lunedì 30 marzo 2020

Papa Francesco ti invita a celebrare la settimana Laudato Si’

dalla pagina https://laudatosiweek.org/it/home-it/

Settimana Laudato Si’: 16-24 Maggio


 

È il quinto anniversario della Laudato Si’
Come lo celebrerai?

Unisciti a Papa Francesco e fai il prossimo passo del tuo viaggio Laudato Si’. Impegnati in un’azione ambiziosa con cui rispondere “al grido della terra e al grido dei poveri.”
Non importa in quale punto del viaggio tu sia: fai il passo successivo come comunità durante la Settimana Laudato Si’ (16-24 Maggio), quando le comunità cattoliche celebreranno ovunque il quinto anniversario della Laudato si’.

C’è un urgente bisogno di risolvere la crisi ecologica. La nostra fede ci esorta a fare di più insieme.

Abbiamo fatto un sacco di strada per la protezione della nostra casa comune, ma il viaggio che ancora ci attende richiede un impegno radicale nei confronti del nostro Creatore e gli uni con gli altri. Ci uniamo per i passi successivi del nostro rivoluzionario percorso di speranza.
Basandoci sul recente Sinodo sull’Amazzonia, sugli scioperi per il clima della Giornata della Terra e sulle migliaia di azioni concrete intraprese dalle comunità cattoliche in tutto il mondo, nel mese di maggio accresceremo la nostra ambizione per il creato.
L’urgenza della crisi ci esorta a non dormire sugli allori. Le comunità cattoliche stanno rivolgendo uno sguardo onesto all’azione svolta finora e si stanno impegnando per il prossimo passo del percorso.
Corsi di formazione online e un completo kit di strumenti sono disponibili per aiutarti durante il tuo viaggio.
Noi cattolici siamo 1.3 miliardi e la nostra fede è una forza potente per il bene. Unisciti a noi. 

vai alla pagina https://laudatosiweek.org/it/home-it/

domenica 29 marzo 2020

Il Papa: si fermino tutte le guerre. Appello per i detenuti nelle carceri sovraffollate

dalla pagina https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2020-03/papa-francesco-angelus-fermare-ostilita-guerre-coronavirus.html

Subito dopo la recita della preghiera mariana dalla Biblioteca del Palazzo Apostolico, Francesco prega per la pace nel mondo. Guardando a chi si trova in situazione di vulnerabilità, in particolare per l'emergenza Covid-19, come ricordato dal segretario generale dell'Onu, il Pontefice chiede la cessazione dei conflitti e l’apertura di canali diplomatici e corridoi umanitari. Quindi rivolge il pensiero a chi, in questo momento di pandemia, è costretto a vivere in gruppo, in case di riposo, caserme, carceri

Giada Aquilino - Città del Vaticano

Fermare “ogni forma di ostilità bellica”. Nel pieno di un’emergenza “che non conosce frontiere”, quella per il Covid-19 in tutto il mondo, Papa Francesco leva ancora una volta la propria voce per invocare la fine dei conflitti in corso, con un appello al "cessate il fuoco totale".
Lo fa al termine dell’Angelus, recitato per la quarta domenica consecutiva dalla Biblioteca del Palazzo Apostolico.

Corridoi umanitari e diplomazia
Il Pontefice ricorda come nei giorni scorsi il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres abbia lanciato un appello per un “cessate il fuoco globale e immediato in tutti gli angoli del mondo”.
Mi associo a quanti hanno accolto questo appello ed invito tutti a darvi seguito fermando ogni forma di ostilità bellica, favorendo la creazione di corridoi per l’aiuto umanitario, l’apertura alla diplomazia, l’attenzione a chi si trova in situazione di più grande vulnerabilità.

Superare le rivalità
Il Papa auspica che l’impegno “congiunto” contro la pandemia possa portare tutti a riconoscere “il nostro bisogno di rafforzare i legami fraterni come membri di un’unica famiglia”.
In particolare, susciti nei responsabili delle Nazioni e nelle altre parti in causa un rinnovato impegno al superamento delle rivalità. I conflitti non si risolvono attraverso la guerra! È necessario superare gli antagonismi e i contrasti, mediante il dialogo e una costruttiva ricerca della pace.

Il sovraffollamento nelle carceri
E poi ancora un pensiero alla quotidianità del Coronavirus.
In questo momento il mio pensiero va in modo speciale a tutte le persone che patiscono la vulnerabilità di essere costretti a vivere in gruppo: case di riposo, caserme… In modo particolare vorrei menzionare le persone nelle carceri. Ho letto un appunto ufficiale della Commissione dei Diritti Umani che parla del problema delle carceri sovraffollate, che potrebbero diventare una tragedia. Chiedo alle autorità di essere sensibili a questo grave problema e di prendere le misure necessarie per evitare tragedie future.

Primi passi dopo l’appello dell’Onu
In tutto il mondo, sono una settantina gli Stati coinvolti in guerre e guerriglie di vario tipo, molte delle quali dimenticate, che continuano a causare innumerevoli morti. A seguito dell’appello lanciato lunedì scorso da Guterres, si sono registrati i primi passi verso cessate il fuoco e tregue umanitarie in diversi Paesi in cui ancora perdurano sanguinosi conflitti e violenze interne, come in Yemen, nelle Filippine, in Camerun. Segnali in tal senso anche dal nord est della Siria: soltanto ieri la Commissione d’inchiesta dell’Onu ha reiterato la richiesta del Palazzo di Vetro per “evitare di peggiorare il disastro”, parlando del Covid-19 come una “minaccia mortale” per i civili siriani e in particolare per i 6,5 milioni di sfollati all'interno del Paese. La guerra in Siria, in 9 anni, ha causato oltre 380 mila vittime, indebolendo notevolmente il sistema sanitario locale: solo il 64% degli ospedali e il 52% dei centri di assistenza primaria esistenti prima del 2011 al momento sono operativi, mentre il 70% degli operatori sanitari è fuggito dal Paese, secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità.

Nuove e vecchie tensioni
Rimangono però ancora tensioni e violenze, come in tanti altri Paesi tra cui Afghanistan, Mali, Libia, Somalia, Iraq, Striscia di Gaza, in Messico per il controllo del narcotraffico e lungo il 38.mo parallelo dove nelle ultime ore la Corea del Nord ha lanciato due sospetti missili balistici nelle acque tra la penisola coreana e il Giappone.

Il Coronavirus nel mondo
Cresce intanto il bilancio della pandemia da Coronavirus. Nel mondo le persone ufficialmente decedute sono oltre 30 mila, un terzo delle quali nella sola Italia. A fornire i dati aggiornati è la Johns Hopkins University, secondo cui i contagi accertati sono quasi 665 mila, il numero dei guariti è di più di 140 mila, oltre 12 mila dei quali in Italia.

sabato 28 marzo 2020

Il virus della guerra

dalla pagina https://comune-info.net/il-virus-della-guerra/

Sergio Segio
26 Marzo 2020

Il sistema della guerra e la catena di enormi interessi che lo sorregge è concausa tra le principali di quella complessiva devastazione del Pianeta che, a sua volta, è corresponsabile anche della terribile pandemia da Coronavirus. Scrive Sergio Segio: “Tutto ciò ci sollecita a sperare che – e agire affinché – la pandemia in corso, oltre alle migliaia di morti e al disastro economico globale, almeno residui un soprassalto di consapevolezza su quello che va radicalmente cambiato nel nostro modo di vivere… Mai come in questi giorni è facile comprendere quanto i problemi siano inevitabilmente globali, a onta dei muri e delle fortezze, e come di conseguenza debbano esserlo le risposte”

Ph by U.S. Navy photo by Chief Mass Communication Specialist Michael B. Watkins / Public domain
La furia del coronavirus mostra la follia della guerra. Ecco perché oggi chiedo un cessate il fuoco globale e immediato in tutti gli angoli del mondo. È tempo di bloccare i conflitti armati e concentrarsi sulla vera lotta delle nostre vite. Alle parti in guerra dico: ritiratevi dalle ostilità». Non è Gino Strada che parla: la follia criminale della guerra, lui la denuncia e combatte da decenni; in questo caso, l’esortazione è stata invece lanciata con forza dal segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres.
Il sistema della guerra e la catena di enormi interessi che lo sorregge è concausa tra le principali di quella complessiva devastazione del Pianeta che, a sua volta, è corresponsabile anche della terribile pandemia da Coronavirus in corso. La catastrofe ecologica, prodotta dall’attività umana, dalle scelte politiche e dai crimini di sistema, si evidenzia in varie forme, tutte più distruttive. Come scrive il WWF in un recente report, molte delle malattie emergenti sono conseguenza indiretta dell’impatto sugli ecosistemi naturali.

La piovra militar-industriale

Il warfare è un sistema tentacolare e multiforme. Per comprenderne natura, estensione e attualità è utile risalire al secolo scorso, in particolare al secondo dopoguerra. Paradossalmente, la prima e più autorevole denuncia, rimasta nella storia, della sua articolazione e potere è venuta dal presidente di una delle nazioni che maggiormente alimentano e beneficiano di tale sistema: «Dobbiamo vigilare contro l’acquisizione di un’ingiustificata influenza da parte del complesso militare-industriale, sia palese che occulta. Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione di poteri metta in pericolo le nostre libertà e processi democratici»: così Dwight D. Eisenhower nel suo Discorso di addio alla nazione del 17 gennaio 1961. Essendo stato, prima che presidente degli Stati Uniti, anche generale, sapeva esattamente ciò di cui parlava e i pericoli che quel «complesso» rappresentava. E rappresenta.
Vi sono infatti due aspetti che lo rendono oggi assai più pericoloso rispetto a quell’epoca per le sorti della democrazia e della stessa umanità. Il primo è la sostanziale assenza, o meglio la debolezza del pensiero e della pratica di movimenti e di forze politiche organizzate pacifiste e antibelliche, invece ben più attivi e incisivi nel secolo scorso. Con eccezioni, lodevoli ma purtroppo episodiche e limitate manifestazioni: si pensi, da ultimo, al blocco nei porti delle navi utilizzate per trasportare armamenti in Arabia Saudita o le contestazioni alla produzione di bombe in Sardegna, destinate sempre all’Arabia Saudita che le impiega nella guerra contro lo Yemen. Un conflitto, cominciato esattamente cinque anni fa, il 25 marzo 2015 e definito dalle Nazioni Unite come uno dei peggiori disastri umanitari, di cui anche l’Italia ne è complice: si vedano qui i dati della produzione ed export bellico e le cifre delle vittime. Il lavoro, considerato o meno necessario, può talvolta essere anche un crimine.
Una seconda, e determinante, differenza è l’enorme sviluppo delle tecnologie da allora a oggi. Applicate al settore bellico, hanno moltiplicato a dismisura il potere, i profitti e le potenzialità distruttive di quel sistema.

La fantascienza è superata dalla realtà

Anche da questo punto di vista, oltre che da quello del controllo sociale totale, che vediamo in atto e che subiamo in questi giorni, la fantascienza è attualizzata e addirittura superata; il futuro (ma in parte già il presente) delle guerre è già stato immaginato, preparato, costruito. Somiglia terribilmente a quello visto in tanti film e perfino ne supera gli scenari. Basti pensare ai “robot assassini”, i Lethal Autonomous Weapons Systems, ovvero sistemi d’arma in grado di individuare e colpire bersagli, anche umani, in modo indipendente e senza l’autorizzazione da parte di una persona. L’intervento umano si limiterà, infatti, alla sola loro attivazione iniziale: dopo, sarà il sistema d’arma a selezionare e colpire in modo appunto autonomo gli obiettivi. Si configurerebbero così, oltre tutto, enormi e inediti problemi morali e giuridici.
Si tratta di armi che possono essere considerate l’evoluzione dei droni comandati a distanza. Ovvero di quegli strumenti che stanno venendo ora utilizzati per monitorare – in modo da poter eventualmente sanzionare i trasgressori – il rispetto delle regole di comportamento individuale fissate, e quasi giornalmente irrigidite, dai ripetuti decreti del presidente del Consiglio sulle misure di contrasto al Coronavirus. Ma, oltre che per controllo, ad esempio dei confini nella repressione dei migranti in fuga, i droni sono da tempo usati in diversi teatri di guerra, in particolar modo da parte degli Stati Uniti (e significativamente gestiti direttamente dalla CIA), che da parecchi anni mietono vittime, spesso civili, nei conflitti in corso in Africa e in Medio Oriente, attraverso il comando da remoto. Vengono usati, peraltro, anche nella vicina Libia, con partenza da territorio italiano, dalla base Nato di Sigonella. Secondo insistenti voci, naturalmente smentite dal ministero della Difesa, da lì sarebbe partito pure il drone Usa che, il 3 gennaio scorso, ha assassinato Qassem Soleimani, il comandante iraniano delle Guardie della Rivoluzione Islamica, rischiando di fare degenerare ulteriormente e irrimediabilmente il quadro internazionale.

La guerra batteriologica

Sempre fantascientifiche, ma solo in apparenza, essendo anche queste da tempo studiate e dunque potenzialmente preparate, sono le guerre batteriologiche. Non servivano certo il maldestro tentativo di strumentalizzazione politica da parte di Salvini del video di Tg Leonardo del 2015 o complottismi e idiotismi di varia natura per svelare una realtà, che, seppure non direttamente legata all’attuale pandemia, dovrebbe preoccupare tutti. Le ricerche su virus e batteri hanno possibili risvolti e utilizzi anche in campo bellico. Tanto più che la ricerca scientifica e quella militare hanno numerosi punti di contatto e sovrapposizione, con il fatto che la seconda ha possibilità di maggiori dotazioni finanziarie ed è favorita dalla maggiore segretezza.
Per fare solo uno dei tanti possibili esempi, l’autorevole rivista Science ha pubblicato uno studio su di un progetto di ricerca avanzata (finanziata con 45 milioni di dollari) gestita dall’agenzia del Pentagono Darpa (Defense Advanced Research Projects Agency) denominata Insects Allies, Insetti alleati. Il direttore, Blake Bextine, ha dichiarato che si tratta di una misura pensata per proteggere l’agricoltura statunitense. Secondo Science potrebbe invece rivelarsi un’arma adatta a usi militari, in violazione della Convenzione internazionale sulle armi biologiche. Il programma, infatti, mira a disperdere virus infettivi geneticamente modificati progettati per alterare i cromosomi delle colture, utilizzando gli insetti per diffondere i virus alle piante, potenzialmente in grado dunque di distruggere la produzione alimentare di un Paese (Robert Guy Reeves, Silja Voeneky, Derek Caetano-Anollés, Reldon F. Beck, Christophe Boëte, Agricultural research, or a new bioweapon system?, “Science”, Vol. 362, Issue 6410, pp. 35-37, 5 ottobre 2018).
Sono scenari che erroneamente si potrebbero pensare avveniristici e futuribili; è invece già la realtà delle armi biologiche, di quelle genetiche e di quelle basate sull’intelligenza artificiale, cui si dedicano numerose agenzie di paesi e potenze diverse, sostenute da ingentissimi finanziamenti, protette dal segreto militare. Solo la Darpa è impegnata in circa 250 programmi.

Cambiare il sistema, dal basso

Tutto ciò ci sollecita a sperare che – e agire affinché – la pandemia in corso, oltre alle migliaia di morti e al disastro economico globale, almeno residui un soprassalto di consapevolezza su quello che va radicalmente cambiato nel nostro modo di vivere, nelle priorità che ci si danno e, soprattutto, nel modello sociale ed economico che determina la vita collettiva e le sorti comuni: mai come in questi giorni è facile comprendere quanto i problemi siano inevitabilmente globali, a onta dei muri e delle fortezze, e come di conseguenza debbano esserlo le risposte.
Non vi è certo da essere ottimisti. Rimanendo all’Italia, basti vedere che, almeno inizialmente, nel decreto sui lavori necessari sono stati inserite anche produzioni legate al bellico. Se il “complesso militar-industriale” (e finanziario, va ora aggiunto) è più potente che mai, se i governi ne sono espressione o ne sono succubi, occorre allora che l’alternativa venga pensata e costruita al basso. Perché è lì che si pagano da sempre, e pure oggi con la pandemia e la crisi globale, i maggiori prezzi.
Reagire, ribellarsi, costruire un modello e un futuro diverso, pacifico, rispettoso di diritti umani ed ecosistemi, è allora questione di autodifesa, assai concreta e vitale, non ideologica. È la sfida e scommessa di domani che bisogna cominciare a pensare oggi, pur dal chiuso delle nostre case o nei luoghi della costrizione al lavoro voluto necessario per decreto, quando invece è il reddito semmai a esserlo. E anche questo oggi dovrebbe essere più evidente a tutti.
Nel pensare e preparare quel futuro nuovo, ora, intanto, usciamo sui balconi a esigere la fine di ogni guerra, non a partecipare a riti patriottici. Consapevoli, con Friedrich Dürrenmatt, che «Patria, si fa chiamare lo Stato ogni qualvolta si accinge a compiere assassini di massa».

Sergio Segio è curatore dell’annuale Rapporto sui Diritti globali, edito da Ediesse.

venerdì 27 marzo 2020

"Quello che non voglio scordare, dopo il Coronavirus" e "Non chiamatela guerra"

dalla pagina https://www.corriere.it/cronache/20_marzo_20/virus-dopo-ecco-mia-lista-cose-che-non-voglio-scordare-d860d476-6ad9-11ea-b40a-2e7c2eee59c6.shtml

A un certo punto, «dopo» il Coronavirus, avrà inizio la ricostruzione. E dobbiamo osare riflettere, da ora, su ciò che non vorremmo ritornasse uguale

di Paolo Giordano

È sempre più frequente il ricorso alla parola «guerra». L’ha usata Macron nel suo discorso alla nazione, la ripetono i politici, i giornalisti e i commentatori, la scelgono i medici. «Siamo in guerra», «è come una guerra», «prepariamoci alla guerra». Ma non è così, non siamo in guerra. Siamo nel mezzo di un’emergenza sanitaria e presto anche economico-sociale, drammatica al pari di una guerra ma sostanzialmente diversa e che merita di essere considerata nella sua specificità.

Parlare di guerra è una scorciatoia lessicale, un modo in più per eludere la novità assoluta, almeno per noi, di quanto sta accadendo, riconducendola a qualcosa che ci sembra di conoscere meglio. Ma questo è stato il nostro errore fin dall’inizio, ripetuto ancora e ancora: rifiutare l’impensabile, costringerlo a forza dentro categorie abituali e meno spaventose. Come confondere un distress respiratorio acuto con un’influenza stagionale. Una scelta più accorta dei termini, perfino severa è essenziale in un’epidemia, perché le parole condizionano i comportamenti e quelle imprecise rischiano di distorcerli. E perché ogni parola porta con sé i suoi spettri: la guerra evoca autoritarismo, sospensione dei diritti e violenza — tutti demoni che adesso più che mai sarebbe meglio lasciar stare.


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Per favore, non chiamatela guerra

Di mestiere mi occupo per lo più di guerre, alcune ho avuto il privilegio di seguirle da vicino molte altre a distanza, ma con una certa assiduità, spesso le ho ricostruite grazie al racconto di profughi assiepati lungo qualche confine oppure rintanati in campi di fortuna. Se non vi fidate di quello che scrivo, dei miei reportage, dei miei libri (può essere), chiedete ai soldati italiani che hanno combattuto la “guerra di pace” in Afghanistan oppure agli anziani che hanno vissuto la Seconda Guerra Mondiale. E’ difficile che vi rispondano ma provateci. E’ difficile che vi rispondano perché – da qualunque parte tu sia, soldato o civile – la guerra si porta dietro traumi, dolori e orrori che ti spingono a tenerti tutto dentro. O almeno questo è quello che ho constatato in anni di chiacchierate sia con reduci che con sopravvissuti.

Chiedere cosa? Beh chiedetegli cosa significa davvero essere in guerra, trovarsi in una città alle cui porte si combatte o sotto assedio. Nell’attesa che poniate questa e altre domande simili, provo a descrivervelo io partendo da una frase che sento e leggo in giro: “E’ come in guerra”.
Lo ripetono le persone in fila al supermercato, ad un metro di distanza, in strade che fino a ieri straboccavano di auto e oggi sono deserte.
Lo leggo sui social o nei messaggi personali che ricevo, commentando l’attuale situazione italiana (che poi sta diventando mondiale).
Bene vorrei pregarvi di non usare questo parallelismo. In sintesi: no, non è come in guerra. Ecco perché.

giovedì 26 marzo 2020

Coronavirus: una cura anche per il commercio globale

dalla pagina sbilanciamoci.info/coronavirus-serve-una-cura-anche-per-il-commercio-globale/


“Coronavirus shock: storia di un’altra crisi globale annunciata”[1]. Così l’Unctad, agenzia delle Nazioni Unite che monitora commercio e sviluppo, bolla la spirale in cui sta scivolando l’economia globale dopo la diffusione della pandemia Covid-19. E il commercio internazionale ne è un potente acceleratore.
È dal 2018 che Unctad avverte che più di qualcosa, nel modello di “iperglobalizzazione” improntato alla deregulation commerciale e finanziaria, non va. Nel rapporto annuale 2018 intitolato “The free trade delusion”[2], la disillusione del libero commercio, l’agenzia avvertiva – con le parole del direttore generale Mukhisa Kituyi – che l’economia mondiale era di nuovo sotto stress, anzi non si era mai ripresa, e che le recenti guerre commerciali a colpi di dazi non erano la causa, ma solo un sintomo della crisi: “dietro queste minacce alla stabilità globale c’è un fallimento più ampio: l’incapacità di far fronte sin dal 2008 alle disuguaglianze e agli squilibri del nostro mondo iperglobalizzato”, spiegava Kituyi.
Rispetto al commercio, il direttore generale avvertiva ancora: “lo scenario globale continua a essere dominato dalle grandi multinazionali grazie al controllo delle catene globali di valore tanto che, in media, l’1% delle maggiori imprese esportatrici di un Paese realizza oltre la metà delle sue esportazioni complessive (56%)”[3].
Il rapporto mostrava come la relazione fra crescita degli scambi e crescita economica fosse divenuta più flebile che in passato e come l’aumento nei volumi di scambi internazionali avesse generato disuguaglianze, visti i benefici di cui hanno goduto le principali imprese derivanti da una maggiore concentrazione di mercato e dal controllo di beni immateriali.
Ultimo punto, rilevante per la crisi odierna: il rapporto documentava un declino generale – con la Cina come unica eccezione – nella quota di valore aggiunto derivante da attività manifatturiere, e un progressivo incremento del valore aggiunto attribuibile ad attività di pre- e post-produzione che avevano avuto un effetto marcato sulla distribuzione del reddito in molti paesi. “Le aziende superstar sono un fenomeno globale, e le loro strategie di rendita vanno ben oltre i confini nazionali”, spiegava Richard Kozul-Wright.
Con una chiarezza abbastanza allarmante, il rapporto concludeva che l’iperglobalizzazione non aveva portato agli sperati benefici diffusi e che “il dogma del libero scambio era stato a lungo la scusa per ridurre lo spazio di manovra per i paesi in via di sviluppo e diminuire le protezioni per i lavoratori e le piccole imprese, a tutto vantaggio delle rendite delle grandi imprese multinazionali”.
In più, le guerre commerciali incombenti erano “solo il sintomo di un sistema economico (e di una architettura multilaterale) in degrado”, mentre il male di fondo andava ricercato “nel circolo vizioso esistente fra politiche aziendali volte alla cattura delle autorità regolamentatrici e una crescente disuguaglianza, una spirale nella quale gli utili sono utilizzati per ottenere potere politico e il potere politico è utilizzato a sua volta per moltiplicare gli utili”.
L’Unctad sollecitava i decisori politici a intervenire urgentemente per costruire un nuovo modello di cooperazione internazionale imperniato su tre cardini: vincolare le negoziazioni commerciali a un impegno per la piena occupazione e l’aumento salariale; regolare i comportamenti aziendali predatori; mantenere uno spazio di manovra sufficiente a garantire che i Paesi potessero gestire la loro integrazione in linea con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, auspicando la condivisione di un Green new deal che rispondesse con maggiore efficacia ed equità alla sfida posta dai cambiamenti climatici: un fattore di grave instabilità per la produzione, la logistica, le risorse, i redditi, i consumi, per tacere della geopolitica.
Queste indicazioni sono rimaste largamente inascoltate e, per di più, lo shock pandemico è andato a colpire la “fabbrica globale” cinese, esponendo la fragilità di sistema del “Made in the world” [4]. Negli ultimi vent’anni la Cina ha conquistato il primo posto tra gli esportatori cui si riconduce il 16% del Pil globale, il 13% dell’export globale e il 20% del commercio di beni intermedi, gli anelli delle catene lunghe del valore. Ma il valore aggiunto industriale cinese si era già ridotto del 13,5% nei primi due mesi del 2020[5].
Il Covid-19, con la chiusura delle fabbriche cinesi, causerà solo alle catene globali 50 miliardi di dollari di danni[6], in un effetto domino anch’esso ampiamente prevedibile quanto incontrollabile: con una riduzione dell’export di input cinesi del 2% nelle catene globali[7], Unctad calcola che l’Unione europea sarà la più colpita, con un danno all’industria di 15.597 milioni di dollari, per oltre 4.001 milioni ai macchinari industriali, 2.543 milioni all’automotive, 2.653 sulla chimica, 1.427 agli strumenti di precisione, 538 al tessile.

Il primato della precauzione sul commercio

Fin dai primi giorni dell’espansione della pandemia, il ministro italiano per la Salute Roberto Speranza ha rivendicato che anche se l’Oms non aveva proclamato il 23 gennaio lo stato di emergenza, l’Italia aveva applicato il Principio di precauzione “con scrupolo e tempestività” per la tutela della salute pubblica[8].
Un Principio contenuto nell’articolo 191 del Trattato sul Funzionamento dell’Europa (TFEU) che, a fronte di un potenziale ragionevole danno per la salute pubblica e l’ambiente, permette alle autorità pubbliche Ue di fermare, tra l’altro, commercio, spostamenti, produzione, import e export del prodotto o servizio potenzialmente responsabile, anche se la scienza non ha definitivamente individuato il nesso causa-effetto tra esso e il problema.
Gli articoli XX(b) and XX(g) dell’Accordo generale su Commercio e Tariffe (Gatt) su cui si fonda il commercio mondiale regolato in sede Wto, consentono ai Paesi membri dell’Organizzazione mondiale del commercio di bloccare gli scambi, ma pongono condizioni talmente restrittive, e al contempo vaghe per questa opzione, da essere praticamente inapplicabili.[9]
Radicandosi su questa debolezza, il diritto commerciale di origine anglosassone – Stati Uniti e Canada in testa – considera il Principio di precauzione solo uno strumento protezionistico agitato dalla Ue per proteggere il proprio mercato interno, come riaffermato di recente anche dal ministro americano dell’Agricoltura Sonny Perdue. Il quale ha accusato le Ong europee di diffondere paure immotivate rispetto all’approccio basato sulla gestione del danno, all’americana, anziché del rischio e della precauzione, come possibile in Europa[10], spingendo per l’approvazione di un mini-trattato di liberalizzazione Usa-Ue che andrebbe a ridurre proprio la portata del Principio di precauzione rispetto ad alcuni importanti standard di qualità e sicurezza del cibo e nel biotech[11].
Gli Stati Uniti, coerentemente, anche nell’ultimo rapporto sulle barriere commerciali che danneggiano il loro export[12], bollano in dettaglio come protezionistiche la gran parte delle misure a tutela della salute pubblica e dell’ambiente previste dalla normativa europea: dalle procedure di autorizzazione dei farmaci al filtro posto sulle biotecnologie, dall’etichettatura di origine del cibo, ai limiti posti ai residui di pesticidi negli alimenti umani.
Gli Stati Uniti, rispetto all’Italia, nel report citato indicano tra le misure protezionistiche il meccanismo di “payback”, secondo cui le imprese farmaceutiche debbono restituite allo Stato di tasca propria il 50% della spesa farmaceutica che abbia superato i limiti di una spesa ragionevole, fissata ogni anno dall’Agenzia italiana del Farmaco (Aifa) per rispettare i limiti di spesa pubblica posti dai vincoli europei. Un meccanismo, lamentano gli Usa, che ha riportato nelle casse dello stato italiano 1,48 miliardi di dollari, di cui però in questi giorni di crisi delle strutture sanitarie nazionali possiamo apprezzare l’utilità in un contesto di austerity.
La debolezza del Principio di precauzione dalle normative commerciali globali crea serie difficoltà alla protezione della salute pubblica e dell’ambiente[13]. Stati Uniti, Canada e Australia ricorrono costantemente contro le regole europee[14] al Tribunale delle dispute dell’organizzazione Mondiale del Commercio[15], e le loro corporation regolarmente si appellano alle clausole arbitrali contenute nei trattati bilateriali e sugli investimenti (Isds). Nella maggior parte del caso vincono[16], ottenendo risarcimenti milionari.
L’Unione europea, dal canto suo, sta contribuendo all’indebolimento del principio di precauzione non inserendolo nei trattati bilaterali di liberalizzazione commerciale che negozia con i suoi partner, oppure, dopo la pressione delle campagne europee della società civile sollevatesi contro i contenuti dei negoziati con Canada e Stati Uniti, inserendolo ma con formulazioni vaghe e poco stringenti. Formulazioni sempre accompagnate da locuzioni in cui si precisa che ogni iniziativa di legge o regolatoria non dovrà costituire un “eccessivo” o “immotivato” ostacolo al commercio.
L’incertezza, la diversità e la velocità di risposta strategica al Covid-19 riscontrata presso i diversi livelli istituzionali nazionali, europei, globali, dovrebbe sollecitare una riflessione più approfondita. Soprattutto considerando che l’Italia non svolge alcuna valutazione d’impatto nemmeno economica, sociale e/o ambientale dei trattati commerciali che l’Europa conduce su suo mandato, e che anche le analisi commissionate dalla Commissione europea sono carenti – spesso nemmeno ultimate al momento della firma dei trattati da parte della Commissione stessa – e, per i modelli di calcolo previsionale scelti, spesso sottostimano le ripercussioni sociali e ambientali delle operazioni valutate[17].

‘Business as usual’ non è più accettabile

Nonostante molti studiosi fin dall’emergenza Sars del 2003[18] avessero richiamato le istituzioni economiche globali a tener conto degli impatti delle pandemie sui sistemi economici e commerciali, alla luce della sempre più stretta integrazione globale, questa variabile è rimasta, come quella climatica, inesplorata da parte dei decisori e degli attori delle politiche commerciali.
Lo shock determinato dal Covid-19 non è e non rimarrà un caso isolato: “non illudiamoci” è il richiamo della vice-segretaria generale dell’Unctad Isabelle Durant. Elencando “l’effetto domino” della crisi finanziaria del 2008-2009, le conseguenze dei cambiamenti climatici sul commercio internazionale e della rivoluzione digitale “dobbiamo riconoscere che dobbiamo mettere in discussione l’attuale modello di business. ‘Business ad usual’ non è più un’opzione praticabile”.
Le priorità che pone Durant comprendono “un modello di business aperto più diversificato in termini di produzione e con catene del valore più corte”, che devono consentire “un migliore monitoraggio del rispetto degli standard sociali, sanitari e ambientali, che sono sempre più apprezzati dai consumatori”.
È fondamentale, secondo l’esperta, “che le imprese multinazionali adottino modelli di business più equi, dato che dominano e danno la linea alle catene del valore”. Che si esca dalla ennesima crisi con una decisa svolta in direzione della sostenibilità, però, è una partita che si gioca fin dalle prime risposte alla pandemia che impegneranno risorse ingenti in programmi di investimenti che condizioneranno la performance degli scambi commerciali e degli investimenti nei prossimi decenni.
L’agenda commerciale con cui l’Unione europea ha risposto alla crisi del 2009 è stata improntata alla deregulation normativa e degli scambi. Un fallimento, secondo quanto hanno sostenuto l’ex ministro delle Finanze brasiliano Nelson Barbosa e Rochard Kozul-Wright,[19] che dirige sempre in Unctad la divisione Globalizzazione e sviluppo.
Ad avviso di chi scrive è il momento di fermarsi, soprattutto in considerazione del fatto che il commissario al Commercio Phil Hogan ha di recente assicurato al Parlamento Ue[20] che sarebbe quasi pronto il rapporto sull’impatto combinato di tutti i trattati commerciali che l’Europa conta di approvare nei prossimi anni, l’ultimo dei quali risale al 2016[21], e che già quello probabilmente sarà da rivedere ulteriormente alla luce del Covid-19.
Mai come in questi giorni sembra urgente ricondurre anche il commercio a una strategia più ampia che veda la giustizia sociale, la possibilità delle persone di lavorare e sostenersi dignitosamente, e la giustizia ambientale, la possibilità di avere un futuro come umanità sul pianeta, al primo posto dell’agenda politica a livello nazionale e europeo.
La scelta dell’Italia di introdurre misure più stringenti a difesa della salute pubblica rispetto a quanto fosse giudicato appropriato anche dalle istituzioni e i partner europei, si è rivelata vincente anche per la protezione della loro salute. Perché la richiesta di una simile attenzione e prontezza in ambito commerciale, come fatto da almeno vent’anni dalle nostre organizzazioni e campagne che si battono per un commercio più giusto, deve essere stigmatizzata come protezionismo o sovranismo?
Dobbiamo traslare con urgenza la stessa pratica nelle politiche commerciali: chiedendo una moratoria di tutti i trattati oggi in negoziato e spingendo la Commissione Ue ad avviare una revisione di tutti i trattati in essere in un’ottica di sostenibilità sociale e ambientale vincolanti. Possiamo usare la bocciatura della ratifica del trattato commerciale tra Europa e Canada, che attende nei cassetti del Parlamento italiano nonostante la chiedano diverse mozioni di parlamentari di forze di maggioranza[22], come leva per ottenerle.
Lavoriamo insieme perché questo doloroso bagno di realtà serva a rimettere il commercio nella cassetta degli attrezzi in mano alla politica, nostrana e oltreconfine, tirandolo giù dall’altare degli idoli incontestabili e ingovernabili del capitalismo interiorizzato che la affligge.
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Note
*Monica Di Sisto – giornalista, esperta di commercio internazionale, vicepresidente dell’associazione Fairwatch