mercoledì 29 settembre 2021

Oltre la dittatura del Pil

dalla pagina https://comune-info.net/oltre-la-dittatura-del-pil/ 

Presentato a Napoli il primo Rapporto “Verso il Benessere Interno Lordo (BIL)”. Un lavoro di ricerca che ha prodotto un nuovo indicatore di benessere da utilizzare come valido strumento per cambiare e riorientare le politiche pubbliche verso un nuovo modello di sviluppo fondato sulla sostenibilità, la qualità sociale, i diritti


Giulio Marcon 

Lo scorso 14 settembre è stato presentato a Napoli in un convegno partecipato il primo rapporto Verso il Benessere Interno Lordo (BIL), realizzato dall’Università degli Studi di Napoli “Parthenope” e dalla Campagna Sbilanciamoci!: una ricerca di un anno che ha visto la partecipazione di economisti, statistici, sociologi, esponenti delle organizzazioni della società civile.

Il convegno ha messo in evidenza l’importanza della continuazione di un lavoro di ricerca e di confronto che scalfisca la “dittatura del PIL” a favore di strumenti  di analisi e di indicatori (non solo macro-economici), che siano più adeguati a valutare il benessere e la qualità della vita del paese e, soprattutto, a influenzare ed indirizzare le politiche pubbliche dei governi.

Negli ultimi 30 anni se n’è molto discusso e in alcuni paesi (tra cui l’Italia) gli indicatori di benessere sono stati anche inseriti nelle leggi e nei documenti di programmazione delle politiche economiche e finanziarie. Va detto però che l’efficacia del loro utilizzo è assai dubbia.

Naturalmente, un indice sintetico come il BIL si espone al rischio della sottovalutazione degli indicatori specifici, che sono importantissimi nel valutare le politiche concrete su aspetti come la riduzione delle emissioni di CO2, la lotta alle diseguaglianze, l’aumento dei servizi per l’infanzia e tanto altro ancora.

Ma secondo noi la sfida è proprio quella di combinare il lavoro sugli indicatori specifici organizzati per domini tematici (il lavoro, la salute, l’istruzione, ecc.) con  il valore di un indice sintetico da affiancare al PIL, la cui forza comunicativa – sappiamo – è di essere un numero semplice da leggere e rappresentare.

Al di là di queste avvertenze, il tema di fondo rimane lo stesso: come cambiare e riorientare le politiche pubbliche verso un nuovo modello di sviluppo fondato sulla sostenibilità, la qualità sociale, i diritti.

Serve una coerenza tra queste politiche, per evitare controproducenti schizofrenie: politica industriale, fiscale, sociale, ambientale, ecc. devono marciare in un’unica direzione.

E poi, per gli indicatori di benessere, serve qualcosa di più stringente e impegnativo nelle politiche: gli indicatori di benessere non possono essere un’ operazione di marketing o un gadget comunicativo.

Come è stato detto nel convegno, questi devono avere un carattere vincolante per le politiche pubbliche, altrimenti servono a poco.

Ecco perché la nuova frontiera del Benessere Interno Lordo, ancora da esplorare e conoscere completamente, è fondamentale per cambiare strada dello sviluppo volto al paese. Un lavoro da continuare, come il convegno di Napoli ci ha invitato a fare.

Video del convegno 

 

lunedì 27 settembre 2021

UNA «RETRIBUZIONE UNIVERSALE»

dalla pagina https://www.laciviltacattolica.it/articolo/una-retribuzione-universale/


Un urgente discernimento collettivo


Gaël Giraud | Quaderno 4079 | pag. 429 - 442 | Anno 2020 | Volume II | 6 Giugno 2020

Nella sua Lettera ai movimenti popolari, pubblicata nel giorno di Pasqua, il 12 aprile 2020, papa Francesco ha chiesto l’istituzione di una «retribuzione universale» di base: «Forse è giunto il momento di pensare a una forma di retribuzione universale di base che riconosca e dia dignità ai nobili e insostituibili compiti che svolgete; un salario che sia in grado di garantire e realizzare quello slogan così umano e cristiano: nessun lavoratore [ndr - nessuna persona] senza diritti»[1].
La proposta non ha mancato di suscitare reazioni, sia entusiaste sia critiche. Queste sue affermazioni significano forse che il Santo Padre abbraccia la causa di un reddito universale, versato a tutti, senza condizioni? O egli intende difendere il principio del giusto salario per tutti i lavoratori? E poi, se davvero si sta parlando di un reddito universale senza condizioni, in che modo un’attenzione autenticamente evangelica ci può orientare per valutare bene le condizioni pratiche di una sua attuazione? Oppure si tratta semplicemente di un’utopia irrealizzabile?
Sono domande che vanno poste, tanto più oggi, dal momento che la gestione «medievale» della pandemia di coronavirus praticata da molti Paesi[2] minaccia di far sprofondare gran parte del nostro Pianeta in una depressione economica grave almeno quanto quella vissuta in Occidente negli anni Trenta del secolo scorso. Di fronte all’esplosione di disoccupazione e povertà, che d’ora in poi probabilmente ci accompagnerà per tutto il decennio 2020, anche in gran parte dell’Europa e degli Stati Uniti, questa «retribuzione universale» può essere considerata una delle soluzioni per aiutarci a uscire dalla trappola deflazionistica? Essa può contribuire a risolvere anche l’enorme sfida della povertà globale?
Una questione teologale
Il problema principale posto dalla Lettera del vescovo di Roma è il riconoscimento di questi fratelli e sorelle dei movimenti popolari e di coloro per i quali essi lavorano: «So che molte volte non ricevete il riconoscimento che meritate perché per il sistema vigente siete veramente invisibili. Le soluzioni propugnate dal mercato non raggiungono le periferie, dove è scarsa anche l’azione di protezione dello Stato»[3]. Francesco invita a combattere l’invisibilità di questi «poeti sociali», con lo stesso sguardo attento avuto da Cristo verso quella vedova che versava discretamente il suo obolo nel tesoro del tempio (cfr Mc 12,38-44).
Questa sfida è spirituale e politica insieme. Essa richiede certamente una conversione dello sguardo individuale di ognuno di noi, ma anche una riforma delle strutture sociali che producono e mantengono l’invisibilità di coloro che vivono alla periferia delle nostre società[4]. La possibilità di risultare visibili nello spazio pubblico non si fonda esclusivamente sulle prestazioni individuali, ma dipende dalle regole sociali che legittimano e migliorano la nostra vita ordinaria o, al contrario, la rendono precaria e la squalificano. Visibilità e invisibilità non sono affatto qualità naturali, ma modi sociali di confermare o negare i nostri stili di esistenza[5]. Declassamento, emarginazione e mancanza di lavoro marginalizzano le persone al punto di cancellarle, escludendole da tutte le forme di partecipazione; il lavoratore subordinato, il precario, l’escluso, il disoccupato, la vedova, l’orfano, il rifugiato, il senzatetto, il paziente diventano così sempre meno udibili, sempre meno visibili.
Quali riforme delle nostre istituzioni possiamo attuare per spezzare l’invisibilità in cui viene mantenuta la periferia delle nostre società, a volte anche all’interno della Chiesa? Come sottolinea Francesco nell’intervista recentemente pubblicata da La Civiltà Cattolica, quello che la tradizione cristiana chiama Spirito Santo «deistituzionalizza» ciò che nella Chiesa non ha più bisogno di essere e «istituzionalizza» il futuro[6]. Va detto subito che questa disgregazione creativa dello Spirito non può essere limitata alle istituzioni ecclesiali, se non altro perché queste non sono state sviluppate in abstracto, ma sono ancora situate dentro una specifica società e in una storia. La tensione spirituale tra «disordine» e «armonia», evocata da Francesco, attraversa quindi tutte le nostre istituzioni[7]. Riformarle è una questione teologale, anche quando si tratta di istituzioni secolari come quelle per determinare il reddito dei cittadini.
Salario minimo o reddito universale?
È dentro l’orizzonte di questa domanda spirituale e politica che s’inserisce la proposta di una «retribuzione universale». Si tratta di un salario minimo riservato a coloro che hanno un lavoro, o di un reddito universale destinato a tutti, senza condizioni?
Per gli economisti esperti in queste distinzioni, la formulazione del Papa è ambigua. Ad esempio, agli occhi di un sindacalista francese come Joseph Thouvenel, segretario della Confederazione francese dei lavoratori cristiani, le osservazioni di Francesco non possono essere interpretate come un alibi per coloro che «oziano»[8], ma possono essere solo un’allusione alla teoria del «giusto salario», formalizzata da Tommaso d’Aquino e poi ripresa da Leone XIII nell’enciclica Rerum novarum (1891). In questo caso, la proposta del Papa equivarrebbe a stabilire un salario minimo garantito. In effetti, l’attuale globalizzazione del «mercato» del lavoro implica logicamente che anche le regole che consentono di evitare tutte le possibili distorsioni siano globali; altrimenti imporre un salario minimo in un certo Paese o in un altro fornirà solo un incentivo alle aziende per delocalizzare le proprie attività altrove.
Diversi economisti, tra cui Thomas Palley[9], propongono di imporre un salario minimo, pari al 50% del salario mediano di tutti i Paesi del Pianeta. In Italia, ciò equivarrebbe a fissare uno stipendio mensile minimo di circa 1.860 euro (anziché i 500 attuali): un quarto della forza lavoro italiana attualmente riceve uno stipendio inferiore a tale importo, e questa quota rischia di aumentare nei prossimi anni. Contrariamente a quanto di solito si afferma, questo non causerebbe un’esplosione della disoccupazione[10], porterebbe ad aumenti abbastanza piccoli dei costi di produzione[11] e, d’altra parte, cambierebbe la vita a molti «lavoratori poveri», anche in Germania.
Tuttavia l’elenco dei beneficiari della «retribuzione universale» alla quale allude papa Francesco va oltre la categoria dei salariati stricto sensu: «venditori ambulanti, raccoglitori, giostrai, piccoli contadini, muratori, sarti, quanti svolgono diversi compiti assistenziali […], lavoratori precari, indipendenti, del settore informale o dell’economia popolare, non avete uno stipendio stabile per resistere a questo momento»[12]. Le varie traduzioni della Lettera pontificia fanno pensare che il termine «salario» non possa essere interpretato rigorosamente: salairesalariossalário e wage, ma anche Grundeinkommen retribuzione. Coloro che devono uscire dall’invisibilità sono anche i «malati e [gli] anziani. Non compaio­no mai nei mass media, al pari dei contadini e dei piccoli agricoltori che continuano a coltivare la terra per produrre cibo senza distruggere la natura, senza accaparrarsene i frutti o speculare sui bisogni vitali della gente»[13].
A chi si rivolge, dunque, la proposta del Papa? A tutti i «lavoratori». Una casalinga, per esempio, i cui servizi, dal momento che non sono sul mercato, non vengono mai presi in considerazione nel calcolo del Pil, fornisce una prestazione «lavorativa»? Chi sono questi «lavoratori», se non vengono riconosciuti da uno status che li qualifichi come tali? È proprio in questa loro invisibilità che sta il problema che Francesco vuole risolvere. Crediamo che la risposta si trovi negli stessi «invisibili». Francesco scrive: «La nostra civiltà […] ha bisogno di un cambiamento, di un ripensamento, di una rigenerazione. Voi siete i costruttori indispensabili di questo cambiamento ormai improrogabile»[14]. E non sarebbe compito di questi oscuri lavoratori definire i connotati di quella «retribuzione universale» che Francesco chiede? Di modo che «l’accesso universale a quelle tre T […]: tierratecho e trabajo (terra – compresi i suoi frutti, cioè il cibo –, casa e lavoro)»[15] sia garantito loro nelle condizioni che essi stessi ritengono più adeguate?
Dopotutto, i dibattiti che ruotano attorno alla definizione di un salario minimo o di un reddito universale sono prevalentemente condotti da coloro che appartengono al centro della società. È senza dubbio il momento di dare voce ai senza voce, in modo che essi stessi possano aiutare a decidere quale significato dovrebbe essere dato a una «retribuzione universale», piuttosto che subire ancora la violenza delle definizioni e degli standard imposti dal centro.
È questa inversione di prospettiva – dal centro alla periferia – che guida, per esempio, il movimento ATD-Quarto mondo e il pensiero di padre Joseph Wresinski[16]. Questo cambiamento di prospettiva non è estraneo all’approccio di alcuni economisti. Esso sta alla base, per esempio, della costruzione di indicatori statistici su base partecipativa, come il Barometro delle disuguaglianze e povertà (BIP 40), realizzato in Francia nel 2002 da e con comuni cittadini[17].
Utopia o riforma profetica?
È quindi giustificato che il Movimento francese per un reddito di base concluda cautamente che il Papa «si sta avvicinando alla causa del reddito universale»[18]. A patto di comprendere che, se «si avvicina» a esso e basta, non è per timidezza, ma è perché sta prima di tutto alle stesse persone senza voce decidere ciò che vogliono per loro. Il rispetto della dignità delle persone deve spingersi fino a tal punto.
Tuttavia, l’interpretazione che proponiamo qui implica che sia possibile che la «retribuzione universale» a cui allude Francesco sia intesa come «reddito universale» nel senso comune, qualora gli invisibili delle nostre periferie decidessero così.
Sono cinque i criteri usati normalmente per definire il reddito universale. Esso è:
  1. un versamento periodico, a differenza dell’assegno una tantum di 900 dollari che il governo australiano ha inviato ai suoi cittadini nel 2009 per superare le conseguenze della crisi finanziaria; o di quello di 1.000 dollari che l’amministrazione Trump ha appena fatto avere alle famiglie americane[19];
  2. un trasferimento monetario, cioè non in natura, che offre a tutti la libertà di fare ciò che vogliono con i propri soldi, ma presuppone, ad esempio, l’apertura di un conto bancario, un’operazione non abituale per molti tra i più poveri;
  3. un contributo personalizzato: il pagamento viene effettuato su base individuale e non, ad esempio, su base familiare dal punto di vista fiscale;
  4. universale: non viene sottoposto ad alcun particolare requisito;
  5. incondizionato: il pagamento non è coperto da alcun obbligo per il beneficiario, in particolare quello di dover cercare lavoro.
Ricordiamo alcuni ordini di grandezza. La Banca mondiale ha identificato la soglia della povertà estrema al livello di 1,9 dollari di retribuzione giornaliera, a parità di potere di acquisto. Ma è opinione largamente condivisa tra i ricercatori economici che questa convenzione sottostimi ampiamente i bisogni reali di un essere umano sano, capace di condurre una vita dignitosa. Un reddito minimo di 7,4 dollari al giorno sembra molto più ragionevole[20].
Nel 2018, oltre 4,2 miliardi di persone (il 60% della popolazione mondiale) vivevano ancora al di sotto di tale soglia, e questo numero aumenterà notevolmente nei prossimi mesi a causa delle conseguenze catastrofiche del lockdown. Quale flusso di reddito annuale sarebbe necessario per consentire a questa gente di vivere al di sopra di tale soglia? Senza entrare nei dettagli dei calcoli sulla parità del potere d’acquisto, possiamo rispondere che costerebbe meno di 13 mila miliardi di dollari. Questa può sembrare ad alcuni una cifra considerevole: è vicina al Pil nominale della Cina nel 2018. Tuttavia, uno studio della Ong Oxfam[21] mostra che, nello stesso anno, l’1% degli individui più ricchi del Pianeta ha percepito un reddito annuo di 56.000 miliardi di dollari (pari all’80% del Pil mondiale). Se solo «prelevassimo» un quarto di tale reddito, esso sarebbe sufficiente per finanziare un reddito base di 7,4 dollari al giorno (e anche di più) per quella parte dell’umanità che ne è privata. Dopo il «prelievo», al più alto percentile di questi super-ricchi resterebbero ancora in media 47.500 dollari di reddito mensile a persona: questo dovrebbe essere sufficiente per consentire loro di continuare a condurre una vita «dignitosa».
Non pretendiamo di sostenere che un tale «prelievo» sia politicamente facile da mettere in pratica. Tuttavia queste semplici cifre ci ricordano che, contrariamente a una comune convinzione, il problema del finanziamento di un reddito di base non consiste nella «mancanza di risorse». Allo stesso modo, se, secondo le stime delle Nazioni Unite, 820 milioni di persone soffrono ancora la fame nel mondo – e questo numero purtroppo aumenterà nei prossimi mesi a causa dell’attuale situazione di emergenza –, non è perché la biomassa prodotta dal Pianeta non è in grado di nutrire l’umanità: si tratta di un problema politico ed etico di distribuzione della ricchezza.
L’immaginario neo-liberale della scarsità, che ci conduce facilmente a pensare che una proposta generosa sia impossibile, è fuorviante: viviamo su un Pianeta sovrabbondante – sebbene minacciato da una crisi ecologica – e in un’economia mondiale molto ricca, sebbene rischi di diventare considerevolmente più povera a causa del lockdown e del confinamento.
Le due forme di reddito universale
Per andare oltre nell’esaminare la loro concreta fattibilità, dobbiamo distinguere almeno due forme di «reddito universale»: la prima, diremmo, «di destra», ispirata a criteri di efficienza economica; l’altra, «di sinistra», orientata dal desiderio di giustizia sociale. Questa distinzione elementare ci costringe però immediatamente a uscire da facili dicotomie: il reddito universale non è né di destra né di sinistra, ma è trasversale alle nostre categorie politiche tradizionali.
Il primo tipo di reddito di base ha le sue origini nel lavoro dell’economista di Chicago Milton Friedman[22] ed è pensato per sostituire tutti gli altri tipi di trasferimenti sociali, rendendo così superflua l’introduzione di un salario minimo. I suoi promotori nutrono la speranza di un’ulteriore flessibilizzazione del «mercato del lavoro» e di una riduzione della spesa pubblica per la solidarietà, o persino di un completo abbandono, da parte dello Stato, del suo ruolo decisionale sui redditi da lavoro dei cittadini. La carità, «più adattabile e flessibile» rispetto allo stato sociale, afferma Friedman, riacquisterebbe così un posto di rilievo nella lotta contro la povertà.
Chi contesta tale proposta sostiene che essa equivarrebbe a garantire un reddito minimo di sussistenza che rende schiavo l’«esercito di riserva» dei cittadini, costretti a farsi assumere a qualsiasi condizione pur di migliorare le proprie condizioni di vita ordinaria. È senza dubbio questo tipo di preoccupazione che alimenta il rifiuto, da parte di una certa parte del mondo sindacale, del reddito universale.
Indipendentemente dalla strumentalizzazione politica che può essere fatta sul reddito di base, è innegabile tuttavia che la sua forza risiede nella semplicità: l’assenza di qualsiasi condizione consente di cortocircuitare l’eventuale inefficacia delle procedure amministrative necessarie per identificare i beneficiari dei trasferimenti sociali tradizionali, i quali, come sappiamo, troppo spesso per questo rinunciano a godere di ciò a cui avrebbero diritto. Di conseguenza, più la pubblica amministrazione di un certo Paese è debole o il sistema di trasferimento sociale farraginoso, o addirittura inesistente, più diviene rilevante l’opzione di un reddito universale. Questo è il motivo per cui, qualunque sia la loro sensibilità politica, diversi economisti raccomandano la messa in atto di un reddito del genere nella maggior parte dei Paesi del Sud globalizzato[23].
Il secondo tipo di reddito universale è stato difeso, almeno dal 1986, da Guy Standing, uno dei fondatori della Basic Income Earth Network (Bien)[24]. A differenza del primo tipo, questo sarebbe un reddito integrativo, e quindi non alternativo ai trasferimenti sociali già attivi, laddove ce ne siano. Sarebbe quindi un ottimo mezzo per risolvere i crescenti problemi di insicurezza finanziaria della classe media e dei ceti popolari e, soprattutto, renderebbe possibile un altro genere di rapporto di lavoro. La disumanità delle condizioni di lavoro in alcune situazioni – di cui la tragedia del Rana Plaza, in Bangladesh nel 2013, è diventato il simbolo – è ovviamente dovuta alla necessità, per coloro che non hanno alternative, di farsi assumere a qualsiasi condizione pur di sopravvivere. Ma anche nei Paesi ricchi un reddito universale di questo tipo implicherebbe sicuramente la fine dei cosiddetti bullshit jobs[25] («lavori-spazzatura»), come sono quelli di una quota crescente di impiegati delle nostre amministrazioni pubbliche e delle imprese private: se posso permettermi di vivere senza lavorare, perché dovrei accettare un lavoro che è socialmente inutile e mi fa star male?
Un simile strumento invertirebbe quindi radicalmente i termini della negoziazione impliciti in qualsiasi rapporto di lavoro, sia esso formalizzato da un contratto o meno. Naturalmente, rafforzando il potere contrattuale dei lavoratori, ciò porterebbe sicuramente a una riduzione della quota di reddito da capitale nel valore aggiunto di un’economia e a un aumento della quota di reddito da lavoro. Però questo correggerebbe la tendenza inversa che si registra da quarant’anni a discapito della stragrande maggioranza di noi: dalla fine del boom economico del secondo dopoguerra, e nella maggior parte dei Paesi precedentemente industrializzati, la quota del reddito da lavoro è scesa dal 70-80% del Pil al 60%.
Le virtù attribuite dai suoi difensori «progressisti» al reddito universale vengono spesso messe in discussione dai loro oppositori: un reddito siffatto non fornirebbe un alibi per non lavorare più? Lungi dal rafforzare i legami sociali, non causerebbe forse la dissoluzione delle relazioni umane? Dietro queste domande si intravedono due filosofie politiche radicalmente opposte: da un lato, quella di Thomas Hobbes o di John Locke, per i quali l’uomo è un atomo, persino un lupo, un essere solitario che si coinvolge in relazioni con altri solo per interesse; dall’altro, quella di un’antropologia relazionale che appartiene alla grande tradizione cristiana[26]. In questa seconda prospettiva, è solo sullo sfondo delle relazioni sociali costitutive dell’umanità in quanto tale che può aver luogo il riduzionismo che consiste nella ricerca del mio interesse particolare.
È possibile risolvere questo dibattito con l’aiuto di ciò che osserviamo empiricamente? È dal 2010 che in vari Paesi hanno avuto inizio esperimenti con il reddito di base. Essi ci testimoniano il crescente interesse per tale misura già prima della pandemia[27], ma hanno rivelato, a volte, una certa mancanza di ambizione da parte dei governi e la durezza del dibattito politico che accompagna tali esperienze: sebbene si sia trattato di strumenti dalla portata limitata, molti sono stati interrotti prima del tempo.
In Canada, l’Ontario Basic Income Pilot Project, avviato nel 2018 per testare l’impatto di un reddito di base su 4.000 canadesi, è stato annullato dopo pochi mesi dal partito conservatore appena eletto. L’obiettivo era sperimentare l’effetto del reddito di base su sicurezza alimentare, stress e ansia, salute – inclusa quella mentale –, casa, istruzione e partecipazione al mondo del lavoro[28]. Ci si può domandare: se è così ovvio che un reddito universale risulterebbe dannoso per tutti, perché non lasciare che l’esperimento lo provi? In realtà, sperimentazioni di un salario minimo (o del suo aumento) hanno dimostrato molto spesso il contrario di quanto previsto dai suoi oppositori, ossia un aumento generalizzato dei salari e del numero di ore lavorate, nonché una riduzione della disoccupazione[29]. Forse c’è qualcuno che teme che si possa dimostrare che un reddito di base andrebbe a beneficio della maggioranza?
Nel 2014, un esperimento in India si è posto l’obiettivo di testare il reddito universale come mezzo per introdurre liquidità in ambienti in cui lo scambio monetario è limitato. Le conclusioni di tale esperimento, che avrebbe potuto essere condotto fino alla fine, sono sfumate, ma estremamente positive. Esse suggeriscono che, a causa delle sue ricadute sociali, il «valore» economico del reddito universale supera di molto l’importo nominale assegnato a ciascun destinatario[30]. Infine, numerosi esperimenti di trasferimento di denaro si sono rivelati fruttuosi in Namibia, in India e in una dozzina di Paesi del Sud del mondo, al punto che, dopo decenni di sarcasmo, diversi analisti ora lo vedono come «la chiave dello sviluppo»[31].
Beni comuni contro privatizzazione del mondo
L’esperimento condotto in Alaska dal 1982 merita una menzione speciale. Ogni anno, infatti, una frazione dei dividendi petroliferi viene distribuita ai residenti, incondizionatamente e su base individuale. Gli importi – tra i 1.000 e i 2.000 dollari l’anno, a seconda del periodo[32] – sono nell’ordine di grandezza della soglia di povertà di 7,4 dollari al giorno ricordati sopra. Si tratta di importi piccoli, ovviamente, considerando il tenore di vita medio in questo Stato americano. Ma la cosa più interessante è il principio usato dallo Stato dell’Alaska per giustificarli: si tratta di una compensazione per il diritto di sfruttamento di un bene comune, il petrolio, che in realtà appartiene a ciascuno dei residenti.
Per comprendere il significato di questo modo originale di finanziare un reddito universale occorre fare un passo indietro. Nel 1217, la Carta foresta aveva dato ai contadini britannici il diritto di godere dei commons («beni comuni») – foreste, pascoli, alpeggi, fiumi – per poter fare scorta di legna, acqua e dare da mangiare alle loro mandrie ecc. L’Inghilterra ha formalizzato un diritto che veniva percepito dalla maggior parte della popolazione come naturale e che era stato già riconosciuto dalla legge romana con la categoria della res communis, collocata dal Codice di Giustiniano al vertice della gerarchia dei beni, mentre la proprietà privata occupava l’ultimo posto.
Già nel XV secolo, come sappiamo, la nobiltà britannica promosse il movimento degli enclosures («recinzioni»), per delimitare i commons e decretare così che da quel momento in poi essi erano proprietà esclusiva del signore locale. Privando i poveri contadini di ogni forma di sussistenza, questo movimento ha contribuito a spingerli verso le città, alla disperata ricerca dei mezzi per sopravvivere. Senza questo esodo rurale la rivoluzione industriale non avrebbe mai visto la luce. Quindi, da principio, fu la privatizzazione dei beni comuni a produrre e incentivare quelle forme disumane di lavoro salariato che conosciamo da tre secoli[33].
Un reddito di base, anche solo parzialmente universale, spezzerebbe questa logica perversa. È possibile che uno strumento del genere si articoli in qualche modo con l’onnipotenza della privatizzazione, che oggi si traduce in un secondo movimento di enclosures,  che colpisce i nuovi commons, come i beni e i servizi dell’ecosistema, il genoma umano, la proprietà intellettuale, le produzioni artistiche e potenzialmente tutte le attività umane?
L’esempio dell’Alaska fornisce l’abbozzo di una risposta positiva. Perché non immaginare che una frazione del reddito derivante dallo sfruttamento dei nostri beni comuni globali sia ridistribuita per finanziare un reddito di base? Non sarebbe questo un modo concreto ed efficace per onorare la destinazione universale dei beni, cara ai Padri della Chiesa e alla dottrina sociale della Chiesa? Ad esempio, l’atmosfera è certamente un bene comune a tutto il mondo: un’imposta globale sul carbonio – come quella fortemente sostenuta dalla Commissione Stern-Stiglitz[34] – di 120 euro per tonnellata di CO2 prodotta[35], applicata alle 100 multinazionali responsabili del 70% delle emissioni, genererebbe un gettito 3,1 mila miliardi di euro all’anno. Estesa a tutti gli altri tipi di emissione, questa tassazione fornirebbe 4.430 miliardi di euro. Gestite da un Fondo internazionale[36], queste entrate potrebbero essere distribuite alle popolazioni che vivono al di sotto della soglia di povertà[37]. Si potrebbe obiettare che non sono abbastanza per far uscire l’umanità dalla povertà estrema. Non importa: un’imposta del 27% sui 32 mila miliardi di dollari attualmente nascosti nei paradisi fiscali sarebbe sufficiente a integrare ciò che manca, affinché tutti possano vivere con più di 7,4 dollari al giorno. Anche le rendite derivanti dalla proprietà di terreni, foreste o persino dei rifiuti – un «male comune» – potrebbero essere soggette a imposizione globale.

Qualunque opzione venga scelta, lo si deve fare dopo aver consultato tutte le parti interessate. Molte altre domande, infatti, emergono sui destinatari di un reddito di base, qualora dovesse essere solo parzialmente universale: dovremmo, ad esempio, riservarlo agli under 25, visto che si può pensare che la maggior parte di loro avrà notevoli difficoltà a trovare lavoro in Europa nei prossimi anni?

Nessun discernimento collettivo davvero fruttuoso può essere fatto su tali questioni fondamentali finché quelli di noi che sono relegati nelle periferie della nostra società non possono prendervi parte attiva. Come ha scritto Francesco nella sua Lettera ai lavoratori dei movimenti popolari: «Questo vostro atteggiamento mi aiuta, mi mette in questione ed è di grande insegnamento per me»[38].

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Sull'argomento:

 

domenica 26 settembre 2021

26 settembre: "Giornata internazionale per l'eliminazione totale delle armi nucleari"

dalla pagina https://it.wikipedia.org/wiki/Giornata_internazionale_per_l%27eliminazione_totale_delle_armi_nucleari

La Giornata internazionale per l’eliminazione totale delle armi nucleari (in inglese International Day for the Total Elimination of Nuclear Weapons) è un evento internazionale annualmente celebrato il 26 settembre. Inaugurata nell'ottobre 2014 con la Risoluzione 68/32 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, si tratta di una giornata di eventi che vengono organizzati con il sostegno di una varietà di individui e di gruppi in Australia, Giappone, Caraibi, Nord America, Asia, Europa, Africa, e dell'ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite).

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mercoledì 15 settembre 2021

«Abbiamo ucciso persone che non c’entravano nulla con l’11 settembre»

dalla pagina https://www.peacelink.it/mediawatch/a/48762.html

Un caso di coscienza. Daniel Hale, figlio di un battista della Virginia, è stato condannato a quattro anni di reclusione per aver rivelato informazioni segrete sulle operazioni anti terrorismo durante l’amministrazione Obama. «Non un giorno senza rimorso»

Rivelò la guerra dei droni, 4 anni di carcere a Daniel Hale

Ex analista aveva divulgato materiale sulle guerre Usa in Yemen, Afghanistan e Somalia

Il Manifesto

Marina Catucci

Il tribunale della Virginia orientale ha condannato a 4 anni di carcere l’ex analista dell’intelligence Daniel Hale, arrestato il 9 maggio 2019 con l’accusa di aver divulgato informazioni riservate sulla guerra dei droni, e altre misure antiterrorismo, a un giornalista. Meno dei 50 chiesti dal Dipartimento di Giustizia, ma non per questo giustificabili.

«DANIEL HALE, uno dei più grandi whistleblower, è stato condannato pochi istanti fa a quattro anni di carcere. Il suo crimine è stato dire questa verità: il 90% delle persone uccise dai droni statunitensi sono astanti, non gli obiettivi previsti. Avrebbe dovuto ricevere una medaglia» così ha commentato su Twitter Edward Snowden. Hale aveva divulgato alla stampa informazioni riservate riguardo la guerra dei droni, e segreti sulle operazioni in Afghanistan, Yemen e Somalia. A marzo si era dichiarato colpevole di avere divulgato documenti riservati e aveva «accettato la responsabilità» per aver violato l’Espionage Act.

IL 22 LUGLIO SCORSO aveva risposto all’aggressività dei pubblici ministeri presentando una lettera di 11 pagine scritte a mano ; il gesto non era una richiesta di grazia, ma era inteso a spiegare il perché delle sue azioni, raccontando quello che il whistleblower definisce il «giorno più straziante della mia vita». Mesi dopo che l’analista era arrivato in Afghanistan nel 2012, aveva visto un’auto sfrecciare in direzione del confine con il Pakistan, l’uomo che guidava l’auto era un sospetto, membro di un gruppo che fabbricava autobombe.

Un drone americano aveva sparato un missile contro l’auto in corsa, mancandola, l’auto si era fermata, l’uomo era sceso e dopo di lui era scesa una donna che aveva iniziato a tirare fuori freneticamente dall’auto qualcosa che Hale non era riuscito a vedere.

UN PAIO DI GIORNI DOPO, l’ufficiale comandante di Hale gli disse che la donna era la moglie del sospettato, e nel retro dell’auto c’erano le loro due figlie, di 5 e 3 anni. I soldati afgani avevano scoperto le bambine in un cassonetto vicino: la più grande era morta e la più piccola era viva ma gravemente disidratata. Nella lettera depositata in tribunale il 22 luglio, Hale ha parlato della sua costante lotta con la depressione e il disturbo da stress post-traumatico derivato da ciò che aveva visto in quella che veniva definita «una guerra pulita».

Il whistleblower aveva perciò deciso di contattare un giornalista con cui aveva comunicato in precedenza. La storia di Hale ricorda molto da vicino quella di Chelsea Manning, ex militare accusato di aver trafugato decine di migliaia di documenti riservati mentre svolgeva il suo incarico di analista di intelligence durante le operazioni militari in Iraq, e di averli consegnati a WikiLeaks.

MANNING ERA STATA DETENUTA in condizioni considerate lesive dei diritti umani, in prigione aveva tentato due volte il suicidio e il suo caso aveva fatto il giro del mondo in quanto le informazioni che aveva divulgato riguardavano l’omicidio di diversi civili disarmati da parte dell’esercito Usa.

Dopo 7 anni e 4 mesi era stata scarcerata, graziata del presidente uscente Barack Obama, per poi tornare in carcere a marzo 2019 per aver rifiutato di testimoniare contro WikiLeaks davanti a un Grand jury. É uscita nuovamente di prigione il 12 marzo 2020. Il co-fondatore di WikiLeaks Julian Assange,invece, è ancora in prigione a Londra; per lui a gennaio 2021 la giustizia inglese ha negato l’estradizione in Usa poiché é a alto rischio di suicidio.

 

Droni, a giudizio l’ex analista Usa che ha svelato i danni collaterali. «Non un giorno senza rimorso»

La lettera al giudice: «Abbiamo ucciso persone che non c’entravano nulla con l’11 settembre»

Corriere della Sera

26.7.2021 (articolo pubblicato prima della condanna)

di Marta Serafini

«Abbiamo applaudito quando gli Hellfire sono caduti sulle loro teste». La notte del 21 agosto 2013 Salim bin Ahmed Ali Jaber e Walid bin Ali Jaber si trovano in un palmeto nel sud-est dello Yemen. Salim è un imam rispettato del villaggio di Khashamir, che si è fatto un nome denunciando il crescente potere di Al Qaeda nella penisola arabica. Suo cugino Walid è un ufficiale di polizia locale. I due stavano sulle tracce di un gruppo di jihadisti. A migliaia di miglia di distanza, nella base militare degli Stati Uniti a Bagram, in Afghanistan, Daniel Hale, un giovane specialista dell’intelligence dell’aeronautica americana, se ne sta seduto su una sedia ad osservare il monitor di un computer. Poi, sul palmeto cala una pioggia di Hellfire.

Avanti veloce di otto anni. Daniel Hale domani conoscerà il suo destino: molto probabilmente la Corte distrettuale di Alexandria, in Virginia, lo condannerà. Ma il verdetto non sarà per aver partecipato alla morte di due innocenti. Hale, arrestato nel 2019, sarà giudicato per aver violato l’Espionage Act facendo trapelare documenti top secret sull’utilizzo di droni nella guerra al terrorismo durante l’amministrazione Obama.

Figlio di un camionista battista della Virginia, da analista dell’intelligence dell’Air Force Usa, Hale, 33 anni, ha partecipato una serie di attacchi condotti dall’ Afghanistan. Il suo compito è rintracciare i segnali dei cellulari collegati a persone ritenute combattenti nemici. Fondamentale dunque per stabilire la posizione esatta dell’obiettivo. Nei mesi di quella che ancora veniva chiamata guerra al Terrore assiste a decine di operazioni in cui afghani - ma anche yemeniti o pakistani- vengono uccisi premendo un bottone. A volte - racconta sempre Hale - intorno agli obiettivi c’erano civili. Danni collaterali.

Hale ha raccontato al giudice del primo attacco di droni a cui ha assistito, pochi giorni dopo essere stato dispiegato per la prima volta in Afghanistan. «L’operazione è stata condotta prima dell’alba, contro un gruppo di uomini armati che preparavano il tè intorno a un falò nelle montagne della provincia di Paktika. Il fatto che portassero armi con sé avrebbe dovuto essere considerato fuori dall’ordinario nel luogo in cui sono cresciuto, tantomeno nei dei territori tribali afghani.Tra loro c’era un presunto membro dei talebani, tradito dal cellulare che aveva in tasca. Quanto agli altri individui, essere armati, in età di leva, e sedere alla presenza di un presunto combattente nemico, era una prova sufficiente per essere considerati sospetti. Nonostante si fossero riuniti pacificamente, senza rappresentare una minaccia, il destino di quegli uomini che ora bevevano il tè era già deciso. Ero lì seduto quando un’improvvisa, terrificante raffica di missili Hellfire è caduta giù, facendo schizzare schegge coloro porpora contro la montagna investita dalla luce del mattino. Da quel momento e fino ad oggi, continuo a ricordare molte di queste scene di violenza cui ho assistito stando seduto su una sedia a guardare lo schermo di un computer. Nessuna di quelle persone era responsabile degli attacchi dell’11 settembre alla nostra nazione. Era il 2012, Bin Laden era già morto in Pakistan. E quei giovani uomini armati che avevamo appena ucciso erano solo bambini il giorno dell’11 settembre».

Con il passare del tempo la coscienza di Hale inizia a vacillare. «Il soldato vittorioso indiscutibilmente pieno di rimorsi, almeno mantiene intatto il suo onore affrontando il suo nemico sul campo di battaglia», scrive Hale sempre al giudice. Ed è sempre la sua coscienza a portarlo alla fine del 2015 a rivelare dettagli sulle operazioni coi droni ad un giornalista investigativo incontrato in precedenza. Hale diventa il nuovo Edward Snowden, un whistleblower che divulga informazioni segrete per il bene della collettività. E il sito investigativo The Intercept pubblica i Drone Papers, una delle inchieste più importanti degli ultimi anni. Un’inchiesta che ha dimostrato tra le altre cose, come il programma dei droni non fosse così preciso come sosteneva il governo.

Nel suo memoriale di 11 pagine, Hale descrive, in termini vividi, le sue lotte con la depressione e il disturbo da stress post-traumatico e come la sua decisione di condividere informazioni riservate con un giornalista sia stata motivata da un irrefrenabile senso del dovere. «Dire che il periodo della mia vita trascorso in servizio mi ha impressionato sarebbe un eufemismo», ha scritto Hale nella sua lettera. «È più preciso dire che ha trasformato irreversibilmente la mia identità di americano». Hale ha fatto trapelare i documenti dopo aver lasciato l’Air Force e aver accettato un lavoro civile con un appaltatore assegnato alla National Geospatial-Intelligence Agency, dove ha lavorato per un breve periodo nel 2014 come cartografo, usando la sua conoscenza della lingua cinese per aiutare a etichettare le mappe. Poi nel 2019 viene arrestato e il marzo scorso si è dichiarato colpevole.

Gli avvocati di Hale - che dopo essersi dichiarato colpevole il marzo scorso rischia almeno 63 mesi di condanna, nonostante l’accusa non abbia formulato una richiesta specifica - sostengono che le sue motivazioni e il fatto che il governo non abbia mostrato alcun danno effettivo causato dalle fughe di notizie, dovrebbero essere presi in considerazione per un alleggerimento della sentenza ad un massimo di 18 mesi. «Ha commesso il reato per attirare l’attenzione su quella che riteneva fosse una condotta immorale del governo commessa sotto il velo della segretezza e contraria alle dichiarazioni pubbliche dell’allora presidente Obama in merito alla presunta precisione del programma di droni dell’esercito degli Stati Uniti», sostengono gli avvocati della difesa Todd Richman e Cadence Mertz. I pubblici ministeri Gordon Kromberg e Alexander Berrang affermano però che i documenti fatti trapelare da Hale siano stati trovati in una raccolta Internet di materiale progettato per aiutare i combattenti dello Stato Islamico a evitare di essere scoperti. Ma gli esperti consultati da The Intercept, tra cui ex analisti Cia e dell’esercito sono molto scettici al riguardo.

Ovviamente il caso Hale ha riportato alla luce il dibattito sull’ Espionage Act una legge del 1917 molto controversa parecchio utilizzata di recente dai pubblici ministeri statunitensi per imbastire accuse contro le fughe di notizie che hanno a che fare con la sicurezza nazionale. Un caso su tutti quello contro Chelsea Manning. Ma anche le vicende di Julian Assange o quelle di Edward Snowden, tutti travolti in un modo o nell’altro dalla scure dell’ Espionage Act.

La storia di Hale porta alla luce anche un’altra questione, quella delle vittime collaterali. Secondo il Bureau of Investigative Journalism, o TBIJ, con sede nel Regno Unito, il numero totale di morti causate da droni e altre operazioni di uccisione sotto copertura in Pakistan, Afghanistan, Yemen e Somalia sia compreso tra 8.858 e 16.901 da quando gli attacchi sono iniziati nel 2004. Delle persone uccise, si ritiene che ben 2.200 fossero civili, tra cui diverse centinaia di bambini e diversi cittadini statunitensi, tra cui un ragazzo di 16 anni, figlio del predicatore yemenita Anwar Awlaki.

In realtà si tratta quasi sicuramente di una stima al ribasso. Come dimostra la lettera di Hale alla corte questa settimana e i documenti che avrebbe reso pubblici, le persone che vengono uccise negli attacchi dei droni americani sono regolarmente classificate come «nemici uccisi in azione» salvo prova contraria. Ed è stato solo dopo anni di pressioni - e sulla scia dei «Drone Papers» - che l’amministrazione Obama nel 2016 ha introdotto nuovi requisiti per la registrazione delle vittime civili in operazioni segrete di antiterrorismo. Tuttavia, l’amministrazione Trump ha revocato il provvedimento, lasciando l’opinione pubblica ancora una volta all’oscuro su chi esattamente venga ucciso e perché.

Note: Manifestazione a New York per Daniel Hale https://www.pressenza.com/it/2021/08/manifestazione-dei-newyorkesi-per-il-whistleblower-di-droni-daniel-hale/

Si può firmare qui per sostenere Daniel Hale https://www.codepink.org/supportdanielhale

 

domenica 12 settembre 2021

Basta parlare di pace, fermiamo le armi, facciamo la pace

dalla pagina Basta parlare di pace, fermiamo le armi, facciamo la pace (pressenza.com)

Alex Zanotelli

Alex Zanotelli tra gli attivisti di Extinction Rebellion (Foto di Extinction Rebellion)

«La pandemia è ancora in pieno corso, la crisi sociale ed economica è molto pesante, specialmente per i più poveri. Malgrado questo, ed è scandaloso, non cessano i conflitti armati e si rafforzano gli arsenali militari». È questa l’amara constatazione di papa Francesco davanti alla crescente e paurosa militarizzazione mondiale. E bacchetta un’Europa che «parla di pace, ma vive di guerra».

Lo scorso anno infatti a livello mondiale i governi hanno investito in armi ben 1.981 miliardi di dollari, 74 miliardi in più del 2019. L’Italia, sempre secondo i dati del SIPRI, lo scorso anno ha investito 27 miliardi di euro in armi.

E le previsioni sono che, quest’anno, l’Italia spenderà ben 30 miliardi di euro in armi, pari a 82 milioni di euro al giorno. Tutti questi enormi investimenti in armi avvengono a spese della Sanità pubblica e dell’Istruzione. Basta pensare che negli ultimi dieci anni i vari governi italiani hanno tolto alla Sanità pubblica ben 37 miliardi, mentre questi stessi governi hanno speso in media oltre 20 miliardi di euro all’anno in armi.

È UNA FOLLIA TOTALE la nostra. Pagata a caro prezzo, durante la pandemia, da migliaia e migliaia di cittadini morti per la Covid-19, specie in Lombardia, una regione che in gran parte ha privatizzato la Sanità. Tra il 1995 e 1998, ben 222 ospedali pubblici sono stati chiusi.

L’Italia è il nono esportatore mondiale di armi. E vendiamo queste armi a tutti. Il caso più clamoroso è il quantitativo di armi di ben 9 miliardi di euro che vogliamo vendere all’Egitto, un paese governato dalla più spietata dittatura d’Africa, di cui è stata vittima il nostro concittadino, Giulio Regeni.

Nulla da fare, ‘business is business‘(gli affari sono affari). Vendiamo armi e bombe all’Arabia Saudita che le usa per fare la guerra allo Yemen. Vendiamo armi a Israele che le usa per reprimere il popolo palestinese. La litania potrebbe continuare. Tutto questo avviene mentre il popolo della Pace è frantumato in mille rivoli. Se ogni comitato, se ogni associazione, se le varie realtà antimilitariste camminano per proprio conto, non otterremo molti risultati.

È FONDAMENTALE unirsi e connettersi con le altre realtà per formare un grande movimento per la pace. A Napoli cinque diverse realtà impegnate per la pace hanno deciso di formare un’unica ‘realtà’: gli Antimilitaristi Campani. Durante la pandemia abbiamo scritto insieme un libretto dal titolo Fermiamo la guerra. Il 30 giugno gli Antimilitaristi Campani sono riusciti a interconnettersi con le diverse realtà che sono impegnate sul territorio contro questa spaventosa militarizzazione: No Muos della Sicilia, le mamme della Sardegna e i portuali di Genova, di Livorno e di Ferrara.

Questi gruppi ‘fanno’ la pace. Trovo particolarmente efficace l’azione dei portuali che si stanno rifiutando di caricare armi sulle navi. Hanno iniziato i portuali di Genova quando nel giugno dell’anno scorso hanno impedito alla nave saudita Bahri Abha (gemella della Jazan,..) di caricare materiale bellico destinato ad alimentare la guerra nello Yemen, «la più sporca e criminale» di quelle in corso.

IL GOVERNATORE della Liguria Toti ha subiro reagito: «È assurdo impedire che non si imbarchino questi prodotti». Papa Francesco ha detto invece che «i lavoratori del porto sono stati bravi». E ha aggiunto che «i paesi Europei parlano di pace, ma vivono di armi».

Il 12 dicembre dello scorso anno, quando di nuovo la nave Bahri Abha attraccò a Genova, il porto era pieno di carabinieri e Digos per garantire le operazioni di carico bellico. Cinque dei portuali disobbedienti sono ora indagati e rischiano il processo. «Non un passo indietro», ha risposto il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali di Genova. Questa lotta si sta ora estendendo ai porti di Livorno, Ferrara e Napoli. A Ferrara i portuali, con l’appoggio dei tre sindacati, si sono rifiutati di caricare materiale bellico sulla nave Asiatic Liberty diretta in Israele.

E si sta ora creando una rete di porti in Europa che si rifiutano di caricare materiale bellico con lo slogan «Block the Boat». (Blocca la nave). A Napoli gli antimilitaristi Campani sono scesi nel porto di Napoli per solidarizzare con i portuali , appoggiando la loro iniziativa di non caricare materiale bellico sulle navi della morte. Basta parlare di pace, bisogna fare la pace!

E come Antimilitaristi Campani appoggiamo anche l’altro strumento fondamentale di resistenza alla militarizzazione: ritirare i propri soldi dalla banche che investono in armi. È la cosiddetta «Campagna Banche Armate», lanciata dalle riviste Mosaico di Pace, Nigrizia, Missione Oggi e anche da Pax Christi. Anche questa è una pratica molto efficace se diventa una campagna popolare, soprattutto se sostenuta dalle comunità cristiane.

DOPO LE FORTI PRESE di posizione di papa Francesco sulle armi, sul nucleare, ogni parrocchia, ogni diocesi dovrebbe togliere i propri soldi da quelle banche che investono in armamenti. È un dovere di coscienza per un cittadino , ma soprattutto per un cristiano. Se davvero il disinvestimento dalle banche armate diventasse una prassi popolare, metteremo in crisi un Sistema basato sulle armi, sulla Bomba (atomica).

Smettiamola di parlare di pace, ma facciamo pace attraverso pratiche efficaci, mettendoci in rete. Dobbiamo cambiare questo Sistema economico-finanziario-militarizzato che uccide per fame, per guerra e soffoca il Pianeta. Diamoci tutti da fare per un sistema che porti vita e speranza per tutti.