mai separare l’approccio ecologico con quello sociale

Tratta da unsplash.com
L'equilibrio planetario dipende anche dalla salute dell’Amazzonia. Assieme al bioma del Congo e del Borneo, dalle quali dipendono anche i cicli delle piogge, l’equilibrio del clima e una grande varietà di esseri viventi. Funziona come un grande filtro del diossido di carbonio, che aiuta a evitare il surriscaldamento della terra. L’Amazzonia è una totalità multinazionale interconnessa, un grande bioma condiviso da nove paesi: Brasile, Bolivia, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname, Venezuela e Guyana Francese. Tuttavia, l’Esortazione Apostolica Querida Amazonia viene indirizzata a tutto il mondo. Da una parte, per aiutare a risvegliare l’affetto e la preoccupazione per questa terra che è anche “nostra” e dall’altra, perché l’attenzione alle problematiche di questo luogo ci obbliga a riprendere brevemente alcuni temi che non dovremmo dimenticare e che possono ispirare altre regioni della terra di fronte alle loro proprie sfide.
Con queste parole papa Francesco attualizza e contestualizza in una parte fondamentale del mondo i principi della Laudato Sì. Cosa significa ecologia integrale, che tutto è interconnesso e cosa si può fare concretamente per difendere, tutelare e promuovere questa terra di tutti?
I quattro grandi sogni di Francesco sono: un’Amazzonia che lotti per i diritti dei più poveri, dei popoli originari, degli ultimi, dove la loro voce sia ascoltata e la loro dignità sia promossa; un’Amazzonia che difenda la ricchezza culturale che la distingue, dove risplende in forme tanto varie la bellezza umana; un’Amazzonia che custodisca gelosamente l’irresistibile bellezza naturale che l’adorna, la vita traboccante che riempie i suoi fiumi e le sue foreste; comunità cristiane capaci di impegnarsi e di incarnarsi in Amazzonia, fino al punto di donare alla Chiesa nuovi volti con tratti amazzonici.
Ma c’è bisogno di un grido profetico e di un arduo impegno per i più poveri. Infatti, benché l’Amazzonia si trovi di fronte a un disastro ecologico, va rilevato che «un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri». Gli interessi colonizzatori che hanno esteso ed estendono – legalmente e illegalmente – il taglio di legname e l’industria mineraria, e che sono andati scacciando e assediando i popoli indigeni, rivieraschi e di origine africana, provocano una protesta. Questo ha favorito i movimenti migratori più recenti degli indigeni verso le periferie delle città. Lì non incontrano una reale liberazione dai loro drammi, bensì le peggiori forme di schiavitù, di asservimento e di miseria. In queste città, caratterizzate da una grande disuguaglianza, dove oggi abita la maggior parte della popolazione dell’Amazzonia, crescono anche la xenofobia, lo sfruttamento sessuale e il traffico di persone. Gli indigeni denunciano: “Siamo colpiti dai commercianti di legname, da allevatori e altre parti terze. Minacciati da attori economici che implementano un modello estraneo ai nostri territori. Le imprese del legno entrano nel territorio per sfruttare la foresta, noi abbiamo cura della foresta per i nostri figli, abbiamo carne, pesce, medicine vegetali, alberi da frutto. La costruzione di impianti idroelettrici e il progetto di vie d’acqua ha un impatto sul fiume e sui territori. Siamo una regione di territori derubati”.
Tutto ciò con uno sguardo che non riconosce i diritti dei popoli originari o semplicemente li ignora, come se non esistessero, o come se le terre in cui abitano non appartenessero a loro. I popoli originari tante volte hanno assistito impotenti alla distruzione dell’ambiente naturale che permetteva loro di nutrirsi, di curarsi, di sopravvivere e conservare uno stile di vita e una cultura che dava loro identità e significato.
La disparità di potere è enorme, i deboli non hanno risorse per difendersi, mentre il vincitore continua a prendersi tutto. «I poveri restano poveri, mentre i ricchi diventano sempre più ricchi». Alle operazioni economiche, nazionali e internazionali, che danneggiano l’Amazzonia e non rispettano il diritto dei popoli originari al territorio e alla sua demarcazione, all’autodeterminazione e al previo consenso, occorre dare il nome che a loro spetta: ingiustizia e crimine.
Quando alcune aziende assetate di facili guadagni si appropriano dei terreni e arrivano a privatizzare perfino l’acqua potabile, o quando le autorità danno il via libera alle industrie del legname, a progetti minerari o petroliferi e ad altre attività che devastano le foreste e inquinano l’ambiente, si trasformano indebitamente i rapporti economici e diventano uno strumento che uccide.
È abituale ricorrere a mezzi estranei a ogni etica, come sanzionare le proteste e addirittura togliere la vita agli indigeni che si oppongono ai progetti, provocare intenzionalmente incendi nelle foreste, o corrompere politici e gli stessi indigeni. Ciò è accompagnato da gravi violazioni dei diritti umani e da nuove schiavitù che colpiscono specialmente le donne, dalla peste del narcotraffico che cerca di sottomettere gli indigeni, o dalla tratta di persone che approfitta di coloro che sono stati scacciati dal loro contesto culturale.
Non si può permettere che la globalizzazione diventi «un nuovo tipo di colonialismo».
Le storie di ingiustizia e di crudeltà accadute in Amazzonia anche durante il secolo scorso dovrebbero provocare un profondo rifiuto, ma nello stesso tempo dovrebbero renderci più sensibili a riconoscere forme anche attuali di sfruttamento umano, di prevaricazione e di morte. In merito al passato vergognoso, raccogliamo, a modo di esempio, una narrazione sulle sofferenze degli indigeni dell’epoca del caucciù nell’Amazzonia venezuelana: «Agli indigeni non davano denaro, solo mercanzia e a caro prezzo, così non finivano mai di pagarla, pagavano, ma dicevano all’indigeno: “Lei ha un grosso debito”, e doveva ritornare a lavorare. Più di venti villaggi ye’kuana sono stati completamente devastati. Le donne ye’kuana sono state violentate e amputati i loro petti, quelle gravide sventrate. Agli uomini tagliavano le dita delle mani o i polsi in modo che non potessero andare in barca, insieme ad altre scene del più assurdo sadismo». Questa storia di dolore e di disprezzo non si risana facilmente.
E la colonizzazione non si ferma, piuttosto in alcune zone si trasforma, si maschera e si nasconde, ma non perde la prepotenza contro la vita dei poveri e la fragilità dell’ambiente. L’interesse di poche imprese potenti non dovrebbe esser messo al di sopra del bene dell’Amazzonia e dell’intera umanità. In realtà, oltre agli interessi economici di imprenditori e politici locali, ci sono anche «gli enormi interessi economici internazionali». La soluzione non sta, dunque, in una “internazionalizzazione” dell’Amazzonia, ma diventa più grave la responsabilità dei governi nazionali. Per questa stessa ragione, «è lodevole l’impegno di organismi internazionali e di organizzazioni della società civile che sensibilizzano le popolazioni e cooperano in modo critico, anche utilizzando legittimi sistemi di pressione, affinché ogni governo adempia il proprio e non delegabile dovere di preservare l’ambiente e le risorse naturali del proprio Paese, senza vendersi a ambigui interessi locali o internazionali».
Querida Amazonia mette nero su bianco i crimini contro i viventi e sancisce un solco invalicabile tra i popoli e l’economia predatrice. A quanti si aspettavano aperture della chiesa al sacerdozio per i laici, uomini e donne, il documento mette in primo piano la lotta sociale e culturale e pone fine a una grande ipocrisia: quella di fondare l’etica sul primato dell’economia quando invece si tratta di ingiustizia e crimine contro i viventi.
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Da anni impegnato con Attac e nei movimenti per l’acqua e contro le trivellazioni, vive a Termoli, in Molise. Ha aderito alla campagna "Ricominciamo da 3"


martedì 18 febbraio 2020

I problemi dell’auto sostenibile

dalla pagina https://comune-info.net/i-problemi-dellauto-sostenibile/

Francesco Gesualdi14 Febbraio 2020

Cercare ogni via per ridurre il consumo di energia derivante da combustibili fossili e le emissioni di anidride carbonica è urgentissimo e sacrosanto, ma bisogna farlo evitando di creare problemi su altri fronti. L’automobile descrive meglio di ogni altra cosa le contraddizioni in cui ci troviamo. Le auto in circolazione a livello mondiale oggi sono quasi un miliardo. Per rimpiazzarle tutte con auto elettriche servirebbe la metà delle riserve di litio conosciute ma il litio serve anche per i cellulari, i tablet, i computer, gli accumulatori per pannelli solari. La domanda di litio e cobalto potrebbe diventare presto così alta da spingere i prezzi a livelli proibitivi per le classi meno abbienti. Il solito vecchio meccanismo di mercato che ristabilisce l’equilibrio fra domanda e offerta a detrimento dei più poveri. Dobbiamo chiederci se non sia arrivato il tempo di cercare di arrestare i problemi generati dai nostri eccessi, concentrandoci non solo sulla tecnologia ma anche sugli stili di vita. Parlando di trasporti, possiamo domandarci se non dobbiamo aumentare drasticamente gli spostamenti a piedi o in bicicletta ma anche accettare di viaggiare meno, più lentamente e in forma molto più collettiva

Foto tratta da Pixabay
I paesi a ricchezza avanzata sono all’affannosa ricerca di modi per mantenere il livello di consumi raggiunto e nel contempo rispettare i limiti del pianeta. Ma il compito si presenta piuttosto arduo e rischia di condurci ad una sostenibilità dell’apartehid, costruita, cioè, su disuguaglianze ancora più marcate di quelle che abbiamo conosciuto fin qui. Un mondo verde dove pochi eletti usano le poche risorse esistenti  mentre una massa di esclusi è tenuta fuori dal banchetto. Tutto il contrario del modello di ecologia integrale proposto da Papa Francesco dove sostenibilità ed equità si tengono per mano.
L’automobile descrive meglio di tutti le contraddizioni in cui ci dibattiamo. Con l’emergere dei cambiamenti climatici il nostro obiettivo è diventato la riduzione delle emissioni di anidride carbonica ed è alla tecnologia che ci siamo affidati,  con un doppio mandato.  Uno di lunga durata che metta fine alla dipendenza dal petrolio. L’altro, più immediato, che ci procuri un combustibile meno inquinante.  Entrambi presentano criticità.
Fino a qualche anno fa, la pista che inseguivamo per ottenere auto  sganciate dal petrolio era  l’idrogeno. Poi, ragioni di tipo energetico, di sicurezza e di rete distributiva hanno raffreddato le aspettative ed oggi  si insegue piuttosto l’auto elettrica. Un progetto che da un punto di vista tecnico è già realtà, ma che riapre vecchi problemi quando pretende di diventare consumo di massa. Nell’auto elettrica la funzione di serbatoio è svolta dalla batteria,  rispetto alla quale va precisato che può renderci veramente indipendenti dal petrolio solo se la corrente elettrica utilizzata per ricaricarla proviene da sole, vento e altre energie rinnovabili. Ad oggi solo il 26% dell’energia elettrica mondiale è di tipo rinnovabile. Ma questo è solo uno degli aspetti critici.
L’altro è che per produrre le batterie serve litio e cobalto, due minerali che oltre a essere fonte di preoccupazione sociale presentano problemi di quantità. Da un punto di vista sociale, il cobalto è diventato sinonimo di corruzione, evasione fiscale, lavoro minorile,  dal momento che è ottenuto per il 60% dalla Repubblica Democratica del Congo, un paese dominato da assenza di legge, mancanza di senso dello stato, violazione  dei diritti umani. Quanto al litio, il 65% dei depositi si trovano in un triangolo che si estende fra Cile, Argentina e Bolivia, una zona abitata da popolazioni che non sorridono all’idea di vedere il loro territorio trivellato di miniere. La preoccupazione principale è per l’acqua, di cui le imprese minerarie necessitano in gran  quantità in una zona in cui ce n’è poca. In Cile, nel Salar de Atacama, dove l’estrazione del litio ormai avviene da anni, la carenza di acqua si è fatta così acuta da avere messo le popolazioni in uno stato di conflitto permanente con le imprese minerarie.
Sul fronte quantitativo i geologi ci informano che il litio costituisce circa lo 0.006 % della crosta terrestre,  qualcosa di   meno  dello zinco, del rame, del tungsteno e qualcosa di più del cobalto, dello stagno, del piombo. Ma ai fini estrattivi contano i depositi ad alta concentrazione e secondo il Geological Survey degli Stati Uniti le riserve fruibili di litio non andrebbero oltre i 40 milioni di tonnellate.  Una quantità che si mostra molto limitata qualora l’industria dell’auto elettrica dovesse avere lo sviluppo che si paventa. In totale le principali case automobilistiche prevedono di produrre  20 milioni di auto elettriche all’anno a partire dal 2025, per passare a 25 milioni nel 2030 e addirittura a 60 milioni dopo il 2040.  Se consideriamo che secondo la tecnologia attuale per  ogni auto  servono dai 40 agli 80 chili di litio, si fa presto a calcolare un fabbisogno   di circa 100.000 tonnellate all’anno a partire dal 2025 che salirebbe a   300.000 tonnellate dopo il 2040.  In altre parole i depositi attualmente conosciuti potrebbero esaurirsi nel giro di pochi decenni. Analogo destino per   il cobalto che pur giocando un ruolo minore potrebbe esaurirsi in tempi altrettanto rapidi a cause delle minori riserve stimate in appena 25 milioni di tonnellate.
Ad oggi, le auto in circolazione a livello mondiale sono quasi un miliardo. Per rimpiazzarle tutte con auto elettriche servirebbe la metà delle riserve di litio oggi conosciute. E tuttavia le auto non sono gli unici strumenti a utilizzare batterie. Ad esse si aggiungono i cellulari, i tablet, i computer, gli accumulatori per pannelli solari. Il futuro, insomma, si presenta come la società della batteria e la domanda di litio e cobalto potrebbe diventare così  alta da spingere i loro prezzi a livelli proibitivi per le classi meno abbienti. Il solito vecchio meccanismo di mercato che ristabilisce l’equilibrio fra domanda e offerta a detrimento dei più poveri.
E mentre l’industria dell’automobile si sta organizzando per tagliare il cordone ombelicale dal petrolio, gli stati stanno cercando di ridurre le emissioni inquinanti spingendo l’acceleratore sulla produzione di carburanti di origine vegetale che risultano meno impattanti. Uno dei primi paesi che si è buttato in questa avventura è stato il Brasile, trasformando la canna da zucchero in bioetanolo, un alcool che può essere utilizzato tal quale in auto con motori apposti o che può essere utilizzato come additivo delle normali benzine. Il Brasile produce il 23% di tutto il bioetanolo prodotto a livello mondiale, ma è superato di gran lunga dagli Stati Uniti che ne produce il 49%.  E non utilizzando masse vegetali inadatte all’alimentazione, ma il mais di cui è primo produttore mondiale. Ben il 38% di tutto il mais prodotto negli Stati Uniti  è destinato al bioetanolo. Altrove si privilegiano il grano, l’orzo, la segale, sicché la Fao calcola che  il 14% di tutte le granaglie raccolte a livello mondiale sono bruciate nei motori. L’Unione Europea è un basso produttore di bioetanolo che comunque ottiene principalmente dalla barbietola da zucchero e in secondo ordine dal mais. Ma ha molto sviluppato la produzione di biodiesel di cui è il primo produttore mondiale con una quota del 37%.  Il biodiesel si ottiene da oli vegetali provenienti da tre semi principali: olio di palma (31%), soia (21%), colza (20%). Complessivamente il 16% di tutto l’olio vegetale prodotto a livello mondiale è destinato alla produzione di biodiesel.
Cercare ogni strada per ridurre le emissioni di anidride carbonica è sacrosanto, ma bisogna farlo evitando di creare problemi su altri fronti. Parlando di biocombustibili, tre punti interrogativi si affacciano alla mente. Il primo: quanto sia giusto e opportuno destinare cibo ai trasporti in un mondo dove il 12% della popolazione non mangia a sufficienza e in cui le bocche da sfamare sono in crescita. Il secondo: quanto sia sensato avvelenare la terra con pesticidi e fertilizzanti per ottenere più derrate agricole da destinare ai trasporti. Il terzo: quanto sia logico sottrarre terra ai boschi in un momento in cui abbiamo bisogno di più vegetazione per abbattere l’anidride carbonica. I biocarburanti rischiano di diventare diretti antagonisti delle foreste non solo perché si contrappongono alla riforestazione, ma peggio ancora perché promuovono la deforestazione. E’ noto,  ad esempio, che  la crescita esponenziale della produzione di olio di palma ottenuta negli ultimi anni si è accompagnata a una distruzione massiva di foresta non solo in Asia, ma anche in Africa e America Latina. Per cui dobbiamo chiederci se non sia arrivato il tempo di cercare di arrestare i problemi generati dai nostri eccessi,  concentrandoci non solo sulla tecnologia ma anche sugli stili di vita. Parlando di trasporti è arrivato il tempo di chiederci se non dobbiamo ridurre la nostra produzione di anidride carbonica, accettando di viaggiare meno, più lentamente e in forma più collettiva, capendo che il noi è più efficiente dell’io.
Articolo pubblicato anche sul quotidiano l’Avvenire
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dalla pagina https://ilmanifesto.it/il-paradosso-di-tesla-sospesi-i-lavori-in-germania/


Il paradosso di Tesla, sospesi i lavori in Germania


Brandeburgo. Stop, temporaneo, alle ruspe nella foresta di Grünheide, dove dovrebbe sorgere il nuovo stabilimento, a emissioni zero, dell’azienda americana di auto elettriche. I giudici prendono tempo in attesa che si risolva il contenzioso tra gli ambientalisti e l’ad Elon Musk denunciato per il consumo del suolo e delle risorse idriche. Per la Gigafactory, che darà lavoro a 12mila operai, si prevede l’abbattimento di 227 acri di boschi

lunedì 17 febbraio 2020

L’ignavia è un crimine!

dalla pagina https://www.mosaicodipace.it/mosaico/a/47312.html
POLITICHE MIGRATORIE
13 febbraio 2020 - Alex Zanotelli
Il 5 febbraio, come ogni primo mercoledì del mese, eravamo in piazza Montecitorio, a Roma, per il “Digiuno in Solidarietà con i migranti”: un piccolo gruppo di missionari/e comboniane e altre persone impegnate, per chiedere al governo Conte 2 “la discontinuità” con il precedente governo per le politiche migratorie. Purtroppo tre giorni prima il governo ci ha dato l’esempio di una profonda continuità con quello precedente. Infatti, il 2 febbraio, il governo italiano ha rinnovato il Memorandum Italia-Libia, frutto amaro dell’ex-ministro dell’Interno, Minniti (2017). Il Memorandum è stato rinnovato così com'è; le correzioni arrivate tardivamente da parte di Di Maio non hanno modificato nulla. Il dado è tratto! Questa è un’altra pagina nera per l’Italia, una vergogna nazionale! E un giorno il nostro paese verrà portato davanti ai tribunali internazionali per crimini contro l’umanità. Difatti il Memorandum in questi tre anni ha creato un’immensa tragedia umana consegnando circa 800.000 rifugiati in mano ai libici che li hanno rinchiusi in orribili lager, dove gli uomini tuttora vengono torturati e le donne stuprate. Molti di loro hanno tentato la fuga, ma almeno quarantamila sono stati intercettati e riportati nei lager dalla guardia costiera libica, finanziata e addestrata dall'Italia. Tanti sono morti nelle acque libiche, almeno cinquemila secondo l'Onu. Davanti a questi fatti s’impone una domanda: come ha fatto il governo italiano a rinnovare il Memorandum con la Libia, un paese in guerra e con un governo che non rispetta i diritti umani? Il nostro paese l’ha fatto nonostante la chiara condanna della UE: “L’Italia deve sospendere la cooperazione con la Guardia Costiera Libica”. Invece il governo giallo-rosso, senza un dibattito parlamentare, ha rinnovato l’accordo che obbliga l’Italia per i prossimi tre anni a garantire sostegno tecnico ed economico al governo di Tripoli per bloccare i flussi migratori (non dimentichiamo che oltre un miliardo di euro dei fondi Ue per l’Africa sono stati usati per trattenere nei lager libici i rifugiati africani e l’Italia dal 2017 ne ha investiti oltre un miliardo!).

Davanti a questa immensa tragedia umana, con insistenza chiediamo al nostro governo una discontinuità. Il governo M5S-PD è nato su questa premessa.
Per questo continueremo a chiedere senza stancarci:
  • l’abrogazione dei due decreti sicurezza e il ripristino del sistema pubblico e unitario di accoglienza in capo ai Comuni;
  • lo sbarco immediato delle persone tratte in salvo nel Mediterraneo, prima di aver concordato con gli altri paesi le operazioni di ridistribuzione;
  • la chiusura dei centri di detenzione in Libia come l'Onu richiede e l’evacuazione umanitaria tramite corridoi umanitari(la Libia è un paese in guerra!);
  • la ripresa della missione Sophia per far rispettare l’embargo sulle armi e salvare vite umane (e di questo Di Maio non ne vuole sapere!);
  • il ritiro della nave Capri della Marina militare Italiana ormeggiata nel porto di Tripoli che, secondo i magistrati, sembra “svolga di fatto le funzioni di centro decisionale della Guardia costiera Libica”;
  • che i fondi della Cooperazione (siamo fanalino di coda in Europa!) non vengano usati per il rimpatrio dei migranti e la militarizzazione delle frontiere;
  • la chiusura dei CPR (Centri per il Rimpatrio) creati dal Decreto Sicurezza (sono lager come i vecchi CIE della Turco-Napolitano).
Sono questi i nodi da sciogliere se l’attuale governo vuol parlare di discontinuità con quello precedente.
Purtroppo quello che oggi succede nel Mediterraneo è la dimostrazione di quanto anche questo governo non abbia a cuore i valori della nostra Costituzione, a cominciare dal rispetto dei diritti umani. Quello che avviene nel Mediterraneo e in Libia dimostra quanto si stia imbarbarendo la nostra società italiana.
È quanto ci ha ricordato papa Francesco, ricevendo in Vaticano i profughi giunti da Lesbo, davanti a quel crocifisso con il salvagente: “Come possiamo non ascoltare il grido disperato di tanti fratelli e sorelle che preferiscono affrontare un mare in tempesta piuttosto che morire lentamente nei campi di detenzione libici, luoghi di torture e schiavitù ignobile? Come possiamo rimanere indifferenti davanti agli abusi e alle torture di cui sono vittime innocenti alla mercé di trafficanti senza scrupoli? Come possiamo ‘passare oltre’, facendoci così responsabili della loro morte? La nostra ignavia è peccato!”.

Per i laici possiamo dire che è un crimine contro l’umanità.

Per questo come “Digiuno di Giustizia in Solidarietà con i migranti” ci ritroveremo il 4 marzo dalle ore 15 alle ore 18 in piazza Montecitorio, davanti al Parlamento, per ribadire il nostro dissenso a queste politiche migratorie.

Napoli, 13 febbraio 2020