martedì 31 maggio 2022

La tribù bianca e l’ideologia delle «guerre giuste»

dalla pagina https://ilmanifesto.it/la-tribu-bianca-e-lideologia-delle-guerre-giuste

Incontro con Alex Zanotelli, una vita dalla parte degli ultimi: «Con una mano diamo aiuti, con l’altra vendiamo armi». Ucraina e non-violenza? «Dovevamo pensarci nel 2014»

Ascanio Celestini 

«È sbalorditivo questo fatto che siamo tornati di nuovo al concetto di guerra giusta. E soprattutto in difesa della civiltà occidentale. Io pensavo che certe cose le avessimo ormai digerite, e invece no».
Sono le prime parole che pronuncia Alex Zanotelli, poi si interrompe, ci pensa e mi chiede se voglio un decaffeinato. Ringrazio. L’ho già preso al bar appena arrivato alla stazione di Napoli. Mentre accendo il registratore si mette seduto nell’angolo della stanzetta dietro al tavolino. Io dico «registro così posso usare proprio le tue parole». «Sì, sì, tranquillo» e riprende il discorso.

«Papa Francesco è stato chiarissimo nell’enciclica Fratelli Tutti. Cioè che oggi con lo “sviluppo delle armi nucleari, chimiche e biologiche”, ma anche con la Cyberwarfare “si è dato alla guerra un potere distruttivo incontrollabile” ed è diventato assurdo “parlare di una possibile guerra giusta”. Così l’unico vincitore di questa guerra è il complesso militare industriale. Questa è la cosa veramente paradossale della nostra storia. Con il problema che se effettivamente la Russia viene incastrata è capacissima di usare l’atomica. Stiamo ballando letteralmente sul baratro di un’esplosione atomica e dell’inverno nucleare. Io non riesco a capire perché la gente non lo comprende».

Caro Alex – gli suggerisco – la gente non lo comprende++++ perché non è facile spiegare che rispondere alla violenza con la violenza è un suicidio oltre che un omicidio. Le televisioni hanno cominciato subito dopo Natale a mostrare gli ucraini che si esercitavano coi fucili di legno e i ragazzini che preparavano le molotov. Era la storia di Davide contro Golia. Parli col vicino di casa e ti dice: «Che faresti se invadessero l’Italia? Ti ricordi i partigiani che hanno combattuto il nazifascismo?». Come faccio a rispondere al mio dirimpettaio che gli ucraini possono scegliere una resistenza nonviolenta?

«Oggi è inutile – mi risponde – che parliamo di nonviolenza in Ucraina. No. È solo tempo perso. Dovevamo farlo prima. Dal 2014 ad oggi sappiamo bene quello che stava avvenendo. Se noi avessimo cominciato seriamente a lavorare col popolo ucraino per coscientizzarlo, per prepararlo a una resistenza nonviolenta qualcosa poteva avvenire. C’è l’esempio della Danimarca quando Hitler ha dichiarato guerra. Quei quattro gatti di esercito che avevano si sono subito arresi con l’intenzione di resistere al nazismo. Infatti il re andava in giro con la stella di David. Hanno salvato, portato in una notte tutti gli ebrei fuori dalla Danimarca. Li han portati in Svezia. E hanno fatto una resistenza.

Il popolo ha sempre un potere enorme. Pensa a quello che ha fatto Mandela in Sud Africa. Tutti noi eravamo convinti che liggiù si sarebbe arrivati a una guerra terribile tra bianchi e neri. E invece…Però tutto questo richiede preparazione. La nonviolenza non si inventa dal nulla. Quando ero direttore di Nigrizia – racconta – ho appoggiato tutte le lotte armate in Africa contro il colonialismo perché mi sembrava che fosse l’unica cosa che si poteva fare. Bisognava stare da quella parte. Oggi mi pento. Io sono un convertito alla nonviolenza di Gesù. Lui cosa aveva capito? Che il suo popolo stava andando dritto alla guerra contro Roma. E tutti si aspettavano che sarebbe stato lui a guidarla. E la più grande tentazione che ha avuto Gesù quando è arrivato a Gerusalemme era guidare duecento, trecentomila ebrei che lo aspettavano. E invece lui è entrato su un asino. Ci ha preso in giro tutti. Pensa a Gandhi – conclude – che ha liberato l’India contro l’impero britannico e con lui c’era Bāshā Khān che guidava i musulmani».

Alex Zanotelli è nato a Livo in Trentino. Dalla metà degli anni ’50 ha studiato a Cincinnati, Ohio, poi nel ’65 ha insegnato in Sudan. In Africa ha preso coscienza che «la ricchezza di pochi è pagata dalla miseria di troppi». Come direttore di Nigrizia, il mensile dei missionari comboniani, ha denunciato lo squilibrio tra i pochi aiuti ai poveri e i grandi introiti per il commercio di armi. Oggi l’Italia arriva più o meno a 400 milioni di euro per la cooperazione allo sviluppo (dati Openaid AICS), ma presto raggiungerà il 2% del PIL per le armi, cioè quasi 40 miliardi.

«Mi domandavo: “come è possibile che con una mano l’Italia offra aiuti e con l’altra invece venda armi?”» scrive in un suo libro che ha pubblicato Feltrinelli da poche settimane “Lettera alla tribù bianca”. Il titolo viene dalla sua esperienza nella baraccopoli di Korogocho, periferia di Nairobi. Accanto alla «enorme e spaventosa discarica di Dandora» dove anche i bambini diventano scavengers, raccoglitori di rifiuti, le bambine si prostituiscono e spesso muoiono di Aids prima di diventare maggiorenni. Dopo dodici anni in mezzo ai rifiuti dell’umanità è tornato in Europa «perché, se oggi viviamo in un pianeta di immense folle di impoveriti, la responsabilità è in gran parte della tribù bianca. E come missionario sono tornato dalla mia gente, dalla mia tribù bianca a convertirla».

Accompagno Zanotelli a piazza Carità dove l’aspettano per un volantinaggio contro la guerra. Andiamo insieme verso il Ponte della Sanità costruito all’inizio dell’800 da Gioacchino Murat per favorire il passaggio dal centro della città alla reggia di Capodimonte evitando ai sovrani di passare in mezzo alla plebe. Gli impoveriti della nostra tribù bianca dove padre Alex è andato a portare un riscatto di pace e dignità, una resistenza nonviolenta.


domenica 29 maggio 2022

Piano di pace cercasi

dalla pagina https://volerelaluna.it/commenti/2022/05/27/piano-di-pace-cercasi/

 

Abbiamo superato il novantesimo giorno di guerra e, per dirla con Guccini, «ancora tuona il cannone / ancora non è contenta/ di sangue la bestia umana».

Sono 46 i paesi che hanno partecipato qualche giorno fa al vertice on line organizzato dal Segretario alla Difesa statunitense, Lloyd Austin, per allargare e rafforzare la Santa Alleanza creata a Ramstein il 24 aprile con la missione fornire una valanga di armamenti che consentano all’Ucraina di proseguire la guerra per mesi o per anni, fino a conseguire la vittoria. Il programma degli alleati occidentali a guida USA è che il cannone deve tuonare ancora a lungo. Il mantra è che sono gli ucraini che devono decidere quando ci siano le condizioni migliori per intavolare il negoziato che porterà fine alla guerra. Niente di più falso! il comportamento dei belligeranti non dipende soltanto dalle parti in conflitto, ma in larga parte dal grado di consenso/dissenso, sostegno/boicottaggio che viene dagli altri attori internazionali. Basti pensare che il conflitto in Bosnia cessò solo dopo che un attore internazionale (gli USA) convocò le parti belligeranti nella base militare di Dayton nell’Ohio. Dopo 21 giorni di intensi negoziati le parti stipularono l’accordo di pace, poi firmato formalmente a Parigi il 14 dicembre 1995.

A differenza della Bosnia, questa volta tutto possiamo aspettarci tranne che Biden convochi Putin e Zelensky e li rinchiuda in una base militare tenendoli prigionieri fino a quando non partoriscano un accordo di pace. Dopo Ramstein le campane della pace suonano a morto. La decisione di effettuare forniture militari illimitate, non può che spingere il governo di quel paese a prolungare all’infinito il conflitto, alzando sempre di più il prezzo per un negoziato di pace. Non possiamo ignorare che, a parte l’adesione alla NATO, fra la Federazione Russa e l’Ucraina c’è una pesante controversia territoriale che coinvolge l’intera Crimea (annessa alla Russia nel 2014) e una larga parte del territorio del Donbass, abitato da una popolazione russofona e russofila che si è ribellata al governo centrale, creando le due repubblichette di Donetsk e Lugansk, nate da una sanguinosa guerra civile, che all’epoca provocò circa 14.000 morti. Se il concetto di vittoria per gli ucraini significasse il recupero dei territori annessi direttamente o indirettamente alla Federazione Russa, allora la guerra non finirebbe mai, crescerebbe d’intensità, si estenderebbe e potrebbe sfociare in un conflitto nucleare. È facile intuire che la Russia non rinuncerebbe mai alla Crimea, base principale della sua flotta, e che gli abitanti delle due repubblichette del Donbass, considerati dei traditori da Kiev per il loro appoggio all’invasione, non accetterebbero mai di tornare sotto la sovranità ucraina poiché ormai si è formato un baratro di odio incolmabile fra le due comunità.

L’Europa, anche se arruolata nella Santa Alleanza di Ramstein, non ha nessun interesse, al prolungamento della guerra. Adesso finalmente stanno uscendo delle crepe nell’asse euro-atlantico. Anche se Draghi si è presentato a Washington come garante dell’unità USA-Europa, l’Italia ha emesso un primo vagito presentando la bozza di un piano di pace che, timidamente e per la prima volta, affrontava le controversie sul tappeto del conflitto russo-ucraino. Inutile dire che dall’amministrazione americana è venuto un silenzio assordante, mentre trapelava il malumore dell’alto Rappresentante dell’UE, che in quest’epoca storica si è disegnato il ruolo di portavoce della NATO più che dell’Unione Europea, e quello di Kiev. La risposta più sprezzante, poi, è venuta da Mosca per bocca di Dmitri Medvedev, vice presidente del Consiglio di Sicurezza russo: «C’è la sensazione che sia stato preparato non da diplomatici ma da politologi locali che hanno letto giornali provinciali e che operano solo sulla base delle notizie false diffuse dagli ucraini». È una risposta non si capisce se più stupida o più arrogante. I russi non si sono ancora resi conto che la rottura dell’unanimismo fra USA e Unione Europea è per loro l’unica speranza di uscire fuori dal disastro in cui si sono cacciati.

Sono interessanti le dichiarazioni di Kissinger a Davos: «8 anni fa quando è emersa l’ipotesi dell’ingresso dell’Ucraina nella NATO ho scritto un articolo in cui dicevo che l’esito ideale sarebbe stato un’Ucraina neutrale una sorta di ponte fra Europa e Russia invece che una linea del fronte, una prima linea di schieramenti opposti interni all’Europa. Questa opportunità al momento non esiste più, non in quella forma, ma può ancora essere concepita come obiettivo finale. […] Il rischio è di entrare in uno spazio in cui la linea di demarcazione è ridisegnata e la Russia è completamente isolata. Bisogna ricordare che la Russia è stata una parte essenziale dell’Europa per oltre quattro secoli: i leader europei non dovrebbero perdere di vista l’orizzonte di una relazione a lungo termine con Mosca perché ci troviamo ora di fronte a una situazione in cui la Russia potrebbe alienarsi completamente dall’Europa e cercare un’alleanza forte permanente con la Cina. […] Dovremmo lottare per una pace a lungo termine».

In questo contesto se il piano di pace presentato dall’Italia non riesce a decollare, non per questo bisogna rassegnarsi alla logica del cannone. Ci vorrebbero interlocutori più robusti, l’Italia dovrebbe sollecitare la Francia e la Germania a ripresentare un piano di pace comune, dissociandosi dalla politica di “guerra continua” degli USA. Il tempo è adesso: occorre agire subito.


venerdì 27 maggio 2022

Lavoro povero, in arrivo la direttiva Ue che costringerà il governo a fare la legge per frenare i contratti pirata. “Una base per il salario minimo”

dalla pagina https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/05/27/lavoro-povero-in-arrivo-la-direttiva-ue-che-costringera-il-governo-a-fare-la-legge-per-frenare-i-contratti-pirata-una-base-per-il-salario-minimo/6602874/ 


Il ministro Orlando finora ha tentennato sperando in un accordo tra le parti sociali, che resta ben lontano. A sparigliare le carte sta per arrivare, però, la norma europea. Potrebbe fare la differenza perché impone di varare una legge sulla rappresentanza, che frenerebbe i contratti pirata. Altrimenti il rischio sarebbe la procedura d'infrazione. Lucifora (Cattolica e Cnel): "Senza interventi rischiamo la messa in mora". Raitano (Sapienza): "Fare anche il salario minimo per dare un segnale sul lavoro povero"

La sociologa ed esperta di welfare Chiara Saraceno. Il direttore Lavoro dell’Ocse Stefano Scarpetta. L’ex presidente Inps Tito Boeri e l’ex commissario alla spending review Roberto Perotti. Sono gli ultimi in ordine di tempo ad aver chiesto l’introduzione anche in Italia di un salario minimo legale per tutelare il potere di acquisto dei lavoratori (compresi quelli non coperti dai contratti collettivi) e mettere un freno al dumping salariale. Secondo un sondaggio Swg, la misura vedrebbe favorevole l’86% degli italiani. Il ministro del Lavoro Andrea Orlando finora ha tentennato sperando in un accordo tra le parti sociali, che continua ad essere ben lontano. Risultato: non si è fatto un passo e la fine della legislatura è ormai vicina. A sparigliare le carte sta per arrivare, però, la direttiva europea in materia, destinata salvo sorprese a ricevere l’ok definitivo il 6 giugno. Nel contrasto al lavoro povero potrebbe fare la differenza non perché ci imponga di fissare un compenso minimo – non lo fa – ma perché obbligherà il governo a varare almeno una legge sulla rappresentanza. Pena, in prospettiva, la procedura di infrazione.

Perché la legge sulla rappresentanza contrasta il lavoro povero – Parlare di norme mirate a “pesare” quanto sono effettivamente rappresentativi i vari sindacati e le associazioni datoriali ha meno appeal rispetto al concetto di un trattamento economico sotto il quale nessuno può scendere. Ma secondo gli esperti i due interventi devono procedere insieme e il primo non solo è il più urgente, ma avrebbe subito a vantaggio dei tanti lavoratori a cui vengono applicati contratti pirata con stipendi molto più bassi rispetto a quelli di chi gode del contratto collettivo “principale”. La proliferazione di questi accordi firmati da sigle minori, fittizie o “di comodo” è stata infatti consentita proprio dal vuoto legislativo sulla rappresentanza. Un lavoratore pagato meno di quanto prevede il contratto di riferimento per il suo settore può sulla carta far causa e chiedere l’adeguamento della cifra, visto che una legge del 1989 sancisce che la retribuzione “non può essere inferiore all’importo (…) stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale”. Ma qui si torna al punto di partenza: ufficialmente, quali siano le organizzazioni più rappresentative in Italia non si sa. L’articolo 39 della Costituzione, che prevedeva la registrazione dei sindacati in cambio della facoltà di stipulare contratti collettivi validi per tutti gli appartenenti alla categoria, è inattuato. Va ancora peggio sul fronte datoriale: accanto a Confindustria ci sono decine di associazioni di pmi, di artigiani, di imprese di singoli settori che in questo modo sono libere di affrancarsi dal ccnl principale (Fiat insegna). Negli anni vari testi unici, accordi quadro e da ultimo il “Patto della fabbrica” del 2018 hanno promesso svolte, mai arrivate.

Che cosa prevede la direttiva europea – Cosa cambia con la direttiva europea sul salario minimo? Il testo lascia agli Stati membri la libertà di decidere se garantire stipendi adeguati adottando un salario minimo legale (già in vigore in 21 Paesi su 27) o invece attraverso un’elevata copertura della contrattazione collettiva. Per essere in regola basta che almeno il 70% dei lavoratori sia coperto. “Ma noi al momento non siamo in grado di calcolare in maniera puntuale la percentuale di copertura dei ccnl, né di verificare se le imprese che dichiarano di applicare un contratto pagano minimi contributivi allineati”, spiega Claudio Lucifora, professore di Economia del lavoro alla Cattolica di Milano e consigliere del Cnel, che tiene l’archivio di tutti i contratti vigenti in Italia (oggi ben 985). Risultato: “Rischiamo di essere messi in mora da Bruxelles“, che chiederà di quantificare quella quota con precisione. Non è un caso se mercoledì Orlando ha fatto sapere che “una qualche legge, se non sul salario minimo sul fronte della rappresentanza, arriverà”.

Lucifora (Cnel): “Il governo intervenga entro pochi mesi” – “Il governo dovrebbe dare alle parti sociali qualche mese per trovare l’intesa. E, se non ci riescono, varare un intervento legislativo leggero che definisca alcuni parametri per misurare la rappresentanza dei sindacati e delle associazioni datoriali“, continua Lucifora. “Una volta misurata la rappresentatività, le imprese potranno continuare ad applicare contratti diversi da quello principale su una serie di aspetti ma non sui minimi contributivi e dunque salariali”. A meno che il governo non faccia un passo ulteriore, estendendo “erga omnes” la validità del contratto leader. In ogni caso, una norma del genere offrirebbe finalmente un punto fermo all’Ispettorato del lavoro, ai giudici (in caso di ricorsi avranno un termine di paragone chiaro) e agli enti pubblici che oggi, quando devono verificare la corretta applicazione dei ccnl nell’esecuzione di un appalto o nella concessione di alcuni contributi alle imprese, procedono alla cieca.

Raitano (Sapienza): “Sul minimo orario recuperare il ddl Catalfo” – E il salario minimo legale? “Non è la panacea ma il governo dovrebbe farlo, dopo la legge sulla rappresentanza che è fondamentale per rafforzare la contrattazione“, spiega Michele Raitano, ordinario di Politica economia alla Sapienza che ha fatto parte del gruppo di lavoro sulla povertà lavorativa nominato dallo stesso Orlando. “Fissare un minimo manderebbe un messaggio chiaro sul problema del lavoro povero. Che dipende però sia dai bassi salari orari sia dall’enorme quantità di part-time involontario, arrivato ormai a riguardare il 30% dei dipendenti privati, e dalle tante forme di lavoro atipico”. “Penso a un intervento che recuperi il ddl Catalfo (ora fermo in commissione Lavoro alla Camera, ndr), che tiene conto anche delle esigenze dei sindacati”. Quel testo infatti non si limita a fissare una soglia minima di 9 euro lordi – che è ritenuta da molti troppo alta per il contesto italiano ma verrebbe poi aggiornata da una commissione di esperti e parti sociali – ma propone come benchmark per ogni settore il trattamento minimo orario previsto dal contratto collettivo leader nel comparto.

“Tutto però deve essere accompagnato da un enorme aumento della capacità di controllo del rispetto dei contratti stessi e dei loro minimi”, continua Raitano toccando uno dei tanti tasti dolenti del sistema. “Tra le proposte del gruppo di lavoro c’era non a caso il rafforzamento della vigilanza documentale, quella basata sull’incrocio dei dati a disposizione dell’Inps, per identificare in maniera automatica i casi di presunta irregolarità da sottoporre poi a controlli. Questo permetterebbe anche di individuare subito l’eventuale riduzione delle ore lavorate “ufficiali” a fronte dell’introduzione un salario minimo”. Spia, ovviamente, dello spostamento di una parte dell’orario reale nel perimetro del nero. Se mai si farà la legge, bisognerà esser pronti a smascherare l’inganno.


mercoledì 25 maggio 2022

Pacifismo, anno zero?

dalla pagina https://comune-info.net/pacifismo-anno-zero/

Pasquale Pugliese 

La ribellione nonviolenta di Gandhi (che trascorse molto tempo in carcere e che fu ucciso perché promuoveva la lotta nonviolenta invece di quella armata), il ripudio costituzionale della guerra e la lotta per l’obiezione di coscienza sono una parte importante del patrimonio storico di principi e pratiche con cui oggi il pacifismo può ripensarsi: abbiamo bisogno di politiche e azioni per il disarmo, per la riconversione sociale delle spese militari e per la costituzione immediata dei corpi civili di pace  

da https://www.facebook.com/groups/200796200100938/media

La datazione degli anni dipende dal tipo di calendario che si segue: io che seguo un calendario che prova a stare sui tempi della storia, anziché su quelli della cronaca, parlerò di Nonviolenza, anno 74, d.G. (dopo Gandhi). Cioè per esplorare questa parola polisemica, partirò da un anno preciso: il 1948. Nel quale accaddero tre fatti, da cui possiamo far partire convenzionalmente questa datazione. Andiamo in ordine cronologico.

L’1 gennaio 1948 entra in vigore la Costituzione italiana

I Costituenti – che conoscevano personalmente che cosa fosse la guerra – iniziarono a lavorare alla Costituzione a poco meno di un anno dalla tragedia delle bombe atomiche statunitensi su Hiroshima e Nagasaki. La Costituzione fu scritta con un linguaggio chiaro, efficace, inequivocabile: un’estetica della trasparenza che corrispondeva a un’etica della comprensibilità. Per questo non sembrò abbastanza esplicito il verbo “rinunciare” della prima stesura di quello che sarebbe diventato l’Articolo 11, perché avrebbe mantenuto implicitamente l’idea di un diritto al quale si rinuncia, e scelsero – invece – il verbo “ripudiare” che contiene il disprezzo per ciò che si è conosciuto e si vuole allontanare per sempre. L’incipit del definitivo Articolo 11 – “L’Italia ripudia la guerra” – diventò così elemento fondante di una una storia nuova rispetto al fascismo, fondato proprio sul militarismo come elemento identitario. Inoltre, non sembrò sufficiente ripudiare la guerra come “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, ma aggiunsero anche come “mezzo di risoluzione delle controverse internazionali” perché i Costituenti – che non erano ingenui – avevano due consapevolezze: la prima, che i conflitti esistono e non sono eliminabili; la seconda, che nessun conflitto può essere risolto davvero con la guerra. Soprattutto nell’epoca atomica: è l’introduzione dell’etica della responsabilità nella Costituzione. Dunque i Costituenti ci stanno dicendo: noi siamo giunti a capire che la guerra non risolve i conflitti, d’ora in poi tocca a voi – alle generazioni successive – trovare mezzi e strumenti alternativi alla guerra per affrontarli e risolverli. Il secondo comma dell’articolo 11, infine, che “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” e “promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”, fa riferimento alle Nazioni Unite che erano nate già nell’ottobre del 1945 con lo stesso spirito della Costituzione italiana, ossia – come recita l’incipit della Carta fondante – per “liberare l’umanità dal flagello della guerra” attraverso la risoluzione delle “controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace, la sicurezza internazionale e la giustizia non siano messe in pericolo” (Carta delle Nazioni Unite, Art. 2). La Nato, come alleanza militare difensiva, sarebbe stata costituita solo nel 1949.

Il 30 gennaio del 1948 un fondamentalista uccide Gandhi

Gandhi – ovviamente – non è l’inventore della nonviolenza, ma la fa diventare strumento di lotta politica, sia individuale che, soprattutto, di massa, esattamente per risolvere le controversie a tutti i livelli – tra le persone, tra i gruppi, tra i popoli e gli stati – senza l’uso della violenza. Aveva appreso i primi rudimenti nel suo soggiorno universitario a Londra alla fine dell’800 dalle lotte delle suffragiste inglesi; lo aveva poi sperimentato in Sudafrica dove era emigrato per lavoro, nella lotta contro l’apartheid (che sarà ripresa efficacemente, con la nonviolenza, alcuni decenni dopo da Nelson Mandela, che aveva già sperimentato la controproduttività della lotta armata); l’aveva infine portata e perfezionata in India nella prima lotta di liberazione anti-coloniale del ‘900, contro l’imperialismo britannico. Attenzione: non un imperialismo gentile ma capace di fare stragi a sangue freddo con centinaia di morti e migliaia di feriti (come quella di Amritsar, per esempio). Gandhi non è inerme di fronte alla violenza diretta, strutturale e culturale del colonialismo, ma provoca il conflitto contro l’occupante imperialista, e per questo entra ed esce dal carcere, dove usa il tempo con profitto, leggendo per esempio Lev Tolstoj – lo scrittore russo padre del pacifismo europeo – con il quale avrà una fitta corrispondenza… Nel tempo libero dal carcere, conduce il popolo indiano all’indipendenza e all’autogoverno, all’insegna del principio rivoluzionario del mezzo che sta al fine come il seme sta all’albero: tra i due c’è “lo stesso inviolabile nesso”. Dopodiché scoppia il conflitto intra-indiano tra indù e musulmani e l’induista Gandhi si dedica ad affrontare anche quello con il metodo della nonviolenza, ma viene ucciso da un suo co-religionario fondamentalista (con una pistola Beretta, ndr), perché – promuovendo la lotta nonviolenta, anziché quella armata – lo ritiene troppo debole con i musulmani, ossia “filo-musulmano”… vi ricorda qualcosa?

Nel 1948, in Italia, Pietro Pinna si dichiara obiettore di coscienza

Pietro Pinna è il primo obiettore di coscienza per ragioni politiche dell’Italia repubblicana, ossia per rifiuto del militarismo in quanto tale: aveva visto la guerra colpire la sua Ferrara e aveva deciso di essere coerente con la Costituzione italiana, ossia di ripudiarne personalmente la preparazione. Chiede di essere mandato a sminare il territorio dalla tante bombe ancora inesplose, per difendere in questo modo il Paese dalla guerra stessa, che ne è il primo nemico. Invece il Paese lo spedisce in galera, dalla quale entra ed esce per anni – oltre a subire perizie psichiatriche – finché verrà congedato per un’inesistente problema al cuore.

La vicenda giudiziaria di Pietro Pinna, che viene supportata e amplificata dal filosofo della nonviolenza Aldo Capitini, apre una lotta – attraverso varie vicende nelle quali sarà coinvolto anche Lorenzo Milani – che porterà il tema dell’obiezione di coscienza al servizio militare e del diritto al servizio civile prima all’attenzione dell’opinione pubblica, poi al riconoscimento nel 1972 (quest’anno sono cinquant’anni) e infine al servizio civile come forma di difesa della patria. Grazie alla lotta nonviolenta di tanti obiettori di coscienza oggi il nostro ordinamento giuridico prevede formalmente due modalità di difesa del Paese, in base all’articolo 52 della Costituzione, uno militare e uno civile. Che poi per la difesa civile si spenda un centesimo di quanto si spende per le sempre crescenti spese militari è una responsabilità politica che accomuna tutti i governi degli ultimi venti anni

Pietro Pinna diventerà anche il principale collaboratore prima e successore poi di Aldo Capitini, il quale recuperando l’esperienza delle marce gandhiane, fu – tra le altre cose – l’ideatore della Marcia del 1961 da Perugia ad Assisi, il fondatore del Movimento Nonviolento nel 1962 e della rivista Azione Nonviolenta nel 1964. Esperienze che continuano fino a noi, parte anche della più vasta rete della War Resister’s International che in questo momento supporta i tanti obiettori di coscienza russi e ucraini, che rifiutano da entrambe le parti le logiche militariste dei rispettivi governi, dai quali gli uni e gli altri sono perseguitati, e i cui portavoce hanno anche firmato – poche settimane fa – un documento congiunto contro la guerra.

2022, anno zero: corpi civili di pace?

Venendo all’oggi, dunque, nell’anno 74, d.G., queste linee di sviluppo storico della nonviolenza – gandhiana, costituzionale e antimilitarista – hanno portato organizzativamente alla costituzione della Rete Italiana Pace Disarmo che promuove – 365 giorni all’anno (non solo quando uno degli oltre 160 conflitti armati in corso sul pianeta riesce a bucare lo schermo) – politiche attive di pace, attraverso campagne e progetti nazionali e internazionali, di cui elenchiamo i principali filoni:

1. disarmo, anziché nuova corsa agli armamenti
2. riconversione sociale delle spese militari, anziché riconversione militare degli investimenti sociali
3. riconversione civile dell’industria bellica, anziché sviluppo sfrenato dell’export militare
4. proibizione delle armi nucleari (come previsto dal Trattato Onuu, voluto dalla Campagna internazionale, ed entrato in vigore l’anno scorso), anziché il loro ammodernamento
5. Corpi civili di pace capaci di intervenire preventivamente nei contesti di conflitto (le “controversie internazionali”) prima che degenerino in guerre, anziché partecipare a interventi armati e inviare armi nei conflitti in giro per il pianeta. I Corpi civili di pace, inoltre, oggi sono previsti all’interno del progetto di legge per la difesa civile, non armata e nonviolenta, presentato in parlamento da due legislature e mai discusso.

In questa logica storica, per chiudere, propongo un esercizio di storia contro-fattuale: pensate che cosa sarebbe successo se nelle regioni del Donbass ucraino conteso, a partire dal 2014 – anno in cui inizia il conflitto deflagrato oggi in occupazione militare e guerra aperta – invece di far arrivare armi e armati da tutte le parti, fosse stato inviato un formato e competente corpo civile di pace internazionale, capace di fare interposizione, mediazione, comunicazione, riconciliazione tra le comunità, secondo la proposta che già nel 1995 Alex Langer aveva realizzato per il Parlamento Europeo, dopo la tragica esperienza della guerra fratricida nelle ex Jugoslavia. Eppure Langer non fu ascoltato, ne i movimenti nonviolenti che hanno continuato a proporlo, a progettarlo, e qualche volta anche a sperimentarlo nel loro piccolo sono stati e sono ascoltati… Quindi oggi siamo sì, ancora all’anno zero, ma nel calendario della costruzione della capacità di gestione nonviolenta dei conflitti da parte dei governi, i quali – invece di rispondere all’appello dei Costituenti e dell’Onu – continuano a fare come l’uomo col martello, che vede tutto il mondo come un chiodo. Facendo buchi ovunque, ma con grande profitto e gioia dei produttori e commercianti di chiodi e di martelli.


[Trascrizione dell’intervento svolto venerdì 20 maggio all’interno del Seminario nazionale “Pacifismo, anno zero”, a cura della rivista Vita e della Croce Rossa Italiana]


Pasquale Pugliese cura percorsi e laboratori sui temi della cultura di pace, della convivenza interculturale e dell’educazione alla nonviolenza. Nel 2018 ho pubblicato il volume Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini (reperibile qui), e nel 2021 Disarmare il virus della violenza (reperibile qui), entrambi per le edizioni GoWare. Questo il suo blog. Nell’archivio di Comune altri suoi articoli sono leggibili qua.


sabato 21 maggio 2022

L’Occidente e il vizio di considerarsi superiore

dalla pagina https://volerelaluna.it/controcanto/2022/05/19/loccidente-e-il-vizio-di-considerarsi-superiore/


I nostri valori. Nostri dell’Occidente, si intende. La retorica della guerra ruota tutta intorno a questa formula magica. Siamo in guerra per quelli, ci dicono. Il Corriere della sera scrive che «la resistenza ucraina ha risvegliato i valori occidentali» e Mario Draghi ha detto pochi giorni fa, a Capitol Hill, che siamo di fronte ad «una grande sfida per i valori al centro della democrazia. […] Non è in gioco solo l’integrità territoriale dell’Ucraina, la sua sovranità, la sua indipendenza. Questo è un attacco al sistema internazionale basato sulle regole che abbiamo costruito insieme dopo la Seconda guerra mondiale». Il messaggio è molto chiaro: l’Occidente è il custode non solo dell’ordine mondiale, ma anche della sua etica. La nostra supremazia sull’umanità è implicita. Il nostro interesse è legittimo: chiunque lo minacci non è solo un nemico. È un “cattivo”.

Questa cornice retorica suggerisce che il conflitto in Ucraina non sia un episodio, ma l’inizio di una fase in cui l’Occidente si metta in guerra con il resto del mondo. Il fatto che la maggioranza dell’umanità (guidata da Cina e India) abbia preferito di fatto schierarsi (nel rifiuto delle sanzioni, e nell’opposizione alle inchieste sui crimini di guerra russi) con un tiranno sanguinario come Putin e contro le democrazie occidentali dovrebbe farci capire come siamo percepiti. Del resto, siamo noi ad annunciare guerra al mondo. Su queste pagine, Francesco Pallante (https://volerelaluna.it/commenti/2022/05/11/tra-ideologia-di-guerra-e-politiche-di-potenza/) ha richiamato l’attenzione sulle parole pronunciate dal segretario della Nato Stoltenberg lo scorso 28 aprile: «La Cina per la Nato non è un nemico, ma la sua crescita ha implicazioni per la nostra sicurezza e tutto ciò verrà preso in considerazione dal prossimo piano strategico che gli alleati si daranno a Madrid. […] La Cina non rispetta i nostri valori democratici, investe nella marina e nella tecnologia dei missili ipersonici, si avvicina a noi nell’Artico e in Africa, vuole controllare le infrastrutture tecnologiche come il 5G e ha partnership sempre più stretta con Mosca». Commenta Pallante: «Ecco il problema: anziché starsene buona al posto che noi le abbiamo assegnato, la Cina (ma il discorso vale per qualsiasi potenza non allineata all’Occidente) osa avvicinarsi a noi economicamente, tecnologicamente, militarmente. E, così facendo, insidia la posizione di dominio planetario detenuta dagli Usa e dalla Nato. Autodeterminazione dei popoli, concorrenza di mercato, libertà di scegliersi il proprio sistema di governo? Tutte fandonie, buone a imbonire l’opinione pubblica. Al cuore delle relazioni internazionali vi sono, sempre e soltanto, per tutti gli Stati, politiche di potenza». Uno scenario da incubo: se la guerra Occidente-Russia in Ucraina non sfocia in un olocausto nucleare globale, potrebbe aspettarci una guerra Occidente-Cina.

È allora urgente tirare il freno di emergenza: e quel freno si chiama “pensiero critico”. Questo ospite scomodo, eppure vitale che abita tra i famosi valori occidentali non per difenderli con le armi, ma per rinegoziarli, cambiarli, complicarli, aprirli. Distinguere Europa da America, Nato da Unione Europea, interessi da valori: mai come oggi la distinzione è importante. E ancora di più è la capacità di guardarci da fuori, con gli occhi degli altri: del resto dell’umanità che ci vede (a ragione) come dominatori di un mondo monopolare, cioè appunto sotto il dominio occidentale. Draghi ha parlato più volte del “multilateralismo” che ha fatto grande, in passato, la nostra politica internazionale: oggi la missione del nostro Paese – piantato nel Mediterraneo ai confini dell’Occidente – dovrebbe essere proprio quella, che è il contrario dell’atlantismo che invece Draghi pratica. È papa Francesco – che non per caso non è un occidentale, ma uno che viene «dalla fine del mondo», per dirla con parole sue – a invitarci costantemente a cambiare sguardo. Per farlo, dobbiamo saper ritrovare e ascoltare le tante voci che, nell’Occidente, hanno contraddetto l’immagine Occidente, criticandolo anche in modo aspro.

Nel 1914, per esempio, il grande musicologo francese e premio Nobel per la letteratura Romain Rolland scrisse una serie di riflessioni contro la Grande Guerra, e contro l’ipocrisia della retorica dei valori occidentali, che il lettore italiano di oggi può conoscere grazie a un bel libretto profeticamente comparso nel 2019 (Patrie. Lettere. Tolstoj, Zweig, Rolland e don Milani. Piccola antologia di scritti sul patriottismo con quattro tavole di Frans Masereel, Analogon Edizioni). «Il nemico peggiore – notava – non si trova al di là delle frontiere, esso è all’interno di ciascuna nazione e nessuna nazione ha il coraggio di combatterlo. Questo mostro a cento teste si chiama imperialismo, un orgoglio e una volontà di dominio che vuole assorbire, sottomettere o distruggere tutto, che non tollera alcuna libera grandezza al di fuori di se stesso». Rolland ci guardava da fuori citando le parole che il grande poeta indiano Rabindranath Tagore aveva appena pronunciato a Tokyo sulla civiltà occidentale: «Essa consuma i popoli che invade; stermina o annienta le stirpi che ostacolano la sua marcia di conquista. Una civiltà di cannibali. Opprime i deboli e si arricchisce a loro spese. Col pretesto del patriottismo essa tradisce la parola data, tende senza vergogna i suoi tranelli di menzogne, erige idoli mostruosi nei templi dedicati al Guadagno, il dio ch’essa adora. Ebbene noi profetizziamo che tutto ciò non durerà per sempre…». Rolland sottolineava: «Tutto ciò non durerà per sempre». E chiedeva: «Avete sentito uomini europei? Non tappatevi le orecchie!». Ebbene, vale anche per noi, un secolo dopo: se non vogliamo un futuro di guerra continua, non tappiamoci le orecchie, non copriamoci gli occhi.


martedì 17 maggio 2022

Lettera aperta del MIR Italia sull’entrata di Finlandia e Svezia nella NATO

dalla pagina https://www.pressenza.com/it/2022/05/lettera-aperta-del-mir-italia-sullentrata-di-finlandia-e-svezia-nella-nato/

 


 

Cari amici della Finlandia e della Svezia,

Ogni giorno è giorno di guerra in diverse aree del pianeta e non si prevede un vicino cambiamento, essendo dominante negli Stati una logica di guerra, di contrapposizione e di inimicizia. Prova ne è la crescente spesa militare collegata alla produzione e alla vendita di armi.

La terribile guerra in Ucraina, anziché attenuarsi, sta crescendo con il diretto coinvolgimento degli Stati dell’Alleanza Atlantica, fino a rischiare un conflitto mondiale con armi nucleari.
Gli sviluppi dell’aggressione della Russia in Ucraina hanno spinto i governi svedese e finlandese ad avanzare la richiesta di adesione alla Nato. Comprendiamo la preoccupazione e la paura di poter essere un obiettivo per una possibile azione di guerra.

Consideriamo la scelta di aderire alla NATO come pericolosa per la pace in Europa, innanzitutto perché accresce la contrapposizione militare nella regione e rafforza un’alleanza per la guerra, anziché sollecitare una de-escalation e un cambio di registro che privilegi alleanze e dialoghi per la pace.
L’Europa è stata dilaniata dalle guerre mondiali e l’Unione Europea nasceva con il proposito di creare un “unione” per costruire la pace e sostenere e salvaguardare la convivenza tra i popoli.
Rafforzare le alleanze militari significa dare alla forza delle armi il predominio nei rapporti tra gli stati.
Dobbiamo lavorare per la pace, con alleanze per la pace.

Venendo a mancare la neutralità di Finlandia e Svezia, ciò potrebbe provocare una reazione della Russia in un contesto che vede un sempre maggior allargamento di un’alleanza militare nata in funzione anti-russa. L’adesione alla Nato di Svezia e Finlandia, rafforzerebbe l’Alleanza che già raggruppa 30 Paesi.

L’Italia è membro della NATO e questo comporta, tra l’altro, la presenza di basi militari con personale di altri paesi sul nostro territorio e l’utilizzo di queste basi per interventi in aree di guerra in cui noi, come italiani non siamo direttamente coinvolti e non vogliamo essere coinvolti. Di continuo riceviamo pressioni per aumentare la spesa militare e osservare gli obblighi che derivano da questo tipo di trattato. E’ un impegno militarista. “L’Italia ripudia la guerra quale strumento per la risoluzione dei conflitti tra gli stati”; questo è quanto recita l’articolo 11 della nostra Costituzione ed è quello che a gran voce ripetiamo sempre, anche ogni volta che purtroppo droni e missioni militari partono dalle basi sul nostro territorio. In aggiunta, l’Italia, che tramite ben 2 referendum ha rifiutato il nucleare, si trova suo malgrado ad ospitare circa 70 testate nucleari altrui in queste basi.

Noi in Italia non ci sentiamo più sicuri, anzi, ci sentiamo sempre pienamente coinvolti ogni volta che un velivolo militare decolla dalle basi di Sigonella o Aviano o Ghedi, per citarne solo alcune.
In tutta Europa, compresa l’Italia, organizzazioni della società civile si mobilitano per chiedere ai propri governi di uscire dalla NATO, di abbandonare uno schieramento militare che divide il mondo e che molto spesso è un asservimento a potenze straniere.

Occorre fermare questa folle escalation militare, insistendo per dei negoziati di pace, per la mediazione e per il dialogo. La nonviolenza è il nostro faro e la storia insegna che è possibile una trasformazione nonviolenta dei conflitti, affinché sugli interessi e le logiche nazionalistiche, prevalgano le ragioni della pace e della vita dei popoli coinvolti.

Occorrono nuovi gesti di pace, di apertura al dialogo.
Più armi non rendono il mondo più sicuro, bensì più vicino a facili inneschi mortali.

La vostra storia di neutralità è importante; serve rafforzare una “neutralità attiva” che contribuisca alla de-escalation e alla mediazione e che rafforzi il multilateralismo, per cambiare rotta dall’attuale rovinosa strada in cui prevale la logica della violenza.

Il nostro appello, amici finlandesi e svedesi, è che la guerra cessi, che i vostri popoli non siano coinvolti e le vite siano risparmiate e che si possa insieme, tutti insieme, collaborare per “costruire la pace”, con strumenti di pace, altrimenti non sarà mai pace.

Perché noi “popoli delle Nazioni Unite siamo decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra” ma anche e soprattutto ora, adesso, la generazione presente.
Continuiamo insieme a lavorare per la pace e a sollecitare i nostri governi ad un reale impegno costruttivo per la pace, all’insegna del multilateralismo, sostenendo anche la piena implementazione dei fini delle Nazioni Unite, “mantenere la pace e la sicurezza internazionale”.

In fratellanza con tutti voi.

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sabato 14 maggio 2022

Guerra ucraìna, perché deve vincere la pace

dalla pagina https://ilmanifesto.it/guerra-ucraina-perche-deve-vincere-la-pace

ESCALATION. L’Italia invece ora invia anche armi pesanti, ma l’intenzione è cambiata radicalmente: da azione di sostegno alla difesa ucraìna all’offensiva contro Mosca e in terra russa

Giulio Marcon 

Ieri il capo del Pentagono Austin ha chiamato il suo corrispettivo russo Shojgu chiedendo un cessate il fuoco e la preservazione comunque dei canali di comunicazione Usa-Russia. Una novità rilevante, anche se sono ancora parole, è un gesto che rischia di spiazzare perfino gli alleati. Perché continuando ad inviare armi in Ucraina, ora anche quelle pesanti, offensive, ormai anche l’Italia e l’Europa sono in guerra.

Così nel giro di alcune settimane lo scenario generale è radicalmente cambiato: da un’azione di contenimento e di sostegno alla difesa ucraìna ad una prospettiva di un’offensiva contro la Russia e in terra russa. Con l’invio di armi pesanti, con il vertice di Ramstein, con il premier inglese che avvalora l’ipotesi di attacchi sul suolo russo e con la Svezia e la Finlandia che si apprestano ad accelerare l’entrata nella Nato (che con il suo stolido segretario zittisce Zelensky sulla Crimea) è cambiato tutto.

Lo scenario – nonostante le interpretazioni ottimistiche del discorso di Putin del 9 maggio, del viaggio di Draghi a Washington e ora con il gesto di Austin – resta sul campo quello di una escalation. D’altronde solo qualche giorno fa la visita del segretario dell’Onu a Kiev (dopo Mosca) è stata accompagnata dai raid russi sulla capitale ucraina: a buon intenditor poche parole.

Anche gli intendimenti di pace di papa Francesco sono stati fermati, da Zelensky e da Kirill. Le timide ma importanti aperture di Macron non sembrano seguite e il riferimento di Draghi che Putin e Biden «si debbano parlare», loro due non per interposti poteri, sembra finora senza nessuna ricaduta. Se nelle prime settimane della guerra prevaleva la ricerca di una possibile mediazione e di accordo per il «cessate il fuoco», ora il tema è come «vincere la guerra» e come mettere all’angolo Putin.

Non si capisce fino in fondo quale sia il «punto di caduta» di questa strategia: la sconfitta sul campo delle truppe russe, la riconquista della Crimea e del Donbass, la defenestrazione o l’umiliazione di Putin? Mentre la Russia combatte una guerra di aggressione sanguinosa e criminale che causa tragedie alla popolazione civile, gli Stati Uniti combattono la loro «guerra per procura» o da remoto, con all’orizzonte diversi obiettivi: far inginocchiare i russi ed indebolire i cinesi, ricondurre all’ordine gli europei sotto la Nato, ribadire l’insidiata supremazia.

Gli alfieri della guerra dicono: dobbiamo portare fino in fondo l’azione militare a difesa dell’Ucraina per arrivare ad una «pace giusta». Ma quante guerre sono finite con una «pace giusta»? In Afghanistan? In Bosnia Erzegovina, dopo l’accordo di Dayton? E per il Kosovo? E a Cipro, dopo la guerra tra due eserciti Nato del 1974, c’è forse una «pace giusta»? L’unica cosa giusta da fare è condurre al silenzio le armi, farle tacere; e poi ricercare le strade di un possibile compromesso. Forse estremo, paradossale, forse unilaterale. Erasmo da Rotterdam ricordava: «Molto meglio una pace ingiusta, che una guerra giusta». Con di più il rischio che una «guerra giusta» locale diventi una «guerra giusta» globale, nucleare, in cui poi nessuno potrà rivendicare mai più la giustezza della sua guerra.

Poi, vista dall’occidente, questa retorica e isteria bellicista è veramente ipocrita: chi ci crede lasci la sedia dei talk show (da dove si pontifica) e parta per il fronte. Dove invece sarebbe meglio andare – come fecero in migliaia 30 anni fa per le guerre jugoslave e come si sta iniziando a fare ora- per portare aiuti, soccorrere le vittime, fare assistenza umanitaria e interposizione di pace.

La politica italiana (quasi tutta) balbetta, prona alle alleanze militari, al complesso militare-industriale e alle dinamiche di guerra, mentre i pacifisti italiani ed europei – attaccati e insultati (amici di Putin, traditori, ecc.) – cercano di tenere in piedi una riflessione e un’azione di pace, come abbiamo documentato con Sbilanciamoci nell’ebook I pacifisti e l’Ucraina (gratuito da https://sbilanciamoci.info/i-pacifisti-e-l-ucraina/).

Con l’illustrazione al libro di Mauro Biani,, l’intendimento è chiaro: oggi si tratta di «vincere la pace», non di vincere la guerra. Sempre gli alfieri della guerra ci dicono: non si può fare la pace con un criminale come Putin. Vogliamo fare l’elenco di tutti i criminali e i dittatori con cui gli Usa e gli occidentali si sono alleati in questi decenni, con i quali magari hanno combattuto fianco a fianco?

Oggi, l’obiettivo primario è evitare altre sofferenze, altre vittime, altre distruzioni. Continuare ad inviare armi offensive, pesanti) adesso che il conflitto ha cambiato natura, da contenimento e difesa ad offesa anche in territorio russo, significa prolungare la guerra, alimentarla, estenderla in una dinamica incontrollata, in una spirale da esiti che possono essere catastrofici. L’obiettivo non può essere che il «cessate il fuoco», immediato – forse se ne è accorto, a parole, anche il Pentagono.

Qualche giorno fa il commissario europeo Gentiloni ha detto (pur timidamente) che l’Onu, il Vaticano e la Cina potrebbero avere un prezioso ruolo di mediazione. Condivisibile. Ma, non è successo niente. Ecco: se Stoltenberg, Johnnson, Biden e compagnia parlassero di meno e se ci fosse un mandato (anche solo ufficioso) ai soggetti citati da Gentiloni ad intraprendere la ricerca di un «cessate il fuoco» faremmo un grande passo in avanti. È quello che – anche per salvare la popolazione ucraina ed evitare altre vittime – tutti noi speriamo.


mercoledì 11 maggio 2022

13 maggio. Incontro con Nello Scavo, Kiev

Gli uffici comunicazioni sociali, migrantes, missio, caritas e pastorale sociale e del lavoro della diocesi di Vicenza propongono per venerdì 13 maggio 2022 alle 20,30 un incontro con il giornalista di Avvenire Nello Scavo, durante il quale verrà presentato il suo ultimo libro “Kiev” edito da Garzanti.

Il centro giovanile della parrocchia di san Giuseppe, in via del Mercato nuovo 43, è stato scelto perché riferimento per la comunità ucraina a Vicenza. Sarà un dialogo che aiuterà a comprendere meglio cosa sta accadendo in Ucraina e come stanno vivendo questo dramma i connazionali ucraini presenti a Vicenza.

L’ingresso è libero, senza prenotazione.

Nello Scavo, tra i più esperti e premiati corrispondenti di guerra italiani, raggiunge la capitale ucraina a metà febbraio 2022, quando la minaccia di un attacco russo si fa sempre più insistente, ma ancora in pochi credono possibile un’invasione militare da parte di Vladimir Putin. Da quel momento, registra senza censure il rapido tracollo di una situazione che si fa sempre più pericolosa: la dichiarazione dello stato di emergenza, il trasferimento delle ambasciate, e poi le esplosioni, le colonne di carrarmati, il disperato esodo dalle città. Giorno dopo giorno descrive i movimenti delle truppe russe e la resistenza degli ucraini; approfondisce le conseguenze politiche ed economiche dei combattimenti; svela le ragioni ideologiche alla base delle decisioni dei leader. Allo stesso tempo non dimentica la dimensione umana del dramma in corso, raccogliendo le testimonianze dirette di chi da un momento all’altro ha dovuto abbandonare la casa, ha perso la famiglia, ha scelto di imbracciare un fucile. Kiev è il diario personale di un conflitto nel cuore dell’Europa, scritto sul campo da un giornalista chiaro nello spiegare le ragioni di quanti la guerra la decidono, ma soprattutto capace di dare voce a coloro che questa tragedia sono costretti a subirla.

 

martedì 10 maggio 2022

Morti sul lavoro: la strage senza fine

dalla pagina https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2022/05/09/morti-sul-lavoro-la-strage-senza-fine/

La postina, il tornitore, il contadino, l’operaia tessile, l’autista, il rider, il muratore, lo studente mandato in fabbrica dalla scuola per fare formazione… Tutti caduti sul lavoro, usciti da casa per andare in ufficio, in fabbrica, in cantiere o saliti sul trattore, sulla bici, sul camion, oppure al ministero degli esteri ad aggiustare un ascensore, o ancora in Valle d’Aosta a ristrutturare la casa di villeggiatura della ministra della giustizia Marta Cartabia e mai più tornati. Il Covid e le risposte politiche, economiche e sociali ciniche e liberiste messe in campo per mitigare gli effetti nefasti della pandemia su occupazione e imprese hanno ulteriormente aggravato i numeri della strage di uomini e donne che per vivere devono lavorare. A ogni costo, in qualunque condizione, con contratti a termine, in appalto, subappalto, semplicemente al nero. Lavorare in fretta e con meno sicurezza, fare in fretta al cesso, se proprio si deve andare, oppure la capa con i tacchi a spillo ti fa tirare giù le mutande per controllare se hai le mestruazioni. Il superbonus per ristrutturare case e villette con il 110% di sostegno pubblico fa volare l’edilizia ma i lavori vanno fatti in fretta, pazienza se in deroga alle norme, pazienza se il muratore volerà giù dall’impalcatura. Tanto più che probabilmente sarà un immigrato magari irregolare e, guarda caso, al primo giorno di lavoro per nascondere che lavorava al nero senza contributi.

Prendere o lasciare, c’è la fila di altri disgraziati in attesa, devi scegliere tra lavoro e diritti. Uomini e donne, italiani e migranti, giovani al primo mese di lavoro e anziani che avrebbero dovuto già essere in pensione. Crescono i morti persino rispetto all’anno scorso, un anno orribile da record con più di 1.200 caduti sul fronte del lavoro secondo i dati dell’Inail, che esclude dal conteggio lavoratori al nero e medici e infermieri vittime del Covid. Gli infortuni nei primi tre mesi del 2022 sono aumentati del 49%. Secondo l’attendibile Osservatorio indipendente di Bologna, le vittime nei primi quattro mesi dell’anno ammonterebbero a 422, sommando quelle uccise sul luogo di lavoro e quelle in itinere. Il Covid è diventato un pretesto per aumentare lo sfruttamento sul lavoro. Crescono gli occupati, brindiamo a Draghi, ma crescono solo i contratti a termine, in appalti e subappalti dove i controlli sulle norme di sicurezza, salari e orari sono quasi inesistenti. I sindacati protestano, il governo e i partiti piangono lacrime di coccodrillo ma continuano a espellere la dignità del lavoro dalle agende della politica. I colpevoli ritardi in materia di sicurezza sono il lievito di padroni e padroncini che per risparmiare due minuti e due soldi tolgono i sistemi di protezione a una macchina tessile che prima o poi finirà per decapitare o stritolare un’operaia. Il 20% dei lavoratori dipendenti è precario, il massimo dal 1977, a cui si aggiunge un precariato molto più diffuso nel resto del mondo del lavoro. I contratti a termine hanno registrato un massimo storico.

La guerra è un altro pretesto per trasformare le promesse da marinaio (ci perdoni il marinaio per questo luogo comune) in carta straccia. Putin invade l’Ucraina, i costi di gas, petrolio, grano, trasporti vanno alle stelle? Allora il ministro per la transizione ecologica, che dovrebbe affrancarci dal consumo di risorse non rinnovabili, decide di riaprire le centrali a carbone per non farci mancare nulla, neppure il cancro e il buco dell’ozono. A quando la riapertura delle miniere di carbone in Sardegna? La guerra, poi, costa, e consuma proiettili, intelligenza e umanità. Servono più armi nuove per rimpiazzare quelle che con spirito solidale (o criminale?) doniamo al governo ucraino: è pronto (o quasi) il terzo invio di armamenti a Kiev – questa volta carri armati e obici semoventi – deciso dall’esecutivo senza neppure discuterne in Parlamento, mentre è stato votato l’aumento di 15 miliardi di spesa in nuove armi, fino al 2% del PIL. E per sostenere l’industria bellica le commissioni finanza di Camera e Senato hanno deciso, con i voti del Pd e delle destre di governo e d’opposizione, l’abolizione dell’Iva. Non sugli assorbenti, sulla vendita di armi. Costruire, vendere e usare armi è sempre più un affare, ma non per le casse dello Stato. Un’altra fetta di welfare se ne va in fumo.

I sindacati sono ignorati dal governo; al massimo, se protestano nelle manifestazioni del 1° maggio, vengono convocati un paio d’ore prima che Draghi emetta il suo decreto con gli interventi economici e finanziari per affrontare la crisi (“a babbo morto” si dice a Roma, che vuol dire a cose fatte). Una crisi pesante, con una disoccupazione tra l’8 e il 9% che diventa esplosiva al sud e colpisce soprattutto le donne, quella giovanile è sopra il 25%. L’inflazione balzata al 6,2% impoverisce pensioni e salari già poverissimi colpendo il potere d’acquisto, a meno che l’operaio o il pensionato con la minima decidano di comprare cannoni e fucili invece di pagnotte di pane. Di tassa patrimoniale, guai a parlarne, la rendita è sacra. Al massimo, un lieve aumento del prelievo sugli extraprofitti delle aziende energetiche per sostenere quelle energivore e quelle messe in difficoltà dal blocco delle esportazioni in Russia. Al massimo, un assegno da 200 euro ai lavoratori più svantaggiati. Al massimo, prolungamento fino a luglio dell’opera di calmieramento del prezzo di gas e carburanti. Il costo di questa manovra aggiuntiva arriva a 14 miliardi, ma visto che non si vuole far pagare i ricchi pagheranno i poveri e crescerà il debito pubblico. Meno soldi all’istruzione, alla ricerca, alla sanità.

Il dramma della guerra monopolizza la discussione pubblica, una discussione a senso unico che manda in letargo la Costituzione e mette il silenziatore sulle scelte di prospettiva del governo. La guerra chiama all’unità, al compattamento che per i padroni diventa pace sociale e blocco dei contratti. Il conflitto armato va bene, quello sociale va messo al bando. Cadono i tabù e nei talk show si parla impunemente di bombe nucleari e guerra mondiale. Chi parla di trattative e di pace e dopo aver condannato la guerra di Putin si permette di criticare la Nato, come fa il papa, diventa un inascoltato buonista romantico. E chi contro il pensiero unico riunisce in un teatro romano intellettuali, giornalisti non embedded, artisti, religiosi per discutere di pace senza paraocchi, come hanno fatto Michele Santoro e Vauro, altro non è che un servo di Putin. E l’Anpi diventa l’“Associazione nazionale putiniani italiani”. In un clima del genere, chi volete che si preoccupi dei morti sul lavoro?

In homepage murales di Jorit dedicato a Luana D’Orazio, giovane operaia morta in un’azienda tessile di Prato (Roma, Centro Sociale Occupato Autogestito ex Snia)