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Un urgente discernimento collettivo
Gaël Giraud | Quaderno 4079 | pag. 429 - 442 | Anno 2020 | Volume II | 6 Giugno 2020
Nella sua Lettera ai movimenti popolari,
pubblicata nel giorno di Pasqua, il 12 aprile 2020, papa Francesco ha
chiesto l’istituzione di una «retribuzione universale» di base: «Forse
è giunto il momento di pensare a una forma di retribuzione universale
di base che riconosca e dia dignità ai nobili e insostituibili compiti
che svolgete; un salario che sia in grado di garantire e realizzare
quello slogan così umano e cristiano: nessun lavoratore [ndr - nessuna persona] senza diritti»[1].
La
proposta non ha mancato di suscitare reazioni, sia entusiaste sia
critiche. Queste sue affermazioni significano forse che il Santo Padre
abbraccia la causa di un reddito universale, versato a tutti, senza
condizioni? O egli intende difendere il principio del giusto salario per
tutti i lavoratori? E poi, se davvero si sta parlando di un reddito
universale senza condizioni, in che modo un’attenzione autenticamente
evangelica ci può orientare per valutare bene le condizioni pratiche di
una sua attuazione? Oppure si tratta semplicemente di un’utopia
irrealizzabile?
Sono
domande che vanno poste, tanto più oggi, dal momento che la gestione
«medievale» della pandemia di coronavirus praticata da molti Paesi[2] minaccia
di far sprofondare gran parte del nostro Pianeta in una depressione
economica grave almeno quanto quella vissuta in Occidente negli anni
Trenta del secolo scorso. Di fronte all’esplosione di disoccupazione e
povertà, che d’ora in poi probabilmente ci accompagnerà per tutto il
decennio 2020, anche in gran parte dell’Europa e degli Stati Uniti,
questa «retribuzione universale» può essere considerata una delle
soluzioni per aiutarci a uscire dalla trappola deflazionistica? Essa può
contribuire a risolvere anche l’enorme sfida della povertà globale?
Una questione teologale
Il
problema principale posto dalla Lettera del vescovo di Roma è il
riconoscimento di questi fratelli e sorelle dei movimenti popolari e di
coloro per i quali essi lavorano: «So che molte volte non ricevete il
riconoscimento che meritate perché per il sistema vigente siete
veramente invisibili. Le soluzioni propugnate dal mercato non
raggiungono le periferie, dove è scarsa anche l’azione di protezione
dello Stato»[3].
Francesco invita a combattere l’invisibilità di questi «poeti sociali»,
con lo stesso sguardo attento avuto da Cristo verso quella vedova che
versava discretamente il suo obolo nel tesoro del tempio (cfr Mc 12,38-44).
Questa
sfida è spirituale e politica insieme. Essa richiede certamente una
conversione dello sguardo individuale di ognuno di noi, ma anche una
riforma delle strutture sociali che producono e mantengono
l’invisibilità di coloro che vivono alla periferia delle nostre società[4].
La possibilità di risultare visibili nello spazio pubblico non si fonda
esclusivamente sulle prestazioni individuali, ma dipende dalle regole
sociali che legittimano e migliorano la nostra vita ordinaria o, al
contrario, la rendono precaria e la squalificano. Visibilità e
invisibilità non sono affatto qualità naturali, ma modi sociali di
confermare o negare i nostri stili di esistenza[5].
Declassamento, emarginazione e mancanza di lavoro marginalizzano le
persone al punto di cancellarle, escludendole da tutte le forme di
partecipazione; il lavoratore subordinato, il precario, l’escluso, il
disoccupato, la vedova, l’orfano, il rifugiato, il senzatetto, il
paziente diventano così sempre meno udibili, sempre meno visibili.
Quali
riforme delle nostre istituzioni possiamo attuare per spezzare
l’invisibilità in cui viene mantenuta la periferia delle nostre società,
a volte anche all’interno della Chiesa? Come sottolinea Francesco
nell’intervista recentemente pubblicata da La Civiltà Cattolica,
quello che la tradizione cristiana chiama Spirito Santo
«deistituzionalizza» ciò che nella Chiesa non ha più bisogno di essere e
«istituzionalizza» il futuro[6].
Va detto subito che questa disgregazione creativa dello Spirito non può
essere limitata alle istituzioni ecclesiali, se non altro perché queste
non sono state sviluppate in abstracto,
ma sono ancora situate dentro una specifica società e in una storia. La
tensione spirituale tra «disordine» e «armonia», evocata da Francesco,
attraversa quindi tutte le nostre istituzioni[7].
Riformarle è una questione teologale, anche quando si tratta di
istituzioni secolari come quelle per determinare il reddito dei
cittadini.
Salario minimo o reddito universale?
È
dentro l’orizzonte di questa domanda spirituale e politica che
s’inserisce la proposta di una «retribuzione universale». Si tratta di
un salario minimo riservato a coloro che hanno un lavoro, o di un
reddito universale destinato a tutti, senza condizioni?
Per
gli economisti esperti in queste distinzioni, la formulazione del Papa è
ambigua. Ad esempio, agli occhi di un sindacalista francese come Joseph
Thouvenel, segretario della Confederazione francese dei lavoratori
cristiani, le osservazioni di Francesco non possono essere interpretate
come un alibi per coloro che «oziano»[8],
ma possono essere solo un’allusione alla teoria del «giusto salario»,
formalizzata da Tommaso d’Aquino e poi ripresa da Leone XIII
nell’enciclica Rerum novarum (1891).
In questo caso, la proposta del Papa equivarrebbe a stabilire un
salario minimo garantito. In effetti, l’attuale globalizzazione del
«mercato» del lavoro implica logicamente che anche le regole che
consentono di evitare tutte le possibili distorsioni siano globali;
altrimenti imporre un salario minimo in un certo Paese o in un altro
fornirà solo un incentivo alle aziende per delocalizzare le proprie
attività altrove.
Diversi economisti, tra cui Thomas Palley[9],
propongono di imporre un salario minimo, pari al 50% del salario
mediano di tutti i Paesi del Pianeta. In Italia, ciò equivarrebbe a
fissare uno stipendio mensile minimo di circa 1.860 euro (anziché i 500
attuali): un quarto della forza lavoro italiana attualmente riceve uno
stipendio inferiore a tale importo, e questa quota rischia di aumentare
nei prossimi anni. Contrariamente a quanto di solito si afferma, questo
non causerebbe un’esplosione della disoccupazione[10], porterebbe ad aumenti abbastanza piccoli dei costi di produzione[11] e, d’altra parte, cambierebbe la vita a molti «lavoratori poveri», anche in Germania.
Tuttavia
l’elenco dei beneficiari della «retribuzione universale» alla quale
allude papa Francesco va oltre la categoria dei salariati stricto sensu:
«venditori ambulanti, raccoglitori, giostrai, piccoli contadini,
muratori, sarti, quanti svolgono diversi compiti assistenziali […],
lavoratori precari, indipendenti, del settore informale o dell’economia
popolare, non avete uno stipendio stabile per resistere a questo
momento»[12].
Le varie traduzioni della Lettera pontificia fanno pensare che il
termine «salario» non possa essere interpretato rigorosamente: salaire, salarios, salário e wage, ma anche Grundeinkommen e retribuzione.
Coloro che devono uscire dall’invisibilità sono anche i «malati e [gli]
anziani. Non compaiono mai nei mass media, al pari dei contadini e dei
piccoli agricoltori che continuano a coltivare la terra per produrre
cibo senza distruggere la natura, senza accaparrarsene i frutti o
speculare sui bisogni vitali della gente»[13].
A
chi si rivolge, dunque, la proposta del Papa? A tutti i «lavoratori».
Una casalinga, per esempio, i cui servizi, dal momento che non sono sul
mercato, non vengono mai presi in considerazione nel calcolo del Pil,
fornisce una prestazione «lavorativa»? Chi sono questi «lavoratori», se
non vengono riconosciuti da uno status che
li qualifichi come tali? È proprio in questa loro invisibilità che sta
il problema che Francesco vuole risolvere. Crediamo che la risposta si
trovi negli stessi «invisibili». Francesco scrive: «La nostra civiltà
[…] ha bisogno di un cambiamento, di un ripensamento, di una
rigenerazione. Voi siete i costruttori indispensabili di questo cambiamento ormai improrogabile»[14].
E non sarebbe compito di questi oscuri lavoratori definire i connotati
di quella «retribuzione universale» che Francesco chiede? Di modo che
«l’accesso universale a quelle tre T […]: tierra, techo e trabajo (terra – compresi i suoi frutti, cioè il cibo –, casa e lavoro)»[15] sia garantito loro nelle condizioni che essi stessi ritengono più adeguate?
Dopotutto,
i dibattiti che ruotano attorno alla definizione di un salario minimo o
di un reddito universale sono prevalentemente condotti da coloro che
appartengono al centro della società. È senza dubbio il momento di dare
voce ai senza voce, in modo che essi stessi possano aiutare a decidere
quale significato dovrebbe essere dato a una «retribuzione universale»,
piuttosto che subire ancora la violenza delle definizioni e degli standard imposti dal centro.
È
questa inversione di prospettiva – dal centro alla periferia – che
guida, per esempio, il movimento ATD-Quarto mondo e il pensiero di padre
Joseph Wresinski[16].
Questo cambiamento di prospettiva non è estraneo all’approccio di
alcuni economisti. Esso sta alla base, per esempio, della costruzione di
indicatori statistici su base partecipativa, come il Barometro delle
disuguaglianze e povertà (BIP 40), realizzato in Francia nel 2002 da e
con comuni cittadini[17].
Utopia o riforma profetica?
È
quindi giustificato che il Movimento francese per un reddito di base
concluda cautamente che il Papa «si sta avvicinando alla causa del
reddito universale»[18].
A patto di comprendere che, se «si avvicina» a esso e basta, non è per
timidezza, ma è perché sta prima di tutto alle stesse persone senza voce
decidere ciò che vogliono per loro. Il rispetto della dignità delle
persone deve spingersi fino a tal punto.
Tuttavia,
l’interpretazione che proponiamo qui implica che sia possibile che la
«retribuzione universale» a cui allude Francesco sia intesa come
«reddito universale» nel senso comune, qualora gli invisibili delle
nostre periferie decidessero così.
Sono cinque i criteri usati normalmente per definire il reddito universale. Esso è:
- un versamento periodico, a differenza dell’assegno una tantum di
900 dollari che il governo australiano ha inviato ai suoi cittadini nel
2009 per superare le conseguenze della crisi finanziaria; o di quello
di 1.000 dollari che l’amministrazione Trump ha appena fatto avere alle
famiglie americane[19];
- un trasferimento monetario,
cioè non in natura, che offre a tutti la libertà di fare ciò che
vogliono con i propri soldi, ma presuppone, ad esempio, l’apertura di un
conto bancario, un’operazione non abituale per molti tra i più poveri;
- un contributo personalizzato: il pagamento viene effettuato su base individuale e non, ad esempio, su base familiare dal punto di vista fiscale;
- universale: non viene sottoposto ad alcun particolare requisito;
- incondizionato: il pagamento non è coperto da alcun obbligo per il beneficiario, in particolare quello di dover cercare lavoro.
Ricordiamo
alcuni ordini di grandezza. La Banca mondiale ha identificato la soglia
della povertà estrema al livello di 1,9 dollari di retribuzione
giornaliera, a parità di potere di acquisto. Ma è opinione largamente
condivisa tra i ricercatori economici che questa convenzione sottostimi
ampiamente i bisogni reali di un essere umano sano, capace di condurre
una vita dignitosa. Un reddito minimo di 7,4 dollari al giorno sembra
molto più ragionevole[20].
Nel
2018, oltre 4,2 miliardi di persone (il 60% della popolazione mondiale)
vivevano ancora al di sotto di tale soglia, e questo numero aumenterà
notevolmente nei prossimi mesi a causa delle conseguenze catastrofiche
del lockdown. Quale flusso di
reddito annuale sarebbe necessario per consentire a questa gente di
vivere al di sopra di tale soglia? Senza entrare nei dettagli dei
calcoli sulla parità del potere d’acquisto, possiamo rispondere che
costerebbe meno di 13 mila miliardi di dollari. Questa può sembrare ad
alcuni una cifra considerevole: è vicina al Pil nominale della Cina nel
2018. Tuttavia, uno studio della Ong Oxfam[21] mostra
che, nello stesso anno, l’1% degli individui più ricchi del Pianeta ha
percepito un reddito annuo di 56.000 miliardi di dollari (pari all’80%
del Pil mondiale). Se solo «prelevassimo» un quarto di tale reddito,
esso sarebbe sufficiente per finanziare un reddito base di 7,4 dollari
al giorno (e anche di più) per quella parte dell’umanità che ne è
privata. Dopo il «prelievo», al più alto percentile di questi
super-ricchi resterebbero ancora in media 47.500 dollari di reddito
mensile a persona: questo dovrebbe essere sufficiente per consentire
loro di continuare a condurre una vita «dignitosa».
Non
pretendiamo di sostenere che un tale «prelievo» sia politicamente
facile da mettere in pratica. Tuttavia queste semplici cifre ci
ricordano che, contrariamente a una comune convinzione, il problema del
finanziamento di un reddito di base non consiste nella «mancanza di
risorse». Allo stesso modo, se, secondo le stime delle Nazioni Unite,
820 milioni di persone soffrono ancora la fame nel mondo – e questo
numero purtroppo aumenterà nei prossimi mesi a causa dell’attuale
situazione di emergenza –, non è perché la biomassa prodotta dal Pianeta
non è in grado di nutrire l’umanità: si tratta di un problema politico
ed etico di distribuzione della ricchezza.
L’immaginario
neo-liberale della scarsità, che ci conduce facilmente a pensare che
una proposta generosa sia impossibile, è fuorviante: viviamo su un
Pianeta sovrabbondante – sebbene minacciato da una crisi ecologica – e
in un’economia mondiale molto ricca, sebbene rischi di diventare
considerevolmente più povera a causa del lockdown e del confinamento.
Le due forme di reddito universale
Per
andare oltre nell’esaminare la loro concreta fattibilità, dobbiamo
distinguere almeno due forme di «reddito universale»: la prima, diremmo,
«di destra», ispirata a criteri di efficienza economica; l’altra, «di
sinistra», orientata dal desiderio di giustizia sociale. Questa
distinzione elementare ci costringe però immediatamente a uscire da
facili dicotomie: il reddito universale non è né di destra né di
sinistra, ma è trasversale alle nostre categorie politiche tradizionali.
Il primo tipo di reddito di base ha le sue origini nel lavoro dell’economista di Chicago Milton Friedman[22] ed
è pensato per sostituire tutti gli altri tipi di trasferimenti sociali,
rendendo così superflua l’introduzione di un salario minimo. I suoi
promotori nutrono la speranza di un’ulteriore flessibilizzazione del
«mercato del lavoro» e di una riduzione della spesa pubblica per la
solidarietà, o persino di un completo abbandono, da parte dello Stato,
del suo ruolo decisionale sui redditi da lavoro dei cittadini. La
carità, «più adattabile e flessibile» rispetto allo stato sociale,
afferma Friedman, riacquisterebbe così un posto di rilievo nella lotta
contro la povertà.
Chi
contesta tale proposta sostiene che essa equivarrebbe a garantire un
reddito minimo di sussistenza che rende schiavo l’«esercito di riserva»
dei cittadini, costretti a farsi assumere a qualsiasi condizione pur di
migliorare le proprie condizioni di vita ordinaria. È senza dubbio
questo tipo di preoccupazione che alimenta il rifiuto, da parte di una
certa parte del mondo sindacale, del reddito universale.
Indipendentemente
dalla strumentalizzazione politica che può essere fatta sul reddito di
base, è innegabile tuttavia che la sua forza risiede nella semplicità:
l’assenza di qualsiasi condizione consente di cortocircuitare
l’eventuale inefficacia delle procedure amministrative necessarie per
identificare i beneficiari dei trasferimenti sociali tradizionali, i
quali, come sappiamo, troppo spesso per questo rinunciano a godere di
ciò a cui avrebbero diritto. Di conseguenza, più la pubblica
amministrazione di un certo Paese è debole o il sistema di trasferimento
sociale farraginoso, o addirittura inesistente, più diviene rilevante
l’opzione di un reddito universale. Questo è il motivo per cui,
qualunque sia la loro sensibilità politica, diversi economisti
raccomandano la messa in atto di un reddito del genere nella maggior
parte dei Paesi del Sud globalizzato[23].
Il secondo tipo di reddito universale è stato difeso, almeno dal 1986, da Guy Standing, uno dei fondatori della Basic Income Earth Network (Bien)[24].
A differenza del primo tipo, questo sarebbe un reddito integrativo, e
quindi non alternativo ai trasferimenti sociali già attivi, laddove ce
ne siano. Sarebbe quindi un ottimo mezzo per risolvere i crescenti
problemi di insicurezza finanziaria della classe media e dei ceti
popolari e, soprattutto, renderebbe possibile un altro genere di
rapporto di lavoro. La disumanità delle condizioni di lavoro in alcune
situazioni – di cui la tragedia del Rana Plaza, in Bangladesh nel 2013, è
diventato il simbolo – è ovviamente dovuta alla necessità, per coloro
che non hanno alternative, di farsi assumere a qualsiasi condizione pur
di sopravvivere. Ma anche nei Paesi ricchi un reddito universale di
questo tipo implicherebbe sicuramente la fine dei cosiddetti bullshit jobs[25] («lavori-spazzatura»),
come sono quelli di una quota crescente di impiegati delle nostre
amministrazioni pubbliche e delle imprese private: se posso permettermi
di vivere senza lavorare, perché dovrei accettare un lavoro che è
socialmente inutile e mi fa star male?
Un
simile strumento invertirebbe quindi radicalmente i termini della
negoziazione impliciti in qualsiasi rapporto di lavoro, sia esso
formalizzato da un contratto o meno. Naturalmente, rafforzando il potere
contrattuale dei lavoratori, ciò porterebbe sicuramente a una riduzione
della quota di reddito da capitale nel valore aggiunto di un’economia e
a un aumento della quota di reddito da lavoro. Però questo
correggerebbe la tendenza inversa che si registra da quarant’anni a
discapito della stragrande maggioranza di noi: dalla fine del boom
economico del secondo dopoguerra, e nella maggior parte dei Paesi
precedentemente industrializzati, la quota del reddito da lavoro è scesa
dal 70-80% del Pil al 60%.
Le
virtù attribuite dai suoi difensori «progressisti» al reddito
universale vengono spesso messe in discussione dai loro oppositori: un
reddito siffatto non fornirebbe un alibi per non lavorare più? Lungi dal
rafforzare i legami sociali, non causerebbe forse la dissoluzione delle
relazioni umane? Dietro queste domande si intravedono due filosofie
politiche radicalmente opposte: da un lato, quella di Thomas Hobbes o di
John Locke, per i quali l’uomo è un atomo, persino un lupo, un essere
solitario che si coinvolge in relazioni con altri solo per interesse;
dall’altro, quella di un’antropologia relazionale che appartiene alla
grande tradizione cristiana[26].
In questa seconda prospettiva, è solo sullo sfondo delle relazioni
sociali costitutive dell’umanità in quanto tale che può aver luogo il
riduzionismo che consiste nella ricerca del mio interesse particolare.
È
possibile risolvere questo dibattito con l’aiuto di ciò che osserviamo
empiricamente? È dal 2010 che in vari Paesi hanno avuto inizio
esperimenti con il reddito di base. Essi ci testimoniano il crescente
interesse per tale misura già prima della pandemia[27],
ma hanno rivelato, a volte, una certa mancanza di ambizione da parte
dei governi e la durezza del dibattito politico che accompagna tali
esperienze: sebbene si sia trattato di strumenti dalla portata limitata,
molti sono stati interrotti prima del tempo.
In Canada, l’Ontario Basic Income Pilot Project,
avviato nel 2018 per testare l’impatto di un reddito di base su 4.000
canadesi, è stato annullato dopo pochi mesi dal partito conservatore
appena eletto. L’obiettivo era sperimentare l’effetto del reddito di
base su sicurezza alimentare, stress e ansia, salute – inclusa quella
mentale –, casa, istruzione e partecipazione al mondo del lavoro[28].
Ci si può domandare: se è così ovvio che un reddito universale
risulterebbe dannoso per tutti, perché non lasciare che l’esperimento lo
provi? In realtà, sperimentazioni di un salario minimo (o del suo
aumento) hanno dimostrato molto spesso il contrario di quanto previsto
dai suoi oppositori, ossia un aumento generalizzato dei salari e del
numero di ore lavorate, nonché una riduzione della disoccupazione[29]. Forse c’è qualcuno che teme che si possa dimostrare che un reddito di base andrebbe a beneficio della maggioranza?
Nel
2014, un esperimento in India si è posto l’obiettivo di testare il
reddito universale come mezzo per introdurre liquidità in ambienti in
cui lo scambio monetario è limitato. Le conclusioni di tale esperimento,
che avrebbe potuto essere condotto fino alla fine, sono sfumate, ma
estremamente positive. Esse suggeriscono che, a causa delle sue ricadute
sociali, il «valore» economico del reddito universale supera di molto
l’importo nominale assegnato a ciascun destinatario[30].
Infine, numerosi esperimenti di trasferimento di denaro si sono
rivelati fruttuosi in Namibia, in India e in una dozzina di Paesi del
Sud del mondo, al punto che, dopo decenni di sarcasmo, diversi analisti
ora lo vedono come «la chiave dello sviluppo»[31].
Beni comuni contro privatizzazione del mondo
L’esperimento
condotto in Alaska dal 1982 merita una menzione speciale. Ogni anno,
infatti, una frazione dei dividendi petroliferi viene distribuita ai
residenti, incondizionatamente e su base individuale. Gli importi – tra i
1.000 e i 2.000 dollari l’anno, a seconda del periodo[32] –
sono nell’ordine di grandezza della soglia di povertà di 7,4 dollari al
giorno ricordati sopra. Si tratta di importi piccoli, ovviamente,
considerando il tenore di vita medio in questo Stato americano. Ma la
cosa più interessante è il principio usato dallo Stato dell’Alaska per
giustificarli: si tratta di una compensazione per il diritto di
sfruttamento di un bene comune, il petrolio, che in realtà appartiene a
ciascuno dei residenti.
Per
comprendere il significato di questo modo originale di finanziare un
reddito universale occorre fare un passo indietro. Nel 1217, la Carta foresta aveva dato ai contadini britannici il diritto di godere dei commons («beni
comuni») – foreste, pascoli, alpeggi, fiumi – per poter fare scorta di
legna, acqua e dare da mangiare alle loro mandrie ecc. L’Inghilterra ha
formalizzato un diritto che veniva percepito dalla maggior parte della
popolazione come naturale e che era stato già riconosciuto dalla legge
romana con la categoria della res communis, collocata dal Codice di Giustiniano al vertice della gerarchia dei beni, mentre la proprietà privata occupava l’ultimo posto.
Già nel XV secolo, come sappiamo, la nobiltà britannica promosse il movimento degli enclosures («recinzioni»), per delimitare i commons e
decretare così che da quel momento in poi essi erano proprietà
esclusiva del signore locale. Privando i poveri contadini di ogni forma
di sussistenza, questo movimento ha contribuito a spingerli verso le
città, alla disperata ricerca dei mezzi per sopravvivere. Senza questo
esodo rurale la rivoluzione industriale non avrebbe mai visto la luce.
Quindi, da principio, fu la privatizzazione dei beni comuni a produrre e
incentivare quelle forme disumane di lavoro salariato che conosciamo da
tre secoli[33].
Un
reddito di base, anche solo parzialmente universale, spezzerebbe questa
logica perversa. È possibile che uno strumento del genere si articoli
in qualche modo con l’onnipotenza della privatizzazione, che oggi si
traduce in un secondo movimento di enclosures, che colpisce i nuovi commons,
come i beni e i servizi dell’ecosistema, il genoma umano, la proprietà
intellettuale, le produzioni artistiche e potenzialmente tutte le
attività umane?
L’esempio
dell’Alaska fornisce l’abbozzo di una risposta positiva. Perché non
immaginare che una frazione del reddito derivante dallo sfruttamento dei
nostri beni comuni globali sia ridistribuita per finanziare un reddito
di base? Non sarebbe questo un modo concreto ed efficace per onorare la
destinazione universale dei beni, cara ai Padri della Chiesa e alla
dottrina sociale della Chiesa? Ad esempio, l’atmosfera è certamente un
bene comune a tutto il mondo: un’imposta globale sul carbonio – come
quella fortemente sostenuta dalla Commissione Stern-Stiglitz[34] – di 120 euro per tonnellata di CO2 prodotta[35],
applicata alle 100 multinazionali responsabili del 70% delle emissioni,
genererebbe un gettito 3,1 mila miliardi di euro all’anno. Estesa a
tutti gli altri tipi di emissione, questa tassazione fornirebbe 4.430
miliardi di euro. Gestite da un Fondo internazionale[36], queste entrate potrebbero essere distribuite alle popolazioni che vivono al di sotto della soglia di povertà[37].
Si potrebbe obiettare che non sono abbastanza per far uscire l’umanità
dalla povertà estrema. Non importa: un’imposta del 27% sui 32 mila
miliardi di dollari attualmente nascosti nei paradisi fiscali sarebbe
sufficiente a integrare ciò che manca, affinché tutti possano vivere con
più di 7,4 dollari al giorno. Anche le rendite derivanti dalla
proprietà di terreni, foreste o persino dei rifiuti – un «male comune» –
potrebbero essere soggette a imposizione globale.
Qualunque opzione venga scelta, lo si deve fare dopo aver consultato
tutte le parti interessate. Molte altre domande, infatti, emergono sui
destinatari di un reddito di base, qualora dovesse essere solo
parzialmente universale: dovremmo, ad esempio, riservarlo agli under 25,
visto che si può pensare che la maggior parte di loro avrà notevoli
difficoltà a trovare lavoro in Europa nei prossimi anni?
Nessun discernimento collettivo davvero fruttuoso può essere fatto su
tali questioni fondamentali finché quelli di noi che sono relegati
nelle periferie della nostra società non possono prendervi parte attiva.
Come ha scritto Francesco nella sua Lettera ai lavoratori dei movimenti
popolari: «Questo vostro atteggiamento mi aiuta, mi mette in questione
ed è di grande insegnamento per me»[38].
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