lunedì 31 maggio 2021

Gaza

dalla pagina Gaza - Azione nonviolenta

Ogni volta che nominano Gaza mi sorprende pensare a quanto dolore sia concentrato in un così piccolo territorio. È 360 km quadri.


Il mio comune è ben più grande: 405 km quadri, un nono abbondante di più. Il mio comune conta 130 mila abitanti. Tende a calare più che a crescere. Ogni tanto persone, provenienti da situazioni disperate, vengono e vorrebbero restare. Non sono accolte bene. A stare ai risultati delle ultime elezioni lo sono invece addirittura fin troppo, per la maggioranza dei miei concittadini. Non mi soffermo su questa vergogna. A Gaza vivono, sopravvivono, 1 milione e 800 mila persone. Due su tre sono profughi da territori dove stavano, o pensavano di stare, anche peggio. Anche qualche anno fa me ne ero occupato.

A Gaza comanda Hamas, ben armato movimento islamista. Ha colto l’occasione di un’odiosa iniziativa di sfratto di palestinesi dalle loro case in un quartiere di Gerusalemme per lanciare tanti razzi sulle città di Israele, provocando terrore e qualche vittima. L’esercito israeliano ha reagito con bombardamenti massicci, di gran lunga più distruttivi, causando naturalmente molte più vittime, in nome del diritto alla legittima difesa. Palestinesi hanno manifestato in diverse città contro i bombardamenti su Gaza e sono stati duramene repressi. Violenze reciproche si sono verificate in quartieri e città dove la convivenza era da tempo – almeno sette anni – pacifica, da Gerusalemme a Tel Aviv, Caifa, Acri, Tiberiade, Hadara, Lod. In questa città – 80 mila abitanti, un terzo palestinesi, due terzi ebrei – gli scontri sono parsi quasi l’avvio di una guerra civile, tra comunità diffidenti e ostili non solo qui. Lod, leggo, è segnata da una fiorente criminalità. Violenze, sparatorie non sono una novità, ma ogni limite sembra venir meno quando paura e rancore investono arabi ed ebrei, contrapposti in quanto tali.

Le azioni militari sono sospese. Sia Hamas che Netanyahu si dicono vincitori. Hanno ragione. Hamas ha mostrato che l’invio massiccio di razzi – sempre più efficaci e di lunga gittata – è in grado di bucare la Iron Dome (Cupola di Ferro) che difende Israele. Si è accreditato come il rappresentante vero dei palestinesi, piuttosto del presidente dell’Autorità Abu Mazen, visto anche che nei territori interessati non si vota da 15 anni. In Israele ripetute elezioni non hanno portato a un governo stabile. Guerra e tensioni sono utili a Benjamin Netanyahu per allontanare la prospettiva di una maggiorana alternativa, che lo escluderebbe dal potere, con l’apporto dei partiti degli arabi, cittadini israeliani. Magari Netanyahu potrà convocare, da vincitore, le quinte elezioni anticipate. Hanno perso, continuano a perdere, gli abitanti tutti di Israele-Palestina che vorrebbero vivere nella pace possibile, senza persecuzioni, apartheid, terrorismo.

La cosiddetta comunità internazionale è attraversata da diverse pulsioni: c’è chi pensa di guadagnare dalla rinnovata tensione e chi spera che si attenui almeno e scompaia dalle prime pagine per altri sette anni. Nulla si fa per contribuire alla miglior convivenza in quelle terre. Nelle manifestazioni – si tengono anche nel nostro paese – non sventolano assieme le bandiere israeliana e palestinese. Eppure sarebbe un piccolo, buon segno di incoraggiamento per gli abitanti di un paese in cui la convivenza è necessaria e obbligata e nel quale esigue minoranze perseguono con coerenza questo obiettivo, contro repressione, persecuzioni, apartheid, terrorismo. Clamorosa l’assenza dell’Europa che sembra ignorare la dimensione mediterranea, essenziale anche per la questione immigrazione.

Torno a Gaza. Leggo su Internazionale un articolo del New York Times che parla della situazione di una famiglia, con bimbe piccole, sotto i bombardamenti. Scrive Alareer: “siamo una coppia palestinese perfettamente nella media: tra tutti e due abbiamo perso più di trenta parenti… Temo il peggio. E temo il meglio. Se ne usciremo vivi, come se la caveranno psicologicamente i miei figli nei prossimi anni? Vivranno nel terrore costante del prossimo attacco?”. Intanto si preoccupa di rassicurare le sorelline con la favola serale. Alla fine recita il solito ritornello “Toota toota, khalasat el hadoota. Hilwa walla maltouta”, cioè La storia è finita. Era bella o no? Di solito Matouta (brutta) dicono le bimbe per ottenerne un’altra. Questa volta dicono Hilwa (bella) e basta. Non è un bel segno. Con Alareer speriamo che le figlie possano conoscere di Gaza storie vere che meritino di essere dette, sinceramente, Hilwa.


mercoledì 26 maggio 2021

Che cos’è la transizione ecologica

dalla pagina https://altreconomia.it/prodotto/che-cose-la-transizione-ecologica/

Clima, ambiente, disuguaglianze sociali - Per un cambiamento autentico e radicale

Gianluca Ruggieri e Massimo Acanfora

Quale transizione ecologica vogliamo? Questo libro che spiega perché ci troviamo di fronte a un’occasione unica non solo per superare la crisi, ma anche per trasformare in modo radicale la società e combattere le disuguaglianze.

“Transizione ecologica” non è il nome del ministero, né il mantra vuoto ripetuto dai governanti: è un cambiamento radicale che non riguarda solo la questione climatica e l’uscita rapida dal sistema dei combustibili fossili, ma anche la drammatica perdita di biodiversità, le profonde disuguaglianze tra emisferi, generi, generazioni e il modello economico stesso di produzione e consumo, quello del “capitale” e della crescita infinita.

Non basta una verniciata di verde: non basta “spostare” i profitti verso il green, invocare l’economia circolare o la magia tecnologica. È necessaria una “rivoluzione di sistema”, non solo per andare oltre la pandemia, ma anche per trasformare la società e desiderare un futuro diverso.

Questo libro racconta la transizione ecologica con voci diverse e da ogni prospettiva: il quadro politico e normativo, la questione climatica, l’energia e i trasporti, l’economia reale e quella finanziaria, il fisco e il debito, l’estrazione di risorse e la produzione industriale, la biodiversità, il capitale naturale e quello agricolo, il suolo, l’aria e l’acqua, la governance globale e locale, la democrazia e la povertà energetica, dai Paesi in via di sviluppo alle nostre città, il linguaggio, la “decarbonizzazione” dell’immaginario.

«Il tempo è ora. Disuguaglianza, pandemia e crisi climatica sono facce della stessa medaglia: un’economia “sporca” basata sull’estrazione insostenibile di carbon fossile, distruzione della biodiversità e degli ecosistemi in cui viviamo ed enormi fratture e disparità sociali. Abbiamo davanti la responsabilità di ripensare le nostre economie e le nostre società. La transizione ecologica non è quindi politicamente neutra. Non è una questione “solamente” tecnica, scientifica e tecnologica. Come la fai, quali sono le priorità, con quali attori, dove indirizzi gli investimenti sono scelte politiche che possono acuire le disuguaglianze o sanarle. Stiamo andando verso una direzione in cui il punto non sarà più “se”, ma “come”. Per questo, serve, innanzitutto, una visione Politica -con la P maiuscola- che metta al centro le persone nella transizione».
(Caterina Sarfatti)

Con i contributi di: • Davide Agazzi • Veronica Aneris • Andrea Baranes • Agnese Bertello • Riccardo Bocci • Marco Borgarello • Paolo Cacciari • Giovanni Carrosio • Stefano Caserini • Annalisa Corrado • Elena De Luca • Marco Deriu • Antonia De Vita • Anna Donati • Francesca Forno • Francesco Gesualdi • Elisa Giannelli • Giacomo Grassi • Simone Maggiore • Roberto Mancini • Fabio Monforti • Paolo Pileri • Anna Realini • Rinascimento Green • Davide Sabbadin • Caterina Sarfatti • Annalisa Savaresi • Chiara Soletti • Antonio Tricarico • Mauro Van Aken • Alessandro Volpi

Gli autori

Gianluca Ruggieri

Ricercatore all’Università dell’Insubria, attivista energetico e socio fondatore di Retenergie e di è nostra. Co-autore di “La vita dopo il petrolio” e “L’energia che ho in mente”.

Massimo Acanfora

Nato a Milano, è giornalista. Dal 2009 a oggi è responsabile editoriale, editor, copy e autore per Altreconomia edizioni. Dopo una parentesi nel lavoro sociale nei primi anni 90, ha lavorato per il giornale ed editore Terre di mezzo, per il quale nel 2003 ha ideato e organizzato la fiera “Fa’ la cosa giusta!”. Ha portato inoltre in Italia la manifestazione “La Notte dei Senza Dimora”. Ha contribuito a costruire il settore editoriale e librario di Terre di mezzo edizioni. Ha poi lavorato all’agenzia Aragorn come ufficio stampa per numerose organizzazioni non profit. Nel 2008 è stato promotore a Milano dell’evento Homeless World Cup. È autore di diversi libri, tra cui la fortunata guida “Pappamondo” (Cart’armata edizioni), ma anche del manuale “E ora si ikrea!” (Ponte alle Grazie/Altreconomia) e di “Il ritorno delle cose” (con Angelo Miotto, Altreconomia).


domenica 23 maggio 2021

“Sappiamo che le cose possono cambiare”

dalla pagina “Sappiamo che le cose possono cambiare" - Nigrizia

Le parole di Papa Francesco contenute nell’Enciclica costituiscono il tema di questa settimana che chiude la celebrazione dei cinque anni dalla sua promulgazione e si propone di concretizzare nella realtà attuale le proposte del pontefice

Marcelo Barros (monaco benedettino in Brasile)


Dalla Laudato Si’ ai nostri giorni

Dal 2015, quando l’Enciclica è stata pubblicata, fino a oggi, la realtà del mondo è cambiata molto. Il documento ha avuto grande consenso da parte della società civile, ma non certamente nei circoli del potere economico e dei suoi rappresentanti politici, e nemmeno in alcuni settori della stessa Chiesa cattolica.

La Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico a Parigi, tenutasi pochi mesi dopo l’Enciclica, non ha portato a nulla. In America Latina le élite economiche, alleate con l’impero nordamericano, hanno ulteriormente indebolito le strutture democratiche esistenti.

Nel 2015 l’umanità non poteva immaginare di dover affrontare la pandemia del Covid-19 e la conseguente e sempre più scandalosa concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi. Quasi tutti gli scienziati concordano nell’affermare che il Covid ha avuto un effetto più devastante di quanto si potesse immaginare, a causa della distruzione in atto del pianeta. Tuttavia, la piccola élite che domina la politica e l’economia mondiale non dà segnali di cambiamento in questa direzione.

Due Encicliche indicano la strada

La pandemia di Covid-19 ha accentuato l’isolamento dei singoli Paesi, infatti si può constatare come le società nazionali perseverino nella direzione di una desocializzazione, fino a sfociare in una ”società di individui”. Il Papa ci avverte: “Dobbiamo superare un mondo in cui ci sono solo partner e non fratelli” (FT 101).

Oggi dobbiamo rileggere la Laudato Si’ partendo da Fratelli Tutti. Le due Encicliche si completano a vicenda. La fraternità umana proposta nella nuova Enciclica va oltre l’umanità, perché apparteniamo alla grande comunità della Vita. È urgente unirsi per trasformare le società di oggi in “un’unica civiltà mondiale“.

Per la maggior parte dell’umanità, la pandemia è stata sinonimo di morte, malattia, sofferenza, aumento della povertà ed esclusione. Tuttavia, per la sua stessa dinamica, il sistema economico dominante ha il potere di ri-significare le catastrofi e trasformarle in opportunità e tempi di abbondanza per i detentori del capitale.

Con la pandemia le aziende del settore farmaceutico e delle biotecnologie, che ottengono la maggior parte dei loro profitti dalle malattie, hanno avuto il più alto innalzamento dei prezzi delle azioni di tutta la loro storia. Essi sono diventati un rifugio sicuro per i grandi investitori capitalisti. Più la pandemia ha portato sofferenza e morte a milioni di persone, e più le industrie sanitarie e gli investitori hanno fatto della malattia stessa un’opportunità per aumentare i profitti.

Come convivere con il fatto che i ricchi hanno aumentato le proprie fortune mentre la maggioranza della popolazione mondiale affronta una tragedia immane? E, ancor di più, come accettare che ciò sia avvenuto senza alcun trucco o inganno, ma come conseguenza degli stessi meccanismi intrinseci al sistema economico globale?

La “conversione ecologica”

Papa Francesco propone non solo qualche cambiamento, ma una svolta decisa nel sistema mondiale stesso. A tal fine, la Laudato Si’ propone di approfondire l’educazione e la spiritualità ecologica (n. 202 e seguenti) con la formazione verso un’alleanza tra gli esseri umani e l’ambiente (n. 209). Ciò non potrà però avvenire senza una vera “conversione ecologica” (n. 216).

Uno dei buoni effetti della Laudato Si’ è stato quello di sostenere e confermare i nuovi percorsi intrapresi da alcuni decenni da teologi che hanno sviluppato una “teologia del Creato” basata sul dialogo con le nuove ricerche e scoperte della cosmologia, con le tradizioni orientali e la spiritualità dei popoli originari.

La confluenza di questi percorsi porta nel campo della teologia e della spiritualità cristiana una nuova sensibilità che include il recupero di una profonda spiritualità ecologica contenuta nelle tradizioni indigene e africane.

Per noi cristiani delle chiese latinoamericane, lo Spirito richiama all’alleanza con i nostri popoli originari a partire dalle loro radici culturali e, allo stesso tempo, ad ascoltare ciò che “lo Spirito dice oggi alle chiese e alle comunità tradizionali” (cfr. Ap 2,7).


sabato 22 maggio 2021

La salute è prendersi cura

dalla pagina https://comune-info.net/la-salute-e-prendersi-cura/

Marco Bersani


Se vogliamo cogliere gli insegnamenti profondi della pandemia, ciò che va messo in discussione è lo stesso concetto di salute, per come è stato elaborato da decenni di dottrina neoliberale. Il primo concetto da recuperare è quello dell’interdipendenza, il secondo quello della cura. Serve un servizio sanitario pubblico e gratuito, finanziato con risorse certe e non comprimibili, che si fondi e ripensi la territorialità

Foto tratta dal Fb di Riapriamo il Maria Adelaide.

Il virus pandemico che da quindici mesi attraversa il pianeta ha messo in evidenza la centralità del diritto alla salute, mettendo in crisi convinzioni radicate, e mostrando tutte le inadeguatezze degli attuali servizi sanitari.

La contraddizione primaria evidenziata è quella fra salute e mercato. Il virus ha dimostrato come una società fondata sul mercato non sia in grado di garantire protezione ad alcuno, e l’illusione dell’economia come motore del benessere collettivo si è dovuta scontrare con l’autoreclusione nel giro di brevissimo tempo di oltre due miliardi di persone.

Anche i servizi sanitari, da decenni soggetti a privatizzazione e/o aziendalizzazione, hanno rivelato la loro totale incapacità di garantire vita e salute alle persone, come testimoniano gli oltre 150 milioni di contagi e un numero di decessi che ha superato i 3 milioni di persone.

Se vogliamo cogliere gli insegnamenti profondi della pandemia, ciò che va messo in discussione è lo stesso concetto di salute, per come è stato elaborato da decenni di dottrina neoliberale.

In questo senso, il primo concetto da recuperare è quello dell’interdipendenza.

La vita della specie umana, a differenza di quella di alcune altre specie animali, è caratterizzata sin dall’inizio da un legame sociale.

“L’infante senza la madre non esiste”[1] scriveva lo psicanalista inglese Donald Winnicott, per il quale, all’inizio della vita, ognuno esiste solo in quanto parte di una relazione, e le sue possibilità di vivere e svilupparsi dipendono totalmente dal soddisfacimento del bisogno primario di attaccamento e appartenenza ad un’altra persona -solitamente la madre- che si prenda cura di lui e gli dia quel senso di sicurezza e intimità che sono basilari per la crescita.

Ma, potremmo aggiungere, quella matrice relazionale -infante/madre- non potrebbe a sua volta sopravvivere senza un ambiente naturale che fornisca aria, acqua e cibo.

Se la vita è dunque contrassegnata dall’interdipendenza con l’altro e con l’ambiente, la salute non può che essere data dal buon esito di questa interdipendenza plurima.

La salute non può essere considerata solo un’assenza di malattia, bensì uno stato di benessere psico-fisico determinato da un’adeguata salubrità dell’ambiente nel quale viviamo e da un’adeguata qualità delle relazioni nelle quali siamo immersi.

Cosa ci dice questo passaggio? Che non può esservi separatezza fra vita quotidiana e stato di malattia, bensì che il secondo dipende da come è vissuta la prima.

Il primo motore del diritto alla salute è di conseguenza l’ecologiaovvero il mantenimento dell’equilibrio nella relazione fra vita, società e natura. Come ha dimostrato la pandemia, il virus non è un invisibile nemico esterno, bensì il prodotto della rottura di equilibri ecosistemici, portata avanti da un modello economico-sociale che si relaziona alla natura come altro da sé e come luogo da depredare.

La malattia è sempre l’espressione di un sintomo, ovvero un indizio che ci svela come funziona un contesto, senza curare il quale il superamento della malattia rappresenta nel migliore dei casi null’altro che una riduzione del danno.

Il diritto alla salute si garantisce di conseguenza attraverso la prevenzione, ovvero un’insieme di azioni, individuali e sociali, dirette a impedire il verificarsi della malattia. Non è dunque qualcosa di settoriale di cui deve occuparsi un servizio specifico, bensì un compito dell’intera organizzazione sociale che deve trasformare il ‘cosa, quanto, dove, come e per chi’ produrre, ‘come, quanto e in quali condizioni’ lavorare, come nutrirsi, come muoversi, come stare insieme.

In questa direzione, il secondo concetto da recuperare è quello della cura.

Si tratta di un concetto che nella narrazione dominante viene relativizzato per declinare da una parte le attività strettamente medico-sanitarie, dall’altra le attività di accudimento domestico, storicamente svalorizzate e delegate in particolare al mondo delle donne.

La cura così intesa è funzionale all’ideologia dell’intoccabilità del modello capitalistico, basato da una parte sulla valorizzazione della produzione economica e la non considerazione della riproduzione sociale, e dall’altra sull’intoccabilità di un modello sociale dentro il quale la malattia viene relegata a sfortunato evento individuale.

Si tratta, al contrario, di recuperare la differenza tra due verbi inglesi foneticamente e graficamente molto simili, ovvero “to cure” e “to care”.

Il primo significa “curare”, mentre il secondo significa “prendersi cura, preoccuparsi per”.

Manifestazione per la riapertura dell’Ospedale Maria Adelaide.
Torino, 12 aprile 2021, 
Riapriamo il Maria Adelaide.

E’ a questo secondo significato che bisogna fare riferimento, come ben espresso da Joan Tronto e Berenice Fisher, le quali considerano la cura “una specie di attività che include tutto ciò che facciamo per mantenere, continuare e riparare il nostro mondo in modo da poterci vivere nel modo migliore possibile. Quel mondo include i nostri corpi, noi stessi e il nostro ambiente, tutto ciò che cerchiamo di intrecciare in una rete complessa a sostegno della cura[2]

La cura così intesa prende atto della vulnerabilità dell’esistenza e contrasta il mito onnipotente della sicurezza, parola che deriva da sine-cura, senza preoccupazioni, per accedere alla curiosità, parola che serve a significare colui che si cura di qualcosa.

Segnando il radicale antagonismo tra chi, con la città piena di cadaveri trasportati dai camion dell’esercito, produce il video “Bergamo is running” e tutte e tutti coloro che, con il mutualismo autorganizzato si sono preoccupati della propria comunità di riferimento.

Quali caratteristiche dovrebbe, di conseguenza, avere un servizio sanitario di una società basata sull’interdipendenza e la cura?

Innanzitutto, dovrebbe essere pubblico e gratuito. In tempi di frammentazione sociale, molti rischiano di perdere il profondo significato di coesione sociale rappresentato da questo concetto.

Se il servizio sanitario è pubblico e gratuito, significa che io lo finanzio mentre sono in salute (con le tasse) per essere sicuro, in caso di necessità, di essere curato e per garantire che venga curato anche chi non ha un reddito; se il servizio sanitario è privato e a pagamento, vuol dire che io non pago nulla mentre sono in salute, ma pagherò in caso di malattia, potendo accedere alle cure solo se dispongo di adeguate disponibilità economiche. Dentro il quadro privatistico, muore l’universalità del servizio e si approfondisce la diseguaglianza sociale.

In secondo luogo, dovrà essere adeguatamente finanziato con risorse incomprimibili. Se la salute è un diritto primario, la spesa per la stessa non può essere dettata dai principi aziendalistici del “far quadrare il bilancio” o da vincoli dettati dalla trappola ideologica del debito pubblico. Occorrono risorse certe e comunità territoriali che ne controllino democraticamente destinazione ed efficacia.

In terzo luogo dovrà essere organizzato territorialmente, secondo l’idea della cura di prossimità e la strategia della prevenzione. Se la malattia è un fenomeno sociale, è dentro quel contesto che può ristabilirsi la salubrità e la salute; al contrario, un sistema centrato sull’ospedalizzazione rischia di tecnicizzare la malattia estrapolandola dal contesto che l’ha prodotta, sino a reificare la persona stessa riducendola ad organo su cui intervenire (se vado da un otorino divento un orecchio).


Il settore ospedaliero va integrato dentro una sanità territoriale basata sulla medicina scolastica, del lavoro e dell’ambiente, dentro una logica di ospedale al servizio della comunità e non del suo contrario.

La pandemia ha mandato in tilt un modello sanitario basato sul mercato e un concetto organicistico di salute, ridicolizzando i feticismi delle eccellenze privatistiche.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza presentato dal governo per l’accesso ai 209 miliardi del Next Generetion EU non sembra aver alcuna intenzione di invertire la rotta.

Serviranno grandi mobilitazioni sociali per uscire dall’universo della competizione e approdare alla società del prendersi cura.

___________________________

[1] D. W. Winnicott, Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma 1974

[2] Sara Brotto, Etica della cura. Una introduzione, Orthotes, Napoli 2013

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 46 di maggio-giugno 2021:  “La salute non è una merce


giovedì 20 maggio 2021

PRESIDIO VENERDÌ 21 MAGGIO 2021, ORE 18, PIAZZA DEI SIGNORI – VICENZA

Sia pace giusta a Gerusalemme, in Palestina, in Israele

PRESIDIO VENERDÌ 21 MAGGIO 2021, ORE 18, PIAZZA DEI SIGNORI – VICENZA

La società civile vicentina, colpita dalle violenze che si susseguono in questi giorni, esprime profonda preoccupazione per la martoriata terra di Palestina.

La sospensione delle tanto attese elezioni previste per il 22 maggio, la provocazione di gruppi radicali di coloni israeliani in marcia verso i quartieri palestinesi della città vecchia, la decisione di impedire ai Palestinesi di raggiungere la Spianata della Moschea per la preghiera del Ramadan, e ancora la decisione di espellere decine di famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, hanno generato una escalation di violenze immediatamente estese in altre città israeliane e palestinesi, fino ai lanci di razzi dalla Striscia di Gaza e la conseguente azione militare israeliana. Tutto ciò dimostra quanto sia indispensabile che le Nazioni Unite, l'Unione Europea e gli Stati Uniti non si fermino alle dichiarazioni di condanna ed al richiamo alle parti di fermare la violenza, ma prendano posizione per eliminare le cause che provocano la violenza e l’ingiustizia che subisce il popolo palestinese. La violenza e l’odio crescenti avvelenano anche il popolo israeliano, prigioniero in questa impasse e incapace di riconoscere l’altro.
C’è solo un modo per mettere fine alle terribili violenze che stanno insanguinando Gerusalemme e la Terra Santa: riconoscere ai Palestinesi la stessa dignità, la stessa libertà e gli stessi diritti riconosciuti agli Israeliani.
La società civile vicentina chiede che l’Italia si faccia promotrice di un’azione diplomatica verso le Nazioni Unite, l’Unione Europea e i capi di governo che porti immediatamente al cessate il fuoco e al rispetto del diritto internazionale.
Si fermi questa nuova ondata di violenza:
- intimando ad Hamas la cessazione del lancio dei razzi; al governo israeliano la cessazione dei bombardamenti, la rimozione dell’assedio di Gaza, il blocco di qualsiasi ritorsione contro la popolazione della Striscia di Gaza;
- impiegando tutti gli strumenti politici, diplomatici e del diritto internazionale per ANNULLARE l'espropriazione delle case a Gerusalemme est e per impedire la costruzione di nuovi insediamenti;
- ottenendo che l’Autorità Nazionale Palestinese organizzi e garantisca libere elezioni in Palestina con la verifica di osservatori internazionali indipendenti;
- agendo in sede ONU per l’immediato riconoscimento dello Stato di Palestina come membro a pieno titolo delle Nazioni Unite, che permetta ai due Stati di negoziare direttamente in condizioni di pari autorevolezza, legittimità e piena sovranità.
Attuale risuona il monito di don Milani: “NON C’È NULLA CHE SIA PIÙ INGIUSTO QUANTO
FAR PARTI UGUALI FRA DISUGUALI”. Per questo la società civile vicentina invoca UNA PACE BASATA SULLA GIUSTIZIA CHE SOLA PUÒ GARANTIRE IL FUTURO AI DUE POPOLI.
Comitato vicentino per la liberazione dei prigionieri politici palestinesi
ANPI – ARCI SERVIZIO CIVILE – CGIL – DA ADESSO IN POI – FORNACI ROSSE – PAX CHRISTI – MIR PROGETTO SULLA SOGLIA – SALAAM RAGAZZI DELL’OLIVO – ASSOCIAZIONE CDS PRESENZA DONNA
Per informazioni e adesioni
MIRIAM: miriamgagliardi53@gmail.com / LUIGI: luigi.poletto@virgilio.it / DANILO: andriollodanilo@gmail.com

mercoledì 19 maggio 2021

Un studio per un progetto di legge europea sull’ecocidio

dalla pagina Un studio per un progetto di legge europea sull'ecocidio (pressenza.com)

Renato G. Napoli

L’Istituto di Diritto Europeo (European Law Institute – ELI) ha intrapreso uno studio per la stesura di un modello di legge su “Ecocidio” nel contesto dell’Unione Europea.

Il 22 aprile è avvenuto un primo incontro, a distanza a causa delle restrizioni attuali, dove verrà affrontata una definizione internazionale basata sul lavoro svolto dal gruppo di esperti indipendenti che fa riferimento alla Stop Ecocide Foundation (SEF).

Il termine di Ecocidio, sviluppato dalla SEF, riconduce alla presentazione di una proposta, stilata dalla defunta Polly Higgins, sua Co-fondatrice, alla Commissione Giuridica dell’ONU per emendare lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (CPI). La proposta prevedeva l’inclusione del termine “Ecocidio” come quinto crimine contro la pace.

La definizione porta a questo termine come «danno esteso per la distruzione o la perdita dell’ecosistema (o degli ecosistemi) di un determinato territorio, sia per opera dell’uomo che per altre cause, in misura tale che il pacifico godimento da parte degli abitanti di quel territorio è stato o sarà gravemente diminuito con la devastazione e distruzione dell’ambiente a scapito della vita».

Ricordiamo che il termine di Ecocidio venne enunciato per la prima volta negli anni ’70, del XX sec, durante la guerra del Vietnam dal professore di biologia Arthur W. Galston. Venne coniato, dallo stesso professore, durante le proteste contro l’uso, da parte dell’esercito USA, dell’erbicida e defogliante chimico Agent Orange, di produzione di 14 multinazionali tra cui la Bayer-Monsanto, per distruggere la copertura vegetale arbustiva che impediva l’avvistamento dei soldati nordvietnamiti e i guerriglieri Vietcong nonché i raccolti per la popolazione.

Da quegli anni ‘70 molte organizzazioni della società civile e avvocati hanno sempre sostenuto la criminalizzazione dell’ecocidio nel diritto internazionale però nessuna definizione legale tra gli Stati è stata mai concordata.
Per un po’ di storia italiana si ricorda che in Italia già da quegli anni in si iniziò a parlare di crimini ambientali che potessero essere riconosciuti presso la corte Corte Penale Internazionale dell’Aja. Diversi Magistrati si occuparono di danni ambientali con studi, convegni, nazionali ed internazionali, e pubblicazioni di livello. Presso la Corte di Cassazione italiana venne istituto il Gruppo di Lavoro “Ecologia e Territorio”, coordinato dal giudice Amedeo Postiglione, con diversi magistrati italiani ed esperti della società scientifica. Il gruppo aveva come scopo la promozione e la creazione di banche dati giuridiche ambientali. Nel 1989 il giudice Postiglione, su incarico della Corte Suprema di Cassazione organizzò, presso l’Accademia Nazionale dei Lincei di Roma, la prima Conferenza Internazionale “Per promuovere un Diritto Internazionale dell’Ambiente più efficace e una Corte Internazionale dell’Ambiente all’interno delle Nazioni Unite”. Durante la conferenza il giudice Amedeo Postiglione propose la creazione di un organismo ad hoc di giurisdizione sovranazionale; nel 1990, fu creato il Comitato Promotore Italiano per la creazione di una Corte Internazionale dell’Ambiente (International Court of the Environment Foundation -ICEF-). Si potrebbe affermare che l’Italia è stata precursore dei diritti ambientali? Forse sì!

Con tutto ciò, ad oggi, non è mai stata intentata nessuna accusa su tale definizione anche, forse, a causa dell’alta somma di richiesta danni prevista per i danni ambientali.

Attualmente l’Ecocidio è considerato un crimine di guerra solo ai sensi dell’articolo 8(2)(b)(iv) dello Statuto di Roma. Poiché le imprese e gli Stati sono esclusi dallo Statuto, se causano danni di inquinamento dell’acqua e dell’aria o partecipano alla deforestazione illegale o causano fuoriuscite di petrolio, che costituirebbero un crimine in tempo di guerra, in tempo di pace non possono essere perseguibili per i loro danni ambientali.

Un rapporto ONU del 2018 “Gaps in international environmental law and environment-related instruments: towards a Global Pact for the Environment” (UN SG Report A/73/419) ha rilevato che il regime di diritto ambientale esistente è frammentato e frammentario, poco chiaro e scarsamente reattivo quindi senza un singolo quadro giuridico o istituzione generale e con obblighi in gran parte volontari e non vincolanti. Su questo rilievo viene riconosciuto che il diritto ambientale internazionale ed europeo manca di una legislazione ambientale che vada di pari passo con la mancanza di armonizzazione dei criteri per identificare il crimine e non può essere usato per perseguire l’ecocidio.

A supporto dello studio per la stesura di un modello di legge sull’ecocidio nel contesto dell’Unione Europea, la co-fandatrice di SEF, Jojo Metha, e la deputata la Parlamento Europeo, del Gruppo dei Verdi/Alleanza libera Europa, Marie Toussaint lanciano una campagna a sostegno di due relazioni chiave che verranno discusse in questi giorni al Parlamento Europeo.

• La prima riguarda la “Relazione sugli affari legali sulla responsabilità delle imprese per i danni ambientali. Il rapporto può essere trovato qui: inglese / francese / spagnolo e mira a rafforzare l’applicazione delle leggi ambientali così come la conformità aziendale e i due rapporti, dove al paragrafo 12 si esorta, per la prima volta, la Commissione a: “studiare la rilevanza dell’ecocidio per il diritto e la diplomazia dell’UE”.

• La seconda riguarda il “Rapporto degli Affari Esteri sugli effetti del cambiamento climatico sui diritti umani e sul ruolo dei difensori dell’ambiente in questa materia. Il rapporto può essere trovato qui: inglese / francese / spagnolo e fa eccellenti raccomandazioni basate sull’intima relazione tra diritti umani e questioni climatiche/ambientali (inclusa l’importanza di un ambiente sano per evitare future pandemie) dove al paragrafo 11 viene esortata l’UE e gli stati membri a: “combattere l’impunità degli autori di crimini ambientali a livello globale e ad aprire la strada all’interno della Corte penale internazionale (CPI) verso nuovi negoziati tra le parti al fine di riconoscere l'”ecocidio” come un crimine internazionale ai sensi dello Statuto di Roma”.

La campagna a supporto di queste due relazioni prevede due azioni semplici e facili per agire ora: scattare una propria fotografia con l’hashtag #RecognizeEcocideNow twittandola, ai propri followers e, in particolare, ai deputati italiani, –li trovate qui-, o inviando loro una e-mail, in caso non si utilizzassero i social, con i messaggi qui sotto:

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#RiconoscereEcocidioOra!

Vota a sostegno della relazione degli Affari Legali (paragrafo 12) sulla responsabilità delle imprese per i danni ambientali

https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/A-9-2021-0112_EN.pdf

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#RiconoscereEcocidioOra!

Vota a favore della relazione degli Affari Esteri (paragrafo 11) sugli effetti del cambiamento climatico sui diritti umani e sul ruolo dei difensori dell’ambiente in questa materia

https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/A-9-2021-0039_EN.pdf


martedì 18 maggio 2021

"Essere ponti". L'intervista a suor Alicia Vacas Moro, da Gerusalemme

* riportiamo di seguito l’articolo di Michele Raviart e Antonella Palermo per Vatican News, con la lunga intervista a suor Alicia Vacas Moro, già ospite della nostra associazione (fonte)

Associazione Presenza Donna

Centro Documentazione e Studi

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Nuova notte di bombardamenti a Gaza, con oltre 60 raid in quella che è stata la giornata più intensa dall’inizio della crisi. Razzi dalla Striscia sono stati lanciati da Hamas verso il sud di Israele, dove ad Ashdod è stato colpito un edificio, mentre a largo di Gaza è stata bersagliata una nave israeliana. Dal 10 maggio, secondo fonti dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) sono 220 i palestinesi uccisi, tra cui 58 bambini, mentre dieci sono le vittime israeliane finora, con oltre 300 feriti. Tra le vittime dei raid di questa notte c’è anche Hussam Abu Harbid, uno dei maggiori comandanti della Jihad islamica di Hamas e leader da 15 anni delle operazioni contro Israele dal nord della Striscia.


40mila sfollati a Gaza

Intanto a Gaza sono 40 mila i palestinesi che hanno dovuto abbandonare le proprie case, mentre il World Food Program ha annunciato aiuti per 51 mila persone. La centrale che fornisce energia elettrica alla città ha poi annunciato che le sue scorte di combustibile sono quasi finite e che stasera potrebbe essere obbligata a sospendere le attività, in un luogo dove gli abitanti già ricevono solo 4 ore di corrente al giorno. Previsto per domani in Israele uno sciopero generale degli arabi israeliani in segno di solidarietà con la Moschea di Al-Aqsa e con gli abitanti del quartiere di Sheikh Jarrah, la cui minaccia di sfratto è tra le cause della crisi.


La ricerca di un dialogo

Al lavoro le diplomazie di tutto il mondo per cercare una soluzione pacifica. Telefonata tra il cancelliere tedesco Angela Merkel e il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Anche la Russia chiede l’apertura di un dialogo, mentre il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, chiede spiegazioni sul bombardamento, ieri, della sede dell’Associated Press a Gaza. Confermato anche il colloquio telefonico tra Papa Francesco e il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, con il Pontefice che ieri al Regina Coeli aveva lanciato un accorato appello alla pace in Terra Santa.


La testimonianza di Suor Alicia

Le parole di Francesco hanno molto colpito Suor Alicia Vacas, Provinciale per il Medio Oriente delle Suore Comboniane. A Vatican News, la religiosa insiste sul fatto che si trascina un conflitto da troppo tempo, che “c’è una palese disuguaglianza: negli aiuti, nelle possibilità, nell’uso militare, della forza. In più di trent’anni non sono state date risposte”, scandisce. “Negli ultimi mesi abbiamo visto un crescendo di tensioni e disagi. L’ultimo colpo di grazia è stata l’incursione dell’esercito e l’aggressione alla moschea di El Aqsa; anche i cristiani sono rimasti sconvolti. Era chiaro che un affronto così avrebbe avuto conseguenze gravissime, e così è successo”.


La società è ammalata dentro

“La violenza non può portare da nessuna parte”, ripete Suor Alicia. Le speranze della religiosa sono riposte nella comunità internazionale, “affinché possa contribuire a fermare questa pazzia, questa voragine”. Racconta: “Stiamo vedendo cose che non avevamo visto da quando siamo qua, cose che non erano accadute nemmeno nel corso della seconda intifada. I conflitti all’interno delle comunità, che più o meno convivevano pacificamente, – spiega - fanno paura per il nostro presente, ma soprattutto per il nostro futuro. La violenza scoppiata sulle strade preoccupa ancora di più rispetto a quella manifestata con le bombe che fanno saltare i palazzi, anche se è meno visibile, meno ‘scandalosa’. Il tessuto sociale è ferito, profondamente lacerato. La società è ammalata dentro”.


Preoccupano le “amputazioni morali” dei giovani

“Ogni vita umana è preziosa. La proporzione nella morte di civili e di bambini è evidente. E la cosa va avanti”. Suor Vacas si sofferma sull’aspetto che “questo attacco su Gaza rischia di deviare l’attenzione da quello che è il cuore del conflitto, che è nato a Gerusalemme per questioni molto concrete: l’impunità dei coloni, lo sfratto delle case, la difficoltà dei palestinesi di recarsi nella città santa.... Purtroppo, non si dà risposta ai veri problemi che la gente vive quotidianamente”. La missionaria comboniana fotografa una realtà, a Gerusalemme Est, contrassegnata da una calma apparente, molto tesa, finta. “La presenza dei militari è molto forte, anche all’interno della parte araba. Dappertutto ci sono transenne. A volte le persone riescono ad andare a lavoro – racconta a volte no. Questo non è normale. Spesso ci sono scontri tra giovani e soldati e la repressione è molto forte. Tanti i punti dolenti”. È una recrudescenza di un conflitto in cui si registrano vittime ovunque. “Io sono molto preoccupata delle amputazioni morali dei giovani”, continua la suora. “Quando si arriva a tale devastazione, vuol dire che devi fare un taglio drastico ai valori. Entrambe le parti sono molto ferite, amputate”.


Essere “ponti”: la missione delle Comboniane nelle periferie

La missione delle comboniane, ovunque, è stare sulle periferie. A Gerusalemme è molto evidente questa peculiarità: vivono sul Monte degli Ulivi, ai tre lati del giardino della casa passa il muro di separazione che divide la città di Gerusalemme dai territori occupati. “Abbiamo voluto preservare una presenza anche dall’altra parte del muro: ci si vede, ma non ci si può incontrare facilmente. Stiamo molto attente a collaborare con entrambe le parti, con i due popoli della Terra Santa”, precisa, accennando al lavoro sia con gli attivisti israeliani, “che veramente vogliono aprire brecce, trovare soluzioni, costruire ponti”, sia con i palestinesi. In Israele il lavoro è con i medici per i diritti umani, con le organizzazioni che lavorano soprattutto nell’ambito dei rifugiati e richiedenti asilo. In Palestina l’impegno è con i beduini, nel deserto di Giuda, attraverso una rete di scuole materne, progetti di promozione delle donne, di animazione missionaria nella Chiesa. E conclude facendo riferimento alla presenza di alcune “suore nella comunità cattolica di lingua ebraica che vivono particolarmente le tensioni politiche e sociali. È una minoranza nella minoranza”.


'Perdono' è la parola profetica, altrimenti non se ne esce

Sembra quasi retorico un appello alla riconciliazione e al perdono, eppure forse è proprio quella la parola profetica, secondo Suor Alicia. “Se non siamo capaci di rompere il cerchio della violenza, anche se ci sentiamo nel giusto, non ne veniamo fuori. La parola del Papa non è retorica. Si abbia questo coraggio di rompere il cerchio, anche se non ne siamo capaci per il peso della storia; inventiamocelo, altrimenti non ce la caviamo.



domenica 16 maggio 2021

19 maggio, "Il voto nel portafoglio, consum-attori quotidiani"

Cari amici e care amiche, 

Allego la nuova locandina per la videoconferenza su "Il Voto nel portafoglio" con Francesco Gesualdi che é stata rimandata* a mercoledì 19 maggio a causa dei disturbatori. Seguiteci sulla diretta facebook

Un abbraccio. 

Adriano Sella

Associazione Gocce di Giustizia

(*) Il 6 maggio la videoconferenza è stata attaccata pesantemente da disturbatori con parolacce, bestemmie, insulti e video porno, fino al momento in cui è stata sospesa.


venerdì 14 maggio 2021

Palestinesi, israeliani ebrei e israeliani arabi

"Praticare la giustizia darà pace, onorare la giustizia darà tranquillità e sicurezza per sempre" [Is 32,17]

Non ci sarà mai pace senza giustizia



mercoledì 12 maggio 2021

Combattere la "transazione" ecologica

dalla pagina https://ilmanifesto.it/combattere-la-transazione-ecologica/

Attenti ai dinosauri. La rubrica a cura della Task Force Natura e Lavoro


“Per l’Italia il NGEU (Next Generation EU) rappresenta un’opportunità imperdibile di sviluppo, investimenti e riforme. L’Italia deve modernizzare la sua pubblica amministrazione, rafforzare il suo sistema produttivo e intensificare gli sforzi nel contrasto alla povertà, all’esclusione sociale e alle disuguaglianze. Il NGEU può essere l’occasione per riprendere un percorso di crescita economica sostenibile e duraturo, rimuovendo gli ostacoli che hanno bloccato la crescita italiana negli ultimi decenni”. Così sta scritto nella premessa, a firma Mario Draghi, del PNRR.

E inoltre: “Il Governo stima che gli investimenti previsti nel Piano avranno un impatto significativo sulle principali variabili macroeconomiche. Nel 2026, l’anno di conclusione del Piano, il prodotto interno lordo sarà di 3,6 punti percentuali più alto rispetto all’andamento tendenziale”.

Dunque l’obiettivo è quello di migliorare il funzionamento dell’attuale sistema economico, centrato sull’aumento del PIL, cercando di attenuarne le storture attraverso gli “sforzi di contrasto alla povertà, all’esclusione sociale e alle disuguaglianze”. Il tutto infiocchettato con la magica parola “sostenibile”.

Nessuna indicazione sul fatto che una vera transizione ecologica è legata a un sostanziale cambiamento di paradigma, che non si concilia col perseguimento dell’approccio “business as usual”. Affinché le nuove generazioni siano veramente salvaguardate occorre una diversa visione del futuro.

Ci saremmo aspettati che la premessa ci facesse intravvedere una “visione” dell’Italia sostenibile che si vuole. E invece no: di concreto ci sono solo i punti di PIL.

Fosse almeno stato citato anche il BES, quell’indice di Benessere Equo e Sostenibile che è obbligo da anni che faccia parte delle misure di sviluppo economico, perché indica se quelle misure portino effettivamente benessere alla popolazione, o invece determinino un peggioramento di questo benessere, anche se il PIL aumenta.

Ma forse questa mancanza di anima, nel PNRR, è giustificata dalla fretta con cui il governo Draghi ha dovuto scriverlo. Non è però in alcun modo giustificabile che questa mancanza di anima fosse già nelle bozze da lui ereditate, perché per introdurla nelle bozze il tempo ci sarebbe stato.

Tuttavia, seppure la versione definitiva del PNRR non faccia di certo esultare per la gioia di essere finalmente, in modo inequivocabile, su un percorso di transizione ecologica, va però riconosciuto che si tratta di un documento semplicemente inimmaginabile prima dell’avvento della pandemia per l’impegno sull’ambiente, sia pure con un approccio che porta a gravi errori e lacune che necessitano correzioni.

Prima del virus, l’European Green Deal c’era già, ma non era supportato dalla necessità di ricostruzione di una economia in ginocchio in tutta Europa e, soprattutto, non era supportato dal fiume di denaro messo a disposizione per la ripresa, e condizionato ai vincoli del Green Deal.

Insomma, senza il malefico SARS-CoV 2 non avremmo avuto nessun documento programmatico che anche lontanamente somigliasse a quello, pur insufficiente, che invece abbiamo. Mai lo avremmo avuto, conoscendo l’inettitudine e indifferenza al futuro del paese che caratterizza la nostra classe politica (con le poche eccezioni, che hanno ben poco peso, purtroppo).

Per una volta guardiamo il bicchiere mezzo pieno, e partiamo dal bicchiere che abbiamo, cioè il testo definitivo, approvato dai due rami del parlamento; e, se è vero che il PNRR non rappresenta il cambiamento di paradigma che avrebbero voluto tutti coloro che hanno a cuore il futuro del nostro pianeta, cioè il nostro futuro, anzi quello dei nostri figli e nipoti, è anche vero che si può utilizzare come cavallo di Troia per avviare un reale cambiamento di paradigma.

Sta a noi essere vigili, esercitare la pressione necessaria perché questo cambiamento di paradigma abbia luogo, bloccando sul nascere azioni direttamente o indirettamente favorite dal PNRR.

Un esempio da portare subito, a questo proposito, è quello dell’ENI che, assieme alle altre aziende del settore Oil&Gas e con il sostegno aperto della Agenzia Internazionale dell’Energia che è diventata (o sempre stata?) la portavoce istituzionale, preme per continuare a estrarre combustibili fossili e a bruciarli, e poi sotterrare la CO2 che ne deriva (CCS, Carbon Capture and Storage). Il progetto ENI di cattura e stoccaggio nei giacimenti esausti dell’Adriatico della CO2 prodotta nell’area industriale di Ravenna è il caso paradigmatico. Il CCS è portato avanti anche con la scusa della espressa volontà europea di puntare sull’idrogeno.

Ebbene, nel PNRR sembra che si parli solo di idrogeno verde, però ci sono alcuni passaggi in cui potrebbero annidarsi delle brecce attraverso cui far passare l’idrogeno blu, come si chiama quello fatto con l’energia elettrica prodotta con fonti fossili e la CO2 derivante sotterrata.

Speriamo che questo retropensiero che attraversa tutte le associazioni ambientaliste e chiunque abbia a cuore l’ambiente si riveli falso; ma come si suol dire: a pensar male si fa peccato…

Detto questo, limitandoci all’esame alla missione “Rivoluzione verde e transizione ecologica” e ad un aspetto della missione ”Infrastrutture per una mobilità sostenibile” e lasciando da parte quelle azioni del PNRR che sono condivisibili, e ce ne sono, restano alcuni punti che invece non sono condivisibili e che richiedono, un attento ri-orientamento delle azioni previste.

Il primo punto, di enorme importanza, riguarda l’economia circolare, che viene letta in maniera riduttiva, confinandola al problema del trattamento dei rifiuti e agli impianti che occorrono, specie al sud.

Il cuore del problema, invece, viene rinviato al quando verrà adottata, entro giugno 2022, la nuova strategia nazionale per l’economia circolare.

Suona un po’ strano che la parte più importante del concetto di energia circolare secondo il Green Deal Europeo – e cioè che i prodotti devono essere progettati in modo da avere una bassa impronta di carbonio e di materiali, ed essere durevoli, riparabili, riusabili, rimodernabili e riciclabili – venga rinviata all’anno prossimo, senza peraltro prevedere adeguate risorse per attuarla.

Si tratta di un ambito che richiede sostanziali trasformazioni del modello di produzione e di consumo, primo fra tutti il passaggio da una economia centrata sulla produzione a una che valorizzi la manutenzione.

Inoltre, bisogna tenere gli occhi bene aperti al fine di evitare che gli interventi sul tema dei rifiuti, al sud, finiscano per focalizzarsi sulla realizzazione di inceneritori, che è quello che tutte le lobby, a partire da quelle mafiose, vogliono.

Poi ci sono le azioni sulla filiera agroalimentare. Non una parola sul sostegno allo sviluppo di una agricoltura basata sui principi dell’agroecologia, ignorando ciò che invece promuove la strategia europea “From Farm to Fork”. Ci sono solo azioni miranti a rafforzare, e razionalizzare, l’attuale modello di produzione di tipo industriale, introducendo innovazione volta ad aumentarne l’efficienza.

Un’altra mancanza riguarda un sia pure piccolo accenno alla eliminazione dei sussidi ambientalmente dannosi. E mancano incentivi alla efficienza energetica nell’industria. Come pure manca un accenno, e i conseguenti finanziamenti, all’accumulo mediante impianti di ripompaggio, utilizzando intanto i bacini artificiali già esistenti e creandone eventualmente di nuovi.

Gravissima poi, e da combattere con tutti i mezzi, è la volontà di aumentare la produzione di biometano attraverso il rinforzo degli impianti biogas agricoli esistenti e il supporto per la realizzazione di nuovi, attraverso un contributo del 40% dell’investimento.

Ciò significa incentivazione degli allevamenti intensivi, che sono fra le cause principali del contributo dell’agricoltura al cambiamento climatico, alla alterazione dei cicli biogeochimici, al consumo di acqua, al cambiamento di uso del suolo, alla perdita di biodiversità, e costringono a importare cibo che potrebbe essere prodotto al posto del mangime.

Questo è il secondo punto più importante, dopo quello sull’economia circolare, su cui occorre esprimere il più netto dissenso e operare per modificarlo.

Per contro, si sottovaluta il potenziale della produzione di biometano da acque reflue urbane. C’è solo un piccolo accenno in: “Dove possibile, gli impianti di depurazione saranno trasformati in ‘fabbriche verdi’, per consentire il recupero di energia e fanghi, e il riutilizzo delle acque reflue depurate per scopi irrigui e industriali”, nel capitolo“Tutela del territorio e della risorsa idrica”.

Infine, da più parti si osserva che le risorse destinate al solare e all’eolico, in particolare off-shore, sono scarse, e come incompatibili con l’esigenza di raggiungere l’obiettivo della riduzione del 55% delle emissioni nel 2050 siano le previsioni di crescita delle rinnovabili solare ed eolica.

Su questo punto si potrebbe osservare che le esigenze effettive dovranno essere definite dall’aggiornamento del PNIEC e che le risorse previste sull’eolico e il solare debbano servire solo per rendere competitive determinate soluzioni tecnologiche che oggi ancora non lo sono, dopo di che dovrebbe essere il mercato a provvedere, senza o con ridottissimi incentivi pubblici, guidato da opportuni provvedimenti normativi.

Ma è così, o è solo una benevola interpretazione di un disegno malevolo? Pertanto questo è un altro settore, estremamente critico, su cui occorre tenere altissima l’attenzione.

Infine, qualche notazione sulla mobilità sostenibile.

Si finanziano 570 km di ciclovie urbane e 1200 km di ciclovie turistiche, e non si capisce perché questa sproporzione: sono quelle urbane che riducono la mobilità motorizzata, quella che consuma carburanti fossili, non certo quelle turistiche.

Inoltre si finanziano pochissimo i bus elettrici e molto di più quelli a gas. Strano, data la tendenza verso l’uso di veicoli elettrici. Ma la mancanza di gran lunga più grave è un’altra: nessun accenno all’approccio più sostanziale che mira alla riduzione del traffico urbano: la ridistribuzione spaziale dei servizi in modo da rendere possibile che quelli di uso più frequente siano raggiungibili più comodamente a piedi o in bici che in macchina.

Cioè manca completamente qualsiasi accenno, e quindi incentivo, alla messa in atto della “città dei 15 minuti” che per esempio la Hidalgo sta sviluppando a Parigi.

La carne al fuoco è tanta, e non entriamo, questa volta, nel merito della filiera idrogeno verde, che è di grandissima importanza per tante ragioni, riservandocela per un’altra occasione di riflessione.

La parola d’ordine è: vigilare. Vigilare al fine di non trasformare la transizione ecologica in una transazione ecologica, dove ci si accorda per accontentare entrambe le parti, e prevale il più forte.

Federico Butera è Professore emerito di Fisica Tecnica Ambientale al Politecnico di Milano, membro Comitato scientifico WWF e consulente ONU per la progettazione di insediamenti ed edifici sostenibili