domenica 31 marzo 2019

Per conoscere Elisa Salerno ...

... sito di Presenza Donnaassociazione di religiose, religiosi, laiche, laici e preti che opera per la promozione e la formazione delle donnepresdonna.it/

... Centro Documentazione e Studi Presenza Donna
libri, riviste, altri media e, in particolare, libri e tesi di laurea su Elisa Salerno, raccolti e custoditi nella Biblioteca del Centro Documentazione, ora ricercabili anche alle pagine:
  • binp.regione.veneto.it di BinP - BibliotecheinPolo 
  • iccu.sbn.it di ICCU - Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle Biblioteche Italiane e per le informazioni bibliografiche

... due libri in particolare: 


Elisa Salerno: eresia o nuova Pentecoste? 
Una vicenda di femminismo cattolico
di Michela Vaccari, Il Pozzo di Giacobbe ed.

Elisa Salerno, nata e vissuta a Vicenza negli anni 1873-1957, è una donna poliedrica: scrittrice, giornalista, romanziera, mistica cattolica e femminista. Sono alcune delle prerogative che la rendono una pagina inedita nel panorama della storia italiana, religiosa e laica. Tanto è sconosciuta quanto interessante quando ci si avvicina ai suoi scritti: dalle sue pagine emergono riflessioni sorprendenti se si considera che a scrivere è una donna, cattolica, vissuta in una provincia del Nord Italia, senza titoli di studio né opportunità di frequentare circoli culturali da cui attingere idee e prospettive di ricerca e studio. Elisa Salerno ardisce coniugare femminismo e cattolicesimo, binomio ritenuto antitetico, e non smette di ripetere la sua appartenenza ecclesiale anche quando le sarà chiesto di scegliere tra la fede e un femminismo sospettato di modernismo. Decide di non rinunciare alla sua battaglia né di estraniarsi dalla Chiesa, ma rafforza la comunione con essa attraverso la vita sacramentale e le relazioni schiette con gli uomini di Chiesa. In questo suo "rimanere dentro”, le vicende della Chiesa si intrecciano con quelle della "causa santa della donna”. 


Elisa Salerno
di Annalisa Lombardo, maria pacini fazzi editore, 2019

Elisa Salerno, (Vicenza, 1873-1957), fu pensatrice, studiosa, teologa, editrice e giornalista, scrittrice saggista e romanziera, imprenditrice, anticipatrice delle istanze del femminismo nella società e in particolare nel mondo del lavoro e nella chiesa. Comprese in anticipo il valore dei mezzi di comunicazione di massa e la rilevanza che essi avrebbero potuto avere per l'emancipazione femminile.


giovedì 28 marzo 2019

La natura è un campo di battaglia. Saggio di ecologia politica

dalla pagina https://ilmanifesto.it/unecologia-politica-che-mette-in-discussione-il-capitalismo/

Un’ecologia politica che mette in discussione il capitalismo
Scaffale. «La natura è un campo di battaglia» di Razmig Keucheyan per Ombre corte. L'analisi del sociologo francese si snoda lungo tre grandi direttive: il razzismo ambientale, la finaziarizzazione della natura e la militarizzazione dell’ecologia
Ormai è impossibile negarlo: siamo immersi in una crisi ecologica di proporzioni inaudite. Ciò che invece è ancora poco compreso – anche dalla stragrande maggioranza, più bianca che verde, dei movimenti ambientalisti – è che sull’orlo del baratro non ci ha portato quell’universale astratto che risponde al nome di «umanità», ma quell’universale concreto che si chiama capitalismo.
QUESTA È LA TESI che innerva La natura è un campo di battaglia di Razmig Keucheyan appena tradotto per i tipi di Ombre corte (pp. 168, euro 15). La natura, infatti, «non sfugge ai rapporti di forza sociali», anzi «è la più politica tra le entità» non fosse altro perché il capitalismo non potrebbe pensarsi senza l’appropriazione del lavoro della natura e di chi naturalizza (schiavi, donne e animali). A partire da questa prospettiva, l’ecologia politica del sociologo francese si snoda lungo tre grandi direttive: il razzismo ambientale, la finaziarizzazione della natura e la militarizzazione dell’ecologia.
Razzismo ambientale è un modo per esprimere con chiarezza che le conseguenze della crisi ecologica non colpiscono – e, almeno per un bel po’, non colpiranno – uniformemente tutti gli appartenenti alla specie Homo sapiens – per non parlare degli altri viventi animali -, ma certe classi più di altre, come testimoniano, ad esempio, la localizzazione delle discariche di rifiuti tossici nei pressi della aree urbane più povere e marginalizzate o la prevalenza dei neri tra le vittime dell’uragano Katrina. Preso atto che la natura costituisce un ulteriore asse di distribuzione dei rapporti di forza e che le disuguaglianze ambientali non potranno che aumentare nel prossimo futuro, Keucheyan, invece di unirsi agli appelli fuorvianti secondo cui potremmo gestire il cambiamento climatico superando le divisioni di classe, genere e razza, passa ad analizzare i meccanismi che il capitalismo mette in atto per governare la crisi ecologica a proprio vantaggio.
Il primo di questi meccanismi è la finanziarizzazione della natura che è cresciuta esponenzialmente con l’aumentare del degrado ambientale. Come può l’impresa capitalista assicurare i propri beni e le proprie merci nel momento in cui il cambiamento climatico può causare danni enormi, correlati e difficilmente prevedibili nel tempo e nello spazio? Semplice: realizzando un sistema globalizzato di distribuzione dei rischi – con l’invenzione, tra gli altri, dei «derivati climatici» e delle «obbligazioni catastrofe» -, sistema che coinvolge anche gli Stati con la consueta funzione di collettivizzare i costi e di sorvegliare che la privatizzazione dei profitti prosegua indisturbata. La finanziarizzazione della natura è il più fulgido esempio contemporaneo della plasticità auto-rigenerativa del capitalismo di fronte alle sue stesse contraddizioni, in quanto «protegge l’investimento dalle conseguenze del cambiamento climatico e consente nel contempo di trarne profitto».
IL SECONDO MECCANISMO analizzato da Keucheyan è quello della militarizzazione dell’ecologia. «Nei ragionamenti dei militari» il cambiamento climatico non può che essere interpretato come «moltiplicatore di minacce» che, pertanto, necessita dell’intervento sempre più massiccio di «specialisti del caos». Al pari del precedente, anche questo meccanismo opera a livello transnazionale mobilitando, esattamente come nel caso del terrorismo, la retorica della sicurezza collettiva e la violenza materiale dell’apparato militar-industriale dell’Occidente. Con il crescere del disastro ambientale, la cornice capitalista non può che prevedere una sorta di guerra verde permanente per poter difendere i privilegi delle élite di fronte a moltitudini sterminate a cui manca o mancherà, letteralmente, la terra sotto ai piedi.
Ecco spiegato perché, per parafrasare Mark Fisher, ci è più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo: «il capitalismo non morirà di morte naturale» in quanto «non solo è capace di adattarsi alla crisi ambientale, ma anche di trarne vantaggio». Certo, forse non per sempre. Ma, piuttosto che affidare le sorti nostre e del mondo a una qualche forma di destinalità religiosa, non sarebbe ora di «politicizzare la crisi», di sottrarre il nostro destino alle mani del capitale?

giovedì 21 marzo 2019

Siccità e inondazioni in Kenya. La furia del ciclone in Mozambico, Malawi e Zimbabwe

dalla pagina https://ilmanifesto.it/siccita-e-inondazioni-il-ciclo-letale-in-kenya-un-milione-di-vite-a-rischio/

Siccità e inondazioni, il ciclo letale. In Kenya un milione di vite a rischio

Allarmi inascoltati. L'emergenza si ripropone al nord, dove l'80% dei residenti vive sotto la soglia di povertà

di 

Correva l’anno 2017 quando una grande siccità metteva a rischio la vita di oltre tre milioni di keniani, poi arrivò maggio 2018 e la vita degli abitanti della Rift Valley fu sconvolta da inondazioni che causarono almeno 100 morti e 242 mila sfollati.
SIAMO A MARZO 2019 e il tandem sembra ripetersi: la siccità sta mettendo a rischio la vita di più di un milione di persone in 12 delle 47 contee del Kenya.
Siccità e inondazioni determinano l’erosione dei suoli, ne impoveriscono la fertilità e di conseguenza la produttività (un recente studio indica la tendenza al ribasso di tutti i principali parametri di fertilità: il 45% dei terreni risulta acido, con carenze di azoto, fosforo e zinco). Non c’è humus, i terreni non trattengono l’umidità: la conseguenza è l’arrivo della siccità subito dopo le piogge: di conseguenza la produzione sia alimentare che vegetale è del 30% al di sotto della media. L’altro effetto è la perdita di impieghi nel settore agricolo che da solo garantisce il 42% dei posti di lavoro in buona parte piccoli agricoltori che da soli contribuiscono al 75% della produzione agricola totale. Questo alternarsi di siccità interrotte da inondazioni si è verificato nel 2004, 2006, 2009, 2011, 2014, 2016, 2017, 2018.
L’EPICENTRO DEL PROBLEMA è sempre il nord del Paese (Turkana, Isiolo, Garissa, Wajir, Kilifi, Baringo, Marsabit, fiume Tana, Samburu, Mandera, Kitui e Makueni), ma tra le 12 contee c’è anche Kajado che coincide con la vasta periferia della capitale. Tutte zone dove abitualmente l’80% dei residenti vive sotto la soglia di povertà, persone che non hanno scorte alimentari o di acqua, che vivono solo di pastorizia e quando la pioggia non arriva si muovono, seguono le stagioni, vanno alla ricerca di pozzi, si scontrano con altri gruppi per difendere pascoli e sorgenti, ma a un certo punto, dopo aver seguito ogni possibile itinerario si fermano e aspettano, perché l’unica cosa da fare e sperare nella pioggia. L’unica cosa che come l’amore non sceglie l’erba su cui cadere.
La National Drought Management Authority, autorità per la gestione della siccità, ha lanciato un appello dopo che oltre agli animali sono morte anche le persone. Il governo ha stanziato 1,35 miliardi di scellini (13,4 milioni di euro) per fornire aiuti alle popolazioni. Il vicepresidente del Kenya, William Ruto, ha dichiarato da Nairobi che «si tratta di una situazione ricorrente, ma non grave come l’anno scorso».
I TURKANA tramite uno dei loro leader, Francis Loropiyae, sostengono che avevano lanciato l’allarme nelle scorse settimane, ma nessuno li aveva presi sul serio: «Ci dicevano che stavamo mentendo». I primi anziani hanno iniziato a morire secondo quanto riferito dal chief di Kositei Jack Ronei «almeno 4 persone sono morte in conseguenza della fame e insieme a loro anche centinaia di animali». Ma questo è solo la parte più estrema del problema perché «quelli che sono vivi sopravvivono mangiano frutti selvatici come il sorich, che deve essere bollito per molte ore prima di eliminare il veleno e renderlo commestibile, anche se soprattutto, i bambini e gli anziani, dopo averlo mangiato soffrono di diarrea e vomito, ma non hanno scelta perché non c’è altro». A peggiorare la situazione sono arrivate le cavallette.
Il governo ha fatto arrivare i primi sacchi di mais e fagioli. Per Noellah Musundi della Croce rossa internazionale «non dovremmo mai permetterci di arrivare a questo punto».
-------------
La furia del ciclone Idai colpisce duro il Mozambico

Si temono oltre mille morti. La città di Beira distrutta al 90%. È emergenza anche in Malawi e Zimbabwe. E le prossime ore saranno critiche perché il livello delle acque è destinato a salire


Comunicazioni interrotte, ponti sbriciolati, intere città investite prima da raffiche di vento a 170 km orari, poi sommerse dall’acqua e dal fango per effetto delle piogge torrenziali che hanno fatto impazzire i fiumi; centinaia di migliaia di persone prive di rifornimenti, assistenza medica ed energia elettrica da giovedì scorso.
DA QUANDO CIOÈ IL CICLONE «Idai» si è abbattuto sulla costa centrale del Mozambico e ha proseguito la sua corsa verso l’interno, flagellando per giorni tutta la regione e causando inondazioni, distruzione, morte anche in Malawi e in Zimbabwe. Con un bilancio di vittime drammatico, che al momento è possibile solo ipotizzare. E localizzare come sempre nelle periferie urbane più degradate, nelle bidonville di lamiera o nei villaggi rurali più remoti, tra le fasce particolarmente fragili della popolazione civile.
IERI LE CIFRE UFFICIALI parlavano di circa 100 morti e 200 dispersi in Zimbabwe, quasi tutti nel distretto di Chimanimani, dove i soccorsi sono complicati dal crollo di ben 8 ponti; il bilancio in Malawi è invece di 56 vittime, centinaia di feriti e circa 90 mila sfollati.
Per il Mozambico ieri il conto era fermo a 84, ma già lunedì il presidente Filipe Nyusi rilevava come tutto facesse pensare a un numero di vittime superiore a mille. Le foto aeree e satellitari della regione colpita, per ora unici occhi aperti sulla tragedia, restituiscono in effetti un quadro agghiacciante: infrastrutture, aziende agricoli, villaggi e interi quartieri spazzati via.
PARTICOLARMENTE GRAVE appare la situazione nella città costiera di Beira, il quarto centro urbano del paese con quasi 500 mila abitanti, che risulta distrutto al 90% e con l’Ospedale centrale in buona parte fuori uso. In queste ore sono attese tre navi con cibo e medicine inviate dal governo indiano. Anche la Cina, che proprio a Beira stava per investire 120 milioni di dollari nel nuovo porto e sulle potenzialità del Mozambico con i suoi 3 mila km affacciati sull’Oceano Indiano crede molto, ha subito predisposto degli aiuti per i tre paesi sconvolti dal ciclone. Un aereo italiano è partito base Onu di Brindisi con un carico di attrezzatura di primo soccorso e assistenza.Da ieri sono a Beira anche delle squadre di soccorritori inviate dal vicino Sudafrica.
E Il governo mozambicano ha spostato qui la riunione d’emergenza che era prevista ieri nella capitale Maputo e si è poi protratta fino a tarda sera. Notizie frammentarie arrivano dal resto della provincia di Sofala, la più duramente colpita.
IN TOTALE SONO QUASI 2 MILIONI le persone coinvolte nell’emergenza e le prossime 48 ore saranno ancora critiche per il livello delle acque che in molte zone è destinato a salire ulteriormente, come fa sapere l’Ufficio di coordinamento degli affari umanitari dell’Onu (Ocha). Ad alto rischio sono i bacini dei fiumi Buzi e Pongoe e ancora i quartieri periferici della stessa Beira e di Dondo, importante centro dell’interno.

giovedì 14 marzo 2019

Giovani in piazza per salvare il pianeta

dalla pagina https://www.avvenire.it/attualita/pagine/giovani-in-piazza-per-salvare-il-pianeta

Daniela Fassini mercoledì 13 marzo 2019

Arriva anche in Italia il Global strike, lo sciopero dei giovanissimi per la difesa dell'ambiente. Attesi domani cortei in 140 città. E per una volta, i politici non avranno la parola

Riccardo, 13 anni, frequenta la scuola media. Francesca, 18 anni il liceo classico. Martina, 18 anni, il linguistico. Luca, 20 anni va all’università, come Federica, 24 anni. Sono solo alcuni dei giovani studenti che da qualche settimana, ogni venerdì, hanno aderito ai Fridays for future (i venerdì per il futuro, ndr) il movimento verde della giovane e ormai icona mondiale Greta Thunberg. Anche domani scenderanno in piazza per il primo Global strike, lo sciopero mondiale per chiedere ai politici un cambio di marcia. Provvedimenti per fermare il surriscaldamento del pianeta e contrastare i cambiamenti climatici. Rispetto all’onda verde che ha invaso l’Europa e il mondo intero, il movimento dei Fridays in Italia è arrivato più tardi (i primi presìdi del venerdì risalgono a fine dicembre). Ma in un paio di mesi ha già raccolto centinaia di attivisti. Tutti giovani, molti adolescenti (ma anche più piccoli) sostenuti dai genitori e dagli insegnanti. Tanto che in molte scuole, sono stati gli stessi dirigenti scolastici a diramare la circolare per informare e sostenere lo sciopero globale per il clima di domani.
«L’invito è di scendere in piazza» si legge ad esempio sulla circolare del Liceo scientifico Morgagni di Roma. Ma non ci si limita ad annunciare la protesta. La dirigente scolastica, infatti, invita i docenti a far vedere agli studenti due documentari, "Sei gradi possono cambiare il mondo" e "Before the flood - punto di non ritorno".
Intanto c’è fermento sul web. Da dove tutto è partito. Appuntamenti, presidi, incontri e dibattiti si rincorrono sui social e su WhatsApp. A Roma sono 50 gli utenti "attivisti" che animano 20 gruppi di messaggistica. «Si tratta di giovani che si sono mossi autonomamente – spiega Gianfranco – e che da giorni si stanno organizzando per la manifestazione di domani». In piazza non ci saranno sigle, l’unica ammessa è quella del Global strike.

continua...
---------------------------

dalla pagina https://ilmanifesto.it/sul-clima-il-movimento-del-futuro/

Il fatto della settimana. Parlano i giovani promotori delle manifestazioni in tutta Italia: «Difendiamo la Terra dai Grandi che la distruggono» In piazza anche prof e genitori

di Linda Maggiori

Anche nelle città italiane si espande la protesta studentesca contro il riscaldamento globale, sull’esempio di Greta Thunberg, sedicenne svedese, che a fine agosto 2018 aveva iniziato lo «sciopero scolastico per il clima». Greta continuò lo sciopero per tre settimane, poi ogni venerdì mattina. «Dite di amare i vostri figli sopra ogni cosa, invece gli state rubando il futuro», disse ai governanti di tutto il mondo, riuniti a Katowice, in Polonia, nel dicembre 2018. Poi, rivolta ai suoi coetanei, chiese loro di unirsi alla protesta con l’hashtag #Fridaysforfuture, #Climatestrike. Dalla Svezia, al Belgio alla Germania, dalla Francia all’Italia, ma anche oltreoceano, in tutto il mondo, milioni di ragazzi scendono in piazza ogni venerdì.

«Ero dormiente, finché ho sentito Greta parlare», racconta la ventenne Silvia Rigo del gruppo Fridays for future di Trento. «Greta è stata il primo lume, la prima fiammella, che ha incendiato la nostra generazione e non solo, non stavamo aspettando altro».
Universitari e liceali, ragazzini delle medie, ma anche i piccoli delle elementari, genitori, insegnanti, giovani e meno giovani, con cartelli e striscioni, protestano contro l’inerzia della politica. L’appuntamento che si danno è ogni venerdì, per poi confluire nel grande sciopero globale del 15 marzo. C’è chi è alla prima militanza ambientalista, e chi, come Aran Cosentino, nonostante i suoi 16 anni, ha già lottato per l’ambiente: «Sono cresciuto nella Valle del Natisone, in mezzo al bosco. Lo scorso anno mi sono battuto per salvare il torrente vicino casa,l’Alberone, uno degli ultimi torrenti alpini incontaminati in Italia, dal progetto di una centralina idroelettrica». Ci spiega: «Io non sono contro l’energia idroelettrica, ma in questo caso il progetto era inutile e dannoso, mi sono documentato, ho raccolto firme, e così è stato bloccato». Da gennaio Aran è entrato nel coordinamento nazionale del Fridays for Future e ogni venerdì si unisce ai giovani in piazza a Udine.

Anche Mia, 10 anni, domani andrà a manifestare in piazza a Vercelli. Seria e concentrata, spiega che «i grandi hanno fatto molti errori e stanno distruggendo la Terra, che è la nostra casa, l’unica che abbiamo. Questo rovinerà il mio futuro».

I dati sono incontrovertibili, i ragazzi chiedono solo di ascoltare gli scienziati: la concentrazione di anidride carbonica ha superato la media di 410 parti per milione (ppm) il livello più alto in almeno 800.000 anni. Gli scienziati ritengono che il mondo non abbia mai vissuto un aumento dei livelli di CO2 così veloce e intenso come questo, e che restano 12 anni prima di superare 1,5 gradi, con cambiamenti in tutto l’ecosistema totalmente irreversibili.

«È arrivato il momento di affrontare la crisi climatica come una crisi», scrivono i ragazzi del gruppo internazionale di coordinamento dello sciopero giovanile sul clima in una lettera aperta: «Non ci piegheremo a una vita di paura e devastazione. Abbiamo il diritto di poter vivere i nostri sogni e le nostre speranze».

Gli studenti mettono in discussione la stessa scuola. Secondo Silvia Rigo, «di riscaldamento globale e di ambiente a scuola se ne parla poco e male, si approfondisce solo se si ha la fortuna di incontrare qualche professore particolarmente virtuoso.

Ma non si può certo affidare il futuro alla fortuna ed è anche per questo che scioperiamo». Una posizione condivisa anche da Kladi Karaj, diciottenne da pochi giorni, che sta organizzando lo sciopero a Faenza: «Purtroppo nella mia scuola non si affronta minimamente il problema ambientale, non se ne parla. La mia scuola non appoggia né ostacola il nostro sciopero, resta indifferente. Ma non importa, noi andiamo avanti. Dopo il 15 marzo vorrei chiamare a parlare all’assemblea di istituto un esperto sui cambiamenti climatici». Nel quotidiano questi ragazzi spesso agiscono con più coerenza degli adulti: «Giro sempre in bici o coi mezzi pubblici, non mi interessa comprare un’auto né prendere la patente».

Giovanni Mattioli, studente di Medicina, tra gli organizzatori dei Fridays for future di Perugia, ci spiega: «Nel nostro gruppo siamo universitari, liceali e ragazzini delle medie, ma anche prof, genitori e pensionati. Vogliamo che siano rispettati gli accordi di Parigi sul clima ma abbiamo anche rivendicazioni più locali: vogliamo un sistema di trasporti pubblici efficiente e ben connesso, consumo di suolo zero, energia rinnovabile, rivogliamo il vuoto a rendere. Vogliamo soprattutto che nelle scuole si facciano corsi sul tema dell’ambiente».
In Italia un ampio gruppo di associazioni, giornalisti, attivisti, sostengono la protesta. «Prendiamoci in mano i destini della Terra e obblighiamo i governi a seguirci», recita l’appello comparso su Change.org.

«Sono cresciuto nella Terra dei Fuochi, in un ambiente violentato dall’uomo», racconta Vincenzo Mautone, 19 anni, studente universitario di Napoli, originario di Caivano. Con alcuni suoi amici e docenti ha creato il gruppo Friday for future di Napoli. A tutti quelli che dicono che scendere in piazza è inutile, Vincenzo lancia un messaggio: «Manifestare non è ridicolo, genera cambiamento. Mentre volantiniamo entriamo nei negozi e parliamo con i negozianti, spieghiamo i problemi che causa la plastica usa e getta, invitiamo a cambiare». La mappa dei Fridays for future si aggiorna, la protesta dilaga in quasi tutte le città, con più di 150 gruppi attivi, dal Nord al Sud Italia, dalle grandi città ai paesi.
Isabella Mannini, 25 anni, una delle organizzatrici della manifestazione di Firenze, pensa al dopo: «Continueremo ad organizzare altri presidi. Speriamo di poterci mettere a un tavolo di discussione con le istituzioni». Alcuni ragazzi inoltre sottolineano la necessità di strutturarsi in un movimento democratico, indipendente, apartitico, che si occupa di ambientalismo in maniera diretta.

Ma tanti giovani restano ancora indifferenti: «Trovo incredibile che tanti miei coetanei pensino solo a fare l’aperitivo con il bicchiere e la cannuccia di plastica, a buttare la sigaretta per terra, ad usare la macchina per 100 metri e a fregarsene delle conseguenze», sottolinea con amarezza Caterina Noto, 25 anni, gelataia e studentessa, che per prima ha iniziato la protesta a Bologna.

Tra le ragazzine più attive nel maceratese c’è Aurora, 16 anni, come alcuni la definiscono, la «Greta di Tolentino»: «Ero già impegnata in progetti sui cambiamenti climatici come Plan for the Planet, poi quando ho sentito il messaggio di Greta, ho deciso di scendere in piazza. A Macerata stiamo organizzando una grande manifestazione, spero saremo in tanti».

I ragazzi e le ragazze chiedono ai governanti di rispettare gli accordi di Parigi, ma anche «di cambiare un sistema produttivo e di consumo malato», afferma Silvia Rigo: «Vogliamo far comprendere anche ai più cocciuti che è stata l’indifferenza delle passate generazioni a costringere la nostra a scendere per strada, che tutti i conti oggi devono essere pagati, che cambiare strada non è più un’opzione ma un’irrimediabile necessità».

sabato 9 marzo 2019

Oikos: Altri sguardi sui migranti...

OIKOS ASSOCIAZIONE DI PSICOLOGIA
contrà Santa Barbara 33, Vicenza

SEMINARIO

ALTRI SGUARDI SUI MIGRANTI: VISIONI
PSICOLOGICHE, SOCIALI, ANTROPOLOGICHE 
E ARTISTICHE A CONFRONTO


Sabato 16 e 23 marzo ore 15.30

Presso il Palazzo del Monte di Pietà, contrà del Monte 13, Vicenza

Coordina Patrizia Garbin, psicoterapeuta

INGRESSO LIBERO

mercoledì 6 marzo 2019

Vicenza: 8 marzo con Presenza Donna

Due appuntamenti, in ascolto delle voci di speranza delle donne africane

In occasione della Festa della donna, l’associazione Presenza Donna propone quest’anno due appuntamenti di riflessione, testimonianza e confronto, connotati dall'attenzione alle voci delle donne africane.

*** venerdì 8 marzo, ore 20.30, Chiesa di S. Carlo al Villaggio del sole (Via Colombo 45, Vicenza)
PREGHIERA AL FEMMINILE: “Donna, sei liberata” - Voci di speranza dall’Africa

L’ormai tradizionale momento di preghiera e di meditazione al femminile che da diciannove anni accompagna la Giornata della donna in città. Una serata di ascolto, testimonianze, canti e gesti condivisi. Al centro della proposta, la storia di liberazione della “donna curva” riportata nel Vangelo di Luca (13,10-17). Accanto al commento biblico di don Dario Vivian, la significativa testimonianza di Anna Pozzi, giornalista e scrittrice esperta della situazione africana, che racconterà le storie di tante “donne curve” che oggi continuano a cercare liberazione.

*** sabato 9 marzo, ore 16.00, CDS Presenza Donna (C.trà S. Francesco Vecchio 20, Vicenza)
CONFERENZA: Sguardi di donne dall’Africa. Nuove leadership femminili - con la giornalista Anna Pozzi, modera Lauro Paoletto (La Voce dei Berici)

Un’occasione di confronto e approfondimento, per guardare a una realtà diversa dalla nostra ma anche farsi guardare e provocare da essa. Donne che hanno saputo rialzarsi e riscattarsi; donne che hanno contribuito a guarire alcune ferite di cui l’Africa soffre a causa delle tante guerre, della violenza e della povertà. Donne, spesso anonime, che diventano occasione di speranza, poiché sono “artigiane di pace, portatrici di valori e di sapienza, grandi lavoratrici e silenziose lottatrici, alla ricerca faticosa di libertà e dignità, per sé e per i propri figli” (A. Pozzi).
Anna Pozzi, giornalista di “Mondo e Missione” e scrittrice, dal 2007 segue un progetto dedicato alla tratta di donne nigeriane per lo sfruttamento sessuale denominato “Mai più schiave”, e ha pubblicato numerosi libri su questi temi ed esperienze.


Gli eventi sono proposti in collaborazione con l’Ufficio pellegrinaggi diocesano e con la parrocchia di San Carlo.

domenica 3 marzo 2019

Se la terra si beve il latte

dalla pagina http://www.vocedeiberici.it/la-terra-si-beve-latte/

di Matteo Pasinato

Davanti ai nostri occhi, in questi tempi, sta una scena che fa impressione: allevatori che versano il latte per terra, piuttosto che nella tazza delle nostre tavole. E la prima cosa che viene alla mente è il saggio proverbio: non serve a nulla piangere sul latte versato.

Bisogna piangere o no, sul latte versato?

Il vecchio proverbio invita a non pensare troppo tardi. Non insegna che è inutile pensare, o che bisogna lasciar perdere quello che succede e andare avanti come se niente fosse. Piangere sul latte che va fuori dal recipiente, è inutile se non pensi al prossimo latte, e al prossimo recipiente. Il latte che trabocca mi avverte: ne hai versato troppo. Oppure: hai preso un recipiente troppo piccolo. Non serve piangere sul latte … ma pensare meglio a te, quando riempi la tazza.

E allora?

Siamo spettatori di lavoratori che versano il latte non perché sono stufi di lavorare, o perché sono sbadati e ne producono troppo. Versano il latte perché il loro lavoro non conta niente. Versano il latte perché le grandi imprese decidono “da sole” il prezzo. «Ma il prezzo è ingiusto» dicono gli allevatori. «È il mercato che decide il prezzo dei prodotti», dicono le imprese. Sta di fatto che il latte viene buttato via. Qualcosa non funziona. Se la terra è costretta a bere il latte c’è qualcosa che non funziona. Come quando il mare è costretto a “bere” uomini e donne: c’è qualcosa che non funziona. Come quando le banche “bevono” i risparmi onesti della gente: c’è qualcosa che non funziona.

Posso domandarmi: e cosa non funziona?

Il discorso non è così semplice. E chi lo rende semplice, forse ci vuole prendere in giro. Però la scena del “versare il latte per terra” fa impressione. Ci offre un piccolo segnale e un invito all'attenzione.

Attenzione a cosa?

Facciamo attenzione a cosa si sta versando dentro le nostre teste, per non piangere inutilmente dopo che le reazioni diventano eccessive, e dopo che la famosa goccia fa traboccare il vaso.
Nella nostra testa stiamo versando a dosi massicce – un piccolo messaggio: «prima noi», «prima me», «prima il mio interesse» …

Che sia questo che non funziona?

Perché questa è l’idea che in molti mettiamo in pratica: io penso a me stesso … e gli altri si arrangino. Ma questa non può essere la regola per coltivare e custodire la terra. La regola dovrebbe essere un’altra: la giustizia. E siccome non è giusto che gli allevatori siano costretti a buttare il latte del loro lavoro, allora non è giusto che il prezzo sia deciso solo dall'industria che fa il proprio interesse. Se non è giusto che persone siano “bevute” dal mare, allora non è giusto che l’unica soluzione sia “chiudere i porti”. Se non è giusto che le banche “si mangino” gli onesti risparmi, allora non è giusto che vogliamo “fare soldi a tutti i costi”.

La giustizia è mettere insieme il mio lavoro e quello degli altri, la mia sicurezza e quella degli altri, i miei beni e quelli degli altri …

Versare nella propria testa qualcos'altro, che non sia questa alluvione pericolosa del «prima noi!». Perché, con questa regola, tutti butteranno via qualcosa. Gli allevatori butteranno il latte, e le imprese butteranno via gli allevatori. E ciascuno sarà soddisfatto che la regola del «prima noi» è salva.

Mentre la terra si beve il latte, e gli uomini sono ormai a secco di giustizia.