venerdì 28 gennaio 2022

Rete Pace Disarmo al Governo: neutralità attiva per scongiurare la guerra alle porte dell’Europa

 

All’Italia e all’Europa viene chiesta un’iniziativa di neutralità attiva per ridurre la tensione e favorire un accordo politico chiarendo in particolare l’indisponibilità a sostenere avventure militari.

Come italiani e come europei stiamo assistendo ad una preoccupante escalation della tensione tra la Russia, gli Stati Uniti e la Nato ai confini dell’Europa.
Una escalation nella quale, allo stato attuale, nessuno dei contendenti esclude l’eventualità del ricorso alle armi e rispetto alla quale nessun osservatore esclude che possa evolvere in conflitto armato, anche nucleare, che potrebbe coinvolgere la stessa Europa.

Ciò avviene, inoltre, in un clima di esasperato riarmo con il quale gli eserciti sembrano cercare la supremazia invece che un equilibrio strategico che sia garanzia di pace futura.
È forse dall’epoca della crisi dei missili a Cuba che il rischio di un nuovo conflitto globale non è stato così palpabile. È un rischio che non ci possiamo permettere, come denunciato la settimana scorsa dall’allarmante “100 secondi a mezzanotte” dell’Orologio dell’Apocalisse del Bulletin of Atomic Scientist. Per scongiurare questo rischio ogni paese ha il dovere di operare.

Al nostro Paese innanzi tutto, a cominciare dal Ministro degli Esteri, e all’Europa tutta chiediamo di prendere iniziative urgenti e significative da una posizione di neutralità attiva, per ottenere una de-escalation immediata della tensione e avviare la ricerca di un accordo politico negoziato nel rispetto della sicurezza e dei diritti di tutte le popolazioni coinvolte, chiarendo la propria indisponibilità a sostenere avventure militari.

A tutti i Paesi coinvolti diciamo: fermatevi. Deponete le armi e le minacce e trattate.


giovedì 27 gennaio 2022

27 gennaio, Giorno Della Memoria

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dalla pagina https://ilmanifesto.it/dalla-memoria-ebraica-alle-memorie/

Dalla memoria ebraica alle memorie

Interventi. Parallelamente al riconoscimento dell’unicità della Shoah cresce l’attenzione verso altri genocidi e altre memorie bussano legittimamente alla porta


Alcuni anni or sono, ebbi la preziosa occasione di incontrare la grande testimone del genocidio ruandese dei Tutsi, Yolande Mukagasana, una donna straordinaria. Il privilegio di quell’incontro si trasformò in un’amicizia che continua ancora oggi. Yolande è autrice di un memoriale di eccezionale valore Not my time to die, tradotto in italiano con il titolo indovinato di La morte non mi ha voluto.
In questa opera racconta della sua terrificante esperienza che fortunatamente sfociò in un esito positivo. Nel corso di una delle volte che ebbi occasione di vedere Yolande, notai che portava come ciondolo una stella di Davide. La cosa mi incuriosì e le chiesi se per caso fosse ebrea. La sua risposta fu uno dei primi stimoli che mi spinse a dare vita ad un progetto che desse voce alle memorie di tutte le genti e di tutti gli uomini che sono stati vittime di genocidi, stragi di massa, persecuzioni sistematiche. Yolande rispose che quel ciondolo gli ricordava che anche loro, i Tutsi, dovevano fare come gli ebrei, costruire un edificio della Memoria. La cultura della Memoria nasce in ambito ebraico già dai tempi biblici: nella narrazione dell’Esodo, Amalek, capo di una banda di Edomiti, attaccò gli Ebrei proditoriamente per annientarli. Nella tradizione ebraica, questo personaggio è considerato un progenitore di Adolf Hitler ancorché apparentato con gli Ebrei in quanto discendente di Esaù.

Per quell’episodio di tentato annientamento di tutti gli Ebrei per la sola ragione dell’odio contro di essi, il biblista lancia il monito: «Yizkor!», «Ricorda!».
Questo precedente nella propria narrativa identitaria, spirituale e culturale, ha permesso al mondo ebraico di edificare un poderoso edificio etico che si fonda sul valore e il potere della Memoria. In seguito all’immane catastrofe distruttiva occorsa agli Ebrei nel corso del secondo conflitto mondiale, il progetto della Memoria ha permesso loro di uscire – per quello che era possibile – dall’immane trauma anche grazie all’impetuosa diffusione dei mezzi di comunicazione, di trasmissione e di memorizzazione digitale.
Il magistero ebraico, nel corso dei decenni, ha fatto scuola. Anche volendosi limitare ai crimini perpetrati dai nazifascisti, il progetto di annientamento ha colpito i menomati, i primi a conoscere lo sterminio sistematico, i Rom e i Sinti destinati anch’essi allo sterminio totale e negli stessi lager destinati agli ebrei, gli slavi, gli antifascisti di qualsiasi appartenenza, i Testimoni di Geova, gli omosessuali, gli emarginati, i disabili e tutti coloro che non rientravano nella visione di «purezza» etnica e razziale concepita dai nazisti. Da che il dovere della memoria diventa sentimento diffuso nel mondo occidentale, la Shoah ne prende il centro e la quasi totalità delle manifestazioni che si diffondono nelle città, nelle nazioni, nelle scuole. Una vastissima messe di pubblicazioni sull’argomento sono state date alle stampe, sono stati girati decine e decine di pellicole, prodotti spettacoli teatrali, concerti.

La memoria ebraica ha fatto aggio sulle altre, ma negli ultimi anni altre memorie bussano legittimamente alla porta dell’attenzione e del riconoscimento e presso le persone più sensibili, cresce l’attenzione verso altri genocidi, stermini di massa e persecuzioni che hanno visto la loro sinistra luce prima e dopo la Shoah.
Alcune associazioni, fra le quali per esempio Amnesty International, il Tribunale Russel, – solo per fare degli esempi – hanno fatto un grande lavoro, ma negli ultimi anni, è nata un’associazione di grande importanza, la Gariwo, fondata da Gabriele Nissim che ha portato all’universalità l’istituzione dei «Giusti fra i popoli» aprendo un orizzonte straordinario nel cammino verso la pace nella giustizia.

La Gariwo ricorda e pianta alberi in memoria di ogni giusto che, a proprio rischio e pericolo, salvò esseri umani di qualsiasi origine e nazione dal pericolo di sterminio ad opera di assassini di qualsivoglia origine. L’esempio di Gabriele Nissim è stato fonte di grande ispirazione per me e ha influito sulla mia decisione di dare vita, nel Teatro Comunale di Ferrara Claudio Abbado, alla Settimana delle Memorie.
Fino al 30 gennaio ricorderemo l’unicità della Shoah che avrà due giornate e tre iniziative dedicate. Ma anche il genocidio degli Armeni, l’ininterrotta persecuzione del popolo curdo, il genocidio dei Rom, il genocidio dei Tutsi. Lo faremo con incontri, recital, concerti musicali e spettacoli teatrali.
Gabriele Nissim e io, entrambi ebrei, abbiamo interpretato il giuramento fatto sulle ceneri di Auschwitz «Mai più!», come «ciò che è stato non deve mai più capitare a nessun essere umano». Pensiamo che pur nel riconoscere la specificità di ogni crimine e l’unicità della Shoah che non va certo banalizzata o omologata, non ci possano essere graduatorie nel dolore.


martedì 25 gennaio 2022

Webinar 26 gennaio. Il conflitto in Ucraina e il ruolo del movimento per la pace


 


dalla pagina https://www.peacelink.it/conflitti/a/48956.html

Un forum per promuovere un appello contro la guerra

In questa pagina web riportiamo le voci di tutti coloro che stanno partecipando ai webinar di PeaceLink con lo scopo di definire una piattaforma comune di obiettivi finalizzati a evitare una degenerazione dell'aspro confronto in atto fra la Russia e la Nato

Il 19 gennaio 2022 si è svolto il primo seminario online finalizzato a comprendere il conflitto in Ucraina.  

Qui raccogliamo i materiali prodotti fino a ora. Tutti coloro che vorranno inviare o segnalare qualcosa di utile troveranno in questa pagina web un punto di raccolta e prima organizzazione dell'informazione relativa a questo complesso conflitto.

La relazione introduttiva di Alessandro Marescotti si è basata su alcune slides (cliccare qui) mentre la relazione di Domenico Gallo ha portato all'attenzione questioni di grande rilievo che sono state poi sistematizzate in un intervento scritto (cliccare qui).

Di particolare interesse è stata la relazione di padre Alex Zanotelli (dal minuto 22 del video incluso in questa pagina web) che ha messo in evidenza come il nodo di fondo della tensione in atto risieda nella richiesta dell'Ucraina di entrare nella Nato.

I materiali sull'Ucraina sono stati raccolti in un apposito dossier (cliccare qui).

Mercoledì 26 gennaio alle ore 21 vi sarà un nuovo appuntamento del forum con un webinar a più voci. Chi vuole prenotarsi può scrivere a questa email: a.marescotti@peacelink.org

Il link per connettersi online mercoledì prossimo è www.peacelink.it/riunione

[continua]

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dalla pagina Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord - Wikipedia

Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord

L'allargamento della NATO in Europa
 

venerdì 21 gennaio 2022

L’operaio digitalizzato e la fabbrica 4.0

dalla pagina https://sbilanciamoci.info/loperaio-digitalizzato-e-la-fabbrica-4-0/

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Il lavoro umano nella trasformazione tecnologica e produttiva in corso resta fondamentale, con buona pace del mito della fabbrica completamente automatizzata. Nel libro-inchiesta “Il lavoro operaio digitalizzato”, che sarà presentato a Bologna il 24 gennaio, come cambiano gerarchie, tempi, responsabilità.

È appena stato pubblicato per Il Mulino il lavoro collettaneo a cura di Francesco Garibaldo e Matteo Rinaldini Il lavoro operaio digitalizzato. Inchiesta nell’industria metalmeccanica bolognese con contributi di Armanda Cetrulo, Valeria Cirillo, Daniela Freddi, Matteo Gaddi, Angelo Moro, Jacopo Staccioli, Maria Enrica Virgillito. Il lavoro ripercorre oltre due anni di ricerca di campo svolta dal gruppo di ricercatori della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dell’Università di Modena e Reggio Emilia e dell’Università di Bari in collaborazione con la Fondazione Sabattini e la FIOM CGIL di Bologna all’interno di alcune imprese metalmeccaniche bolognesi adottatrici di tecnologie digitali e dell’automazione riconducibili a Industria 4.0. 

Sono cambiati i processi di lavoro? Quali trasformazioni in atto all’interno delle fabbriche 4.0? Quale lo spazio di intervento e negoziazione del sindacato? Queste sono alcune delle domande alle quali gli autori cercano di fornire una risposta prendendo esplicitamente le distanze da una prospettiva deterministica della tecnologia, considerandone la non neutralità e il carattere non esogeno rispetto alla struttura sociale. 

Il libro, disponibile nelle librerie a partire dal 24 gennaio, verrà presentato in anteprima il 18 all’assemblea generale della FIOM di Bologna (presso il circolo Arci di San Lazzaro, Bologna) e il 21 presso lo stabilimento della Lamborghini (Sant’Agata Bolognese, Bologna). La prima presentazione pubblica si terrà il 7 febbraio presso la sala Borsa di Bologna (sarà possibile seguire la presentazione online).

Di seguito si riporta un estratto dalle Conclusioni:

Il lavoro […] riporta quanto si è potuto comprendere attraverso la metodologia di ascolto delle soggettività dei lavoratori e delle lavoratrici esposti alla doppia trasformazione organizzativa – i sistemi lean e ad alta prestazione – e tecnologica – Industria 4.0. Pur nel rispetto delle specificità che presentano le diverse imprese coinvolte nella ricerca, è possibile identificare alcune traiettorie comuni che sono emerse dall’analisi dei casi studiati. In tutte le imprese coinvolte nella ricerca sono in atto, anche se in diverso modo e in diversa misura, processi di standardizzazione delle attività lavorative, di densificazione dei tempi e di aumento dei ritmi lavorativi, di riconfigurazione delle gerarchie interne, di trasformazione delle competenze degli operatori non necessariamente verso «l’alto» (anzi, in alcuni casi è stato riportato dagli intervistati un processo di impoverimento delle competenze), di diffusione di sistemi premianti (o sanzionatori) sul piano individuale e di monitoraggio della prestazione individuale sempre più stringenti e pervasivi. Tutto ciò si accompagna al riconoscimento, da parte degli intervistati, di significativi miglioramenti degli ambienti lavorativi sul piano della salute e sicurezza e dell’ergonomia delle postazioni e degli strumenti di lavoro. Inoltre, nel caso di alcune specifiche figure lavorative, anche dei reparti di produzione, si è certamente verificato un aumento di responsabilità e un parallelo incremento della discrezionalità, intesa come margine di azione all’interno di uno spazio eteroregolato, nello svolgimento della propria attività di lavoro, a cui tuttavia non sembra corrispondere affatto un aumento dell’autonomia, intesa come capacità di regolare (nei modi e nei contenuti) il proprio processo di lavoro. Allo stesso tempo, nonostante l’evidente incremento dell’adozione delle tecnologie 4.0 lungo i processi produttivi di tutte le imprese studiate, risulta evidente l’importanza che continua a rivestire la componente umana nel processo di lavoro, la sua capacità critica di azione e decisione, senza la quale «la macchina si fermerebbe», con buona pace dell’idea della fabbrica a luci spente che tanto ha affascinato e in certa misura continua ancora ad affascinare intellettuali e divulgatori. Le descrizioni delle condizioni di lavoro e dell’organizzazione del lavoro che sono state raccolte e analizzate fanno giustizia di un’idea distopica delle trasformazioni in corso, senza che ciò renda meno forte una loro valutazione critica, aprendo così la strada ad una riflessione propositiva. Valutazione critica resa possibile dal presupposto generale […] da cui ha preso le mosse la ricerca, ovvero l’assunzione non deterministica della tecnologia. È solo a partire da qui, infatti, che è possibile porsi certe domande. È di pertinenza del sindacato la contrattazione sulla tecnologia? Quanto è compito dei delegati e delle delegate costruire contrattazione sul processo di lavoro mediato dalla tecnologia? Quanto la contrattazione sulla tecnologia riapre spazi di appropriazione e rifunzionalizzazione del sindacato, all’alba della nuova esigenza imposta da Industria 4.0 di dovere contrattare anche sull’algoritmo che definisce i tempi e i ritmi?”.


lunedì 17 gennaio 2022

Per una costituzione della Terra, di Luigi Ferrajoli

dalla pagina https://www.feltrinellieditore.it/opera/opera/per-una-costituzione-della-terra/#descrizione

Esistono problemi globali che non fanno parte dell’agenda politica dei governi nazionali, anche se dalla loro soluzione dipende la sopravvivenza dell’umanità. Il riscaldamento climatico, il pericolo di conflitti nucleari, le disuguaglianze, la morte di milioni di persone ogni anno per mancanza di alimentazione di base e di farmaci salva-vita e le centinaia di migliaia di migranti in fuga segnano il nostro orizzonte presente e futuro. In gran parte dipendono dall’assenza di limiti ai poteri selvaggi degli Stati sovrani e dei mercati globali. Tuttavia, secondo Luigi Ferrajoli, un’alternativa istituzionale e politica è possibile e la sua stella polare è una Costituzione della Terra. Non si tratta di un’ipotesi utopistica. Al contrario, è la sola risposta razionale e realistica allo stesso dilemma che Thomas Hobbes affrontò quattro secoli fa: la generale insicurezza determinata dalla libertà selvaggia dei più forti, oppure il patto di convivenza pacifica basato sul divieto della guerra e sulla garanzia dell’abitabilità del pianeta e perciò della vita di tutti. La vera utopia, l’ipotesi più inverosimile, è l’idea che la realtà possa rimanere così com’è: l’illusione cioè che potremo continuare a fondare le nostre democrazie e il nostro tenore di vita sulla fame e la miseria del resto del mondo, sulla forza delle armi e sullo sviluppo ecologicamente insostenibile delle nostre economie. Solo una Costituzione della Terra che istituisca un demanio planetario a tutela dei beni vitali della natura, metta al bando le armi, a cominciare da quelle nucleari, e introduca un fisco globale e idonee istituzioni globali di garanzia in difesa delle libertà fondamentali e in attuazione dei diritti sociali di tutti può realizzare l’universalismo dei diritti umani, assicurare la pace e, prima ancora, la vivibilità del pianeta e la sopravvivenza dell’umanità.

Una Costituzione della Terra non è un’utopia: è l’unica strada per salvare il pianeta, per affrontare la crescita delle disuguaglianze e la morte di milioni di persone nel mondo per fame e mancanza di farmaci, per occuparsi del dramma delle migrazioni forzate, per difendersi dai poteri selvaggi che minacciano la sicurezza di intere popolazioni con i loro armamenti nucleari.

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Luigi Ferrajoli è professore emerito di Filosofia del diritto all’Università Roma Tre. Giurista, filosofo del diritto e della politica, ha scritto Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale (Laterza 1989), Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia (Laterza 2007) e, fra i più recenti, Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana (Laterza 2011), La democrazia attraverso i diritti (Laterza 2013), Il paradigma garantista. Filosofia e critica del diritto penale (Editoriale Scientifica 2014), Iura paria. I fondamenti della democrazia costituzionale (Editoriale Scientifica 2015), La logica del diritto. Dieci aporie nell’opera di Hans Kelsen (Laterza 2016), La democrazia costituzionale (il Mulino 2016), Manifesto per l’uguaglianza (Laterza 2018), Perché una Costituzione della Terra? (Giappichelli 2021) e La costruzione della democrazia. Teoria del garantismo costituzionale (Laterza 2021).

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dalla pagina https://ilmanifesto.it/come-sottrarre-il-pianeta-allarbitrio-umano-e-del-mercato/

Saggi. «Per una costituzione della Terra» di Luigi Ferrajoli, edito da Feltrinelli. L’autore e giurista presenta con rigore intellettuale i cento articoli in cui si dovrebbe articolare


Due ragioni fondative ispirano le drammatiche riflessioni con cui Luigi Ferrajoli torna a riproporre in un volume più ampio la sua nota proposta di costituzione universale (Per una costituzione della Terra. L’umanità al bivio, Feltrinelli, pp 197, euro 20). La prima nasce da una conclamata insufficienza della tradizione giuridica occidentale, quella del costituzionalismo, vale a dire la concertazione normativa realizzata dagli stati nazionali moderni, grazie a cui la vita dei cittadini è stata sottratta all’arbitrio del potere sovrano e regolata secondo principi universali di diritti e doveri.

FERRAJOLI NON HA DUBBI sul fatto che le costituzioni nazionali siano oggi configurazioni giuridiche impotenti di fronte alla ormai piena unificazione del mondo e ai problemi inediti e gravi che questa pone. L’altra riguarda la presa d’atto, appunto, dello scenario gravido di pericoli mortali che l’attuale assetto internazionale, fondato su stati divisi e in competizione, squaderna davanti a noi.
È «inverosimile – scrive Ferrajoli – in mancanza di limiti e vincoli istituzionali, che quasi 8 miliardi di persone, 196 Stati sovrani, 10 dei quali dotati di armamenti nucleari, un capitalismo vorace e predatorio e un sistema industriale ecologicamente insostenibile, possano a lungo sopravvivere senza andare incontro alla devastazione del pianeta, fino alla sua inabitabilità, alle guerre endemiche senza vincitori, alla crescita delle disuguaglianze e della povertà».
Si tratta di una previsione per nulla allarmistica e agitatoria, e che ha trovato una paradossale e inquietante conferma in questi due anni di pandemia. Un biennio che ha mostrato gli effetti rovinosi di una economia interamente affidata al mercato, generatrice di danni ambientali sempre più estesi, di disuguaglianze e povertà, di scelte che hanno indebolito la sanità pubblica, lasciandola sguarnita di fronte all’emergenza sanitaria.

EBBENE, NONOSTANTE la diffusione del Covid 19 abbia mietuto nel mondo milioni di vittime e oggi appare tutt’altro che contenuta o indebolita, «non è stato fatto nulla» per prevenirla, né di strutturale per scongiurarne repliche nei prossimi anni. Moltissimo, invece, si è fatto e si continua a fare per i conflitti futuri: «In previsione delle guerre si accumulano armi, carri armati e missili nucleari, si fanno esercitazioni militari, si costruiscono bunker, si mettono in atto simulazioni di attacchi e tecniche di difesa». Com’è noto ai lettori del manifesto – uno dei pochi giornali che ne ha dato ampiamente conto – nel 2020 la spesa in armamenti, da parte degli stati più importanti del mondo, è stata raddoppiata.

MENTRE LO STATO PRESENTE della popolazione mondiale richiederebbe pace, cura della natura ferita, nuove economie di rigenerazione delle risorse, redistribuzione dei redditi, limitazione dell’inquinamento, contenimento della diffusione dei gas climalteranti, quasi tutte le nazioni si muovono come eserciti nemici.
Ai processi di interdipendenza sempre più stretta degli Stati, indotti dalla globalizzazione «ha fatto riscontro, in questi anni, anziché una più complessa articolazione istituzionale della sfera pubblica attraverso la creazione di funzioni globali di governo e di garanzia, una sua semplificazione: da un lato, la verticalizzazione e la personalizzazione dei poteri di governo in capo a leader o a ristrette oligarchie, che li rendono esposti alle pressioni dell’economia; dall’altro, lo sviluppo incontrollato del libero mercato, la crescente concentrazione e confusione tra poteri politici e poteri economici e la sostanziale subordinazione liberista dei primi ai secondi».
Alla luce di queste analisi, qui ridotte all’essenziale, selezionate da una densa massa di lucide e appassionate argomentazioni, Luigi Ferrajoli, eminente giurista, in perfetta solitudine, ha l’ardire intellettuale e politico di proporre una Costituzione della Terra. La presenta non nel senso che ne auspica la realizzazione, ma letteralmente la scrive, e la colloca in appendice al presente libro, in forma di Progetto, compiutamente definito, con i suoi 100 articoli.

SI TRATTA DI UNO SFORZO teorico di prima grandezza, che ripete, in condizioni mutate, un superbo e generoso gesto intellettuale della prima modernità: quello con cui Immanuel Kant, come ricorda l’autore, con il testo Per la pace perpetua perorava, nel 1795, «una costituzione civile» quale fondamento di «una federazione di popoli» estesa a tutta la terra. Ispirandosi a quel momento altissimo della civiltà europea, Ferrajoli tuttavia mostra con dovizia analitica oltre alla necessità, i vantaggi molteplici di una tale Costituzione.
Tra questi non possiamo dimenticare la possibilità di imporre limiti e vincoli ai poteri imprenditoriali, ponendo fine alla concorrenza al ribasso tra i lavoratori dei paesi ricchi e quelli privi di tutele «sulla base di un modello unitario e globale di diritti e garanzie del lavoro». Una conquista che porrebbe fine all’attuale asimmetria drammatica tra capitale e lavoro, che impedisce il conflitto, motore del progresso sociale, e costituisce forse la ragione ultima e fondativa delle disuguaglianze che lacerano il mondo e svuotano la democrazia.

 

sabato 15 gennaio 2022

Le associazioni cattoliche: «L’Italia firmi lo stop agli armamenti nucleari»

dalla pagina https://ilmanifesto.it/le-associazioni-cattoliche-litalia-firmi-lo-stop-agli-armamenti-nucleari/

Appello al governo. Tra i firmatari della missiva: Acli, Azione cattolica e Pax Christi

Greenpeace per mettere al bando le armi nucleari

«L’Italia firmi il Trattato Onu di proibizione delle armi nucleari». Lo chiedono, in un appello congiunto, i dirigenti nazionali di cinque fra le più importanti associazioni e movimenti cattolici italiani: Acli, Azione cattolica, Comunità papa Giovanni XXIII, movimento dei Focolari e Pax Christi.

La prossima settimana sarà un anno esatto dall’entrata in vigore del Trattato che dichiara illegale l’uso delle armi nucleari (Tpnw), adottato dall’Onu il 7 luglio 2017 e diventato esecutivo il 22 gennaio 2021, ovvero novanta giorni dopo la ratifica da parte di cinquanta Stati. L’Italia non è fra questi. Così come ovviamente non ci sono le potenze atomiche “ufficiali” (Usa, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina), che però lo scorso 4 gennaio, in un messaggio al Consiglio di sicurezza dell’Onu, hanno avuto l’ipocrisia di affermare che le armi nucleari rappresentano una grave minaccia per tutta l’umanità, che «non c’è modo di vincere una guerra nucleare» e che per questo «non deve mai essere combattuta».

Dopo un primo appello lo scorso 2 giugno, «Per una Repubblica libera dalle armi nucleari», che fu sottoscritto da 44 associazioni e movimenti del mondo cattolico, ora in cinque rilanciano l’iniziativa e chiamano a raccolta gli altri, chiedendo all’Italia di firmare, alla vigilia del primo anniversario dell’entrata in vigore del Trattato e anche in vista della Conferenza Onu di Vienna di marzo, quando si riuniranno i Paesi che finora lo hanno sottoscritto.

Citano don Primo Mazzolari: «Abbiamo bisogno di giustizia sociale, non di atomiche». E citano papa Francesco, che nel messaggio per la Giornata mondiale della pace ha denunciato l’aumento della spesa militare e il taglio agli investimenti per la scuola (v. il manifesto del 2 gennaio). E che lunedì scorso, incontrando in Vaticano gli ambasciatori dei 183 Paesi che hanno rapporti diplomatici con la Santa sede, ha detto che «le armi nucleari sono strumenti inadeguati e inappropriati a rispondere alle minacce contro la sicurezza», «il loro possesso è immorale», «la loro fabbricazione distoglie risorse alle prospettive di uno sviluppo umano integrale» e «il loro utilizzo, oltre a produrre conseguenze umanitarie e ambientali catastrofiche, minaccia l’esistenza stessa dell’umanità» (v. il manifesto del 2 gennaio).

Ma citano anche la proposta dei cinquanta premi Nobel, fra cui i fisici italiani Carlo Rubbia e Giorgio Parisi: un negoziato comune tra tutti gli Stati membri dell’Onu per ridurre del 2% ogni anno, per cinque anni, le spese belliche di ciascun Paese, liberando così un «dividendo di pace» di mille miliardi di dollari entro il 2030. E la campagna “Italia Ripensaci” (promossa da Rete disarmo e da Senzatomica), ramo italiano della Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari (Ican), che nel 2017 è stata premiata con il Nobel per la pace.

«Intendiamo rinnovare il nostro appello affinché anche il nostro Paese ratifichi il Trattato Onu, unendosi così agli oltre cinquanta altri Stati che l’hanno già fatto», scrivono nel documento Giuseppe Notarstefano (presidente nazionale Azione cattolica), Emiliano Manfredonia (presidente nazionale Acli), Giovanni Paolo Ramonda (responsabile generale Comunità papa Giovanni XXIII), Cristiana Formosa e Gabriele Bardo (responsabili nazionali Movimento Focolari) e monsignor Giovanni Ricchiuti (presidente nazionale di Pax Christi).
«Chiediamo che il governo del nostro Paese sia presente, almeno in qualità di osservatore, alla Conferenza di Vienna del prossimo mese di marzo 2022, che riunirà tutti i Paesi che hanno ratificato il Trattato Onu».

 

Per pace e clima ripartire dalla proposta dei premi Nobel

dalla pagina https://sbilanciamoci.info/per-pace-e-clima-ripartire-dalla-proposta-dei-premi-nobel/

 

Spese militari in forte aumento, nuovi sistemi d’arma basati sull’Intelligenza artificiale, crescenti tensioni, caratterizzano questa seconda guerra fredda. La società civile non è insensibile a fermare la geopolitica del caos, lo dimostra la proposta dei premi Nobel. Ma deve fare più pressione sulla politica, anche in Italia.

Un appello per la riduzione del 2% della spesa militare mondiale è stato lanciato da oltre cinquanta premi Nobel e presidenti di accademie scientifiche. Personalità scientifiche di altissimo valore hanno pubblicamente rilevato la pericolosità di una crescente spesa militare che si avvicina ai 2.000 miliardi con una crescita ininterrotta da diversi anni, in parallelo a tensioni in aumento nell’area del Pacifico asiatico.

La proposta dei Nobel consiste nella richiesta indirizzata ai governi di tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite affinché negozino una riduzione annuale congiunta delle loro spese militari del 2% per cinque anni consecutivi. In questo modo si avrebbe un tesoretto miliardario che potrebbe essere utilizzato al 50% in un fondo globale, sotto la supervisione delle Nazioni Unite, con lo scopo di affrontare le gravi sfide comuni dell’umanità come le pandemie, i cambiamenti climatici e la povertà estrema. L’altra metà potrebbe rimanere a disposizione dei singoli governi, per usarli, ad esempio, per la riconversione industriale delle aziende belliche verso una produzione civile. La cifra complessiva stimata si aggirerebbe intorno ai 1.000 miliardi di dollari entro il 2030. Non poca cosa, insomma.

I premi Nobel inoltre mettono in evidenza che una decisione di tal genere rappresenterebbe un segnale di fiducia, distensivo che aumenterebbe la sicurezza, pur mantenendo la deterrenza e l’equilibrio, riducendo comunque le tensioni e il relativo rischio di guerra.

Nel passato accordi di disarmo in campo nucleare (come gli accordi SALT e START tra USA e URSS) hanno portato non solo ad una riduzione numerica degli armamenti, ma anche ad una clima più disteso tra le due superpotenze. La scelta di diversi Stati di dismettere arsenali nucleari o non dotarsene ha comunque ridotto i rischi della proliferazione. Oggi la minaccia nucleare, ancora presente, purtroppo, si limita a “sole” 13.000 testate a fronte delle 70.000 della prima guerra fredda: si può comunque distruggere il mondo intero, anche se meno volte rispetto al passato!

Esiste anche un’altra campagna internazionale per la riduzione delle spese militari, la Global Campaign on Military Spending (più di 100 organizzazioni di 35 paesi diversi), a cui aderisce in Italia la Rete Italiana Pace e Disarmo, che chiede una riduzione ancora maggiore, del 10% e sin dal 2014.

I governi vorranno e sapranno rispondere a questi appelli? I dati sulla spesa militare mondiale non ci inducono ad essere ottimisti, dato che  si è passati dai 1.754 del 2009 ai 1.960 nel 2020, che – non va dimenticato – è stato l’anno della pandemia da Covid-19 e della conseguente crisi economica mondiale. 

A spendere di più sono soprattutto gli Stati Uniti seguiti dalla Cina: i primi con 778 miliardi di dollari nel 2020, la seconda con 252 miliardi di dollari. Poi vengono l’India (72,9 miliardi di dollari), la Russia (61,7 miliardi di dollari) e la Gran Bretagna (58,4 miliardi di dollari).

Questa enorme mole di denaro a disposizione per le spese militari contribuisce non solo ad aumentare la produzione e il commercio mondiale di armamenti, ma anche spinge la R&S verso nuove frontiere. 

Un recente rapporto del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute, l’istituto indipendente che studia la proliferazione bellica) sulle prime 100 aziende del settore bellico evidenzia un dato significativo: hanno fatturato ben 531 miliardi di dollari nel 2020, con un aumento dell’1,3% in termini reali rispetto all’anno precedente. Di queste ben 41 sono statunitensi, con un fatturato di 285 miliardi di dollari. Seguono aziende cinesi, russe, britanniche, francesi, tedesche, ecc.

Molta ricerca e sviluppo (R&S), come detto, si sta spingendo verso nuove frontiere: dai missili ipersonici alle armi autonome, mentre i droni sono entrati negli arsenali di moltissimi paesi. I mass media tendono a presentarci come particolarmente minacciosi questi nuovi sistemi d’arma in quanto sperimentati da paesi come Russia o Cina, dimenticando “casualmente” che anche paesi occidentali come gli USA (ma anche Francia, Gran Bretagna ed altri) ci stanno alacremente lavorando, tutti nella speranza di avere in mano – prima degli altri – una super-arma in grado di garantire la supremazia militare. Si dimentica la storia recente delle armi nucleari statunitensi, gelosamente tenute segrete nel secondo dopoguerra anche nei confronti degli alleati, ma che in breve sono diventate patrimonio diffuso al punto da far coniare il termine “club nucleare”. Quando viene realizzata una nuova arma, è solo questione di tempo: anche gli altri paesi se ne doteranno.

I missili ipersonici, in grado di volare velocissimi a quote molto basse e minori rispetto a quelli balistici tradizionali, e quindi con ridotti tempi di allerta da parte del destinatario, possono raggiungere l’obiettivo stabilito con testate convenzionali o nucleari, aumentando l’insicurezza, data l’incertezza dell’obiettivo e la tipologia della testata veicolata.

Per questo si sta provvedendo già alle contromisure: le due ditte statunitensi Northrop Grumman e L3Harris Technologies sono state incaricate dalla Missile Defense Agency di realizzare i prototipi dei sensori basati nello spazio che andranno a formare il nuovo sistema di monitoraggio e hanno iniziato a produrre gli HBTSS (Hypersonic and Ballistic Tracking Space Sensor) per ora a scopo dimostrativo, cioè il nuovo sistema di rilevamento e tracciamento dei missili balistici e ipersonici, e opereranno nell’orbita terrestre bassa. Peraltro questi sistemi funzioneranno solo se diffusi in quantità sufficiente e se saranno in grado di monitorare l’intero spazio terrestre: l’oscuramento di una parte di questa rete sarebbe un segnale d’allarme di un imminente attacco invisibile. La nuova frontiera delle guerre stellari. 

Dati i tempi sempre più ristretti, connessi a questi sistemi d’arma innovativi e agli altri che verranno, aumenta la pressione per dotare d’Intelligenza Artificiale (IA) le contromisure, visto che i tempi delle reazioni umane sono più lenti. L’Intelligenza Artificiale sta diventando un elemento importante di numerosi sistemi d’arma e sarà essa a decidere della vita o della morte di un presunto avversario. Sistemi antimissile, anti aereo e anti nave affidati all’IA stanno venendo sviluppati e prodotti, mentre da otto anni in seno alla Convenzione delle Nazioni Unite sulle armi convenzionali (CCW) si sta discutendo per regolamentarne l’uso, senza però venirne a capo.

L’opposizione costante di pochi paesi, in primis Stati Uniti e Russia, utilizzando la regola del consenso per bloccare ogni decisione, ha reso il confronto senza esito, nonostante la pressione di migliaia di esperti e scienziati di tecnologia e d’Intelligenza Artificiale. La Campagna Stop Killer Robots (di cui fa parte anche Rete Italiana Pace e Disarmo), il Comitato Internazionale della Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, 26 premi Nobel, che hanno messo in rilievo la pericolosità di tali strumenti, dovuta al concreto rischio di errori degli algoritmi e dei sistemi connessi, come è stato messo in rilievo anche da una apposita ricerca prodotta nel 2020 dall’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo. Di fronte alle resistenze succitate si sta facendo strada l’ipotesi di un accordo extra CCW, analogamente a quanto è stato fatto con trattati e convenzioni per vietare le mine antiuomo (nel 1997), le cluster bombs (nel 2008) e le armi nucleari con il TPNW (nel 2017).

Spese militari in aumento, nuovi sistemi d’arma, incremento dei commerci di armi e multipolarismo stanno a caratterizzare questa seconda guerra fredda che vede in atto forti tensioni non solo con la Russia, soprattutto per la vicenda ucraina, ma anche con la Cina nello spazio del Mar Cinese Meridionale (per le isole contese tra i vari paesi dell’area), per l’indipendenza di Taiwan e per la repressione in atto ad Hong Kong. A far da corollario a tutto questo permangono l’instabilità diffusa nel Medio Oriente (Iraq, Siria, Yemen, Israele/Palestina) e nel Nord Africa (Libia e Egitto innanzitutto), gli squilibri economici e il fenomeno migratorio, le “guerre dimenticate” del continente africano, e sullo sfondo la questione energetica con il passaggio a medio o lungo termine dalle fonti non rinnovabili ad altre nuove, questione che stravolgerà equilibri ed interessi consolidati per più di un secolo. Se poi mettiamo nel calderone le conseguenze dei cambiamenti climatici in atto, il mix appare decisamente preoccupante e l’espressione “geopolitica del caos”, coniata oltre venti anni fa da Ignacio Ramonet, sembra essere particolarmente pertinente. 

I toni usati dai leader delle varie potenze appaiono minacciosi. Putin avverte che l’eventuale passaggio dell’Ucraina nella NATO, che si posizionerebbe così direttamente ai confini della Russia, è una linea rossa invalicabile, mentre Biden annuncia la disponibilità ad intervenire direttamente con la forza militare in difesa di Kiev in caso d’invasione da parte delle forze di Mosca. Xi Jinping, che sta portando la Cina ad essere un protagonista mondiale anche della corsa agli armamenti, usa toni altrettanto duri riguardo le questioni già accennate e Washington risponde con la creazione di un nuovo patto, l’AUKUS, tra Australia, Gran Bretagna e gli Stati Uniti, finalizzato a fronteggiare la crescita del Dragone sulla scena mondiale. Primo atto di questa alleanza è rappresentato dalla lucrosa vendita di sottomarini nucleari statunitensi a Canberra, che ha annullato il contratto precedentemente firmato con la Francia per un valore di 56 miliardi di euro, suscitando di conseguenza le ire di Parigi.

Alla sconfitta cocente dell’Afghanistan, nell’Unione Europea si risponde con dichiarazioni tese a costituire una forza armata europea, come quella ipotizzata nel settembre scorso dalla presidente della Commissione, Ursula von Der Leyen, circa la formazione di un esercito di 5.000/6.000 uomini. A parte l’esiguità numerica della brigata, l’assenza di un vero governo europeo e di una vera politica estera e di sicurezza, condivisa tra i vari partner europei (tra cui quelli sovranisti), rimane il vero ostacolo ad ogni passo in tal senso. Non è casuale che, negli anni, si è riusciti a concretizzare solo una serie di finanziamenti alle industrie del settore. Infatti si sono stanziati ben 13 miliardi di euro per il 2021-27 attraverso il Fondo europeo per la difesa, con lo scopo di agevolare la coproduzione europea nel settore della produzione degli armamenti e un loro utilizzo condiviso nelle varie forze armate nazionali. Il dibattito di lunga data sulla difesa europea e il rapporto con la NATO – di complementarietà o di autonomia – è esemplare dell’impasse dell’Unione europea, mentre le Nazioni Unite sono messe da tempo in un angolo e il Consiglio di Sicurezza, dominato dal potere di veto dei cinque “grandi”, di fatto non svolge nessun ruolo pacificatore super partes.

In questo quadro frammentato l’UE, gigante economico ma nano politico, non riesce a svolgere nessun ruolo di rilievo sulla scena internazionale e si ritrova a muoversi spesso e volentieri in posizione ancillare rispetto alla potenza leader degli Stati Uniti, come ha dimostrato – anche tragicamente – la vicenda afghana. 

Occorre un salto di qualità delle forze politiche e dei governi nell’azione dei prossimi anni per superare i vecchi schemi nazionalistici, basati su immediati interessi nazionali che non hanno più spazio in un mondo globalizzato. L’uso della forza nei rapporti internazionali, spacciato come fattore risolutore delle crisi, ha dimostrato storicamente di non essere tale e solo precorritore di altre successive crisi e nuovi conflitti. 

In tal senso l’appello dei premi Nobel è importante perché dimostra che la società civile è sensibile e in grado di muoversi in modo indipendente. Lo stesso è avvenuto quando, a seguito di una campagna internazionale, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW), entrato in vigore nel 2021, nonostante l’opposizione del club nucleare e dei suoi alleati, Italia compresa. La Germania sembra intenzionata ora a partecipare come osservatore alla prima riunione degli Stati che fanno parte del TPNW, riunione che si terrà nel marzo 2022. In Italia, la campagna “Italia ripensaci” sta facendo pressione  affinché il nostro paese assuma posizioni più coraggiose, anche solo partecipando, analogamente alla Germania, ai lavori del marzo 2022. La società civile può creare le premesse per il salto di qualità suddetto: we can.

 

giovedì 13 gennaio 2022

L’Italia è il paese che a(r)mo: il governo Draghi stanzia 26 miliardi di spese militari per il 2022

dalla pagina L’Italia è il paese che a(r)mo: il governo Draghi stanzia 26 miliardi di spese militari per il 2022 - MILEX Osservatorio sulle spese militari italiane

Secondo le stime dell’Osservatorio Mil€x per l’anno 2022 la spesa militare da parte del Ministero della Difesa sfiorerà i 26 miliardi di euro (25.935 milioni per la precisione) con una crescita di 1.352 milioni di euro +5,4% rispetto al 2021.

Articolo di Tommaso Panza per il Digitale

Il governo Draghi tenta di fare l’ultimo (?) regalo al popolo italiano. Anche per il bilancio previsionale di Stato referente all’anno 2022 si avrà un corposo incremento del budget per il ministero della Difesa, nonché dell’intera spesa militare nazionale.

Secondo le analisi riportate dall’Osservatorio Mil€x il bilancio del ministero della Difesa per l’anno in corso vedrà gonfiarsi le cifre a disposizione della spesa militare di 1,35 miliardi di euro, il 5,4% in più del 2021.

Le spese militari del governo Draghi: raggiunta una cifra record
 
 
La spesa militare non è certo qualcosa che scopriamo adesso, per i riarmi annuali del paese esistono dei fondi pluriennali per mantenere costante l’investimento militare, ma viene da chiedersi come faccia il paese in un momento di totale crisi, in cui le scuole chiudono, il sistema di tracciamento del virus è saltato e il lavoro è ai minimi storici, ad aver bisogno di incrementare di miliardi la spesa militare.

Da ricordare che il grande escluso nell’ultima legge di bilancio è stato il bonus salute mentale per tutti coloro non in grado di sostenere economicamente un percorso di psicoterapia.

La legge del 30 dicembre 2021, Legge di Bilancio, da 36.5 miliardi di euro è entrata in vigore lo scorso 1° gennaio.

Il governo Draghi, per l’anno corrente, ha previsto fondi destinati al sostegno psicologico degli studenti, ma non ha previsto alcun sussidio per chi necessita di assistenza psicologica, soprattutto da quando è cominciata la pandemia.

L’aumento per l’anno 2022 vede protagonista al rialzo proprio il bilancio del ministero della Difesa del governo Draghi che quest’anno per la spesa militare sfiora complessivamente i 26 miliardi di euro (25.935 milioni) con una crescita di 1.352 milioni di euro (+5,4% rispetto al 2021).

L’aumento è derivato da decisioni prese in passato: il bilancio attuale prevedeva in realtà un totale complessivo di 25.904 milioni, ci sarebbero in più “solo” circa 31 milioni (Sezione I della Legge di Bilancio).

Le voci interne per l’incremento del bilancio della Difesa del governo Draghi sono così distribuite:


2022 2021 Differenza %
MINISTERO DELLA DIFESA


Stato Maggiore, Segretariato Generale, BilanDIFE € 7.980.894.002,00 € 6.783.656.906,00 17,65%
Esercito € 5.551.699.569,00 € 5.547.954.688,00 0,07%
Marina Militare € 2.241.884.450,00 € 2.020.782.729,00 10,94%
Aeronautica Militare € 2.891.680.221,00 € 2.978.096.301,00 -2,90%
Carabinieri € 543.000.000,00 € 586.000.000,00 -7,34%




MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO


Capitoli di spesa acquisizione nuovi sistemi d’armamento € 2.892.498.073,00 € 3.258.851.803,00 -11,24%




MINISTERO DELLA DIFESA


Fondo missioni all’estero (solo parte militare) € 1.257.750.000,00 € 1.334.610.000,00 -5,76%




INPS


Quota pensioni militari € 2.300.000.000,00 € 2.300.000.000,00 0,00%




ALTRI FONDI diretti € 164.247.720,00 € 164.247.720,00 0,00%




TOTALI € 25.823.654.035,00 € 24.974.200.147,00 3,40%

 

Come evidenziato a più riprese dall’Osservatorio Mil€x “l’importo totale del Bilancio della Difesa è solo il punto di partenza per valutare la spesa militare italiana complessiva”, che come si vede nella tabella deve registrare le cifre da distribuire ad altri ministeri (principalmente il fondo per le missioni militari all’estero che viene istituito presso il ministero dell’Economia e delle Finanze e i fondi che il ministero per lo Sviluppo Economico mette a disposizione per acquisizione e sviluppo di sistemi d’arma).

Sottraendo “per coerenza di destinazione e tipologia di utilizzo” la grande maggioranza del bilancio all’Arma dei Carabinieri (in particolare la parte forestale) che viene considerata solo per la componente legata alle missioni all’estero.

L’Osservatorio Mil€x analizza la spesa militare del governo Draghi

La nuova metodologia di studio dell’Osservatorio Mil€x sulla spesa militare, prevede inoltre altre voci: quota parte costo basi USA, ammortamenti mutui su spesa armamenti MISE, impatto delle pensioni militari.

Secondo queste analisi abbiamo una valutazione tendenziale della spesa militare complessiva per il 2022 del governo Draghi pari a circa 25,82 miliardi di euro (che diventano 26,49 miliardi con ulteriori costi indiretti).

Ciò significa un aumento di 849 milioni rispetto alle medesime valutazioni effettuate sul 2021 con una crescita percentuale del 3,4% rispetto all’anno precedente e di addirittura dell’11,7% sul 2020 e del 19,6% sul 2019.

I dati sono raggruppati in macro voci e non forniscono dettagli su quali siano i sistemi d’armamento che verranno acquisiti, le specificità dei sistemi di armamento sono riportate nel Documento Programmatico Pluriennale del Ministero della Difesa.

L’incremento totale del governo Draghi sulla spesa militare è dunque così diviso: poco oltre i 5,39 miliardi di euro (in crescita di ben 1,3 miliardi) nel bilancio del ministero della Difesa e 2,89 miliardi complessivi (- 350 milioni rispetto allo scorso anno) in quello del ministero per lo Sviluppo Economico.

A questi andrebbero aggiunti ulteriori 105 milioni per gli interessi sui mutui accesi dallo Stato per conferire in anticipo alle aziende le cifre stanziate per specifici progetti d’arma pluriennale.

Ciò porta dunque ad un nuovo record di fondi destinati all’acquisto di nuove armi che arrivano ad un totale di 8,27 miliardi, superiore di un miliardo (+13,8%) alla cifra complessiva del 2021 (che a sua volta costituiva un massimo storico) e con un salto del 73,6% negli ultimi tre anni (+3,512 miliardi rispetto ai 4,767 miliardi del 2019).

Questo ultimo dato è conseguente alla quantità senza precedenti di nuovi programmi di riarmo che il Ministero della Difesa sta sottoponendo al Parlamento a ritmo serrato e che quindi saranno avviati il prossimo anno.
 
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dalla pagina https://www.micromega.net/2022-record-spesa-militare-italiana/

2022, anno record per la spesa militare italiana

Il Bilancio del ministero della Difesa per il 2022 sfiora i 26 miliardi di euro con un aumento di 1,35 miliardi. A cosa servono tutte queste armi?

Giorgio Pagano

Cinquanta premi Nobel e scienziati di ogni Paese – tra gli altri Carlo Rubbia e Giorgio Parisi – hanno rivolto un appello, in modo semplice e diretto, ai governi del mondo per una riduzione concordata della spesa militare del 2 per cento ogni anno, per cinque anni. Domenico Gallo, su MicroMega.net, ha giustamente evidenziato sia l’importanza politica del documento sia il fatto che la politica non si sia sentita minimamente interrogata: “Questa notizia semplicemente è sparita dai radar della politica. Nessuno dei leader politici italiani, adusi a una presenza attiva nel teatrino politico italiano, in questi giorni particolarmente impegnati in un vacuo chiacchiericcio sul Quirinale, ha reputato di spendere una sola parola sulla proposta dei cinquanta premi Nobel, nemmeno per dire: non sono d’accordo”.

Il motivo è chiaro: l’unanime adesione delle forze politiche al forte incremento, anche in Italia, delle spese militari.

Il Presidente del Consiglio Draghi lo aveva detto il 29 settembre dello scorso anno durante la conferenza stampa sulla “Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza” (Nadef), il primo passo in vista dell’elaborazione della legge di bilancio: “Ci dobbiamo dotare di una difesa molto più significativa e bisognerà spendere molto di più di quanto fatto finora”.

Draghi è stato di parola. La spesa militare prevista per il 2022 supererà il muro dei 25 miliardi di euro (25,8 miliardi). Il dato si ricava dal report dell’Osservatorio Milex sul bilancio previsionale dello Stato per il 2022: “Il Bilancio del ministero della Difesa per il 2022 sfiora i 26 miliardi di euro con un aumento di 1,35 miliardi, ma vanno poi aggiunti gli stanziamenti di altri ministeri”.

Dal 2017 la spesa militare italiana ha continuato a crescere soprattutto per l’acquisto di nuovi armamenti: lo stanziamento nel 2022 segna un record storico. Spiega Giorgio Beretta, analista della Rete Pace e Disarmo:

“Nei mesi scorsi il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha sottoposto all’approvazione del Parlamento un numero senza precedenti di programmi di riarmo: diciotto, di cui ben tredici di nuovo avvio, per un valore già approvato di 11 miliardi di euro e un onere complessivo previsto di 23 miliardi. La parte del leone è dell’Aeronautica con programmi per oltre 6 miliardi di euro. C’è di tutto: dai fondi per il nuovo cacciabombardiere Tempest (2 miliardi dei 6 previsti) che si aggiungerà agli F-35, ai nuovi eurodroni classe Male; dagli aerei Gulfstream per la guerra elettronica alle nuove aerocisterne per il rifornimento in volo. Una grossa fetta della torta è destinata alle nuove batterie missilistiche antiaeree per missili Aster (2,3 miliardi di euro) e ai nuovi blindati Lince: ben 3.600 rimpiazzeranno i 1.700 già in dotazione all’Esercito. Non solo. Negli ultimi giorni dell’anno ne sono stati aggiunti cinque portando a ventitré il numero dei programmi che il ministro della Difesa ha inviato alle Camere nel 2021 (record storico assoluto) per un valore complessivo che supera i 12 miliardi di euro e autorizzazioni di spesa annuale per oltre 300 milioni nel 2021 e per quasi mezzo miliardo nel 2022”.

Se ne discute molto poco, e in un contesto di “unità nazionale” ben prima del governo Draghi. La domanda chiave è: a cosa servono tutte queste armi? Si può rispondere solo cercando di comprendere il “nuovo concetto di difesa” in elaborazione da anni, per cui il concetto di difesa non si applica più ai confini nazionali ma agli interessi economici e geo-strategici, cioè ovunque l’interesse nazionale possa essere minacciato.

La “Direttiva per la politica industriale della Difesa“ emanata lo scorso luglio da Guerini, è inserita in questo contesto ed esprime un’ulteriore novità: l’Italia deve “disporre di uno strumento militare in grado di esprimere le capacità militari evolute di cui il Paese necessita per tutelare i propri interessi nazionali” per dare impulso “al consolidamento del vantaggio tecnologico e, quindi, della competitività dell’industria nazionale di settore”. Si tratta, rileva Beretta, di “una novità assoluta non solo perché è la prima direttiva in materia di politica industriale-militare emanata del dopoguerra, ma soprattutto perché definisce un inusitato rapporto tra industria e forze armate: le sinergie tra la Difesa e l’industria militare travalicano infatti le consuete esigenze di modernizzare gli strumenti militari e vengono rese funzionali alla ‘proiezione internazionale’ dell’Italia”.

Da qui la necessità, come spiega sempre Guerini, di superare il rapporto tra le Forze Armate e l’industria di tipo “cliente-fornitore” per favorirne invece la sinergia come “Sistema Difesa” finalizzata, tra l’altro, alla “proiezione sui mercati esteri” degli armamenti. In una parola: il ministero della Difesa viene messo al servizio dell’industria degli armamenti. In aperto contrasto con la Costituzione.

Ma c’è un’altra grande questione ancora, di cui si parla troppo poco. L’Italia è in procinto di raddoppiare il contingente militare in Iraq per poter assumere il comando della missione della Nato: trasformerà la partecipazione militare italiana in una vera operazione di combattimento rispetto a quella che finora era solo una presenza per la difesa di aree sensibili e per l’addestramento dell’esercito iracheno. Per adempiere al nuovo compito i vertici militari si sono affrettati a chiedere di poter armare i droni Reaper con missili aria-terra e bombe a guida laser – trasformandoli così da semplici ricognitori a veri bombardieri – e di dotarsi di una flotta di Hero-30, i cosiddetti “droni kamikaze” che si autodistruggono nel colpire l’obiettivo. La missione diventa in questo modo la principale missione italiana all’estero. Ma perché una missione così consistente?

Forse il vero scopo è quello di proteggere gli interessi delle multinazionali del petrolio e del gas. Come ha rivelato una ricerca di Greenpeace, due terzi delle spese delle operazioni militari all’estero dei Paesi europei riguardano la difesa di fonti fossili: l’Italia negli ultimi quattro anni ha speso 2,4 miliardi di euro nelle missioni militari collegate a piattaforme estrattive, oleodotti e gasdotti che riguardano l’ENI.

Dopo la disastrosa missione in Afghanistan ci stiamo imbarcando in questa nuova operazione militare. Senza alcun dibattito pubblico sui suoi obiettivi. Hanno ragione le quarantasette organizzazioni, coordinate dalla Rete Pace e Disarmo, che in un loro documento hanno chiesto la sospensione della guida italiana della NATO in Iraq.

Il compito degli europei, si legge nel documento, dovrebbe essere quello di favorire la liberazione dell’Iraq dalla morsa del conflitto che oppone Stati Uniti e Iran. E sostenere lo sviluppo economico, la democrazia e i diritti umani. Ma questo non si fa con gli eserciti, bensì “collaborando con l’attivo sostegno alla società civile irachena”. Una tale missione di addestramento “dopo quanto successo in Afghanistan, su cui non si è nemmeno fatta una seria analisi, dovrebbe almeno essere rivalutata. Il rischio concreto è che l’Italia rimanga invischiata nella lotta per il controllo dell’Iraq, per conto di altri Paesi, senza nemmeno un dibattito pubblico. E senza che ne abbia nemmeno un diretto interesse. Con la conseguenza, tra l’altro, di nuovi gravi rischi anche per la sicurezza delle organizzazioni umanitarie italiane che lì operano. Rischi dovuti alla confusione tra presenza civile e militare”. Le quarantasette organizzazioni firmatarie concludono: “Chiediamo la sospensione della decisione di assumere la guida della NATO in Iraq e del processo di acquisizione di questi armamenti. E l’apertura di un dibattito pubblico, o almeno parlamentare, su modelli, obiettivi, strumenti della attuale presenza italiana in Iraq”.

Possibile che le lezioni della storia non ci insegnino nulla?

 

(credit foto ANSA/GIUSEPPE LAMI)