che accompagna la liturgia domenicale durante il Mese del Creato, segue lo stesso schema:
una parola chiave
una breve riflessione sulla parola chiave e su un brano della Laudato Si'
atto penitenziale
preghiere dei fedeli
un impegno concreto.
Questi la parola chiave e il brano della Laudato Si' proposti per ciascuna delle cinque Domeniche:
1. Domenica 6 settembre
RESPONSABILITA'
Laudato Si' n. 67
Anche se è vero che qualche volta i
cristiani hanno interpretato le Scritture in modo non corretto, oggi dobbiamo
rifiutare con forza che dal fatto di essere creati a immagine di Dio e dal
mandato di soggiogare la terra si possa dedurre un dominio assoluto sulle altre
creature. È importante leggere i testi biblici nel loro contesto, con una
giusta ermeneutica, e ricordare che essi ci invitano a «coltivare
e custodire» il giardino del mondo (cfr Gen 2,15). Mentre «coltivare»
significa arare o lavorare un terreno, «custodire» vuol
dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare. Ciò implica una
relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura. Ogni comunità può
prendere dalla bontà della terra ciò di cui ha bisogno per la propria
sopravvivenza, ma ha anche il dovere di tutelarla e garantire la continuità della
sua fertilità per le generazioni future.
2. Domenica 13 settembre
MISERICORDIA
Laudato Si'n. 91
Non può essere autentico un sentimento
di intima unione con gli altri esseri della natura, se nello stesso tempo nel
cuore non c’è tenerezza, compassione e preoccupazione per gli esseri umani. È evidente
l’incoerenza di chi lotta contro il
traffico di animali a rischio di estinzione, ma rimane del tutto indifferente
davanti alla tratta di persone, si disinteressa dei poveri, o è determinato a
distruggere un altro essere umano che non gli è gradito. Ciò mette a rischio il
senso della lotta per l’ambiente. Non è un caso che, nel
cantico in cui loda Dio per le creature, san Francesco aggiunga: «Laudato
si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per
lo tuo amore». Tutto è collegato. Per questo si richiede una preoccupazione per
l’ambiente unita al sincero amore per
gli esseri umani e un costante impegno riguardo ai problemi della società.
3. Domenica 20 settembre
DIGNITA'
Laudato Si'n. 128
Siamo chiamati al lavoro fin dalla
nostra creazione. Non si deve cercare di sostituire sempre più il lavoro umano
con il progresso tecnologico: così facendo l’umanità danneggerebbe sé stessa.
Il lavoro è una necessità, è parte del senso della vita su questa terra, via di
maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale. In questo senso,
aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio
per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di
consentire loro una vita degna mediante il lavoro.
4. Domenica 27 settembre
AGIRE
Laudato Si'n. 209
La coscienza della gravità della crisi
culturale ed ecologica deve tradursi in nuove abitudini. Molti sanno che il
progresso attuale e il semplice accumulo di oggetti o piaceri non bastano per
dare senso e gioia al cuore umano, ma non si sentono capaci di rinunciare a quanto
il mercato offre loro. Nei Paesi che dovrebbero produrre i maggiori cambiamenti
di abitudini di consumo, i giovani hanno una nuova sensibilità ecologica e uno
spirito generoso, e alcuni di loro lottano in modo ammirevole per la difesa
dell’ambiente, ma sono cresciuti in un
contesto di altissimo consumo e di benessere che rende difficile la maturazione
di altre abitudini. Per questo ci troviamo davanti ad una sfida educativa.
5. Domenica 4 ottobre
POSSESSO
Laudato Si'n. 93
Oggi, credenti e non credenti sono d’accordo
sul fatto che la terra è essenzialmente una eredità comune, i cui frutti devono
andare a beneficio di tutti. Per i credenti questo diventa una questione di
fedeltà al Creatore, perché Dio ha creato
il mondo per tutti. Di conseguenza, ogni approccio ecologico deve integrare una
prospettiva sociale che tenga conto dei diritti fondamentali dei più svantaggiati.
Il principio della subordinazione della proprietà privata alla destinazione
universale dei beni e, perciò, il diritto universale al loro uso, è una “regola d’oro”
del comportamento sociale, e il «primo
principio di tutto l’ordinamento etico-sociale».
dalla pagina https://www.nigrizia.it/notizia/we-have-a-dream
A 57 anni dal famoso discorso di Martin Luther King
Ripercorrendo il sogno di Martin Luther King di una terra dove uomini e donne di diverse provenienze, etnie, colori della pelle e religioni possano vivere insieme sulla terra, Nigrizia rende pubblica l'intervista integrale a Cecile Kyenghe, già ministra e europarlamentare. Il suo intervento si concentra sul tema scottante dei razzismi di oggi e dei percorsi per costruire nuove narrazioni e convivenze a partire dall'umano e dalla passione.
Filippo Ivardi Ganapini
Il sogno del profeta della pace Martin Luther King è quanto mai attuale. Quel 28 agosto del 1967 a Washington, alla fine della lunga marcia per il lavoro e la libertà, il pastore King parlò al cuore degli afroamericani per evocare con forza la fine del razzismo e l’inizio di un mondo dove bianchi e neri si sarebbero finalmente seduti insieme al banchetto di un’umanità plurale. Dal sogno di un uomo oggi passiamo al sogno collettivo. Nigrizia vuole sognare con il movimento Black Lives Matter un mondo radicalmente altro dove la convivenza tra diversi diventa un’opportunità di crescita e una ricchezza e non una minaccia che infiamma la paura.
Sono giorni concitati dove il rigurgito razzista torna prepotentemente alla ribalta. Domenica scorsa a Kenosha, nel Wisconsin, il ventinovenne afroamericano Jacob Blake è stato colpito alla schiena da alcuni proiettili dei poliziotti che lo hanno fermato mentre saliva in macchina con i figli. Jacob è rimasto paralizzato ma si è messa di nuovo in moto l’oda di manifestazioni di protesta che aveva avuto il suo apice con la vicenda drammatica dell’uccisione per soffocamento di George Floyd. La reazione è stata così forte che si é fermata per un attimo pure la Nba, il famosissimo campionato di basket.
Nigrizia ha incontrato una testimone speciale le cui parole assumono un valore particolarmente significativo in questa occasione storica: Cecile Kyenghe, italiana, originaria della Repubblica Democratica del Congo, medico, già ministro, deputato ed eurodeputato. Con lei vogliamo approfondire le origini del razzismo. Le abbiamo chiesto di affrontare le cause profonde del razzismo, il modo di dare continuità e rafforzare il movimento del Black Lives Matter e come affrontare il fenomeno degli attacchi a statue e monumenti di persone responsabili di gravi attentati storici alla libertà e alla dignità di interi popoli e comunità.
Cecile, la serie fotografica di Yinka Shonibare, artista britannico-nigeriano, intitolata The Sleep of Reason Produces Monsters (2008), ricrea un’omonima opera di Francisco Goya che fa molto riflettere sulla questione identitaria. Commentando una di queste sue opere l’artista dice: “Credo che le aggressioni irrazionali contro una razza che non si comprende generino un sonno della ‘ragione’ da cui fuoriescono mostri”. La paura e quindi il rifiuto e la violenza nei confronti del diverso da cosa sono originati? E’ solo questione di sonno della ragione o sotto c’è altro? Quanta consapevolezza, personale e comunitaria, c’è in questi atteggiamenti?
Il primo punto di riflessione parte dall'opera dell’artista Yinka Shonibare che tu ci hai descritto molto bene nella tua introduzione e ci parla delle aggressioni irrazionali contro una razza che non si comprende. In genere non è dalla ragione che fuoriescono mostri, paura, rifiuto, violenza nei confronti del diverso. Ci si chiede: “Da cosa sono originati? E’ solo una questione di sonno della ragione oppure altro? Quanta consapevolezza? Cerchiamo di rispondere a questi quesiti seguendo tre filoni: medico-scientifico, culturale-educativo, politico-democratico.
Il filo comune che legherà questi tre punti sarà la costruzione degli stereotipi, dei luoghi comuni e dei pregiudizi. Noi sappiamo bene che tutto quello che non conosciamo ci fa paura. Lo sperimentiamo ogni giorno. Da diversi secoli possiamo dire che questo punto ha contribuito a generare mostri e di conseguenza ha permesso di parlare del sonno della ragione. Ecco come. Analizziamolo da diversi punti di vista. Io però da medico posso dire che ho seguito e seguirò in questa intervista, in molti punti e per deformazione professionale, anche un metodo scientifico. Quindi un approccio che vada dall'individuare la causa al parlare della diagnosi, della cura e della prevenzione.
Il primo punto è quello medico-scientifico. La paura è una delle reazioni più radicate negli esseri umani. Il suo scopo è proteggerci dalle minacce esterne e soprattutto da tutto ciò che non conosciamo. Ha un ruolo così importante che è presente sia nella forma di vita più elementare sia in quelle più complesse. Può assumere forme semplicissime. E questo lo vediamo anche in alcuni animali. Io posso citare il caso della lumaca e della sua antenna che si ritira. Questa è una delle forme più elementari. Ma possiamo passare anche a forme molto più articolate. E in questo caso posso parlare dell’uomo. La paura innesca meccanismi che partono dal cervello esattamente in una parte che si chiama amigdala. Quindi in risposta ad uno stimolo per poi coinvolgere l’intero organismo. Cosa succede? Arriva lo stimolo, che noi non conosciamo, e questo va ad attivare l’amigdala e vengono rilasciati ormoni dello stress. Si attiva una parte del sistema nervoso che è coinvolta appunto in quelli che sono definiti attacco-fuga. Il cervello entra in uno stato di allerta e quindi in qualche modo reagisce subito. Nello stesso momento in cui vengono rilasciati questo fiume di ormoni, le pupille si dilatano, il respiro accelera, la frequenza cardiaca aumenta. E così la pressione e il flusso sanguigno. Mentre da una parte alcune attività sono accelerate, dall'altra, sempre per il rilascio di questi ormoni, alcune vengono messe in uno stato ridotto. Possiamo parlare per esempio del sistema gastrointestinale oppure dei muscoli.
Quindi la concentrazione è tutta sul pericolo che si sta vivendo in quel momento in cui vengono attivati tutti i meccanismi e tutto viene concentrato sullo stimolo, sul pericolo che arriva mentre tutto il resto viene accantonato. Il corpo si prepara ad affrontarlo e contemporaneamente parte la valutazione di questa minaccia. Questo avviene in un secondo tempo. L’istinto mi porta prima a tutto quello che ho descritto fino adesso per poi lasciare entrare in campo la parte razionale che cerca di dire alla parte emotiva se quello stimolo è un pericolo oppure no. Questo sistema complesso ha consentito all'uomo di sopravvivere per secoli agli innumerevoli pericoli nel corso della propria storia ed è lo stesso meccanismo che viene attivato di fronte a pericoli che minacciano la sopravvivenza. Tutto questo, in qualche modo, ci porta più o meno direttamente al sonno della ragione. Perché la prima cosa ad entrare in campo è proprio l’istinto. La parte razionale, all'inizio paralizzata, entra in campo subito dopo.
Come proposta per indicare una soluzione a questo primo livello serve un percorso terapeutico a seconda dello stimolo e che può essere quindi psicologico oppure psicoterapeutico.
Poi abbiamo il secondo punto che è quello culturale-educativo. In questo ambito possiamo parlare di tradizione, usanze. Attorno a tutto quello che non si conosceva nella storia abbiamo costruito falsi miti e leggende. Basti pensare alla caccia delle streghe che ormai fa parte del nostro vocabolario quotidiano dove i giudici, a quei tempi, passavano all'inquisizione, alla carcerazione e spesso anche alla tortura senza prove sufficienti contro gli accusati. Anche qui possiamo notare lo stesso processo. Non conoscenza, paura, reazione, sonno della ragione e così di seguito. Per passare poi alla parte propriamente culturale-educativa. Una società che non vuole aprirsi al diverso, una società monoculturale che si chiude a riccio e quindi cerca di giustificare il suo comportamento cosa fa? Crea il nemico. Imposta tutta la sua società sulla chiusura e anche qui il passaggio è sempre lo stesso. Si chiude a riccio cercando di giustificare il proprio comportamento. Comincia a creare gli stereotipi, i luoghi comuni, i pregiudizi e così via. Partendo da questi, si crea appunto il nemico perfetto che porta, il più delle volte, anche a violenze inaudite fin all'interno delle nostre società.
A questo livello abbiamo davvero bisogno di lavorare sull'educazione, la memoria, la scuola, l’educazione civica. E’ importante poter lavorare su alcuni temi che ci aiuteranno a sfatare alcuni miti, a lottare e a combattere gli stereotipi, a conoscere per non aver paura, a conoscere per cominciare anche ad interagire tra di noi attraverso l’arte, il teatro, la musica. La musica è stato uno strumento di difesa utilizzato per tanto tempo da molte comunità nel periodo della schiavitù dagli afro. Mentre per quello che riguarda il cinema, posso dire che è stato utilizzato anche in una campagna che è partita dagli Stati Uniti; se vi ricordate bene i telefilm I Robinson, i Jefferson, per cominciare a far vedere anche la presenza degli afro-americani nella società. Furono portati anche in Italia dove, da un punto di vista culturale, hanno contribuito ad un cambiamento. Ad esempio è molto più accettabile ascoltare qualcuno che dice “sono un nero americano” piuttosto che qualcuno che dice “sono di origine africana”. E questo perché sono stati proiettati per un bel periodo tutti i telefilm che facevano vedere comunque questa situazione, quindi la vita dei neri americani e ora si ha meno paura di quello che si comincia conoscere. E così anche il cinema, dove ci sono state delle denunce da parte degli afroamericani sulla presenza di pochi attori neri che vincono gli oscar e che ricoprono i ruoli più importanti nel cinema americano.
Il terzo ambito è quello del modello politico-democratico che cercherò di riassumere cercando di definire anche la politica: quell'insieme delle attività che hanno a che fare con la vita pubblica e quindi gestiscono il potere di alcuni uomini su altri, il governo, il rapporto tra governanti e governati, la condizione di sudditi e cittadini, l’organizzazione dello stato, le lotte dei partiti, le relazioni e i conflitti tra gli stati. Oggi purtroppo la politica viene percepita soprattutto come uno spettacolo, talk show, dichiarazioni sui social. Viene percepita come, lo vediamo, sotto forma di slogan, dichiarazioni, interviste oppure liti tra i diversi partiti politici o anche tra leader politici dimenticando la sua funzione primaria. Da qui possiamo notare una diretta relazione tra la democrazia nelle sue diverse forme quindi il potere delegante nella gestione della res publica e l’impatto sulla vita dei cittadini. I diritti civili, politici e sociali, che risentono appunto di questo stravolgimento del ruolo originario della politica mi portano a parlare della democrazia: quella rappresentativa a suffragio universale e quella diretta attraverso i referendum. Tutte e due cosa ci dicono? La democrazia rappresentativa delega l’amministrazione dei beni pubblici a una rappresentanza o ad una élite di politici. Mentre la democrazia diretta, attraverso i referendum, è la forma politica di esercitare il potere direttamente da parte del popolo. Purtroppo anche nelle migliori forme di democrazia qualcosa può sempre andare storto. Oggi notiamo che si confonde il mandato politico ottenuto dagli elettori per gestire la res publica nell'interesse di tutti i cittadini con l’assegnazione dei pieni poteri. Anche il mandato politico confidato dagli elettori ai partiti politici che hanno perso e che quindi sono all'opposizione, dovrebbe esercitare il controllo della democrazia nelle sedi istituzionali. Ma quello che tocchiamo con mano nella realtà é che purtroppo anche questo mandato perde quello che doveva essere il ruolo primario. Quindi una élite di politici di professione, e non, sequestrano la democrazia per far passare il pensiero unico. Viene offuscata la voce del popolo, da parte di chi ha avuto il mandato di rappresentanza, perché si interpreta quell'impegno a proprio uso e consumo esercitando così una vera e propria mercificazione della politica.
A questo livello come proposta mi sento di dire che serve una formazione politica e un’educazione civica. Dobbiamo riappropriarci del ruolo primario della politica.
Questa prima domanda mi permette di mettere sul tavolo il tema delle disuguaglianze globale e della lotta per ridurle. Diventa, in questo senso, prioritario il rispetto dei diritti civili, politici, sociali, in un mondo dove i diritti di alcuni cittadini vengono sistematicamente violati. Ritorniamo così a mettere l’accento sulla lotta al rafforzamento e al completamento della democrazia per consolidare i valori di libertà, uguaglianza e fraternità. Ma anche sul ruolo delle leadership politiche. Oggi alcuni leader politici, consapevoli del potere devastante della paura che genera odio e consenso, hanno cominciato ad utilizzare la paura come strumento di lotta politica arrivando a organizzare vere e proprie campagne di odio che sfociano in violenze inaudite. Hate speach, odio in rete, odio anche fuori della rete che arriva addirittura al cosiddetto hate crime, i crimini che conseguono a queste campagne di odio. I populismi oggi basano la loro strategia su questi meccanismi. Professionisti della fabbrica della paura dove gli strumenti o i rimedi sono ben lontani dall'essere a portata di mano perché i cittadini, che sono stati privati dei loro diritti fondamentali come l’accesso all'istruzione di qualità, non hanno strumenti di difesa, i cosiddetti anticorpi culturali. Inconsapevoli di essere strumentalizzati a beneficio di una élite di politici di professionisti oppure no ma di certo sono professionisti della paura.
I recenti episodi di razzismo negli USA e nel mondo hanno suscitato una forte reazione nel segno del movimento popolare Black Lives Matter che rivendica la dignità della vita di ogni persona di origine africana. Nelle manifestazioni svoltesi in diversi angoli della terra hanno camminato insieme persone di diverse comunità, etnie, religioni. L’appartenenza identitaria si gioca maggiormente sul criterio delle comuni origini, su quello dell’inserzione dentro una particolare cultura di adozione oppure su quello dei sogni comuni di un umanità plurale? Cosa fare per dare continuità ad un movimento che può davvero minare le basi dei sovranismi e nazionalismi che sembrano avanzare nel mondo?
Cercherò di darti una risposta. Non è una risposta diretta ma un po’ più articolata.
Parto dal fatto che una società plurale ha bisogno di reggersi su alcuni principi fondamentali che sono stati accettati da tutti e che debbono essere stabiliti e sanciti politicamente. Lo sappiamo bene. Se vogliamo vivere insieme, se vogliamo interagire e parlare, se vogliamo proprio condividere gli spazi, ci dobbiamo dare delle regole. Questa è la base fondamentale della vita. E’ fondamentale darsi delle regole che tutti devono rispettare per poter vivere insieme e quindi anche la società, in questo caso plurale, deve fare altrettanto. All'interno degli stati democratici questi principi sono stati scritti dentro le costituzioni e quindi proclamati anche dalle convenzioni internazionali come la Convenzione Internazionale dei diritti umani e la Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo. Questi testi regolano le fondamenta dei diversi settori sociali, dei governi, degli Stati ma, se scendiamo anche nel particolare, di ogni comunità per quei gruppi che si riconoscono in un particolare stato. Ci sono comunque delle regole che vengono scritte, accettate e sottoscritte da tutti e che diventano la base della convivenza. Ciò che va contro questi principi non può essere accettato.
Partendo da tutto questo capiamo quanto la diversità debba essere un valore per ogni società. La diversità deve essere riconosciuta. Bisogna investire sulla diversità in tutti i settori perché se noi non riconosciamo la diversità, se noi annulliamo le diversità, allora possiamo parlare di una società monoculturale. Ma qui stiamo parlando di una società plurale e ci domandiamo in che cosa si riconosce. Se ogni diversità é riconosciuta, se ogni gruppo è coeso io credo che a guadagnarne è lo stato stesso. Perché la persona che si riconosce in uno stato, la persona che è fiera e sa che è riconosciuto in quello stato ha anche la possibilità di dialogare molto più facilmente con altri gruppi. A quel punto possiamo parlare di una società plurale e questo ci porta piano piano verso il concetto del meticciato. Una ricchezza culturale enorme.
Mi domando cosa sarebbe la straordinaria ricchezza italiana se gli autoctoni non avessero accolto il nuovo che proveniva dai vari popoli con i quali entravano in contatto . Cosa sarebbe stata la Roma antica senza l’apporto culturale dei greci? Cosa sarebbero state la scienza, la tecnologia senza il contributo della civiltà araba? Cosa sarebbe stata l’Italia se si fosse chiusa all'arrivo di altri popoli o all'arrivo della religione mediorientale che è il cristianesimo? Cosa sarebbe stata la meravigliosa cucina italiana se non si fossero voluto usare ingredienti un tempo esotici arrivati dall'America come il pomodoro e il mais? Tutti questi elementi erano prima entità diverse dentro uno stato che ha saputo portarli poco alla volta verso una società plurale che ha fatto di tutto questo un valore aggiunto considerandolo parte integrante della sua cultura arrivando fino al meticciato. L’Italia è bella perché ha saputo respirare venti che soffiavano da ogni punto cardinale e quindi il meticciato, così tanto contrastato, è diventato una realtà oggi. Non ha senso chiedersi se si è a favore o contro la società multiculturale perché le civiltà monoculturali non esistono, né sono mai esistite. Tutti i consorzi umani sono frutto di intrecci e mescolanze di popoli e culture. Chiudersi a riccio verso l’arrivo del nuovo è dunque uno sperpero inutile di buone energie. Tutto questo ragionamento ci porta a dire che ci si riconosce nel paese dove si arriva dopo un lungo percorso. Ognuno e ognuna di no però ha bisogno di rafforzare anche la propria identità. Definirsi è fondamentale per poter dialogare con altri e altre e tutto il resto è un po’ una conseguenza di queste regole che costruiamo insieme per poter formare una società armoniosa.
Credo allora che, per dare continuità a questo movimento Black Lives Matter che in questo periodo ha riempito le nostre piazze e le nostre strade, dobbiamo dargli forza. Riconoscendo e abbracciando la sua causa. Non sentendolo semplicemente come qualcosa che non è nostro ma riconoscendo il tema vero per cui le persone sono scese per strada abbracciando quella causa. Quel movimento può dare degli input, degli stimoli, delle proposte che la politica può abbracciare per poi darne delle risposte istituzionali rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale che di fatto limitano l’eguaglianza dei cittadini in dignità e così non consentono il pieno sviluppo della persona umana come indica bene l’articolo 3 della nostra Costituzione.
Mercoledì 16 luglio a città del Capo è stata divelta la testa del monumento a Cecil Rhode, imperialista britannico, in linea con diversi altri episodi legati a icone storiche contestate da chi prova a rileggere la propria storia da un’altra prospettiva. Attraverso quali passi concreti si può rileggere la storia con gli occhi di chi ha subito soprusi e ingiustizie? Come poter intraprendere un cammino di riconciliazione con un passato ingiusto in vista della costruzione di una nuova comunità che si pensa e si ridisegna nel solco della convivialità delle differenze?
Rileggere la storia con gli occhi di chi ha subito soprusi e ingiustizie è una battaglia di civiltà che passa dal rispetto delle libertà civili e democratiche, dei diritti civili, politici e sociali. Diventare protagonisti e partecipi nella rilettura della storia per evitare che possa essere interpretata solo da un unico punto di vista. Ribadisco ancora: libertà uguaglianza e fraternità. Per la fratellanza, lo avevo scritto in un libro alcuni anni fa, abbiamo fatto delle lotte delle battaglie per la libertà. Abbiamo fatto delle battaglie anche nel nome dell’uguaglianza. Manca la terza rivoluzione: quella della fratellanza.
Questa intervista è molto impregnata di questa voglia di far capire che la grande risposta è quella della fratellanza, la rivoluzione della fratellanza. Per secoli la storia è stata raccontata solo dalla prospettiva del vincitore. Dalla prospettiva di chi ha schiavizzato un popolo, di chi ha oppresso oppure dalla prospettiva del più forte. Per coronare tutto questo vengono erette statue, monumenti, sculture. Per non dimenticare, si dice. Dimenticando invece che quelle statue, monumenti e sculture rappresentano il punto di vista di una parte della società ma soprattutto il punto di vista del vincitore, di chi ha schiavizzato un popolo. Mettendo da parte quindi, nella totale incuranza, il sentimento delle vittime e non rappresentando nella nostra società un altro punto di vista: quello delle persone che hanno subito soprusi.
E’ vero, la storia non si può cancellare ma si può raccontare da diverse prospettive. Abbiamo assistito nel corso degli anni che quando cade un regime vengono distrutti o cancellati luoghi, oggetti che ne ricordano l’esistenza. Lo abbiamo visto con Ceaușescu, con Saddam Hussein e lo stiamo vedendo con tanti dittatori in Africa, Sud America, in Asia, ovunque.
Però questa volta è diverso. La rivoluzione in atto in questo momento ci offre l’opportunità di mettere in discussione l’architettura culturale delle nostre città. Ma questo sta succedendo nello stesso momento in tutto il pianeta abbracciando la stessa causa: vogliamo rivedere un po’ l’architettura delle nostre città. La lettura della nostra storia, la sua interpretazione ci porta a dire che non possiamo perdere questa opportunità che diventa una rivoluzione culturale che cambia il significato di statue, monumenti che pullulano i nostri spazi con un passato da schiavisti o colonizzatori che vengono celebrati da eroi. Agli occhi di sempre più persone questo diventa insopportabile al punto da essere una memoria soffocante e abbattere quelle statue, monumenti, sculture diventa una reazione naturale. Non si può ignorare in tutta la sua drammaticità, perché sempre è un atto violento. E bisogna cercare di governare, di gestire questo fenomeno prima che ci sfugga di mano.
Quando viene eretta una statua le persone che la vedono presumono che sia stato un grande uomo o una grande donna. Ma il più delle volte si sanno soltanto nome e cognome senza conoscere esattamente chi è stato. Si apre così anche una discussione sulla memoria visiva perché andrebbero forniti altri elementi alla gente per capire meglio la persona nel suo contesto. Nel processo di gestione e di governo di questo fenomeno possiamo cominciare a fare delle proposte come quella di spiegare esattamente, attraverso un cartello, che cosa ha fatto quella persona, la sua storia, il ruolo che ha avuto. Ad esempio il ruolo che ha svolto nella macchina coloniale oppure in un altro periodo della storia, che ha oppresso le persone, se così è stato. Si tratta di un processo di educazione culturale attraverso la memoria, prendendo a cuore le radici storiche. I luoghi della memoria per esempio sono tanti e non sono semplicemente i posti dove viene celebrato qualcosa di positivo ma ci sono quelli che vengono curati e organizzati per non dimenticare gli orrori del passato. Una memoria per evitare che la storia si ripeta. Ad esempio luoghi come Auschwitz sono quei memoriali del disumano e dei crimini più efferati della storia che feriscono ancora oggi il cuore del mondo e che sono da visitare per non dimenticare e non ripetere mai più.
Ecco noi abbiamo l’obbligo di raccontare esattamente i monumenti che erigiamo per poi prenderne le distanze in alcuni casi. La storia non si cancella però dobbiamo evitare che la storia si possa ripetere due volte e che gli orrori del passato possano ritornare.
Per intraprendere un cammino di riconciliazione con un passato ingiusto in vista della costituzione di nuova comunità che si pensa e si ridisegna nel solco della convivialità delle differenze è fondamentale partire dai diritti che sono un bene comune: conoscenza, arte, pace. Più sono distribuiti, più ciascuno di noi ne gode. C’è bisogno però di una parola: democrazia. La democrazia è una parola che evoca valori di libertà, giustizia, ed uguaglianza. Completare la democrazia in Europa significa riuscire a garantire a tutti i cittadini eguali diritti nel rispetto delle nostre costituzioni nelle Convenzioni internazionali siglate tra diverse nazioni, tra diverse popoli, tra diverse regioni geografiche. Le forze progressiste devono essere in prima linea nel portare la cultura umanista nelle istituzioni e nella società. Un cammino di riconciliazione parte dal riconoscere queste atrocità o crimini commessi all'interno delle nostre società. Un processo di revisione dell’interno sistema istituzionale deve portare dignità e giustizia sia alle vittime sia alle istituzioni che ne sono state responsabili. Un percorso di verità e riconciliazione sulla scia del modello sudafricano.
Mandela ha basato gran parte delle sue battaglie sui diritti civili per percorrere un cammino di verità, perdono e giustizia. Ma il passato del Sudafrica, dell’apartheid, che sembrava superata con l’arrivo al potere di Nelson Mandela è ancora lì che ci parla. Sembrano permanere, ancora con più forza devastatrice, i due principali mali che allora affliggevano il paese: la disuguaglianza economica e il razzismo. La disuguaglianza economica è tuttora il pilastro strutturale architettonico del secondo tarlo. La persistenza dei privilegi, allora come oggi, sfocia nella divisione razziale. La questione del razzismo in Sudafrica é talmente pervasiva che assume persino un valore transrazziale. Se guardiamo il Sudafrica vediamo come oggi abbiamo bisogno di fare dei passi avanti. Abbiamo bisogno di andare oltre. Nelson Mandela ha iniziato un percorso che ancora non è finito e che il Sudafrica deve assumere. Dobbiamo decostruire queste infrastrutture e istituzioni architettoniche economiche che sono inquinate dalla corruzione e che continuano a perpetuare i privilegi di pochi perché questa disuguaglianza vuol dire proprio la persistenza dei privilegi. I poveri sono terribilmente aumentati. La miseria è alle stelle. Il Sudafrica oggi ha bisogno di andare oltre e quindi lavorare sulla riduzione delle disuguaglianze e sulla decostruzione dell’architettura del razzismo.
Qui concludo perché l’esempio del Sudafrica è uno degli esempi che ci fa vedere che per affrontare questo tema, per vedere come fare un cammino di riconciliazione, non basta semplicemente una parte dei diritti civili ma bisogna decostruire proprio l’architettura del razzismo altrimenti non lo si vince alla radice. Dobbiamo avere un approccio olistico, trasversale senza il quale, in molti settori, si fa fatica e si rischia semplicemente di fare una operazione di mera sostituzione.
Un appuntamento formativo utile ed interessante: la questione
dell'autonomia.
In vista delle prossime elezioni regionali proviamo a ragionare
assieme attorno a questo grande tema, spesso sbandierato ma
affrontato a fatica nei discorsi nelle piazze e nei mezzi di
comunicazione.
"Te la do io l'autonomia" - Venerdì 4
settembre 2020, ore 20.30 presso il Chiostro di san Lorenzo, piazza
San Lorenzo 4 Vicenza
L'appuntamento è stato pensato da "La Rete di Sale" costituita da
Laboratorio di Cittadinanza Attiva di AC Vicenza, Centro culturale
San Paolo, CISL Vicenza, MEIC, Movimento dei Focolari Vicenza,
Parrocchia San Paolo (Vicenza), La Voce dei Berici e l'Ufficio
diocesano di Pastorale Sociale e del Lavoro.
Per partecipare occorre iscriversi attraverso il form on line che
trovate indicato nel volantino oppure inquadrando con il proprio
cellulare il QrCode.
Questione di numeri. Il referendum sulla riduzione del taglio dei parlamentari è anzitutto una questione di numeri. Alla Camera 630 o 400 deputati? Al Senato 315 o 200 senatori? Oltre le cifre si trovano molte altre questioni: il ruolo del Parlamento negli equilibri costituzionali, la ripartizione dei seggi regionali per il Senato, la qualità degli eletti e delle leggi, ecc. Ma restando ai numeri, si possono già cogliere alcuni aspetti rilevanti.
I deputati nella storia d’Italia Nel 1861 con l’Unità d’Italia i deputati erano 443, mentre gli abitanti erano 22 milioni (quindi un deputato ogni 50 mila abitanti). Nel 1865 i deputati italiani divennero 493 con 24 milioni di abitanti (rapporto 1 a 49 mila). Nel 1870 il numero di deputati salì a 508 con 27 milioni di abitanti (1 ogni 53 mila). Nel 1921 i deputati erano arrivati a 535 con 39 milioni di abitanti (1 ogni 73 mila). Nel 1946 furono eletti all’Assemblea Costituente 556 membri con 45 milioni di abitanti (1 ogni 80 mila). Dal 1946 al 1963 si è mantenuto il rapporto di 1 deputato ogni 80 mila abitanti, come prescriveva la Costituzione: aumentando la popolazione, il numero dei deputati è continuamente salito: 574 nel 1948, 590 nel 1953, 596 nel 1958 e 630 nel 1963, anno in cui è stato fissato il numero assoluto di 630 deputati (e di 315 senatori) a prescindere dal numero di abitanti, che all’epoca erano 51 milioni. Di conseguenza, oggi i deputati sono ancora 630, anche se la popolazione è di 60 milioni: l’attuale rapporto tra deputati e abitanti è di 96 mila, cioè il più basso della storia d’Italia. Con un’unica eccezione: nel 1928 il numero dei deputati fu ridotto a 400 per volere di Benito Mussolini e del regime fascista. All’epoca gli abitanti erano 40 milioni e di conseguenza il rapporto scese ad 1 ogni 100 mila. Oggi con il referendum costituzionale si propone di ridurre i senatori da 315 (1 ogni 192 mila abitanti) a 200 (1 ogni 302 mila) e i deputati da 630 (1 ogni 96 mila) a 400 (1 ogni 151 mila abitanti). L’eventualità che nel 2020 i deputati diventino meno di quelli dell’epoca dell’Unità d’Italia e soprattutto che il rapporto tra deputati e popolazione passi da 50 mila (nel 1861) a 151 mila (se verrà confermata la revisione della Costituzione) dovrebbe far riflettere.
Il confronto con gli altri Paesi europei Attualmente i deputati tedeschi sono 709, quelli del Regno Unito 650. In Italia sono 630 e si propone di diminuirli, sostenendo che un’Assemblea così numerosa non può funzionare bene. Questa proposta avrebbe un senso soltanto se si dimostrasse che le Camere della Germania e del Regno Unito funzionano assai male. Restiamo in attesa di prove e riscontri. Tralasciando i numeri assoluti, si possono confrontare quelli relativi, cioè il rapporto tra deputati ed abitanti. In Europa attualmente i cittadini con meno rappresentanti sono gli spagnoli (1 deputato ogni 133 mila abitanti). A seguire i tedeschi e i francesi (1 ogni 116 mila), gli olandesi (1 ogni 114 mila) e quelli della Gran Bretagna (1 ogni 101 mila), che precedono gli italiani (1 ogni 96 mila). Nel resto d’Europa il rapporto tra deputati e popolazione è più elevato, anche in Paesi con popolazioni non piccole (Polonia, Romania, Belgio, Grecia, Portogallo, Svezia). Dai dati potremmo dire che l’Italia si trova oggi in una posizione intermedia ed equilibrata. Il problema sta nella proposta referendaria, poiché con 400 deputati l’Italia si andrebbe a collocare all’ultimo posto della classifica europea nel rapporto tra deputati ed eletti (1 ogni 151 mila). Non è tutto. L’Italia è l’unico Paese europeo con un bicameralismo paritario (detto anche perfetto). Camera e Senato hanno identici poteri e funzioni. Ciò significa che nel confronto con le Assemblee legislative degli altri Paesi europei, oltre alla Camera, bisognerebbe inserire autonomamente anche il Senato. Così facendo, il rapporto tra eletti e abitanti è già il più basso d’Europa (1 a 192 mila) e con la proposta di revisione costituzionale scenderebbe addirittura ad 1 ogni 302 mila abitanti. Non c’è nulla di paragonabile in Europa.
La circoscrizione regionale dei senatori La Costituzione vigente stabilisce (art. 57) che i senatori siano eletti “a base regionale” e che ogni Regione debba eleggere almeno 7 senatori, con l’eccezione del Molise e della Valle d’Aosta. Se il referendum costituzionale venisse approvato il Friuli e l’Abruzzo passerebbero da 7 a 4 senatori, mentre l’Umbria e la Basilicata passerebbero da 7 a 3 senatori; è evidente che la riduzione sarebbe drastica e si creerebbe una soglia implicita assai elevata per essere eletti. Di fatto soltanto le forze politiche maggiori potrebbero eleggere senatori in queste Regioni: le minoranze non avranno alcun seggio. È il caso di ricordare che la “base regionale” iscritta nel testo costituzionale ha lo scopo di valorizzare l’espressione dei territori nel Senato della Repubblica. Riducendo il numero dei senatori, di fatto si comprime fortemente la pluralità delle voci delle Regioni più piccole. Non è un buon segnale.
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Rocco Artifoni Rocco Artifoni è nato a Bergamo nel 1960. È presidente nazionale dell’Associazione per la Riduzione del Debito Pubblico (www.ardep.it) e referente per la Lombardia dell’Associazione Art. 53 (www.articolo53.it). Principali appartenenze e impegni locali (provincia di Bergamo): Consiglio Direttivo della Fondazione Serughetti La Porta (www.laportabergamo.it), Comitato provinciale per l’abolizione delle barriere architettoniche (www.diversabile.it), Coordinamento provinciale di Libera (www.liberabg.it), Comitato bergamasco per la difesa della Costituzione (www.salviamolacostituzione.bg.it), Scuola di educazione e formazione alla politica We Care (www.scuolawecare.it), Redazione della rivista L’Incontro e delle Edizioni Gruppo Aeper (www.aeper.it). Nel 2014 ha pubblicato insieme a Filippo Pizzolato “L’ABC della Costituzione” per le Edizioni Gruppo Aeper con prefazione di don Luigi Ciotti. Nel 2018, insieme a Francesco Gesualdi e Antonio De Lellis, per CADTM Italia ha pubblicato il dossier “Fisco & Debito. Gli effetti delle controriforme fiscali sul nostro debito pubblico”.
All’udienza generale dalla Biblioteca del Palazzo Apostolico, Francesco prosegue il ciclo di catechesi sulla crisi del Covid-19 analizzando le gravi conseguenze di una crescita economica iniqua. Giustizia sociale e tutela del Creato sono imprescindibili, ripete, levando un forte appello per i tanti bambini che nel mondo muoiono di fame e non hanno accesso all’istruzione
Debora Donnini – Città del Vaticano
In mondo solcato da profonde disuguaglianze sociali, aggravate dalla pandemia, e da un modello economico spesso indifferente ai danni inflitti alla casa comune, il Papa nella catechesi all'udienza generale esorta i cristiani a condividere i propri beni, mettendoli a frutto anche per gli altri, e si richiama, per questo, all’esperienza delle prime comunità cristiane che, anche vivendo tempi difficili, mettevano i loro beni in comune, “consapevoli di formare un solo cuore e una sola anima”. (Ascolta il servizio con la voce del Papa)
La pandemia ci ha messo tutti in crisi. Ma ricordatevi: da una crisi non si può uscire uguali. O usciamo migliori, o usciamo peggiori. Questa è la nostra opzione. Dopo la crisi, continueremo con questo sistema economico di ingiustizia sociale e di disprezzo per la cura dell’ambiente, del creato, della casa comune? Pensiamoci. Possano le comunità cristiane del ventunesimo secolo recuperare questa realtà, - la cura del creato e la giustizia sociale: vanno insieme… - dando così testimonianza della Risurrezione del Signore. Se ci prendiamo cura dei beni che il Creatore ci dona, se mettiamo in comune ciò che possediamo in modo che a nessuno manchi, allora davvero potremo ispirare speranza per rigenerare un mondo più sano e più equo.
Un'economia malata frutto di una crescita economica iniqua
La pandemia ha infatti aggravato le disuguaglianze, ribadisce più volte il Papa: alcuni bambini possono ancora ricevere un’educazione scolastica, per altri si è interrotta; alcune nazioni possono emettere moneta per affrontare l’emergenza, mentre per altre significherebbe ipotecare il futuro. Si tratta di sintomi che rivelano una precisa patologia:
Questi sintomi di disuguaglianza rivelano una malattia sociale; è un virus che viene da un’economia malata. E dobbiamo dirlo semplicemente: l’economia è malata. Si ammalò. E’ ammalata.
E Papa Francesco, nella catechesi, offre una panoramica estesa di come questo sia frutto di una “crescita economica iniqua” che prescinde dai valori umani fondamentali. “Nel mondo di oggi - sottolinea - pochi ricchissimi” - “un gruppetto” - “possiedono più di tutto il resto dell’umanità”. Si tratta, evidenzia, di “un’ingiustizia che grida al cielo!”. D’altra parte questo modello di crescita economica sembra indifferente ai danni inflitti al creato, con conseguenze “gravi e irreversibili” come perdita della biodiversità, cambiamenti climatici, distruzione delle foreste tropicali. "Siamo vicini - avverte ancora - a superare molti dei limiti del nostro meraviglioso pianeta". Disuguaglianze sociali e degrado ambientale hanno “la stessa radice”: il peccato di “voler possedere e dominare i fratelli e le sorelle, la natura e lo stesso Dio”. Di fronte a tutto questo, i cristiani non devono rimanere fermi: la speranza cristiana sostiene la volontà di condividere.
Quando l’ossessione di possedere e dominare esclude milioni di persone dai beni primari; quando la disuguaglianza economica e tecnologica è tale da lacerare il tessuto sociale; e quando la dipendenza da un progresso materiale illimitato minaccia la casa comune, allora non possiamo stare a guardare. No, questo è desolante. Non possiamo stare a guardare! Con lo sguardo fisso su Gesù e con la certezza che il suo amore opera mediante la comunità dei suoi discepoli, dobbiamo agire tutti insieme, nella speranza di generare qualcosa di diverso e di meglio.
Tanti bambini muoiono di fame e non hanno diritto alla scuola
Nel cuore del Papa, in particolare, le condizioni dei bambini. Per rendersene conto, basta leggere le statistiche:
Quanti bambini, oggi, muoiono di fame per una non buona distribuzione delle ricchezze, per un sistema economico come ho detto prima; e quanti bambini, oggi, non hanno diritto alla scuola, per lo stesso motivo. Che sia questa immagine, dei bambini bisognosi per fame e per mancanza di educazione, che ci aiuti a capire che dopo questa crisi dobbiamo uscire migliori.
Amministratori dei beni, non padroni
Richiamandosi varie volte al Catechismo e al Libro della Genesi, Francesco ricorda che Dio ha chiesto all’uomo di dominare la terra coltivandola e custodendola. Non quindi “carta bianca per fare della terra ciò che si vuole”, nota il Papa, perché esiste una “relazione di reciprocità responsabile” fra noi e la natura. La terra infatti è stata data a tutto il genere umano e i suoi frutti devono arrivare a tutti, non solo ad alcuni. Come ricorda anche la Gaudium et spes del Concilio Vaticano II "l’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma anche agli altri". Quindi, come un amministratore della Provvidenza, far fruttificare i doni perché anche gli altri ne beneficino. "Amministratori dei beni, non padroni", ribadisce Francesco ricordando "una regola d'oro" del comportamento sociale evidenziata anche nella Laudato si': "la «subordinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni»".
Fioriamo in comunità
In sintesi, proprietà e denaro sono “strumenti” che possono essere trasformati facilmente in “fini, individuali o collettivi” ma così - avverte - vengono intaccati i valori umani essenziali.
L’homo sapiens si deforma e diventa una specie di homo œconomicus – in senso deteriore – una specie di uomo individualista, calcolatore e dominatore. Ci dimentichiamo che, essendo creati a immagine e somiglianza di Dio, siamo esseri sociali, creativi e solidali, con un’immensa capacità di amare. Ci dimentichiamo spesso di questo. Di fatto, siamo gli esseri più cooperativi tra tutte le specie, e fioriamo in comunità, come si vede bene nell’esperienza dei santi.
Il Papa lo rimarca, richiamando proprio il detto spagnolo: "florecemos en racimo como los santos, fioriamo in comunità come si vede nell’esperienza dei santi".
Al termine della catechesi, nei saluti il Papa ha ricordato che oggi la Chiesa in Polonia celebra la Solennità della Madonna Nera di Czestochowa, richiamando anche la sua visita in quel Santuario, quattro anni fa, in occasione della Gmg. Nel suo pensiero anche la memoria, domani e dopodomani, di santa Monica e suo figlio sant’Agostino. "Il loro esempio e la loro intercessione - ha detto - spingano ciascuno ad una ricerca sincera della Verità evangelica".
Luca Ricolfi racconta l’Italia: un Paese diventato società signorile di massa e che vive al di sopra delle proprie possibilità. Ma fino a quando?
Luca Ricolfi, sociologo, classe 1950, insegna Analisi dei dati nell'Università di Torino ed è Presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume. È uno dei pochi che ci stanno capendo qualcosa e che sa anche dirlo numeri alla mano. Il suo ultimo lavoro si intitola La società signorile di massa, in libreria con La Nave di Teseo.
Che cos'è la società signorile di massa? È l’Italia di oggi, un posto dove si produce poco ma si consuma moltissimo. Un posto dove i cittadini che non lavorano hanno superato ampiamente il numero di cittadini che lavorano, dove larga parte della popolazione ha accesso a consumi opulenti e dove allo stesso tempo la produttività è ferma da vent'anni.
E malgrado tutto questo, si continua a vivere alla grande. Com'è possibile? Perché il conto qualcuno dovrà pur pagarlo. Ricolfi proprio questo ha intuito: chi, come e quando pagherà il conto.
Ricolfi, La società signorile di massa si regge su tre pilastri. Il primo è la ricchezza accumulata dalle generazioni dei nonni e dei padri: come hanno fatto ad accumularla? Le condizioni fondamentali che nel secondo dopoguerra hanno permesso di accumulare ricchezza sono essenzialmente tre. La prima è la disponibilità della popolazione a fare sacrifici in vista di benefici futuri, un fattore che è venuto meno già verso la fine degli anni ‘70. La seconda è la contenuta pressione fiscale, di cui abbiamo smesso definitivamente di beneficiare dalla metà degli anni ’80 in poi. La terza è il cocktail di svalutazioni competitive e indebitamento pubblico, che ha drogato la crescita economica nel ventennio 1972-1992. Quest’ultimo fattore è venuto meno con gli accordi di Maastricht (1992) e l’ingresso nell'euro (1999).
Le tre condizioni precedenti sono sostanzialmente irripetibili.
Salvo forse quella della pressione fiscale, che in teoria potrebbe scendere un po’, anche se difficilmente al livello dei primi anni ’80 (sotto il 35%, contro il 42% di oggi).
Secondo pilastro su cui regge la società signorile di massa è la distruzione della scuola, che in sostanza ha prodotto e produce incolpevoli velleitari totalmente impreparati al lavoro. È un punto in cui ho rivisto un po’ de la Teoria della classe disagiatadi Raffaele Alberto Ventura. Cosa è andato storto? Si studia troppo o troppo poco? Ci si laurea “male”? La Teoria della classe disagiata è probabilmente il testo più profondo, e libero da preconcetti ideologici, che io abbia letto sull'Italia di oggi, e sui giovani in particolare. Su questo punto, quello della condizione giovanile, il quadro che dipinge Ventura ha molti punti di contatto con quello che ho provato a tracciare io, una prima volta in un capitolo de L’enigma della crescita (Mondadori 2014), poi ne La società signorile di massa (La Nave di Teseo 2019). Lei mi chiede che cosa è andato storto, e dove si è sbagliato nella scuola. A me pare che gli errori capitali siano due, uno antico e mai corretto, l’altro moderno e orgogliosamente rivendicato.
L’errore antico è la svalutazione della cultura scientifica e del sapere pratico, un errore che – più che uno sbaglio vero e proprio – è un aspetto della nostra mentalità e della nostra cultura, che è sempre rimasta fondamentalmente e romanticamente anti-industriale e anti-moderna. L’errore più recente, invece, è la scelta di tutti – politici, insegnanti, genitori – di abbassare gli standard dell’istruzione, sia nel senso di diluire i programmi (più nell'università che nella scuola) sia, soprattutto, di abbassare l’asticella della sufficienza.
In concreto questo ha significato tre cose. Primo, svalutare e disincentivare la formazione professionale. Secondo, favorire gli studi più facili o ritenuti tale, a scapito delle materie scientifiche e delle materie umanistiche più impegnative come latino e greco. Terzo, rilasciare titoli di studio fasulli, illudendo i giovani di essere pronti per mestieri che la maggior parte di loro non era preparato a svolgere. Con una conseguenza drammatica: ai ceti subalterni è stata tolta l’unica risorsa – la cultura – che avrebbe loro permesso di competere sul mercato del lavoro con i ceti medi e alti.
Terzo pilastro è “l’immigrazione incontrollata, che ha favorito la formazione di un’infrastruttura para-schiavistica”. Ma a questo punto non converrebbe gettare la maschera? E accettare apertamente quanti più migranti possibile proprio per metterli in queste condizioni paraschiavistiche e proseguire nella nostra – infame, per carità – vita da rentier? È quello che sta succedendo. I ceti popolari non amano gli immigrati perché li vedono – realisticamente – come concorrenti nell'accesso ai servizi pubblici, come rivali nella conquista dei pochi posti di lavoro disponibili con conseguente dumping salariale, come minacce alla sicurezza nelle periferie e nei quartieri degradati. I ricchi e i ceti medi, invece, li vedono un po’ cinicamente come candidati ideali ad occupare le posizioni più umili nella scala sociale: braccianti, muratori, magazzinieri, facchini, badanti, camerieri, lavapiatti, per non parlare dei servizi illegali, come lo spaccio di sostanze, la prostituzione, il gioco d’azzardo illegale.
Troppo spesso si dimentica che le differenze fra l’approccio ai problemi dell’immigrazione tipico dei “signori” e quello delle persone umili sono normalissime differenze di interessi materiali, e non differenze di cultura o di umanità. Chi è sotto non vuole concorrenti, chi è sopra è ben felice di disporre di servizi a basso costo. Questo punto, curiosamente, viene quasi sempre dimenticato dai mass media e dagli studiosi, che preferiscono pensare i ceti popolari come rozzi e sobillati dalla propaganda, e i “ceti medi riflessivi” come portatori di una superiore razionalità e coscienza morale. Non arrivo a dire, come fa il giovane filosofo Diego Fusaro, che la macchina dell’accoglienza è un sistema per effettuare “deportazioni di massa” a beneficio di imprenditori e signori di varia specie, ma è vero che in una società signorile di massa l’apertura ai flussi migratori ha due facce.
Quella umanitaria di chi, come i radicali, sogna un mondo senza frontiere in cui a tutti siano garantiti alcuni diritti fondamentali, e quella più prosaica di quanti, come i datori di lavoro e i membri della “classe agiata”, hanno bisogno di forza lavoro e servitù.
Nella società signorile di massa i giovani – diciamo i trenta, quarantenni – sono sia privilegiati che vittime. Privilegiati perché di certo non rischiano la vita: hanno un tetto, cibo, affetto genitoriale, meno spesso un lavoro. In fondo però più che vivere, sopravvivono. Si può arrivare così a cinquant’anni senza che si rompa qualcosa? Sì e no. Si può andare avanti così nei ceti alti e medio-alti, non si può nei ceti medio-bassi. Tutto dipende da quanto è grande il patrimonio familiare, e quanto lunga è l’aspettativa di vita dei genitori.
Ma la conseguenza principale della dilazione delle scelte occupazionali, per cui si posticipa di 10 o 20 anni l’ingresso definitivo nel mercato del lavoro, è di tipo pensionistico: chi fino a 40 anni lavoricchia, e solo dopo i 50 ha un vero lavoro, inevitabilmente andrà in pensione con un reddito molto basso.
Ha detto che “Diventeremo come i nobili decaduti, nevroticamente impegnati a sostenere il nostro modo di vita facendo debiti, coscienti che tra un po’ il mondo dorato non esisterà più”. Sarà una discesa lenta o ci saranno degli strappi? Faremo la fine del conte Mascetti, “Non vi preoccupate: tra tre giorni mi ammazzo”? Direi piuttosto, con Keynes: “nel lungo periodo saremo tutti morti”. Il declino dell’Italia è sufficientemente lento da permetterci di autoingannarci, pensando che i problemi verranno al pettine solo “nel lungo periodo”, ovvero quando non ci saremo più. Il guaio è che, fra 20, 30 o 40 anni i nostri figli e nipoti ci saranno eccome: sono loro che pagheranno il prezzo del nostro ostinato rifiuto di riconoscere il piano inclinato su cui stiamo scivolando.
La “condizione signorile” degli italiani è caratterizzata da consumi opulenti e non è una condizione felice: i soldi non danno la felicità, e lo sappiamo da qualche millennio. Quali sono le patologie e le dipendenze nella società signorile di massa? Le dipendenze principali a mio parere sono quattro: consumo patologico di alcol e droghe leggere; consumo di cocaina e eroina; gioco d’azzardo, legale e illegale; ludopatia, sia su internet sia da giochi elettronici. A queste quattro dipendenze occorre però aggiungere una forma di dipendenza più sottile e forse più grave.
La patologica dipendenza dal giudizio degli altri, che ci porta a diventare – attraverso internet e i social – patetici gestori della nostra reputazione e della nostra immagine.
La “condizione signorile” non porta quindi a una società felice, ma allora cosa serve per avere una società felice? La felicità va distinta dalla soddisfazione o dalla contentezza, e infatti la maggior parte delle lingue – ma curiosamente non l’inglese – hanno due parole distinte. Come ebbe una volta ad osservare Albert Hirschman la parola inglese “happiness” ha un significato molto più debole dei corrispondenti termini italiano (felicità), francese (bonheur), tedesco (glücklichkeit).
Se ci atteniamo alle analisi più profonde del concetto di felicità – ad esempio quella di Ortega y Gasset nel Discorso sulla caccia – alla felicità sono essenziali almeno tre cose: l’attesa, qualche tipo di sforzo, un certo grado di incertezza del risultato. Tutti elementi che una società signorile di massa tende a sopprimere.
Un portato abbastanza inevitabile in un Paese che consuma ma non produce è la decrescita: difficilmente quella sarà “felice”. Come potrebbe decrescere l’Italia? Io vedo una grande continuità fra governi di destra e di sinistra, fra governi europeisti e populisti. E anche fra Conte 1 e Conte 2. Nessuno dei governi degli ultimi dieci anni ha seriamente affrontato i due problemi cruciali dell’Italia, l’esplosione del debito e la produttività ferma da vent'anni, tutti hanno preferito cercare consenso aumentando la spesa pubblica piuttosto che restituendo ossigeno all'economia. La verità, temo, è che in Italia il “partito del Pil”, che vorrebbe far ripartire la crescita, è maggioranza nel Paese ma non nei palazzi della politica, dove a prevalere sono le spinte assistenziali.
In queste condizioni lo scenario più probabile mi sembra quello che ho chiamato “argentinizzazione lenta”: un indebolimento dell’economia e una disgregazione del tessuto sociale sufficientemente lenti da non provocare alcuna reazione.
Sempre che una crisi finanziaria internazionale, o una mossa avventata dei nostri politici, non faccia improvvisamente precipitare le cose, gettandoci in una situazione simile a quella della Grecia.
Ha detto che anche Francia e Belgio sono avviate sulla nostra stessa strada: che cosa abbiamo in comune con loro? E con la Grecia? In comune con Belgio e Francia abbiamo consumi opulenti, poco tempo dedicato al lavoro, crescita asfittica. Con la Grecia abbiamo in comune il tasso di occupazione più basso del mondo occidentale, ma divergiamo per il livello dei consumi e la crescita: noi siamo molto più ricchi dei greci, ma loro da un paio di anni sono tornati a crescere, mentre noi siamo in stagnazione, unico paese in Europa e più in generale nel mondo sviluppato.
Quando ci sveglieremo dal nostro sogno signorile? Io credo che una parte minoritaria ma non trascurabile dei cittadini italiani già oggi si renda conto, più o meno confusamente, che viviamo in una società signorile, e che questa condizione non può durare. Tuttavia penso anche che questa minoranza sia destinata a restare tale, perché la maggioranza non ha la minima intenzione di risvegliarsi dal sogno, e la lentezza del nostro declino le permette di nascondere la testa sotto la sabbia.