domenica 29 agosto 2021

16ª Giornata Nazionale per la Custodia del Creato

dalla pagina https://lavoro.chiesacattolica.it/16a-giornata-nazionale-per-la-custodia-del-creato/

I Vescovi delle due Commissioni, per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, e dell’Ecumenismo e il dialogo, hanno elaborato un Messaggio per la celebrazione della 16ª Giornata Nazionale per la Custodia del Creato (1° settembre). Quest’anno la celebrazione nazionale sarà ospitata dalla diocesi di Montepulciano - Chiusi - Pienza nei giorni 4 e 5 settembre 2021

 

«Camminare in una vita nuova» (Rm 6,4)
La transizione ecologica per la cura della vita

La 16ª Giornata Nazionale per la Custodia del Creato vede la Chiesa che è in Italia in cammino verso la 49ª Settimana Sociale dei cattolici italiani, che avrà per titolo «Il pianeta che speriamo. Ambiente, lavoro, futuro. #tuttoèconnesso».

La strada che conduce a Taranto richiede a tutti un supplemento di coinvolgimento perché sia un percorso di Chiesa che intende camminare insieme e con stile sinodale.

Articoli stampa

Celebrazione nazionale

Celebrazioni diocesane

 

 

ALLEGATI



 

venerdì 27 agosto 2021

L’insegnamento inascoltato della guerra

dalla pagina https://ilmanifesto.it/linsegnamento-inascoltato-della-guerra/

"La guerra porta solo rovine" 

In fuga da Kabul dopo la vittoria dei talebani 


, Portavoce di Sbilanciamoci

"In questi giorni molti parlano del fallimento in Afghanistan. Ed è sotto gli occhi di tutti. 20 anni in cui sono morti 170mila civili (a cui vanno aggiunti le migliaia di militari e combattenti uccisi) e sono stati spesi 5,4 mila miliardi di euro che, se utilizzati a fin di bene, avrebbero potuto debellare la povertà più estrema nel mondo e garantire l’accesso all’acqua potabile a chi non ha questa «fortuna» (2,5 miliardi di persone).
Per dare un’idea, abbiamo speso per la guerra in Afganistan 33 volte di più di quanto tutti i paesi dell’Ocse (il club delle nazioni più ricche) investono ogni anno per l’aiuto allo sviluppo (161 miliardi). In tutto questo l’Italia è stata attiva complice mandando sul campo migliaia di soldati e – come ha denunciato la campagna Sbilanciamoci – destinando 10 miliardi di euro, più del doppio di quanto spendiamo ogni anno per l’aiuto pubblico allo sviluppo (in tutto il mondo). Ora, le forze politiche italiane si stracciano le vesti, senza ammettere le proprie responsabilità, il fallimento oltre che della missione anche delle loro idee e politiche guerrafondaie.
La popolazione afghana torna sotto il giogo dei talebani, le speranze delle donne e degli uomini di quel paese di vivere senza l’oppressione e la cappa di una dittatura finiscono tragicamente e amaramente. Quanta retorica (umanitaria) è stata fatta su una guerra (camuffata da intervento di pace) che sarebbe servita per permettere alle donne di andare a scuola e all’università e di togliersi il burqa e alla popolazione di sperimentare le virtù della democrazia e dei diritti umani. Tutto finito. La guerra umanitaria, dai tempi del Kosovo, è solo un tragico inganno, un ossimoro insostenibile. La guerra è sempre contro l’umanità.
Nei giorni in cui piangiamo la scomparsa di Gino Strada, val la pena ricordare la sua condanna della guerra «senza se e senza ma». La guerra è un crimine, una violazione del diritto umanitario internazionale, non risolve i problemi ma aggiunge altra sofferenza, nuove vittime. Ci avevano detto che l’intervento in Afghanistan sarebbe servito a debellare il terrorismo, che invece si è propagato nel mondo: l’Isis non è certamente un lontano ricordo; che sarebbe servito a portare la democrazia e i diritti umani, e così non è stato; che sarebbe servito a stabilizzare la regione, e così non è. «L’imperialismo dei diritti umani», come una volta ebbe a definirlo infaustamente Tony Blair si è dimostrato per quello che è: imperialismo, e basta. Ora, Blair dice che l’errore è stato quello di avere affrontato l’Islam paese per paese, mentre va affrontato nella sua globalità: sì, una bella guerra umanitaria mondiale, una nuova crociata dei cristiani contro i musulmani. Una guerra infinita e permanente come – in piena sintonia con Bush jr- torna ad auspicare con la sua bulimia opinionistica Bernard Henry-Levy.
Quello cui assistiamo non è solo il fallimento dell’intervento in Afghanistan ma il fallimento della guerra. È quello che i pacifisti dicono da anni: le guerre sono sempre fatte per interessi economici e strategici, di potere, un affare per i produttori di armi e una tragedia per la popolazione civile.
Bisognerebbe mettere in campo una politica di prevenzione dei conflitti ma nessuno fa. Sarebbero necessarie Nazioni Unite con poteri e strumenti effettivi, veramente riformate e libere dal dominio delle grandi potenze, ma così non è.
Quando nel 1992 il segretario dell’Onu Boutrous Ghali promosse l’Agenda per la pace (che serviva a dare strumenti all’Onu per prevenire le guerre) fu irriso, sbeffeggiato. Quel documento finì nel cestino. Abbiamo visto che Piero Fassino in questi giorni, rivendicando le scelte fatte, ha detto che per la pace serve il «peace enforcement» alludendo alla Nato e ai suoi interventi, Con il piccolo particolare che il «peace enforcement» non è una guerra ed è regolamentato da un capitolo della carta delle Nazioni Unite, capitolo cui le grandi potenze non hanno mai voluto dare attuazione: avrebbe significato cedere sovranità al Palazzo di vetro. 
 
Quasi nessuno dei politici italiani ha il coraggio di ammettere che sull’Afghanistan (e sulle altre guerre) avevano ragione i pacifisti. Servirebbe una politica (non militare) di promozione della pace, della cooperazione, dei diritti umani, ma non succede. Servirebbe il disarmo, ma le spese militari continuano a crescere. Di chi è la responsabilità? Dei governi che continuano ad investire nella guerra, nelle armi, in politiche di potenza economica e strategica. Quello che l’Afghanistan ci insegna è che dobbiamo cambiare strada. La guerra porta solo rovine.
 
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Afghanistan, il coraggio della pace e il fallimento della guerra

La tragedia afghana e il magistero dei Pontefici: percorrere la strada pacifica è sempre possibile

 
Amedeo Lomonaco – Città del Vaticano

Cinque anni fa, in un’intervista concessa al quotidiano cattolico francese La Croix, Papa Francesco invitava a interrogarsi sul modo in cui "un modello troppo occidentale di democrazia è stato esportato in Paesi come l’Iraq, dove un governo forte esisteva già in precedenza. Oppure in Libia, dove esiste una struttura tribale". "Non possiamo andare avanti - aggiungeva nell’intervista - senza prendere in considerazione queste culture”. Domande sempre attualissime, in particolar modo nei giorni in cui si è reso evidente il fallimento del tentativo americano e più in generale occidentale, in Afghanistan. Si può esportare, in questi Paesi, la democrazia con le armi? Oppure la guerra si rivela sempre un’avventura senza ritorno? A guardare la situazione in cui versa oggi l’Afghanistan ma anche la devastazione a cui è stato sottoposto l’Iraq, si dovrebbe riconoscere la profetica lungimiranza del “magistero di pace” degli ultimi Pontefici. “Per fare la pace – ha detto Papa Francesco nel 2014 - ci vuole coraggio, molto di più che per fare la guerra. Ci vuole coraggio per dire sì all’incontro e no allo scontro; sì al dialogo e no alla violenza; sì al negoziato e no alle ostilità; sì al rispetto dei patti e no alle provocazioni; sì alla sincerità e no alla doppiezza. Per tutto questo ci vuole coraggio, grande forza d’animo”.
 
Le ragioni della pace

“Le ragioni della pace sono più forti di ogni calcolo di interessi particolari e di ogni fiducia posta nell’uso delle armi”. Questa convinzione espressa nel 1963 da Giovanni XXIII nella lettera enciclica “Pacem in Terris” in un periodo di forte tensione internazionale e rilanciata da Papa Francesco nell’enciclica “Fratelli tutti”, risuona oggi forte anche di fronte allo scenario afghano, sull’orlo della guerra civile. Le tribolazioni della nazione afghana non possono e non devono sfociare in un nuovo conflitto. Anche quando soffiano venti di guerra, il futuro si deve edificare sulla ricerca del dialogo e della pace. “Non è certo con le bombe - afferma nel mese di gennaio del 1992 di Giovanni Paolo II rivolgendosi al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede - che si può costruire l’avvenire di un Paese”. Quando vengono pronunciate queste parole l’anno 1991 si è appena concluso nel frastuono delle armi con immagini sconvolgenti che mostrano popolazioni martoriate dalla guerra in Jugoslavia.

Far prevalere le ragioni della pace


Oggi altre strazianti immagini giungono dall’Afghanistan, dove la disperazione di uomini e donne attaccati ai carrelli degli aerei in partenza da Kabul si somma a quella di madri e padri che lasciano i loro figli tra le mani di soldati e diplomatici stranieri, affidandoli all'ignoto. Ma anche tra le ombre più oscure e l’angoscia più profonda, si possono scorgere le luci della speranza e le ragioni della pace. È possibile, chiede Papa Francesco durante la veglia di preghiera per la pace in Siria nel 2013, percorrere la strada della pace ed uscire da una spirale di dolore e di morte? “Sì, è possibile per tutti!”. “Ognuno - aggiunge in quell’occasione - si animi a guardare nel profondo della propria coscienza e ascolti quella parola che dice: esci dai tuoi interessi che atrofizzano il cuore, supera l’indifferenza verso l’altro che rende insensibile il cuore, vinci le tue ragioni di morte e apriti al dialogo, alla riconciliazione: guarda al dolore del tuo fratello e non aggiungere altro dolore, ferma la tua mano, ricostruisci l’armonia che si è spezzata”. 
 
Non più la guerra

Anche il popolo afghano, in questo tempo così difficile, ha bisogno di ricostruire l’armonia, di levare il suo grido come Paolo VI all’Onu nel 1965: “Non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei popoli e dell'intera umanità!”. Le armi non sono mai la soluzione. Lo ricorda in particolare Giovanni Paolo II nel messaggio, nel 1991, al presidente iracheno Saddam Hussein: “Nessun problema internazionale - scrive - può essere adeguatamente e degnamente risolto col ricorso alle armi”. Al presidente statunitense il Pontefice polacco chiede di non risparmiare sforzi per “evitare decisioni che sarebbero irreversibili”. Le parole di Papa Wojtyła non vengono ascoltate. Prevale, invece, la voce delle armi e il 17 gennaio del 1991 ha inizio l’operazione “Desert Storm”. L’opzione militare ancora una volta aggiunge sofferenze, dolore.
 
 

giovedì 26 agosto 2021

Salario minimo, la misura tedesca funziona. Lo dice Harvard

dalla pagina https://ilmanifesto.it/salario-minimo-la-misura-tedesca-funziona-lo-dice-harvard/

Germania. Lo studio certifica gli effetti pratici della legge nazionale introdotta nel 2015: «Il numero di posti di lavoro pagati meno di 8,5 euro all’ora è diminuito subito dopo l’introduzione della norma e la tendenza è coincisa con l’aumento degli impieghi maggiormente retribuiti»


Un «Biergarten» a Berlino nel maggio scorso ©Ap

Secondo le autorevoli analisi degli economisti business-oriented la misura avrebbe dovuto produrre ben 900.000 nuovi disoccupati. Invece non solo ha salvato i posti di lavoro ma ha anche consentito di aumentare le buste paga e perfino di ammodernare gli stabilimenti produttivi. Lo studio Reallocation effects of the Minimum Wage pubblicato dalla Oxford University Press per conto del Dipartimento di Economia dell’Università di Harvard certifica gli effetti pratici della legge sul salario minimo nazionale introdotta in Germania nel 2015.

Giungendo alla conclusione che «la misura ha permesso la riallocazione dei lavoratori a basso salario dalla fascia di stipendio minimo al livello superiore e dalle realtà meno produttive alle più competitive. Questa riqualificazione ha rappresentato fino al 17% dell’aumento salariale».

In 68 pagine i ricercatori Christian Dustmann, Attila Lindner, Uta Schönberg, Matthias Umkehrer e Philipp vom Berge squadernano il provvedimento partendo dalla sua genesi. «Mentre fino a metà degli anni Novanta gli stipendi negoziati fra sindacati e federazioni imprenditoriali variavano in base alle competenze e all’esperienza dei lavoratori, dal 1995 al 2010 la Germania ha sperimentato un drammatico aumento della diseguaglianza sociale. In questo contesto nel luglio 2014 il governo ha approvato il salario minimo di 8,5 euro all’ora rendendolo obbligatorio il gennaio seguente, quindi lo ha aumentato a 8,84 euro nel 2017 e infine a 9,19 euro nel 2019».

I principali beneficiari sono stati soprattutto «residenti nell’Est della Germania di origine immigrata, in prevalenza donne, con scarse qualifiche professionali, di età inferiore a 24 anni, spesso disoccupati da oltre un anno» mentre gli ambiti di lavoro hanno riguardato in primis i settori dei trasporti, alberghiero, delle pulizie e della logistica alimentare.

Il primo clamoroso effetto è stata la messa “fuori mercato” degli impieghi pagati una pipa di tabacco: «Il numero di posti di lavoro pagati meno di 8,5 euro all’ora è diminuito subito dopo l’introduzione del salario minimo e il trend è coinciso con l’aumento degli impieghi maggiormente retribuiti. Questi dati forniscono perciò la prova che le perdite occupazionali dovute al salario minimo sono state limitate. Non solo la misura ha aumentato gli stipendi senza ridurre l’occupazione ma nelle aree interessate ha innalzato anche la qualità media degli stabilimenti».

Per questo motivo secondo i ricercatori «la popolarità del salario minimo sta crescendo al punto che molti stati americani hanno approvato leggi che prevedono aumenti fino a 15 dollari all’ora mentre diversi Paesi europei stanno pianificando il suo incremento sostanziale».

Anche perché il presunto impatto negativo del salario minimo sui parametri macroeconomici paventato dagli economisti liberal viene smentito proprio dall’esempio tedesco. il Pil della Germania è cresciuto del 20% dal periodo precedente al salario minimo (2011) a dopo la sua adozione (2016) con lo stock di occupati passato da 41,5 a 43,6 milioni e l’indice di disoccupazione ridotto dal 7,1 al 6,1%.

L’unico problema, semmai, è che «la riallocazione dei lavoratori a basso salario verso stabilimenti più remunerativi è avvenuta a spese dell’aumento del pendolarismo che potrebbe avere costretto alcune persone a peggiorare la condizione di vita nonostante il guadagno più alto. Tuttavia i nostri risultati empirici suggeriscono che in media il benessere dei lavoratori è migliorato dopo l’introduzione del salario minimo» è la conclusione dello studio scientifico.

 

lunedì 23 agosto 2021

La politica al primo posto oltre la «Guerra al terrore»

dalla pagina https://ilmanifesto.it/la-politica-al-primo-posto-oltre-la-guerra-al-terrore/

Scenari. La società civile cerca la fuga; la Ue ripete: «Non mettetevi in pericolo». Così per «proteggerli» alzano in Grecia 40 km di muro. In campo le reti universitarie internazionali

Talebani a Kabul

 

Non si distolga l’italiano dal Ferragosto, se non per picchi di sdegnata emotività televisiva, per il montaggio-minuetto delle dichiarazioni di esponenti politici obbligati a rincorrere il mondo, per chiedere all’esperto di turno (il maschile è d’obbligo) «ma com’è potuto accadere?», con l’accortezza di non mostrare i paraocchi assai generosamente forniti fino a ieri.
L’emirato risorge sulla storica «tomba degli imperi», e tutti a chiedersi dei «nuovi talebani». Quelli che invece che bandire internet lo usano per scovare i nemici, quelli che invece che bandire l’istruzione femminile la segregano.

A Kabul e nelle città afgane si gridava Allahu Akbar dai tetti per rubare il copione all’avanzata talebana, mentre oggi il dissenso si manifesta con la bandiera nazionale (la repubblica islamica). L’ampia e istruita società civile emersa in questi anni si nasconde e cerca la fuga: Bruxelles ripete che bisogna evitare che «si mettano in pericolo», e così, per impedire che si facciano male, in Grecia già hanno eretto 40 chilometri di muro, dispiegando i cannoni sonici per disperdere coloro che fossero sfuggiti al muro costruito dai turchi.

IL TUTTO NEL VUOTO di iniziativa politica che Emanuele Giordana ha denunciato venerdì sul manifesto, e che inizia col profilo basso (quasi omissivo, nell’assenza di dibattito sul ritiro dei nostri soldati) del governo Draghi, con il premier al telefono in cerca di un G20 dedicato. La Nato parla di ‘difficili lezioni da apprendere’, mentre i governi europei procedono in ordine sparso, le destre allineate con Orbán a lavarsi pilatescamente le mani.

LA NARRAZIONE dominante è cacofonia: sosteniamo gli afgani, e soprattutto donne e ragazze, ma non vogliamo i migranti; tutti gli afghani esposti avranno protezione, ma non se arrivano illegalmente; i talebani sembrano rasserenati, e comunque non deporteremo più forzosamente gli afghani, anche se forse sì, dipende, vediamo.

Rari gli sforzi di dibattito fuori dai binari della sicumera del geostratega di turno o del panico morale, magari pensando a un ruolo dell’Unione Europea nella risposta: magari tramite la Risoluzione 2001/55CE sulla protezione temporanea, la quale copre la possibilità di corridoi umanitari, e puó essere attivata su domanda degli stati membri tramite comunicazione di quanti cittadini afghani sono disposti ad accogliere. Avrebbe il vantaggio di dare quantomeno base legale all’accoglienza, oltre ad imporre solidarietà anche finanziaria, svincolando l’UE dall’ombra controversa della agenzia Frontex.

Certo, mentre a Roma si cerca di redigere liste di evacuazione, mentre le forze speciali italiane sono presenti nel caos di Kabul, qualcosa si è mosso sul versante della società civile: ci sono gli appelli, ci sono gli attivisti pro-Rojava (già traditi dal quasi-ritiro americano dalla Siria, per la gioia di Erdogan) che invita a sostenere la storica Associazione rivoluzionaria delle donne afghane (Rawa), il Coordinamento italiano di sostegno alle donne afghane (Cisda), o il Partito Hambastagi (solidarietà) di Selay Ghafar. Sul tema cruciale dei dissidenti e del segmento istruito dei rifugiati – studenti, ricercatori, docenti – si muove la Conferenza dei Rettori, ed è indispensabile uno stretto coordinamento con i ministeri competenti e con l’Agenzia Onu per i rifugiati. Per sua parte, la sezione italiana della rete Scholars at Risk, sta raccogliendo richieste di supporto da studiosi e studiose a rischio, e alcuni atenei hanno annunciato iniziative di apertura e borse. A ciascuno, insomma, la sua parte.

C’È PERÒ QUALCOSA di più che s’impone. L’Afghanistan non è una crisi qualunque. In Afghanistan si è giocata in questi decenni una partita fondamentale circa chi fosse il nemico e con quali mezzi combatterlo. Una guerra ventennale che ha fatto centinaia di migliaia di morti, in massima parte civili. La vita di tutti noi – dalla circolazione di cose, idee e persone, fino agli esiti elettorali – è (stata) coinvolta in questa complessa trama. Se con il nuovo Emirato Islamico dell’Afghanistan e l’umiliazione occidentale siamo oggi a uno scarto, all’apertura di nuovi scenari, è perché stiamo raccogliendo i frutti avvelenati di interventi sbagliati, rispetto ai quali non basta chiamarsi fuori reiterando l’aver avuto ragione. Per Kabul oggi passa una storia che premia i regimi autoritari e segna i confini dello spazio democratico, toccando l’esistenza di diritti a fondamento universale. I ‘nuovi talebani’ sono un movimento armato composito, che deve il proprio successo agli errori della Guerra al Terrore e alla propria capacità di creare alleanze locali anche inedite. Oggi il clan talebano più spregiudicato, l’ala militarista degli Haqqani, responsabile delle bombe nelle città, ha preso controllo del Nds, gli apparati di sicurezza, e questa non è una buona notizia. Il caos seguito al ritiro occidentale significa, fra le altre cose, interruzione delle fonti informative. Sostenere, per quanto sarà possibile, le reti del giornalismo afghano diventa più che mai prioritario.

È NECESSARIO RIANIMARE qua una risposta capace di lettura politica degli eventi. Capire che quando i governi parlano di stabilizzazione stanno in realtà parlando di compressione dei diritti, di esternalizzazione delle frontiere nella gestione dei rifugiati. Il nemico talebano sono in realtà diversi nemici che si sono coalizzati durante anni di guerra costellati di crimini impuniti, e che hanno ingrassato una classe dirigente e signori della guerra corrotti e pronti alla fuga. L’emirato manda un messaggio circa la pazienza strategica e della duttilità tattica ad altri fronti di insorgenza islamista, dal Sahel all’Asia. È solo smontando politicamente – non perché adoperano «toni distesi», ma con una strategia di ingaggio negoziale che già parte da un muro di sanzioni (sono considerati alla stregua di Al Qaeda) – che si potrà smontare la Guerra al Terrore che ha reso «popolari» i talebani: una risposta che continua a nutrire fronti, a nutrire colpi di stato, ad innescare implosioni.


sabato 21 agosto 2021

Gli affari armati dietro alla «guerra permanente»

dalla pagina https://ilmanifesto.it/gli-affari-armati-dietro-alla-guerra-permanente/

Afghanistan. Boom in borsa e mega profitti per le aziende militari. L’offensiva sull’Afghanistan ha spianato la strada ai conflitti successivi e sdoganato l’uso dei contractors: tutti i dati degli ultimi 20 anni

Raid della coalizione su una postazione talebana a Kuz Kunar


La missione militare in Afghanistan è stata un fallimento. Ma non per tutti. Non lo è stata per chi la lanciato l’offensiva militare e l’ha sostenuta per 20 anni: il complesso militare-industriale americano e i suoi alleati. Partiamo dall’andamento in borsa.

Secondo un’analisi condotta da The Intercept, l’acquisto di 10mila dollari in azioni equamente divise tra i principali fornitori militari del governo Usa (Boeing, Raytheon, Lockheed Martin, Northrop Grumman e General Dynamics) effettuato il 18 settembre 2001 – giorno dell’autorizzazione di George W. Bush all’intervento militare in risposta agli attacchi terroristici dell’11 settembre – varrebbe oggi, con utili reinvestiti, oltre 97mila dollari.

Un rendimento dell’872%, ben superiore a quello realizzato nello stesso periodo dalle aziende del listino Standard & Poor’s 500 che si ferma al 516% (dai 10mila dollari iniziali se ne sarebbero ricavati “solo” 61mila). Il «boom» in borsa è sotto gli occhi di tutti: un’azione Lochkeed Martin (famosa in Italia per la produzione degli F-35) è passata da 44,6 a 356,6 dollari; una di Raytheon (la compagnia che inserisce le guide laser sulle bombe MK prodotte in Sardegna e poi usate dai sauditi in Yemen) valeva 30,8 dollari nel 2001 ed è ora quotata a 85,4.

Lo stesso vale per Northrop Grumman (da 42,8 a 363,16) e General Dynamics (da 41,2 a 196,8). Queste quattro aziende ricevono la maggior parte delle loro entrate dal governo degli Stati uniti, ma la crescita è evidente anche per Boeing, con un portafoglio più differenziato anche sul civile, che ha sperimentato un balzo delle proprie azioni da 33,1 a 219 dollari.

L’elemento chiave della profittabilità delle aziende del complesso militare-industriale non è principalmente legato alle loro performance azionarie che possono essere influenzate dai giochi di Borsa degli investitori o da scelte strutturali ed errori dei manager come avvenuto nel caso dell’italiana Leonardo/Finmeccanica che, a differenza delle aziende americane, ha più che dimezzato il proprio prezzo di listino. Il cuore del successo economico dei produttori di sistemi militari risiede invece nel «fatturato sicuro» e nella conseguente capacità di garantire dividendi sempre più alti, che contribuiscono per oltre un terzo del rendimento finale.

La già citata Lockheed Martin garantiva un dividendo di 0,44 dollari ad azione nel 2001, mentre l’anno scorso ne ha distribuiti 9,80 (massimo storico). Raytheon è passata da 56 centesimi all’anno a oltre due dollari, mentre Northrop Grumman da 72 centesimi a ben 5,67 dollari all’anno per azione. Tutto questo grazie proprio al «fatturato sicuro» garantito anche dal conflitto in Afghanistan.

Gli 83 miliardi di dollari investiti nelle forze afghane sono quasi il doppio del budget annuale per l’intero corpo dei marines e superano i fondi stanziati l’anno scorso da Washington per l’assistenza in buoni pasto a circa 40 milioni di americani.

Ovviamente le aziende produttrici di armamenti non hanno venduto i propri prodotti solo ed esclusivamente per la guerra in Afghanistan. Ma proprio questo conflitto è alla base della crescita poderosa e inarrestabile delle spese militari mondiali, comprese quelle dedicate a nuove armi, dopo il calo post Guerra fredda. L’infinita «guerra al terrorismo», emersa come mantra politico nelle relazioni internazionali dopo l’attacco alle Torri gemelle ha fornito agli Stati di tutto il mondo e alle lobby transnazionali degli armamenti il pretesto e la giustificazione politica per dedicare sempre più risorse e fondi a eserciti e armamenti.

Lo testimoniano i dati del Sipri di Stoccolma, che evidenziano l’enorme crescita delle spese militari, quasi un raddoppio tra il 2001 e il 2020 (da 1.044 a 1.960 miliardi di dollari a valori costanti comparabili) con un trend in aumento che è destinato a rafforzarsi negli anni a venire. E che ha garantito in questi ultimi due decenni risorse e contratti facili ai produttori di armamenti.

Non a caso i dati dello stesso Sipri relativi al fatturato militare delle prime quindici aziende del settore registrano un aumento complessivo del 30% tra il 2002 e il 2018 (ultimo dato disponibile): da 199 a 256 miliardi di dollari. Lockheed Martin è la compagnia che è riuscita ad approfittare maggiormente di questa congiuntura favorevole quasi raddoppiando il proprio fatturato militare (da 26,3 a 47,2 miliardi di dollari a valori costanti) seguita da General Dynamics (da 13,7 a 22 miliardi) e Raytheon (da 16,7 a 23,4 miliardi).

In questo senso anche le aziende non statunitensi sono riuscite a seguire la scia di denaro aumentando di molto i propri ricavi armati: la britannica BAE Systems è passata da 18,2 a 21,2 miliardi di dollari mentre l’italiana Leonardo (in precedenza Finmeccanica) è passata da 6 a 9,8 miliardi di dollari.

Il conflitto in Afghanistan ha dato il via a questa dinamica di profitto armato permettendo di giustificare costosi interventi internazionali e dispiegamenti di truppe fino a quel momento non previsti e comunque non tollerabili dalle opinioni pubbliche e dai parlamenti. Dopo il dispiegamento contro Kabul è stato più semplice intervenire militarmente in Iraq e in tutte le altre zone di tensione che vedono attualmente impegnati gli eserciti occidentali con nuovi armamenti, logistica e servizi.

Ma c’è di più. Il conflitto afghano ha permesso anche di sdoganare l’utilizzo su ampia scala delle compagnie private non solo di natura militare, ma anche e soprattutto con funzioni logistiche e di ricostruzione. Il tutto iscritto però in un sistema impostato in modo da permettere ai cosiddetti contractors di frodare a piacimento il Pentagono che spesso firmava i cosiddetti accordi «costo zero»: qualunque fosse l’ammontare per un progetto presentato, il governo avrebbe pagato.

Attirando dunque chiunque cercasse un profitto facile, ma con un prezzo alto: in Afghanistan sono morti più dipendenti di queste compagnie che soldati americani. Anche questo è servito a rendere sempre più «accettabile» la guerra ai decisori politici e ai portatori di interessi economici.

*Rete italiana pace e disarmo
**Osservatorio OPAL

 

giovedì 19 agosto 2021

16ª Giornata Nazionale per la Custodia del Creato

dalla pagina https://lavoro.chiesacattolica.it/16a-giornata-nazionale-per-la-custodia-del-creato/

I Vescovi delle due Commissioni, per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, e dell’Ecumenismo e il dialogo, hanno elaborato un Messaggio per la celebrazione della 16ª Giornata Nazionale per la Custodia del Creato (1° settembre). Quest’anno la celebrazione nazionale sarà ospitata dalla diocesi di Montepulciano - Chiusi - Pienza nei giorni 4 e 5 settembre 2021

 

«Camminare in una vita nuova» (Rm 6,4)
La transizione ecologica per la cura della vita

La 16ª Giornata Nazionale per la Custodia del Creato vede la Chiesa che è in Italia in cammino verso la 49ª Settimana Sociale dei cattolici italiani, che avrà per titolo «Il pianeta che speriamo. Ambiente, lavoro, futuro. #tuttoèconnesso».

La strada che conduce a Taranto richiede a tutti un supplemento di coinvolgimento perché sia un percorso di Chiesa che intende camminare insieme e con stile sinodale.

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