giovedì 28 febbraio 2019

primolunedìdelmese, "Questione migranti": la nuova normativa, la situazione nel vicentino


primolunedìdelmese

Anno XXI - Incontro n. 165

4 Marzo 2019 - ore 20:30

presso Cooperativa Insieme, via Dalla Scola 253, Vicenza

"Questione migranti":

la nuova normativa,

la situazione nel vicentino

Ne parliamo con

Igor Brunello

avvocato Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione (ASGI)

e

Chiara Tagliaro

Progetto Accoglienza Richiedenti Asilo, Cosmo SCS, Vicenza

sabato 23 febbraio 2019

La “differenza cristiana”

dalla pagina https://www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/12848-la-differenza-cristiana

24 febbraio 2019

VII domenica del tempo Ordinario
Lc 6,27-38
di ENZO BIANCHI 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli 27 :« A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, 28benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. 29A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l'altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. 30Da' a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro. 31E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro. 32Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. 33E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. 34E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. 35Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell'Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. 36Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. 37Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. 38Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio».

Alla proclamazione delle beatitudini, nel vangelo secondo Luca come in quello secondo Matteo, segue da parte di Gesù un discorso indirizzato a quella folla che era venuta ad ascoltarlo quando era disceso con i Dodici dalla montagna (cf. Lc 6,17). In Luca questo insegnamento è più breve e ha una tonalità diversa. In esso non è più registrato il confronto, anche polemico, con la tradizione degli scribi di Israele, ma emerge piuttosto la “differenza cristiana”che i discepoli di Gesù devono saper vivere e mostrare rispetto alle genti, ai pagani in mezzo ai quali si collocano le comunità alle quali è rivolto il vangelo.
“A voi che ascoltate, io dico…”. Sono le prime parole di Gesù, che introducono una domanda, un comando, un’esigenza fondamentale: “Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano”. Certo, queste parole sono collegate alla quarta beatitudine indirizzata ai discepoli perseguitati (cf. Lc 6,22-23), ma appaiono rivolte a ogni ascoltatore che vuole diventare discepolo di Gesù. L’amore dei nemici non è dunque soltanto un invito a un’estrema estensione del comandamento dell’amore del prossimo (cf. Lv 19,18; Lc 10,27), ma è un’esigenza prima, fondamentale, che appare paradossale e scandalosa. I primi commentatori del vangelo con ragione hanno giudicato questo comando di Gesù una novità rispetto a ogni etica e sapienza umana, e gli stessi figli di Israele hanno sempre testimoniato che con tale esigenza Gesù andava oltre la Torah.
Per questo dobbiamo chiederci: è possibile per noi umani amare il nemico, chi ci fa del male, chi ci odia e vuole ucciderci? Se anche Dio, secondo la testimonianza delle Scritture dell’antica alleanza, odia i suoi nemici, i malvagi, si vendica contro di loro (cf. Dt 7,1-6; 25,19; Sal 5,5-6; 139,19-22; ecc.) e chiede ai credenti in lui di odiare i peccatori e di pregare contro di loro, potrà forse un discepolo di Gesù vivere un amore verso chi gli fa del male? Diamo troppo per scontato che questo sia possibile, mentre dovremmo interrogarci seriamente e discernere che un amore simile può solo essere “grazia”, dono del Signore Gesù Cristo a chi lo segue. Anche nel nostro vivere quotidiano non è facile relazionarci con chi ci critica e ci calunnia, con chi ci fa soffrire pur senza perseguitarci a causa di Gesù, con chi ci aggredisce e rende la nostra vita difficile, faticosa e triste. Ognuno di noi sa quale lotta deve condurre per non ripagare il male ricevuto e sa come sia quasi impossibile nutrire nel cuore sentimenti di amore per chi si mostra nemico, anche se non ci si vendica nei suoi confronti.
Con questo comando, che lui stesso ha vissuto fino alla fine sulla croce chiedendo a Dio di perdonare i suoi assassini (cf. Lc 23,34), Gesù chiede ciò che solo per grazia è possibile e, significativamente, è sempre Luca a testimoniare che con questo sentimento dell’amore verso i nemici è morto il primo testimone di Gesù, Stefano, il quale ha chiesto a Gesù suo Signore di non imputare ai suoi persecutori la morte violenta che riceveva da loro (cf. Lc 7,60). Gesù dunque qui rompe con la tradizione e innova nell’indicare il comportamento del discepolo, della discepola: ecco la giustizia che va oltre quella di scribi e farisei (cf. Mt 5,20), ecco la fatica del Vangelo, ecco – direbbe Paolo – “la parola della croce” (1Cor 1,18). Amare (verbo agapáo) il nemico significa andare verso l’altro con gratuità anche se ci osteggia, significa volere il bene dell’altro anche se è colui che ci fa del male, significa fare il bene, avere cura dell’altro amandolo come se stessi. E Gesù fornisce degli esempi, indica anche dei comportamenti esteriori da assumere, espressi alla seconda persona singolare: non fare resistenza a chi ti colpisce e neppure a chi ti ruba il mantello; dona a chi tende la mano, chiunque sia, conosciuto o sconosciuto, buono o cattivo, e non sentirti mai creditore di ciò che ti è stato sottratto. Ciò non significa però assumere una passività, una resa di fronte a chi ci fa il male, e Gesù stesso ce ne ha dato l’esempio quando, percosso sulla guancia dalla guardia del sommo sacerdote, ha obiettato: “Se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gv 18,23).
A questo punto Gesù formula la “regola d’oro”, che riporta il discorso alla seconda persona plurale: “Come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro”. Regola formalizzata in positivo, nella quale la reciprocità non è invocata come diritto e tanto meno come pretesa, ma come dovere verso l’altro misurato sul proprio desiderio: “fare agli altri ciò che desidero sia fatto a me”. Pochi anni prima del ministero di Gesù rabbi Hillel affermava: “Ciò che non vuoi sia fatto a te, non farlo al tuo prossimo”. Ma Gesù conferisce a tale istanza una forma positiva, chiedendo di fare tutto il bene possibile al prossimo, fino al nemico.
Solo così, amando gli altri senza reciprocità, facendo del bene senza calcolare un vantaggio e donando con disinteresse senza aspettare la restituzione, si vive la “differenza cristiana”. In questo comportamento c’è il conformarsi del discepolo al Dio di Gesù Cristo, quel Dio che Gesù ha narrato come amoroso, capace di prendersi cura dei giusti e dei peccatori, dei credenti e degli ingrati. Se Dio non condiziona il suo amore alla reciprocità, al ricevere una risposta, ma dona, ama, ha cura di ogni creatura, anche il cristiano dovrebbe comportarsi in questo modo nel suo cammino verso il Regno, in mezzo all’umanità di cui fa parte.
Dopo aver ribadito il comandamento dell’amore dei nemici, Gesù fa una promessa: ci sarà “una ricompensa (misthós) grande” nei cieli ma già ora in terra, qui, i discepoli diventano figli di Dio perché si adempie in loro il principio “tale Padre, tale figlio”. Imitare Dio, fino a essere suoi figli e figlie: sembra una follia, una possibilità incredibile, eppure questa è la promessa di Gesù, il Figlio di Dio che ci chiama a diventare figli di Dio. Se nella Torah il Signore chiedeva ai figli di Israele in alleanza con lui: “Siate santi, perché io sono Santo” (Lv 19,2), e questo significava essere distinti, differenti rispetto alla mondanità, in Gesù questo monito diventa: “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”. Nella tradizione delle parole di Gesù secondo Matteo il comando risuona: “Siate perfetti (téleioi) come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,48). Qui invece ciò che viene messo in evidenza è la misericordia di Dio; d’altronde, già secondo i profeti, la santità di Dio era misericordia, si mostrava nella misericordia (cf. Os 6,6; 11,8-9). La misericordia, l’amore viscerale e gratuito del Signore che è “compassionevole e misericordioso” (Es 34,6), deve diventare anche l’amore concreto e quotidiano del discepolo di Gesù verso gli altri, amore illustrato da due sentenze negative e due positive.
Innanzitutto: “Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati”, perché nessuno può prendere il posto di Dio quale giudice delle azioni umane e di quanti ne sono responsabili. Si faccia attenzione e si comprenda: Gesù non ci chiede di non discernere le azioni, i fatti e i comportamenti, perché senza questo giudizio (verbo kríno) non si potrebbe distinguere il bene dal male, ma ci chiede di non giudicare le persone. Una persona, infatti, è più grande delle azioni malvagie che compie, perché non possiamo mai conoscere l’altro pienamente, non possiamo misurare fino in fondo la sua responsabilità. Il cristiano esamina e giudica tutto con le sue facoltà umane illuminate dalla luce dello Spirito santo, ma si arresta di fronte al mistero dell’altro e non pretende di poterlo giudicare: a Dio solo spetta il giudizio, che va rimesso a lui con timore e tremore, riconoscendo sempre che ciascuno di noi è peccatore, è debitore verso gli altri, solidale con i peccatori, bisognoso come tutti della misericordia di Dio.
Al discepolo spetta dunque – ecco le affermazioni in positivo – di perdonare e donare: per-donare è fare il dono per eccellenza, essendo il perdono il dono dei doni. Ancora una volta le parole di Gesù negano ogni possibile reciprocità tra noi umani: solo da Dio possiamo aspettarci la reciprocità! Il dono è l’azione di Dio e deve essere l’azione dei cristiani verso gli altri uomini e donne. Allora, nel giorno del giudizio, quel giudizio che compete solo a Dio, chi ha donato con abbondanza riceverà dal Signore un dono abbondante, come una misura di grano che è pigiata, colma e traboccante. L’abbondanza del donare oggi misura l’abbondanza del dono di Dio domani. La “differenza cristiana” è a caro prezzo ma, per grazia del Signore, è possibile.

mercoledì 20 febbraio 2019

Da Hiroshima a oggi, la corsa agli armamenti

riproponiamo un articolo di un anno fa... 

da il manifesto del 20 febbraio 2018
dalla pagina https://ilmanifesto.it/da-hiroshima-a-oggi-la-corsa-agli-armamenti/

Scaffale«Guerra Nucleare. Il giorno prima» di Manlio Dinucci, edito da Zambon. È la storia di una potenza distruttiva tale da cancellare la specie umana e quasi ogni altra forma di vita dalla faccia della Terra, sconvolgendone l’intero ecosistema

di 

La lancetta dell’«Orologio dell’Apocalisse» – il segnatempo che sul Bollettino degli Scienziati Atomici statunitensi indica a quanti minuti siamo dalla mezzanotte della guerra nucleare – è stata spostata da 3 a mezzanotte nel 2015 a 2 minuti nel 2018. Tale fatto passa però inosservato o, comunque, non suscita particolari allarmi.
Sembra di vivere in un film, in particolare in The Day After (1983), in quella cittadina del Kansas dove la vita scorre tranquilla accanto ai silos dei missili nucleari, con la gente che il giorno prima ascolta distrattamente le notizie sul precipitare della situazione internazionale, finché vede i missili lanciati contro l’Urss e poco dopo spuntare i funghi atomici delle testate nucleari sovietiche.
Questa la presentazione (e motivazione) del libro di Manlio Dinucci Guerra Nucleare. Il giorno prima (Zambon Editore, pp.304, euro 15). Il testo, molto documentato e allo stesso tempo di agevole lettura, ricostruisce la storia della corsa agli armamenti nucleari dal 1945 ad oggi, sullo sfondo dello scenario geopolitico mondiale, contribuendo a colmare il vuoto di informazione su questo tema di vitale importanza.
UNA STORIA, quella della Bomba, che potrebbe mettere fine alla Storia: per la prima volta è stata creata nel mondo una potenza distruttiva tale da cancellare la specie umana e quasi ogni altra forma di vita dalla faccia della Terra, sconvolgendone l’intero ecosistema. Dal 1945, l’anno in cui con il bombardamento atomico Usa di Hiroshima e Nagasaki inizia la corsa agli armamenti nucleari, al 1991, l’anno in cui la disgregazione dell’Unione Sovietica segna la fine della guerra fredda, vengono fabbricate circa 125mila testate nucleari con una potenza complessiva equivalente a quella di oltre un milione di bombe di Hiroshima. In stragrande parte dagli Stati uniti e dall’Unione sovietica, il resto da Francia, Gran Bretagna, Cina, Pakistan, India, Israele e Sudafrica (l’unico paese che rinuncerà in seguito a tali armi). Più volte si corre il rischio di una guerra nucleare per errore, mentre i test nell’atmosfera e le fuoriuscite di radioattività provocano enormi danni ambientali e sanitari.
Con la fine della guerra fredda, i trattati vengono sempre più svuotati di reale contenuto fondamentalmente a causa del tentativo degli Stati uniti di accrescere il loro vantaggio strategico sulla Russia. E mentre la Nato si espande fin dentro il territorio dell’ex Urss, e le forze statunitensi e alleate passano di guerra in guerra presentata ai subalterni governati e teleguidati spesso come «umanitaria» (Iraq, Jugoslavia, Afghanistan, Libia e altre), la corsa agli armamenti nucleari, trainata dagli Stati uniti, si sposta sempre più dal piano quantitativo a quello qualitativo, ossia sul tipo di piattaforme di lancio (da terra, dal mare, dall’aria e probabilmente anche dallo spazio esterno) e sulle capacità offensive delle testate nucleari. Nel frattempo si aggiunge alle potenze nucleari la Corea del Nord.
SI ARRIVA COSÌ alla fase odierna, resa ulteriormente pericolosa dalla nuova dottrina nucleare degli Stati uniti. Dalla strategia della «mutua distruzione assicurata» (il cui acronimo Mad equivale alla parola inglese «pazzo») – adottata durante la guerra fredda quando ciascuna delle due superpotenze sapeva che, se avesse attaccato l’altra con armi nucleari, sarebbe stata a sua volta distrutta – il Pentagono passa alla strategia del first strike (primo colpo), cercando di acquisire la capacità di disarmare la Russia con un attacco di sorpresa. Grazie alle nuove tecnologie – scrive Hans Kristensen della Federazione degli scienziati americani – la capacità distruttiva dei missili balistici Usa si è triplicata.
ARMI NUCLEARI, sistemi spaziali, aerei robotici e cyber-armi vengono sempre più integrati, insieme ai mezzi di guerra elettronica e allo «scudo anti-missili», installato ormai in Polonia e con riarmo atlantico di tutti i Paesi dell’est, vale a dire dell’ex Patto di Varsavia che si è da tempo sciolto, nel 1995, mentre la Nato non solo non si estingue ma diventa sempre più l’unica sede della politica estera dell’inesistente Unione europea. Come contromisura la Russia sta rimuovendo sempre più i missili balistici intercontinentali dai silos, vulnerabili da un first strike, installandoli su lanciatori mobili tenuti costantemente in movimento per sfuggire ai satelliti militari e a un eventuale attacco missilistico di sorpresa.
Nel crescente confronto nucleare l’Italia – che sembra vivere nella «tranquilla» cittadina del Kansas del film Day after – è in prima fila, avendo sul proprio territorio bombe statunitensi B-61 che, dal 2020. saranno rimpiazzate dalle ancora più pericolose B61-12.
OCCORRE BATTERSI in campo aperto perché l’Italia cessi di violare il Trattato di non-proliferazione, imponendo agli Stati uniti di rimuovere immediatamente le loro armi nucleari dal nostro territorio nazionale, e contemporaneamente perché l’Italia, liberandosene, aderisca al Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari. Questo è l’unico modo concreto che abbiamo in Italia per contribuire alla eliminazione delle armi nucleari dalla faccia della Terra. A proposito: c’è qualcuno che nei programmi elettorali ha questo all’ordine del giorno? Sarebbe, tra le poche l’unica promessa accettabile. Finché siamo in tempo, il giorno prima.

domenica 17 febbraio 2019

I nuovi schiavi condannati all'invisibilità

da il manifesto del 17 febbraio 2019
dalla pagina https://ilmanifesto.it/i-nuovi-schiavi-condannati-allinvisibilita/

di 


I fatti sono più che noti, anche se affondano nella melma dell’indifferenza, della noia e del pregiudizio che sommerge buona parte della nostra società: nelle campagne si muore di freddo, di canicola e di esaurimento nei campi, oltre che di fuoco negli incendi dei ripari di fortuna. E si muore di sparizione violenta, come i braccianti polacchi di cui anni fa si sono perse le tracce (se n’era occupato ampiamente il compianto Alessandro Leogrande).
Millecinquecento sarebbero i decessi sul lavoro nelle campagne, in sei anni. Braccianti italiani e migranti si schiantano dieci ore al giorno per pochi euro nella raccolta di pomodori e agrumi, vittime del caporalato e di mafie locali e industriali: il settore agricolo, al nord e al sud, campa su un trattamento che secoli fa era riservato solo agli schiavi. In più, gli stranieri si trovano, grazie al decreto sicurezza voluto da Salvini e Di Maio, in una condizione di precarietà che li espone a condizioni di vita sempre peggiori e al ricatto di padroncini e profittatori.
Questa è semplicemente la realtà che fa da sfondo all’ennesima morte nell’incendio della baraccopoli di san Ferdinando.
La logica dello sfruttamento, che nessuna legge sul caporalato è stata in grado di limitare – anche per l’opposizione della Lega alla sua applicazione – è ovviamente la prima responsabile di queste tragedie.
I profitti del settore agroalimentare si basano sulla compressione spasmodica dei salari e sulla durata abnorme della giornata di lavoro. L’illegalità estrema delle condizioni di lavoro è alla base di quello che si può definire come un vero e proprio modo di produzione schiavistico. Ma a questo appartengono anche la gestione dei trasporti dei lavoratori (tra il 4 e il 6 agosto 2018 morirono 16 migranti in due incidenti stradali nel foggiano) e le condizioni di vita nelle baraccopoli. Si muore sul lavoro e si rischia la morte per lavorare.
La cultura – chiamiamola così – del governo in carica è del tutto coerente con un sistema di sfruttamento del lavoro che un certo illuminismo riteneva superato da secoli. Da una parte c’è l’elargizione grillina di un «reddito di indigenza», subordinato a sistemi disciplinari e di controllo degni dell’Inghilterra settecentesca. Dall’altra, la cultura politica leghista, incarnata nel corporativismo della piccola azienda, della famiglia in cui lavoratori e padroni sono sulla stessa barca, è profondamente ostile allo sviluppo di logiche sindacali e rivendicative sanamente conflittuali. Il conflitto materiale sul luogo di lavoro è stato sostituito, nel corso degli ultimi decenni, e con il contributo decisivo del riformismo, da conflitti emotivi, basati sull’esistenza di un nemico simbolico: lo straniero, il migrante, il profugo, il «negro» che preme alle porte.
E qui veniamo al luogo in cui tutti questi cambiamenti precipitano: l’umanità marginale, superflua, eccedente, costretta a vivere nelle discariche per sopravvivere con 25 euro al giorno.
L’obiettivo politico di Salvini non è, né mai potrà essere, eliminare le basi dello sfruttamento e le condizioni disumane di vita dei migranti impiegati in agricoltura. È eliminare la visibilità loro e dei loro insediamenti, con un duplice profitto: confermarsi come il politico dell’ordine a tutti i costi e rendere ancora più ricattabile l’umanità alla deriva nelle nostre campagne.
La chiusura degli Sprar, l’abolizione della protezione umanitaria e la stretta contro gli stranieri devianti hanno come effetto principale la riduzione dei migranti a schiavi potenziali. E qui, si scopre facilmente, tutto si tiene: se l’eliminazione delle Ong dal Mediterraneo, a partire dalla campagna contro i «taxi del mare», rende invisibili, e quindi accettabili, i naufragi, la ruspa promessa da Salvini contro le baraccopoli rende invisibile l’esistenza dei nuovi schiavi.
Tutto si tiene: il nazionalismo esasperato, la xenofobia diffusa alimentata dal discorso politico, l’offa gettata ai poveri in cambio di un po’ di consenso elettorale, la marginalizzazione dei marginali. Finché, si spera, i sostenitori di questo governo cominceranno ad accorgersi del tranello in cui sono caduti.

martedì 12 febbraio 2019

Venezuela: altri punti di vista

dalla pagina https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-le_10_fake_news_sul_venezuela_che_vi_ripetono_giorno_e_notte/82_27131/


10 fake news sul Venezuela ...

teleSUR
 

La disinformazione e la falsa rappresentazione della maggior parte dei media contro il Venezuela e il suo governo genera un fenomeno pericoloso: la popolazione che viene informata attraverso di loro crede a false notizie come vere.

Per combattere l'ignoranza e discutere con fermezza nei dibattiti sulla situazione esistente in Venezuela, l'economista e accademico spagnolo Alfredo Serrano ha compilato una semplice lista di dati, a cui abbiamo contribuito con altri, per nutrire le discussioni e, en passant, educare sulla realtà venezuelana.

1. L’organo elettorale

L'Assemblea Nazionale (AN) del Venezuela, in oltraggio dal 2016, presieduta dal deputato dell'opposizione Juan Guaidó, è stata eletta attraverso il Consiglio Nazionale Elettorale venezuelano (CNE), lo stesso organismo con cui il presidente Nicolás Maduro è stato eletto nel 2013 e 2018. Sia la direzione dell’AN che Guaidó affermano che il CNE è un'istituzione manipolata, sostenendo in questo modo che la rielezione del presidente è una frode. Secondo questa logica dell'opposizione, anche l'AN e tutti i suoi deputati, incluso Juan Guaidó, lo sarebbero altrettanto.

Tuttavia, finora non ci sono documenti che provano questa accusa e, al contrario, le relazioni degli osservatori delle Nazioni Unite (ONU) hanno dimostrato che non ci sono irregolarità nei 25 processi elettorali svolti in Venezuela durante gli ultimi 20 anni.

2. Riconoscimenti

OSA
L'Organizzazione degli Stati Americani (OSA) non ha riconosciuto Guaidó come presidente incaricato del Venezuela. Il suo segretario generale, Luis Almagro, lo ha fatto per proprio conto e a proprio rischio, ma non i suoi membri come blocco. Almagro ha cercato di spostare l'OSA su questa posizione, ma la maggior parte delle nazioni non ha sostenuto la mozione.

ONU
Allo stesso modo, nemmeno l'ONU ha riconosciuto Guaidó. Il voto straordinario convocato dagli Stati Uniti (USA) per questo motivo, è stato respinto dalla maggioranza dei suoi stati membri. Ciò è stato confermato in diverse occasioni da parte del Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, lasciando in chiaro in una lettera di approvazione l'ingresso di "aiuti umanitari" per il Venezuela, a condizione che questa sia approvato dal governo, presieduto da Nicolás Maduro.

Papa Francesco
Il più alto rappresentante della Chiesa cattolica nel mondo non ha aderito al riconoscimento di Guaidó, ha riferito dopo aver risposto ad una domanda a riguardo fatta da un giornalista durante il volo di ritorno in Italia dal suo viaggio a Panama.

Unione Europea
Non tutti i paesi dell'Unione Europea (UE) non hanno conosciuto Nicolás Maduro. L'Italia, la Grecia, la Romania, l'Irlanda, la Bulgaria, Cipro, Malta e la Slovacchia non appoggiano la mozione di Guaidó e, in quanto blocco, l'UE non ha preso una decisione.

Altre nazioni
Paesi di grande importanza geopolitica ed economica come la Cina, la Russia, la Turchia, l'Iran, Messico e Sudafrica, così come le nazioni della Comunità dei Caraibi, CARICOM e Parlasur, al Parlamento del Mercosur, così come i governi latino-americani amici del Venezuela come Cuba, Bolivia e Nicaragua non convalidano un altro presidente oltre a Nicolás Maduro.

3. Le riserve

Il Venezuela è il primo paese al mondo con la più grande quantità di riserve petrolifere; l'ottavo con la più grande quantità di riserve di gas; il valore delle sue riserve auree supera il Prodotto Interno Lordo (PIL) del Cile o della Danimarca; il valore delle sue riserve di ferro supera il PIL del Messico o della Spagna; il valore delle sue riserve di diamanti supera il PIL del Paraguay o della Bolivia. Inoltre, recentemente, è stato dimostrato che nel territorio venezuelano ci sono grandi quantità del minerale mettalico coltan.

4. Proprietà

Per quanto riguarda la proprietà, il 98,5 percento delle società costituite in Venezuela sono private; 0,5 per cento sono miste; e l'1 per cento sono completamente pubbliche.

5. Media

Su questa stessa linea, l'80% dei media venezuelani è privato e, tra questi, la maggioranza appartiene all'opposizione.

6. Sanzioni statunitensi

Secondo un articolo pubblicato dal New York Times, le nuove sanzioni imposte contro il Venezuela dal governo di Donald Trump costeranno all'economia venezuelana un totale di 11.000 milioni di dollari di entrate petrolifere perse.

A ciò si aggiungono le conseguenze economiche dei precedenti decreti statunitensi contro il paese: il primo è stato quello di Barack Obama, approvato il 9 marzo 2015, misure applicate sotto la motivazione del "rischio straordinario" che il Venezuela rappresenta per la sicurezza degli USA, come indicato da Obama; Le altre sanzioni sono state generate durante l'amministrazione Trump.

7. Relazioni estere

La Cina è uno dei principali partner e amici nelle relazioni economiche e politiche con il Venezuela. Il paese sudamericano rappresenta il 40% del finanziamento che il governo cinese concede a tutta l'America Latina. Allo stesso modo, la Russia e la Turchia sono grandi partner del Venezuela. Queste relazioni bilaterali furono forgiate durante i governi di Hugo Chávez e Nicolás Maduro.

8. Frontiera con gli Stati Uniti

Un importante elemento è il confine tra il Venezuela e gli Stati Uniti, regolato dal Trattato sui confini marittimi del 1978, che stabilisce il confine marittimo tra le isole del Venezuela nel Mar dei Caraibi e i territori dipendenti degli Stati Uniti in quell'area, cioè Porto Rico e Isole Vergini.

9. L’aiuto umanitario degli Stati Uniti

Dall'inizio delle difficoltà economiche causate dal blocco statunitense, il governo di Nicolás Maduro distribuisce alimenti di base (riso, zucchero, farina, latte, olio, cereali, tra gli altri) per sei milioni di famiglie in tutto il paese. Queste "combo" raggiungono le famiglie ogni 30 giorni attraverso i Comitati Locali di Approvvigionamento e Produzione (CLAP).

Gli "aiuti umanitari" promessi dagli Stati Uniti e promossi localmente dall'opposizione guidata da Guaidó hanno un costo di 20 milioni di dollari, una cifra con cui si potrebbero acquistare solo 1 milione di combo CLAP. Allo stesso modo, con 20 milioni di dollari è possibile rifornire solo cinquemila venezuelani per un periodo non superiore a un mese.

È importante sapere che durante il 2017 e il 2018, l'UE e gli Stati Uniti hanno inviato insieme un importo approssimativo di 60 milioni di dollari in "aiuti" al Venezuela, un importo che è ancora tre volte l'importo annunciato di recente, che beneficia del 6% della popolazione solo nel consumo di riso.

Allo stesso modo, nemmeno 20 o 60 milioni di dollari equivalgono ai 23 miliardi di dollari che gli Stati Uniti e i paesi dell'UE hanno portato via al Venezuela con le sanzioni economiche; cifra equivalente al bilancio che la Spagna stanzia per la sanità e l'istruzione per tre anni.

10. Aiuti che non sono coperti dai media

Dire che Nicolás Maduro respinge gli aiuti stranieri è un errore. Il fatto che lo faccia con quelli recentemente offerti dagli Stati Uniti risponde all'interventismo di questa azione.

Il programma della Pan American Health Organization (PAHO) per il trattamento di alcune malattie in Venezuela, esiste anni fa nel piano sanitario del paese sudamericano. L'assistenza è dettagliata sul sito web dell'agenzia, in seguito ad un accordo con il Ministero della Sanità del Venezuela e PAHO, che ha portato alla consegna di farmaci e contraccettivi e alla formazione nella gestione delle epidemie.

Solo nel mese di gennaio 2019, PAHO ha consegnato medicinali per 3.000 pazienti, oltre a 3 milioni di farmaci antiretrovirali e forniture per coprire il 95% dei vaccini contro il morbillo e la difterite.

Allo stesso modo, nel novembre 2018, le Nazioni Unite hanno approvato le risorse attraverso il Fondo comune per la risposta alle emergenze (CERF), per un importo di 9,2 milioni di dollari per i programmi umanitari in Venezuela, in collaborazione con lo Stato venezuelano.

(Traduzione de l’AntiDiplomatico)

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dalla pagina 

Venezuela: falsi aiuti umanitari ...


In primo luogo una domanda, a chi sostiene l'autoproclamato Guaidò sulla base del fatto che i venezuelani stanno economicamente molto male. 

La domanda è: come se la caverebbero gli italiani se fossero oggetto di sanzioni economiche durissime e di ogni genere di boicottaggio da parte dell'Occidente e paesi satelliti? Per non parlare della veloce riduzione in miseria degli statunitensi se non potessero più campare di rendita sul mondo grazie al dollaro, moneta imperialista dei parassiti, e grazie al loro complesso militar-industriale alimentato dalle guerre opportunamente scatenate da Washington e compari.

Su questa base, passiamo agli aiuti umanitari che l'Assemblea nazionale, controllata dall'opposizione, e Juan Guaidò chiedono a gran voce di far entrare dalla frontiera colombiana, ovviamente accompagnati da militari stranieri. Un cavallo di Troia. O "cauteri su gambe di legno", come disse Jack London nel suo libro Il tallone di ferro. Visto che con un dito gli Usa intendono offrire assistenza per 20 milioni di dollari, e con un intero braccio grazie alle sanzioni causano perdite al Venezuela per 23 miliardi di dollari (mille volte tanto). 

A questi infernali rimedi, il Comitato della Croce rossa internazionale (Icrc) ha rifiutato di prestarsi. Il capo della Delegazione dell'Icrc in Colombia, Christopher Harnisch, ha affermato giorni fa che la sedicente assistenza umanitaria degli Stati uniti è un aiuto deciso da un governo e non rientra, per l'Icrc, nei criteri degli aiuti umanitari, i quali sono protetti dai principi fondamentali dell'organizzazione come l'indipendenza, l'imparzialità, e la neutralità. "Il movimento internazionale della Croce rossa e mezzaluna rossa della Colombia riafferma che per garantire la propria missione unicamente umanitaria, non può partecipare a iniziative di assistenza e distribuzione senza che ci sia il proprio accordo". E quello del governo venezuelano, riconosciuto dall'Onu. 

Ovviamente certi media approfittano dell'emergenza in Venezuela per portare avanti un altro discorso: "Il Venezuela è al collasso"; "l'appello della Croce rossa: lasciateci lavorare".

Così qui
https://www.huffingtonpost.it/2019/02/10/venezuela-al-collasso_a_23666045/ Dove si fa credere che sia Maduro a bloccare con l'esercito gli aiuti umanitari alla frontiera colombiana, mentre in realtà quel ponte (voluto da Hugo Chavez ma senza che la parte colombiana completasse la sua parte), Caracas lo blocca fin dal 2016 per impedire il traffico dei contrabbandieri e paramilitari. 

La Croce rossa insiste sulla sua possibilità di intensificare gli interventi in sostegno alla Croce rossa venezuelana, fino a 30 milioni di dollari a partire dall'hub di Panamà, ma solo se viene rispettata la neutralità dell'organizzazione. Il presidente della Croce rossa internazionale e Mezzaluna rossa Francesco Rocca, presente nel paese per negoziare con tutti gli attori in loco, rifiuta di attribuire responsabilità nella situazione di emergenza, precisando che "i soccorsi sono necessari per una popolazione stremata, a prescindere da quale sia l'origine di questa situazione".

martedì 5 febbraio 2019

Papa ad Abu Dhabi: le religioni siano sentinelle di fraternità

dalla pagina https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2019-02/papa-francesco-abu-dhabi-incontro-interreligioso-fraternita.html

Le religioni non ammettono violenza e terrorismo ma si impegnano per la pari dignità di tutti, per aiutare la riconciliazione, per essere voci degli ultimi e capaci di “smilitarizzare il cuore dell’uomo”. E’ il forte messaggio del Papa nell’Incontro Interreligioso al Founder’s Memorial di Abu Dhabi. Al termine la firma della Documento comune sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune

Benedetta Capelli – Città del Vaticano

Camminano come fratelli. E’ in questo procedere insieme di Papa Francesco e del Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyib, che si spiega il senso dell’Incontro Interreligioso sulla fraternità umana nel Founder’s Memorial di Abu Dhabi, promosso dal Consiglio Musulmano degli Anziani, con circa 700 leader di varie fedi. Il primo discorso di Papa Francesco è il cuore del viaggio negli Emirati Arabi Uniti, anche questo il primo per un Pontefice. E’ intenso, pieno di spunti, chiaro nel ribadire il valore del dialogo tra le religioni: ponti fra i popoli e le culture, “voce degli ultimi”. Netto nel condannare ogni forma di violenza nel Nome di Dio, nel sottolineare che “non si può proclamare la fratellanza e poi agire in senso opposto”, che “una convivenza fraterna” si fonda “sull’educazione e sulla giustizia”. Forte nell’appello alla pace in scenari come Yemen, Siria, Iraq e Libia e altrettanto forte, come comunità riunite insieme, nel dare “un messaggio di fiducia” per non arrendersi “ai diluvi della violenza”.

Credente assetato di pace

Si disegna così Papa Francesco, ricordando lo storico incontro, 800 anni fa, tra il fraticello di Assisi e il sultano al-Malik al-Kāmil. Pace è la parola che richiama, spiegando di aver colto l’opportunità “come fratello che cerca la pace tra fratelli”.

“Volere la pace, promuovere la pace, essere strumenti di pace: siamo qui per questo”

Una pace che va salvaguardata entrando insieme, spiega il Papa, “in un’arca che possa solcare i mari in tempesta del mondo: l’arca della fratellanza”.

Nessuna religione giustifica la violenza

Fratellanza è l’altra parola chiave su cui Francesco si sofferma essendo anche il tema dell’Incontro Interreligioso. Fratellanza intesa come “vocazione contenuta nel disegno creatore di Dio”, diceva Benedetto XVI, e così il Papa riprende il pensiero sottolineando che “tutti abbiamo uguale dignità e che nessuno può essere padrone o schiavo degli altri” perché tutti siamo preziosi agli occhi di Dio.

Nel nome di Dio Creatore, dunque, va senza esitazione condannata ogni forma di violenza, perché è una grave profanazione del Nome di Dio utilizzarlo per giustificare l’odio e la violenza contro il fratello. Non esiste violenza che possa essere religiosamente giustificata.

Fraternità nella diversità

Il Papa ricorda che il nemico della fratellanza è l’individualismo e così “ciascun credo è chiamato a superare il divario tra amici e nemici, per assumere la prospettiva del Cielo, che abbraccia gli uomini senza privilegi e discriminazioni”. Francesco esprime apprezzamento per l’impegno degli Emirati Arabi Uniti nel garantire la libertà di culto, un modo anche per vigilare affinché “la religione non venga strumentalizzata e rischi, ammettendo violenza e terrorismo, di negare sé stessa”. La fratellanza – spiega ancora il Papa – esprime la molteplicità e la differenza, il giusto atteggiamento non è “non è né l’uniformità forzata, né il sincretismo conciliante” ma comportarsi da fratelli.

Quel che siamo chiamati a fare, da credenti, è impegnarci per la pari dignità di tutti, in nome del Misericordioso che ci ha creati e nel cui nome va cercata la composizione dei contrasti e la fraternità nella diversità.

Riconoscere l’altro

È il dialogo costante, quotidiano ed effettivo l’altro accento che tocca Francesco per custodire la famiglia umana. Parla di “coraggio dell’alterità” che comporta “il riconoscimento pieno dell’altro e della sua libertà” e l’impegno a spendersi perché “i diritti fondamentali siano affermati sempre, ovunque e da chiunque”.

Perché senza libertà non si è più figli della famiglia umana, ma schiavi. Tra le libertà vorrei sottolineare quella religiosa. Essa non si limita alla sola libertà di culto, ma vede nell’altro veramente un fratello, un figlio della mia stessa umanità che Dio lascia libero e che pertanto nessuna istituzione umana può forzare, nemmeno in nome suo. La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione. Il pluralismo e la diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua, sono una sapiente volontà divina con la quale Dio ha creato gli esseri umani.

Preghiera, ricostituente di fraternità

In questa definizione, il Papa sottolinea che il futuro del dialogo interreligioso è proprio la preghiera tra fratelli, l’armonia della diversità per assolvere al “compito urgente di costruire ponti fra i popoli e le culture”:

È giunto il tempo in cui le religioni si spendano più attivamente, con coraggio e audacia, senza infingimenti, per aiutare la famiglia umana a maturare la capacità di riconciliazione, la visione di speranza e gli itinerari concreti di pace.

Educazione e giustizia, le ali della pace

Conoscere il fratello – sottolinea Francesco – è la base per formare identità aperte, “capaci di vincere la tentazione di ripiegarsi su di sé e irrigidirsi”. Educare vuol dire disinnescare i semi di violenza, l’odio e il pregiudizio. La giustizia è legata indissolubilmente alla pace per tanto le religioni hanno il compito di ricordare che l’avidità e il profitto rendono il cuore inerte e che le leggi di mercato non aiutano “l’incontro, il dialogo, la famiglia”.

“Le religioni siano voce degli ultimi, che non sono statistiche ma fratelli, e stiano dalla parte dei poveri; veglino come sentinelle di fraternità nella notte dei conflitti, siano richiami vigili perché l’umanità non chiuda gli occhi di fronte alle ingiustizie e non si rassegni mai ai troppi drammi del mondo”

L’indifferenza non guarda al domani

Guardando al deserto, al suo fiorire, al suo essere sviluppo per il Paese, Francesco ricorda che quando si è indifferenti all’altro non c’è progresso reale e duraturo. “L’indifferenza – afferma - impedisce di vedere la comunità umana oltre i guadagni e il fratello al di là del lavoro che svolge. L’indifferenza, infatti, non guarda al domani; non bada al futuro del creato, non ha cura della dignità del forestiero e dell’avvenire dei bambini”.

I semi di pace

Altro compito che il Papa indica per le religioni è quello di far germogliare semi di pace come: “una convivenza fraterna, fondata sull’educazione e sulla giustizia; uno sviluppo umano, edificato sull’inclusione accogliente e sui diritti di tutti”. Oggi l’urgenza per Francesco è “contribuire attivamente a smilitarizzare il cuore dell’uomo”:

La corsa agli armamenti, l’estensione delle proprie zone di influenza, le politiche aggressive a discapito degli altri non porteranno mai stabilità.

“La guerra non sa creare altro che miseria, le armi nient’altro che morte!”

Fiducia nel nostro essere insieme

Francesco, in chiusura del suo discorso, rimarca “il dovere di bandire ogni sfumatura di approvazione dalla parola guerra”. Nel suo cuore ci sono le nefaste conseguente di tanti conflitti e la necessità di dare insieme un messaggio di fiducia “ai diluvi della violenza” e alla “desertificazione dell’altruismo”. “Dio – spiega - sta con l’uomo che cerca la pace”:

Penso in particolare allo Yemen, alla Siria, all’Iraq e alla Libia. Insieme, fratelli nell’unica famiglia umana voluta da Dio, impegniamoci contro la logica della potenza armata, contro la monetizzazione delle relazioni, l’armamento dei confini, l’innalzamento di muri, l’imbavagliamento dei poveri; a tutto questo opponiamo la forza dolce della preghiera e l’impegno quotidiano nel dialogo.

A conclusione la firma congiunta del Papa e del Grande Imam del Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune. Una firma alle spalle della installazione "The Constellation" che riproduce in modo tridimensionale il volto del fondatore degli Emirati Arabi, Sheikh Zayed bin Sultan, sottolineata da una pioggia di foglie e dalla musica, a suggello di un momento di incontro, di abbraccio nel riconoscersi figli di Dio.

lunedì 4 febbraio 2019

Clima: marcia globale del 15 marzo

da il manifesto Edizione del 1 febbraio 2019
dalla pagina https://ilmanifesto.it/lo-sciopero-del-venerdi-della-generazione-verde/


Lo sciopero del venerdì della generazione verde
Clima. «FridayForFuture», migliaia di studenti rispondono all’appello di Greta Thunberg. Il movimento cresce e si prepara alla marcia globale del 15 marzo
Se per salvare il clima decine di migliaia di studenti si mobilitano in Belgio, Germania, Svizzera e altri paesi, è probabile che i giovani saranno al centro della Marcia globale prevista il 15 marzo in quaranta paesi del mondo per chiedere un vero cambiamento nelle politiche ambientali.
Ha evidentemente fatto scuola la studentessa svedese Greta Thunberg, che un venerdì dello scorso agosto iniziò a manifestare per il clima davanti alla sede del Parlamento con il cartello «sciopero della scuola per il clima». In settembre sul suo profilo twitter (dove si definisce «attivista per il clima, sedicenne con sindrome di Asperger») lanciò un appello intitolato FridaysForFuture (i venerdì per il futuro). In seguito è diventata un’icona mondiale, anche grazie ai social media e alla sua capacità di distinguere nettamente fra bianco e nero, mentre le organizzazioni ambientaliste sono obbligate a occuparsi dei problemi in modo complesso.
Greta ha parlato in plenaria alla Conferenza dell’Onu sul clima a Katowce (Polonia), nel dicembre 2018, tirando le orecchie ai leader mondiali, chiedendo di «lasciare i combustibili fossili sottoterra» e «mettere al centro l’equità». Qualche giorno fa è arrivata, dopo un lungo viaggio in treno (l’aereo è di gran lunga più pesante in termini di emissioni di gas serra), al forum economico mondiale di Davos. Il Gotha politico ed economico del mondo ha ascoltato con attenzione il suo duro messaggio: «Qui a Davos parlate di storie di successo, ma il successo finanziario ha avuto un prezzo molto alto», «voglio che andiate nel panico, che sentiate la paura che sento io ogni giorno» e «occorre agire come se la casa stesse andando a fuoco perché così è». Il Forum, del resto, cerca la quadratura del cerchio: crescita economica e compatibilità ambientale.
Ma oltre che alle orecchie dei potenti, le parole di Greta sono arrivate a giovani, adolescenti e adulti che da qualche tempo, in piccoli o grandi gruppi, hanno cominciato a darsi appuntamento il venerdì nelle strade o davanti a palazzi istituzionali per protestare contro la mancanza di azione rispetto al cambiamento climatico. Li guidano e li radunano gli immancabili hashtag: su #SchoolStrike4Climate, la stessa Greta informa sui 30.000 studenti in sciopero in Belgio; mentre Flossie dall’Irlanda spiega che il 15 febbraio tutta la sua scuola e altre saranno in sciopero («Siamo un piccolo paese ma teniamo all’ambiente»). Da Zeist nei Paesi bassi si invitano gli studenti al ventunesimo sciopero scolastico. A Exeter (Regno Unito) lo sciopero sarà il 15 febbraio: «Se migliaia di ragazzi diventeranno milioni, tutti capiranno le conseguenze della crisi climatica e la trasformazione della società umana sarà radicale».
Anche l’Italia si muove. Da alcune settimane ragazze e ragazzi, ma anche cittadine e cittadini, senza bandiere di partito, si ritrovano in varie città ogni venerdì, guidati dagli hashtag #FridaysForFuture e #ClimateStrike – dal momento che gli appuntamenti corrono soprattutto sui social. Oggi in particolare si tengono sit-in a Pisa, Milano, Roma, Brescia, Bologna, Venezia, Roma, Torino, Genova, Taranto.
Non è che l’inizio. La strada non sarà facile. Due tweet di Greta in rapida successione sono eloquenti. Il primo spiega che, secondo un sondaggio, ben il 61% delle persone in Germania sostiene FridayForFuture e SchoolStrike4Climate. Il secondo si rammarica: in Germania la cosiddetta Commissione per il carbone (Commissione tedesca sulla crescita, il cambiamento strutturale e il lavoro) sostiene che la Germania potrà continuare a bruciare carbone fino al 2038.


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da il manifesto Edizione del 1 febbraio 2019
dalla pagina https://ilmanifesto.it/in-italia-la-strada-e-lunga/

In Italia la strada è lunga

di Monica Frassoni co-presidente del Partito Verde Europeo

Nonostante in Italia assuma subito un significato da controllo del traffico non c’è dubbio che la definizione “onda verde” sia senza dubbio la più appropriata per descrivere la crescente presa di coscienza che gli sconvolgimenti del clima non saranno un problema lontano bensì una possibile catastrofe o una opportunità qui e adesso.
Dall’estate rovente e instabile, ai rapporti sempre più circostanziati, concreti e comprensibili di migliaia di scienziati, ai successi dei Partiti verdi in varie parti di Europa che si sono fatti trovare pronti con proposte, organizzazione e leader adeguati, al rilievo mediatico dello sciopero del clima della durissima e incrollabile Greta (che dubito avrebbe avuto la stessa eco se fosse stata di Messina o Madrid invece che svedese), alla delusione del topolino partorito in mondovisione dalla Cop di Katowice, all’opera di decine di insegnanti e studenti che hanno trovato nello sciopero climatico un modo molto concreto per trovare una espressione collettiva di un’inquietudine spesso individuale: è evidente che il tema dei cambiamenti climatici e di come fermarli dilaga.
Nel corso di tre settimane gli studenti che si sono attivati in Belgio per lo sciopero del clima sono passati da 3.000 a 35.000 solo a Bruxelles e sono i volti sorridenti di due ragazze, una francofona e una fiamminga che rappresentano con parole chiare e sagge, ma senza semplificazioni banali, il senso della
Mobilitazione che è quella di trasmettere il senso dell’estrema urgenza dell’azione.
Se perfino in Italia sembra che una coscienza su questi temi potrebbe crescere, non significa che siamo già sulla buona strada per affrontarli in modo vincente. Anzi. Il passaggio dalla coscienza all’azione è complicato e suppone una mobilitazione di tutti i settori della società. La mobilitazione spontanea e sistematica degli studenti e dei cittadini è indispensabile certo.
Anche perché non è, ripeto, una pura protesta. Si riempie di contenuti, di parole d’ordine, di storie, di iniziative diffuse e diverse. Di ragazzi e ragazze che studiano e approfondiscono un tema complicato. Ma non basta.
Ci vogliono la sensibilità dei media di dare spazio a questi temi, preparazione e capacità di analisi su fatti e dati degli scienziati e delle ong, ci vogliono soluzioni tecnologiche e la creazione di nuovi prodotti, nuovi mercati e nuovi lavori delle imprese, la capacità della politica e delle istituzioni, ma anche di sindacati e forze sociali, di lasciarsi alle spalle favori e miliardi per imporre una transizione giusta che protegga i più deboli; evidentemente non ci siamo ancora.
Se oggi il candidato Pd Zingaretti non trova lo spazio di citare i cambiamenti climatici fra i punti chiave da discutere con Conte; se ancora Calenda dice pubblicamente che il gas non inquina e un personaggio alla moda come Bentivogli dice che la mobilità elettrica non va bene perché ci ritroveremmo a comprare auto straniere sottovalutando l’eccellenza italiana in bici scooter e bus elettrici e soprattutto pretendendo di fermare il tempo, capiamo che in Italia studenti e ambientalisti hanno un compito più difficile che altrove.
È un compito immane. Ma Una sfida bellissima. Che ci coinvolge tutti e tutte, quando spegniamo la luce ma anche quando consumiamo, ci muoviamo o votiamo. Una sfida che si può ancora vincere. Per poco.