Non ci sono più i dibattiti da spiaggia di una
volta. Oggi il sistema dei media ci obbliga a parlare di «burkini» in
salsa «scontro di civiltà» perché bisogna per forza suscitare rabbia,
scandalo e paura. Il pretesto ce lo danno alcuni comuni costieri
d’Oltralpe, Cannes in testa, i quali, in pieno stato d’emergenza, hanno
ben pensato di proibire un costume da bagno integrale femminile – il
burkini, appunto.
Diversi commenti apparsi di recente criticano la
misura in una prospettiva di genere: fino a ieri si considerava
inopportuno l’abbigliamento troppo corto; oggi anche il troppo lungo può
essere sanzionato dalla pubblica autorità. L’impressione è che diversi
modelli culturali si confrontino utilizzando il corpo femminile come
campo di battaglia. Tanto chi copre quanto chi scopre ritiene legittimo
regolare l’abbigliamento della donna, con conseguente limitazione della
libertà individuale.
C’è però un altro aspetto su cui vorrei
soffermarmi: il divieto in questione viene giustificato dal Comune di
Cannes in base al principio costituzionale della laicità. La base legale
del provvedimento è un atto comunale che vieta l’accesso alle spiagge a
chi non abbia un abbigliamento “corretto, rispettoso del buon costume e
della laicità”. Si tratta d’un aspetto che merita una riflessione. Sono
infatti convinto che l’interpretazione del principio di laicità alla
base del provvedimento sia sbagliata e arbitraria.
Per iniziare, il principio di laicità non richiede
all’individuo un atteggiamento imparziale rispetto alla religione. Se
esso implica che lo Stato mantenga un atteggiamento di equidistanza ed
imparzialità rispetto alle diverse confessioni e credenze religiose, gli
individui hanno invece tutto il diritto di essere di parte, di
abbracciare la fede che preferiscono, e di dimostrare la loro
appartenenza indossando ciò che vogliono. La laicità non produce insomma
alcun obbligo individuale alla neutralità. Anzi, storicamente, la
separazione tra chiesa e Stato è stata concepita come garanzia di
pluralismo religioso e libertà di culto. L’imparzialità dello Stato è
dunque funzionale alla libera “parzialità” degli individui, alla libertà
di avere convinzioni soggettive e di comunicarle agli altri, anche
mediante l’esposizione di simboli.
Ora, se quest’idea ha potuto essere deformata fino
al punto di fondare il divieto di indossare un abito avente una
connotazione religiosa, ciò è probabilmente dovuto a quel processo di
mistificazione denunciato a più riprese dal sociologo e storico
Baubérot: oggi, nel discorso politico e dei media, quando si parla di
laicità, il “pubblico” non è più identificato con lo Stato, ma con la
“sfera pubblica”, ossia lo spazio in cui le persone interagiscono,
definito in opposizione alla nozione di “sfera intima”. In tale
prospettiva, la laicità non impone più l’equidistanza dello Stato, ma la
neutralità degli individui rispetto alla religione, con conseguente
obbligo di occultare ogni espressione visibile della propria
religiosità. Si passa da un principio posto a garanzia del pluralismo
all’imposizione di una “neutralità” di Stato coincidente con una sorta
di secolarizzazione consumista di mercato. Invece di tutelare le
minoranze, questa “laicità falsificata” impone per legge la concezione
di normalità della maggioranza.
Questo processo si spiega in parte con la tendenza
a leggere il rapporto tra religioni e Stato in chiave di “scontro di
civiltà”, ossia seguendo la logica del “noi/loro” piuttosto che una
prospettiva pluralista. Le società occidentali vengono quindi descritte
come “società laiche”, in opposizione alle società dei “paesi islamici”.
In quest’ottica, si fa coincidere la laicità con la secolarizzazione
della società. Si tratta tuttavia di un equivoco: le nostre società non
sono “laiche”, ma pluraliste grazie alla laicità dello Stato, il che è
ben diverso!
L’opposizione noi/loro spiega anche l’applicazione
selettiva del principio di laicità che soggiace al divieto del burkini.
Un’applicazione non discriminatoria dell’ordinanza del Comune di Cannes
obbligherebbe infatti a sanzionare chiunque in spiaggia ometta di
neutralizzare la propria religiosità. Eppure da sempre suore, cori
religiosi, e colportori vari scorrazzano per i lungomare europei, senza
che ciò abbia mai costituito un problema particolare. È evidente che il
divieto in questione è finalizzato a colpire il recente diffondersi del
burkini, un simbolo collegato alla religione islamica, in una fase
storica di forte ostilità di una parte della società verso le persone di
fede musulmana. E mentre ci si affanna a trovare criteri per
distinguere il burkini dall’abito monacale o dalla croce greca e
giustificare così l’applicazione asimmetrica del principio di laicità,
l’unico criterio convincente sembra essere la distinzione “noi/loro”:
preti e suore sono accettabili perché sono i “nostri”, il burkini è
degli altri, e va vietato.
Con ciò, non voglio ignorare gli argomenti di chi
vede in certi tipi d’abbigliamento il simbolo dell’oppressione della
donna in determinati contesti culturali. Eppure, penso che neppure
questo argomento possa giustificare il divieto di cui parliamo (e del
resto non chiederei allo Stato di proibire i testi cristiani che
postulano la sottomissione della moglie al marito, o i monasteri di
clausura). Per iniziare, non si può presumere che le donne che portano
il burkini siano tutte prive della possibilità o della capacità di
scegliere liberamente cosa indossare. Sarebbe paternalistico imporre una
tenuta che riteniamo meno lesiva della dignità personale contro la
volontà delle persone interessate. Ma anche a prescindere da questo, non
si comprende l’impazienza di sanzionare e mettere alla gogna le
presunte vittime del sistema che si intende combattere. Non si sconfigge
il sistema delle caste multando i paria, o lo sfruttamento della
prostituzione sanzionando chi è costretto prostituirsi: lo stesso vale
per la violenza di genere ed il maschilismo di varia matrice. È evidente
che la soluzione non passa per il divieto di un certo abbigliamento e
la punizione di chi non lo rispetta, ma consiste nel rendere tutte le
donne davvero libere di scegliere, garantendo sicurezza personale e
sostegno (economico, psicologico, legale, ecc.) a chi rischia di pagare
un caro prezzo per la propria autodeterminazione. Di questo, però, i
fautori del divieto e dello scontro di civiltà non parlano.