sabato 25 marzo 2023

Negazionisti di fatto

dalla pagina https://comune-info.net/negazionisti-di-fatto/

Guido Viale 

Per molto tempo hanno negato i cambiamenti climatici, poi hanno fatto finta di niente, ora governanti e grandi imprese lanciano proclami continuando a fare come prima. Impianti con la neve artificiale, auto elettriche, Ponte sullo Stretto, alta velocità, produzione di armi per le guerre… Il negazionismo di fatto, climatico e ambientale, mentre Po e Adige sono in secca, è sempre più feroce. Abbiamo bisogno di conversione ecologica e di nuove forme di solidarietà per affrontare le crescenti difficoltà di ogni giorno. “Chi (le città e i territori) si sarà attrezzato per tempo per queste cose – scrive Guido Viale – avrà più possibilità di sostenere una vita decente e di accogliere anche le persone costrette a fuggire dal loro Paese reso invivibile forse per sempre…”

Tratta da unsplash.com

Dilaga il negazionismo climatico e ambientale. Quello concreto. Quello effettivo. Finché la disputa si svolgeva all’interno della comunità scientifica, i negazionisti – in Italia guidati prima dal professor Zichichi, “lo scienziato di Andreotti”, poi da Paolo Prodi, il fratello scemo di Romano – sono sempre stati una piccola minoranza in continua diminuzione, ancorché ben foraggiata dall’industria dei fossili. Imperversavano sui media con affermazioni perentorie che avevano poi un vago riflesso nelle rare discussioni sul tema che si svolgevano nei bar e ai giardinetti. Greta Thunberg, con il suo appeal mediatico, ha imposto una svolta ai media (certo, non tutti, provate a leggere Libero…), che da allora hanno cominciato a prendere sul serio l’argomento: mai, o quasi, comunque, in prima pagina o in apertura dei notiziari. E che “il problema” ci sia, e sia serio, ormai non lo nega quasi nessuno.

Ma da quando i primi effetti macroscopici dei cambiamenti climatici sono davanti agli occhi di tutti – gli abitanti di altri Paesi, in Africa e negli atolli del Pacifico, ne avevano dovuto prendere atto ben prima – nella psiche di governanti e governati si è insinuata una forma acuta di schizofrenia: si lanciano allarmi, si sottoscrivono impegni come quelli presi ai vertici di Parigi e di Glasgow, si varano piani faraonici: “Next generation EU”, tradotto in italiano in PNRR (190 miliardi) è nato come piano per salvare la prossima generazione (e quelle seguenti) dalla crisi climatica e ambientale.

E cosa ne hanno fatto? Alta velocità, autostrade, porti e dighe, case della salute senza né medici né infermieri (ma con molto cemento) e adesso anche il ponte sullo Stretto e altre “amenità” del genere, cioè disgrazie. Poi si è aggiunta la guerra in Ucraina, in Europa e altrove; forse in tutto il mondo. Ma per ora, come dice il papa, solo “a pezzi”. E con essa, la produzione di sempre più armi. A nessuno viene da chiedere che cosa quelle scelte, quelle produzioni, quei progetti hanno a che fare con la lotta ormai disperata e disperante per arrestare l’incombente catastrofe ambientale. Così, più si consolida la convinzione generale e generica che siamo alla vigilia di una apocalisse climatica, più si va affermando una sorta di negazionismo di fatto, che chiude gli occhi di fronte a una realtà ormai evidente e sospinge a comportarsi come se tutto dovesse continuare come prima.

I principali “negazionisti di fatto” sono i sostenitori (sia decisori che pubblico plaudente) del continuo rifornimento di armi all’Ucraina per mandare avanti quella guerra; senza porsi alcun concreto obiettivo se non la “vittoria” (ma di chi? E su chi?), purché continui la distruzione, da entrambe le parti, di vite, di edifici, di suolo, di acque, fino a fare di quel territorio quel deserto che Chernobyl non era riuscito a portare a termine. È ovvio che bombe, proiettili, razzi, cannoni, carri armati e aerei, sia usandoli che producendone di nuovi e di più, non fanno che accelerare i tempi della crisi climatica e ambientale. Eppure, tra i fautori di quella guerra a oltranza trovate molti ambientalisti nemici della caccia, sostenitori della raccolta differenziata e della salvaguardia delle balene, convinti che occorra fare subito “qualsiasi cosa” (sì, ma che cosa?) per ridurre le emissioni di gas climalteranti.

Ora al centro dell’attenzione c’è l’acqua: il Po è in secca, l’Adige anche e gran parte del resto del mondo pure. Nel PNRR non se ne parlava quasi; adesso si corre (anzi si dice che bisogna correre) a costruire desalinatori per produrre e dighe e invasi per salvare l’acqua che manca. Ma non piove e non nevica e quando c’è la pioggia arriva con tale furore che è impossibile trattenerla, assorbirla e stoccarla; mentre dissalare l’acqua di mare richiede molta energia. Chi la produrrà? Il sole e il vento o il gas e il carbone? Altro capitolo aperto.

Nessuno però dice che l’acqua che c’è si può risparmiare, intanto rifacendo canali e tubature che ne perdono il 40 per cento: se ne parla da trent’anni, ma anche il PNRR non prevede gran che in proposito. Poi recuperando negli abitati l’acqua piovana con canalizzazioni separate da quelle di fogna. Poi con un’agricoltura diversa e una riduzione degli allevamenti intensivi (consumano il 70 per cento di quel 70 per cento di tutta l’acqua disponibile che viene inghiottita da un’agricoltura industrializzata). Poi imparando a usarla meglio nella vita quotidiana. Poi… poi adoperandosi per non essere più negazionisti di fatto.

Ma i fiumi sono in secca perché ad alimentarli non ci sono più i ghiacciai. Anche in montagna non nevica, fa caldo e i ghiacciai scompaiono. A valle l’agricoltura dovrà imparare a usare meno acqua. A monte sciatori e operatori turistici dovranno imparare a fare a meno della neve. Che problema c’è? Si fa la neve artificiale. E giù a moltiplicare gli impianti, le piste, i laghetti (in concorrenza con quelli che dovrebbero far rivivere i fiumi in secca), i cannoni sparaneve. Ma sopra zero gradi neanche la neve artificiale si forma. La fanno solo in Arabia Saudita, per creare una pista nel deserto dentro un tunnel. Tra qualche anno lo sci si potrà fare solo lì. O a Pragelato (Piemonte), dove si progetta di fare un tunnel. Non sarebbe meglio imparare fin da ora a vivere in modo diverso quel che resta delle montagne?

E l’energia? Dovrebbe essere tutta rinnovabile entro il 2050, ma i nuovi impianti procedono a rilento. Intanto, sospinto dalla guerra alla Russia che lo forniva a prezzi d’affezione, va a pieno ritmo il gas. Anzi, l’Italia diventerà, ben oltre il suo bisogno (in realtà già lo è), un ”hub” del gas per tutta l’Europa. Sospinta dalla lobby del gas (in Italia, leggi Eni, il vero padrone del Paese, che passa indenne da un governo all’altro), l’Unione Europea ha deciso che il gas è una fonte energetica di transizione (ma a che cosa?). Quando gli impianti (tubi, rigassificatori e flotte gasiere) in progetto saranno pronti la crisi climatica avrà ormai superato la soglia dell’irreversibilità e quegli impianti saranno da buttare e con loro, anche la vita “agiata” a cui siamo abituati.

Ma anche in questo caso l’unica fonte energetica a cui non si pensa e non si provvede – se non con misure sporadiche e casuali quanto costose, come il “110 per cento” – è il risparmio, cioè l’efficienza in tutti i campi, che potrebbe ridurre anche del 40 per cento gli attuali fabbisogni. Invece, dietro al gas occhieggia il nucleare (anch’esso riammesso dall’Unione come fonte di transizione) che piace a Salvini perché è costoso, inutile e pericoloso come e più del Ponte sullo Stretto. Ma non se ne può fare a meno, perché di energia elettrica avremo sempre più bisogno per alimentare una flotta di 35 milioni di automobili da riconvertire all’elettrico!

Qui si apre un nuovo capitolo. Tutti (dalla Fiom a Salvini) a deplorare il fatto che l’auto elettrica contiene meno pezzi e richiede meno manodopera di quella a combustione. Nessuno a ricordare che persino l’Unione Europea ha stabilito che entro il 2050 il parco veicoli dovrà diminuire del 60 per cento. Dunque, se si rispettasse questo obiettivo a cui nessuno crede (e meno che mai i burocrati che l’hanno introdotto) la riduzione dell’occupazione nel settore dovrebbe andare ben oltre quella connessa al passaggio all’elettrico. E lo farà comunque perché la crisi climatica costringerà un numero crescente di persone ad andare a piedi (o a non spostarsi più) perché nel frattempo non saranno stati varati sistemi di trasporto pubblico o condiviso alternativi all’auto privata, elettrica o no.

D’altronde – qui hanno ragione Salvini e il branco di giornali di destra che gli fanno eco – l’auto elettrica presenta ben pochi vantaggi rispetto a quelle attuali. Consuma di meno, ma produce la stessa quantità di CO2 se l’elettricità continuerà a venir prodotta, in tutto o in parte, con i fossili; ma produce quasi la stessa quantità di inquinamento (particolato), che per l’80 per cento è generato non dagli scappamenti ma dall’attrito dei pneumatici e dei freni (e continuamente risollevato dal rotolamento delle ruote). Soprattutto ingombra quanto l’auto tradizionale, trasformando vie e piazze in parcheggi e camere a gas, devastando la socialità di strada, la vita dei bambini e degli anziani (ma anche quella degli adulti) e allontanando per sempre l’obiettivo, questo sì ecologista, della città dei 15 minuti.

Eppure l’auto elettrica, simbolo della continuità del nostro stile di vita prima e dopo la “transizione energetica” continua a essere al centro delle preoccupazione degli ecologisti: la cartina al tornasole del fatto che non hanno né capito né accettato l’idea della conversione ecologica. Sono e restano dei negazionisti di fatto. Inutile dire che un discorso analogo vale per tutti i natanti da diporto (dagli yacht di superlusso ai barchini fuoribordo, crociere comprese), nonché per tutti gli aerei privati, vero accaparramento del cielo da parte dei superricchi. Ma è il trasporto in generale, sia di merci che di passeggeri, come ha fatto notare Federico Butera a proposito del Ponte sullo Stretto, che è destinato a subire un drastico ridimensionamento: sia che si proceda in questa direzione con il progressivo potenziamento dell’economia circolare, che renderà esuberante gran parte della rete stradale, sia, com’è probabile, che ci si arrivi nel caos, per le rottura delle catene di fornitura indotte dalla crisi climatica e da tutto il disordine ”geopolitico” (leggi guerre) che ne conseguirà.

Anche sugli edifici sarebbe possibile promuovere, con l’efficienza, un risparmio energetico sostanziale, a patto che accanto agli obiettivi fissati per legge dall’Unione Europea (quelli contro cui urla la Lega di Salvini, tacciandola di essere una “patrimoniale” – non sia mai! – sulla casa) si varino a livello locale dei piani che non affidino al caso, come ha fatto il “110 per cento”, la messa a norma di qualche edificio, ma mettano invece in grado ogni proprietario, ogni condominio, ogni struttura, di disporre di un progetto organico che ne affronti tutti gli aspetti, dall’isolamento di pareti e infissi alla fornitura attraverso la costituzione di comunità energetiche, dall’efficientamento degli impianti alle regole di condotta e al finanziamento, ecc. Non succederà.

Ma che senso ha, avrebbe, promuovere la conversione energetica in un Paese solo, quando il resto del mondo (e soprattutto le economie emergenti, che ne rivendicano il diritto, perché non è a causa loro che si è arrivati a questo punto) continuerà a produrre imperterrito gas di serra e devastazioni ambientali che incidono su tutto il pianeta, noi compresi, portandolo allo stremo? Ha senso, posto che ci sia una possibilità di sopravvivere anche nelle condizioni estreme in cui ci si verrà a trovare. Perché le misure di mitigazione delle cause di alterazione del clima che il negazionismo di fatto evita accuratamente di adottare, e anche solo di volere, sono anche tutte misure di adattamento alle condizioni ostiche del “nostro comune futuro”.

Piccolo è bello: produzione e consumo di materiali, di suolo e di acqua, sprechi e produzione di scarti e rifiuti dovranno comunque ridursi drasticamente; i trasporti di merci saranno meno voluminosi e frequenti; i viaggi più impegnativi e sensati; gli impianti di generazione elettrica più differenziati e più distribuiti sul territorio; le città più compatte e gli spazi pubblici più liberi; la solidarietà più necessaria per affrontare le difficoltà di ogni giorno. Chi (le città e i territori) si sarà attrezzato per tempo per queste cose avrà più possibilità di sostenere una vita decente e di accogliere anche le persone costrette a fuggire dal loro Paese reso invivibile forse per sempre.


sabato 18 marzo 2023

L’Occidente visto dal resto del Mondo

dalla pagina http://www.costituenteterra.it/loccidente-visto-dal-resto-del-mondo/ 

I Paesi del Sud del mondo non dimenticano i torti subiti e i costi della soggezione al colonialismo europeo. I timori e la reazione di fronte alla nuova Guerra Fredda

Boaventura de Sousa Santos, Accademico portoghese, professore presso la Facoltà di Economia e Direttore del Centro di Studi Sociali dell’Università di Coimbra (Portogallo), uno dei leaders del Forum Sociale Mondiale.

Tra il 2011 e il 2016 ho condotto un progetto di ricerca finanziato dal Consiglio Europeo della Ricerca. L’ho chiamato “ALICE – Strange Mirrors, Unexpected Lessons: Defining for Europe a new way of sharing the world’s experiences”. In questo progetto ho cercato di dimostrare che l’Europa, dopo cinque secoli di tentativi di insegnare al mondo, si trovava di fronte a un mondo che non teneva conto delle lezioni dell’Europa e che, di fronte a questo, invece di proporre un isolazionismo strisciante, l’Europa doveva essere disponibile a imparare dal mondo e a utilizzare questo apprendimento per risolvere alcuni dei suoi problemi. La guerra in Ucraina ha dimostrato che le proposte della mia ricerca sono state poco utili ai politici europei, un’esperienza che non è nuova per gli scienziati sociali.

Nell’ottobre del 2022, otto mesi dopo l’invasione dell’Ucraina, un noto istituto dell’Università di Cambridge ha armonizzato e unito 30 sondaggi globali sugli atteggiamenti nei confronti di Stati Uniti, Cina e Russia. I sondaggi coprono 137 Paesi del mondo e il 97% della popolazione mondiale e sono stati condotti in 75 Paesi dopo l’invasione dell’Ucraina. Il risultato principale di questa indagine è che il mondo è diviso tra una piccola minoranza della popolazione mondiale, che ha una visione positiva degli Stati Uniti e un atteggiamento negativo nei confronti di Cina e Russia (1,2 miliardi di persone), e una grande maggioranza in cui è vero il contrario (6,3 miliardi). Sebbene lo studio si riferisca agli Stati Uniti, non è azzardato ipotizzare che, soprattutto dopo la guerra in Ucraina, l’Europa si associ agli Stati Uniti in maniera ancora più forte di prima.  Possiamo chiamare questa associazione “Occidente”. Ciò significa che, se prendiamo il mondo come unità di analisi, l’Occidente è più isolato che mai e questo spiega perché la stragrande maggioranza dei Paesi del mondo si è rifiutata di imporre le sanzioni alla Russia varate da Stati Uniti e Unione Europea. È importante conoscerne le ragioni. Vediamone alcune.

1. Il ministro degli Esteri indiano S. Jaishankar ha recentemente dichiarato in un’intervista che “l’Europa deve smettere di pensare che i problemi dell’Europa sono i problemi del mondo e iniziare a pensare che i problemi del mondo non sono i problemi dell’Europa”.  Il mondo del Sud globale deve affrontare una serie di sfide che l’Occidente non ha considerato prioritarie al di là dell’esuberanza retorica: le conseguenze della pandemia, gli interessi sul debito estero, l’impatto della crisi climatica, la povertà, la scarsità di cibo, la siccità e gli alti prezzi dell’energia. Durante la pandemia, i Paesi del Sud del mondo hanno insistito invano affinché le grandi aziende produttrici di vaccini del Nord del mondo rinunciassero ai diritti di brevetto per consentire alle loro popolazioni di vaccinarsi in modo ampio ed economico. Non c’è da stupirsi che gli ambasciatori europei e statunitensi non abbiano più credibilità o autorità per chiedere a questi paesi di imporre sanzioni alla Russia. Inoltre, al culmine della crisi pandemica, gli aiuti ricevuti provenivano principalmente da Russia e Cina.

2. La stessa mancanza di credibilità e autorità si verifica quando i Paesi del Sud globale sono chiamati a mostrare rispetto per l'”ordine internazionale basato sulle regole”. Per decenni (se non secoli) l’Occidente ha imposto unilateralmente le sue regole, arrogandosi il privilegio di dichiararle universali, riservandosi il diritto di sospenderle e violarle come meglio crede. Ecco alcune domande che si pongono questi paesi: quanti paesi sono stati invasi senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dalla Jugoslavia all’Iraq, dalla Libia alla Siria? Perché tutti coloro che osano denunciare l’abisso tra principi e pratiche vivono sepolti nelle prigioni o in esilio, come dimostrano i casi di Julian Assange ed Edward Snowden? Perché l’oro del Venezuela è ancora custodito nelle banche del Regno Unito (e non solo), mentre le riserve dell’Afghanistan rimangono congelate mentre la popolazione afghana muore di fame? Nessuno in Europa può immaginare quanto sia ridicolo il Segretario Generale della NATO quando viene sentito nel Sud globale invocare la Russia per l’uso di petrolio e gas come arma di guerra, quando per tanto tempo molti paesi hanno vissuto sotto l’arma di guerra del sistema finanziario globale controllato dagli Stati Uniti (sanzioni, embarghi, restrizioni).
Infine, lo scorso 8 febbraio, l’autorevole giornalista americano Seymour Hersh ha rivelato con informazioni inoppugnabili che sono stati gli Stati Uniti a pianificare, a partire dal dicembre 2021, il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream 1 e Nord Stream 2. Se così fosse, si tratterebbe di un crimine odioso e di un atto di terrorismo di Stato che non solo causerebbe un disastro ambientale irreparabile, ma creerebbe un precedente imprevedibile per tutte le infrastrutture sottomarine internazionali. Dovrebbe essere interesse degli Stati Uniti scoprire cosa è successo. Purtroppo, questo atto terroristico viene accolto con il più profondo silenzio.

3. La memoria dei Paesi del Sud globale non è così corta come pensano i diplomatici occidentali. Molti di questi Paesi sono stati soggetti al colonialismo europeo che, per tutto il XX secolo, è stato quasi sempre dipendente dalla complicità e dal sostegno degli Stati Uniti. La solidarietà con i movimenti di liberazione è arrivata dalla Cina e dalla Russia (allora Unione Sovietica) e questo sostegno è continuato in molti casi anche dopo l’indipendenza. Coloro che oggi invocano la solidarietà contro la Russia e la Cina, in passato sono stati ostili alle loro aspirazioni o sono stati assenti.

4. Stiamo entrando in una seconda guerra fredda, questa volta tra gli Stati Uniti e la Cina, e infatti il coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra in Ucraina mira, tra le altre cose, a indebolire il più importante alleato della Cina. I Paesi del Sud globale ricordano la prima Guerra Fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica e sanno per esperienza che, con poche eccezioni poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, l’allineamento incondizionato a una delle due fazioni non li ha avvantaggiati; al contrario, la Guerra Fredda si è spesso rivelata rovente per loro. A tal fine, nel 1955, 29 Paesi dell’Asia e dell’Africa (alcuni ancora colonie) e la Jugoslavia si riunirono a Bandung e crearono, a partire dal 1961, il Movimento dei Non Allineati. Non è un caso che l’appello per un nuovo Movimento dei Non Allineati si stia diffondendo oggi in tutto il Sud globale e che, di fatto, stia emergendo in nuove forme.

Boaventura de Sousa Santos

(da Other News 7 marzo 2023. Originale in portoghese in “Diário de Notícias”, Lisbona, 5 marzo 2023. Traduzione di Bryan Vargas Reyes).
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giovedì 16 marzo 2023

18 marzo. "TAV a Vicenza: Aria, acqua, suolo. La tempesta perfetta?"

Sabato 18 marzo dalle ore 9:00 
teatro San Lazzaro, via G. da Palestrina, Vicenza
 

 

 

25 marzo. Quale futuro per la Palestina?





23 marzo. Don Primo Mazzolari e la Resistenza

 


18 marzo: “Oltre l’Hijab”


 

Un incontro sulla situazione delle donne in Iran

Si intitola "Oltre l'Hijab" l'incontro che Centro Culturale San Paolo, Comunità Bahà'ì e Presenza Donna promuovono per raccontare, fuori dai luoghi comuni, quello che sta succedendo in Iran.
L'appuntamento è per sabato 18 marzo alle 17.00 nella sala Areopago del Centro Culturale San Paolo in Viale Ferrarin 30 a Vicenza. Interverranno Nibras Breigheche (Guida religiosa islamica) e Zoheida Mollaian (Comunità Bahá'í).

Le loro parole ci guideranno a scoprire il volto di chi si batte per la libertà, la laicità e la parità di genere. Anche la giornalista Romina Gobbo, nel suo ruolo di moderatrice, contribuirà al confronto, ponendo domande alle relatrici per fare il punto su una cultura che, in generale, resta ancora profondamente maschilista.

Un dialogo condotto da donne ma che riguarda anche gli uomini, come la partecipazione maschile alle proteste iraniane sta dimostrando. Nella consapevolezza che il progresso della società passa attraverso l'alleanza uomo-donna.

 

Cammino di Pace a Montecchio Maggiore: 26 marzo 2023 - ore 15.00

Diversi gruppi e associazioni laiche e cattoliche di Montecchio Maggiore e dell’Ovest Vicentino e le organizzazioni sindacali, hanno deciso di organizzare un cammino di pace nel proprio territorio, che si inserisce nel percorso più ampio (Europe for Peace), avviato a livello nazionale e in Europa, tra cui ricordiamo la manifestazione nazionale a Roma del 5 novembre 2022, la marcia per la Pace interdiocesana a Bassano del 29 gennaio e la marcia straordinaria Perugia-Assisi nella note del 24 febbraio scorso, con le tante iniziative territoriali nello stesso giorno.

Iniziative per non assuefarci alla logica della guerra, per dar voce alla pace e per fermare le tante stragi, partendo dalla richiesta di tregua immediata nel conflitto in Ucraina e nelle altre zone di guerra.

Abbiamo promosso questa iniziativa per continuare a 'Non restare indifferenti' e per mantenere l’attenzione e la consapevolezza sui tanti conflitti in corso e sulle loro cause e conseguenze. Vuole anche essere un’occasione per condividere, nel cammino collettivo, il valore della pace e ascoltare le voci di testimoni che ne costruiscono le condizioni e la rendono possibile con il loro impegno quotidiano, sia nel nostro territorio che in condizioni difficili di conflitto in altre zone del mondo.

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giovedì 9 marzo 2023

Costituente Terra. "COME CI SIAMO GIUNTI"

www.costituenteterra.it

Newsletter n. 107 del 9 marzo 2023

Carissimi,

Siamo entrati nel secondo anno di guerra, e ancora non si intravede alcuna soluzione. Mentre si riforniscono le retrovie di armi di ogni tipo e si ammassano le truppe, resta il rischio di un’escalation incontrollata in fondo alla quale c’è l’olocausto nucleare.

Come siamo giunti a tutto questo, com’è stato possibile che i sogni dell’89 si siano rovesciati nell’incubo che stiamo vivendo?  In quell’epoca con la caduta del muro di Berlino il treno della Storia era stato messo su un binario che correva verso un avvenire luminoso.  Purtroppo quell’avvenire promesso è tramontato nell’arco di una generazione.

Ciò è  stato il frutto di scelte precise degli architetti dell’ordine mondiale. All’inizio degli anni 90 l’Unione sovietica ha restituito l’autodeterminazione ai popoli dell’est europeo, la Germania si è riunificata, il Patto di Varsavia è stato disciolto, gli euromissili sono stati smantellati, mentre vengono firmati storici accordi sul disarmo. Questo clima di pacificazione doveva durare ben poco. Verrà interrotto dalla guerra del Golfo nel 1991, prima prova muscolare dell’impero sopravvissuto alla guerra fredda. Ma le vere scelte che cambiano il clima geopolitico vengono effettuate nel corso del 1997 dall’amministrazione Clinton che, stracciando gli impegni assunti con Gorbaciov, decide di estendere la NATO a est, cominciando a inglobare Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca. Si tratta della scelta politicamente più impegnativa che sia stata fatta dall’Amministrazione USA, dopo quella del contenimento dell’URSS, che ha dato origine alla prima guerra fredda. Contro questa scelta insorsero proprio coloro che la guerra fredda l’avevano teorizzata e praticata. In un articolo sul New York Times del 7 febbraio 1997 il diplomatico americano George Kennan, uno dei teorici della guerra fredda, lanciò un grido d’allarme, osservando:

La decisione di espandere la NATO sarebbe il più grave errore dell’epoca del dopo guerra fredda. Una simile decisione avrebbe l’effetto di infiammare le tendenze nazionalistiche antioccidentali e militariste nell’opinione pubblica russa, pregiudicherebbe lo sviluppo della democrazia in Russia, restaurerebbe l’atmosfera della guerra fredda nelle relazioni est ovest, spingerebbe la politica estera russa in direzioni a noi decisamente non favorevoli.

Clinton non ascoltò le proteste dei protagonisti della guerra fredda, fra cui lo stesso Henry Kissinger e andò avanti nel suo progetto. Nel summit che si svolse a Madrid l’8 e il 9 luglio 1997, la NATO assunse la decisione di estendersi a est, cominciando a includere Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, che furono formalmente ammesse nel 1999.

Della gravità e dell’importanza geostrategica di questa scelta, nessuna forza politica si rese conto e nessuno si oppose. In verità il grido d’allarme sollevato da George Kennan fu raccolto in Italia, in un isolato articolo pubblicato dal Manifesto il 24 giugno 1998 (D. Gallo, M. Dinucci, La nuova cortina di ferro). L’articolo sottolineava che dall’allargamento a est della NATO derivava il rischio di un’altra guerra fredda e osservava: 

E’ una decisione la cui portata è paragonabile, nella mutata situazione internazionale, a quella degli accordi di Yalta.”. (..)  nessuno può dire quali saranno in futuro le reazioni ed eventuali contromisure della Russia di fronte all’espansione della Nato verso i suoi confini. Sul piano geopolitico, è di tutta evidenza che il fatto di far avanzare le basi della Nato, portandole ai confini della Russia, costituisce oggettivamente un incremento della minaccia in senso tecnico-militare. Anche della minaccia nucleare”. 

In conclusione si osservava: 

Si pongono in questo modo le premesse per riesumare il fantasma della guerra fredda, fondata questa volta non più sulla competizione politico-ideologica fra i due blocchi, ma su un confronto meramente nazionalistico, come tale meno razionale e più imprevedibile. Cresce, pertanto, la possibilità che la marcia a Est della Nato crei un nuovo fronte di tensione tra Est e Ovest in cui l’Europa si troverebbe ancora una volta coinvolta. Insomma, di nuovo un fantasma si aggira per l’Europa”.

All’epoca non si poteva prevedere la guerra che sarebbe scoppiata 24 anni dopo, però non era difficile comprendere che la nuova guerra fredda che si stava impiantando sarebbe stata molto più pericolosa della prima perché avrebbe attizzato derive nazionalistiche molto più irrazionali del confronto ideologico che animava, ma frenava anche, la prima guerra fredda.

Il passo successivo è stato quello di cambiare la missione della NATO, che ha “superato” la sua natura di patto difensivo e si è trasformata in uno strumento militare del tutto svincolato dal rispetto della Carta dell’ONU. Questa nuova missione è stata sperimentata con l’aggressione alla Jugoslavia: settantotto giorni di bombardamenti ininterrotti, volti a smembrare l’integrità territoriale della Jugoslavia con la separazione del Kosovo. Nel summit per il cinquantenario della NATO a Washington il 23 e 24 aprile 1999, la NATO legittimava questo suo nuovo volto, dichiarandosi competente a compiere operazioni militari al di fuori dell’art. 5 del Patto Atlantico, cioè si riappropriava del diritto di guerra. Nel disinteresse generale è proseguita l’espansione della NATO a est, che ha inglobato anche quelle Repubbliche che una volta facevano parte dell’Unione Sovietica (Estonia, Lettonia e Lituania). Con il vertice di Bucarest del 2 aprile 2008, la NATO ha lanciato un ulteriore guanto di sfida alla Russia, dichiarando la disponibilità a inglobare anche Ucraina e Georgia.   Dopo un lavoro di ri-costruzione del nemico durato oltre venti anni, alla fine il nemico si è materializzato e la parola è passata alle armi.

In realtà, con la scelta che gli USA hanno imposto alla NATO nel luglio del 1997, il treno della Storia è stato deviato su un altro binario, e alla fine è arrivato il 24 febbraio del 2022, data che simbolicamente rappresenta l’evento opposto e contrario a quello del 9 novembre 1989.

Per uscire da questo disastro bisogna cambiare il capotreno e riportare il treno della Storia sul binario che stava percorrendo nel 1990.

Nel sito pubblichiamo un articolo di Raniero La Valle per un’autocritica dopo un anno di guerra, un altro di Boaventura de Sousa Santos sull’Occidente visto dai Paesi del Sud, e un articolo di Roberto Pizarro Hofer sul ritorno del protezionismo.

Cordiali Saluti,

www.costituenteterra.it (Domenico Gallo)


sabato 4 marzo 2023

pldm 6 marzo: La guerra in Ucraina, un anno dopo

dalla pagina https://ans21.org/semina-e-raccolto/primolunedidelmese/598-prossimo-pldm

Invito con preghiera di divulgazione
diretta del primolunedìdelmese su Facebook  e YouTube

6 marzo ore 20:30

Grande è il disordine mondiale:
come se ne esce?

Umberto De Giovannangeli
giornalista e saggista,
scrive, tra gli altri, per Il Riformista


Cuori e menti tra consenso e omologazione: 
cosa dicono i sondaggi

Andrea Scavo
direttore di ricerca
IPSOS Public Affairs


Un altro mondo possibile e urgente:
la resilienza dei pacifisti
Lucia Capuzzi
giornalista di Avvenire
e saggista


L’Europa tra welfare e warfare:
verso economie di guerra?

Rosa Pavanelli
segretaria generale federazione sindacale
Public Services International

 
Il pldm è frutto di un coordinamento ad hoc promosso, a Vicenza, da Alternativa Nord/Sud per il XXI secolo (ANS-XXI) cui aderiscono le associazioni vicentine:

Associazione Centro Astalli; Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI); Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL); Gruppo di Iniziativa Territoriale (GIT) Banca Etica; Progetto sulla soglia (Cooperativa Insieme, Cooperativa Tangram, Rete Famiglie Aperte); Ufficio Migrantes.

Info: primolunedidelmese@ans21.org