giovedì 30 giugno 2022

Appello per una proposta europea di cessate il fuoco

dalla pagina https://www.osservatoreromano.va/it/news/2022-06/quo-140/appello-per-una-proposta-europea-di-cessate-il-fuoco.html 

Anpi, Arci, Movimento europeo, il quotidiano «Avvenire» e altri organismi hanno firmato un documento congiunto per richiedere un intervento tempestivo di Unione europea e Onu a favore di un cessate il fuoco in Ucraina.  Il documento, presentato ieri a Roma nella sede dell’ufficio italiano del Parlamento europeo, punta alla costruzione di un tavolo di pace simile a quello che portò agli accordi di Helsinki (1975), ma con protagonista l’Europa unita. 

«L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». (art.11 della Costituzione della Repubblica italiana). Siamo con la popolazione ucraina martoriata dalla guerra e vittima dell’aggressione russa.

L’Ucraina sta resistendo in molte forme, militari e civili, ma la guerra è sempre una sconfitta, per tutte le parti coinvolte, per la diplomazia e per la politica. Negli ultimi giorni si sta facendo più netta la preoccupazione per la drammatica accelerazione di un conflitto atroce, che può portare a un tragico scontro bellico mondiale e che sta già innescando una crisi alimentare pagata da tanti e soprattutto in alcune delle nazioni più povere del pianeta.

Spetta all’Unione europea la responsabilità di promuovere una concreta iniziativa di pace. La guerra è scoppiata in Europa e saranno i Paesi dell’Ue a sopportarne le conseguenze sociali, economiche, energetiche e militari. Sarà l’Ue responsabile in buona parte del finanziamento e della ricostruzione delle città e delle infrastrutture ucraine.

L’Ue deve immediatamente operare con una sola voce, con la spinta concorde del Parlamento europeo e della Commissione, diventando un affidabile intermediatore e non delegando solo agli Stati Uniti d’America e alla Nato decisioni che riguardano in primo luogo l’Europa.

Occorre operare affinché si stabilisca in Europa un nuovo clima di concordia e si avvii nel mondo, come ha affermato il presidente Mattarella a Strasburgo, «un dialogo, non prove di forza tra grandi potenze che devono comprendere di essere sempre meno tali». Si aprano subito negoziati per un definitivo accordo di pace!

La Russia deve immediatamente cessare le operazioni militari e a tutte le parti coinvolte chiediamo di avviare colloqui di pace e allo stesso tempo auspichiamo l’immediato ritiro delle truppe russe. Chiediamo a tutte le organizzazioni internazionali, in primo luogo alle Nazioni Unite, ma soprattutto all’Unione europea, di assumersi immediatamente la responsabilità di una intermediazione che consenta al più presto il cessate il fuoco in Ucraina ed eviti a tutti i costi l’allargamento e l’aggravarsi del conflitto in altre regioni d’Europa.

Chiediamo che l’Unione europea ed il nostro governo agiscano nell’ambito dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite con una decisa azione nei confronti del Consiglio di Sicurezza per l’invio di forze di interposizione (peace-keeping) sotto la bandiera delle Nazioni Unite, per garantire il rispetto del cessate il fuoco, facendo della protezione dei civili la loro priorità. Le operazioni umanitarie dovranno essere intensificate in Ucraina e ai suoi confini. Alle Nazioni Unite va garantito un accesso sicuro e senza ostacoli a tutte le aree del conflitto.

Chiediamo che venga stabilito subito un corridoio umanitario sicuro per i profughi e gli sfollati e per il transito di forniture mediche salvavita e del personale sanitario. Chiediamo che l’Ue agisca politicamente unita in sede di negoziato internazionale come soggetto mediatore con una posizione condivisa e forte, diventando quell’importante attore autonomo ed indipendente necessario nella fase di ridefinizione di nuovi equilibri geopolitici. Bisogna allontanare il rischio che l’Europa sia scavalcata e che siano altre le sedi in cui si prendono decisioni strategicamente fondamentali, anche per quanto riguarda un conflitto in uno dei Paesi ai confini dell’Ue.

Chiediamo che venga applicato dall’Unione europea l’art. 21 del Trattato dell’Ue (tit. v ) che sancisce: «L’Unione promuove soluzioni multilaterali ai problemi comuni, in particolare nell’ambito delle Nazioni Unite. (...) L’Unione opera per assicurare un elevato livello di cooperazione in tutti i settori delle relazioni internazionali al fine di: (...) preservare la pace, prevenire i conflitti e rafforzare la sicurezza internazionale, conformemente agli obiettivi e ai princìpi della Carta delle Nazioni Unite, ...».

Chiediamo che l’Unione europea attivi un sistema europeo di sicurezza comune e interdipendente, una vera e propria Unione della Difesa e della Sicurezza a due “braccia”, una militare non aggressiva e l’altra civile nonviolenta, di cui siano esplicitati e chiariti gli obiettivi, che dovranno essere mirati alla esclusiva difesa interna del territorio dell’Unione e dei suoi Stati membri ed esternamente al mantenimento della pace solo e rigorosamente in quanto forze di interposizione (peace-keeping) e al tempo stesso strutturi reti di difesa civile non armata e politiche comuni di cooperazione internazionale allo sviluppo sostenibile.

Chiediamo che l’Ue ridefinisca le regole di accoglienza di profughi e immigrati e di tutti coloro che fuggono dalle guerre, dalla violenza e dalla miseria. L’accoglienza dei profughi ucraini ha dimostrato che l’Ue può agire rapidamente e in modo efficace, usando lo strumento della protezione temporanea, ma portando a conclusione la riforma del regolamento di Dublino.

Chiediamo che l’Unione europea promuova nel quadro dell’Osce e delle Nazioni Unite e a partire dagli accordi internazionali esistenti (Accordi di Helsinki del 1975), un trattato fra tutti gli attori coinvolti nel conflitto, superando tutte le attività fin qui portate avanti in ordine sparso da singoli Paesi europei. Solo una Conferenza internazionale potrà affrontare la questione del disarmo multilaterale, stabile e condiviso, priorità per la sopravvivenza dell’umanità nel tempo delle armi di distruzione di massa sempre più governate da intelligenze artificiali e per il progresso sociale ed economico globale.

L’Unione europea, comunità di popoli e grande laboratorio di integrazione pacifica degli Stati, può favorire la costruzione di un sistema di equilibrio geopolitico multilaterale, pur nel rispetto di regimi politici ed economici diversi, e dare impulso allo sviluppo di governance mondiale condivisa. Sarà per questo urgente affrontare le profonde riforme necessarie alle istituzioni internazionali, a partire dall’Onu, dalle sue strategie e dagli organismi multilaterali a essa collegate.

 

Una richiesta di pace che parte dal basso

Marco Tarquinio illustra l'iniziativa


Il direttore di «Avvenire», Marco Tarquinio, si sofferma sui punti salienti della proposta di pace e sul riscontro che in essa hanno le parole e i ripetuti appelli di Papa Francesco.

Quali sono i punti centrali di questa chiamata alla responsabilità?

È un appello che parte dal basso, che vuole spingere chi ha potere politico in una  direzione diversa rispetto a quella intrapresa finora, ricordando tutti gli strumenti a disposizione. Innanzitutto l’Onu, laddove l’Ue, attraverso uno dei suoi membri, la Francia, deve assumersi la responsabilità di promuovere una iniziativa di intermediazione. Si sollecita poi l’intervento di una forza di interposizione, tenendo sempre aperto un corridoio umanitario. In sintesi, si chiede che l’Europa sappia diventare adulta, che si dia un sistema di sicurezza comune, con una  vera e propria difesa della sicurezza con due braccia: una militare non aggressiva ed una civile e non violenta. L’altro grande appello riguarda le organizzazioni multilaterali, come l’Osce che dovrebbe diventare punto di riferimento e spirito delle azioni che vengono svolte, perché non si precipiti verso la direzione di Yalta, ma verso quella degli accordi che nel ’75 (Accordi di Helsinki) aprirono una fase nuova nel rapporto tra gli Stati europei, per la stabilità e la pace nel mondo.

Un’Europa adulta, lei dice, che ora sta finanziando con le armi il conflitto, ma che nel trattato Ue, all’art 21, ha scritta la chiamata alla responsabilità, alla promozione della pace, alle soluzioni multilaterali, a prevenire i conflitti. Ora tutto sembra paralizzato. Perché questo articolo non va?

Non va perché l’Europa non è concorde nella direzione da prendere, nonostante l’apparente unanimità delle prime fasi. L’auspicio è che, anche senza unanimità assoluta, almeno da parte delle istituzioni europee ci sia la capacità di prendere un’iniziativa di cooperazione rafforzata, come accaduto con la missione comune a Kiev dei leader di Francia, Germania e Italia. Vorremmo che ciò si consolidasse, utilizzando gli strumenti indicati dall’articolo 21 che va nella stessa direzione dell’11 della Costituzione della Repubblica italiana, quello che dice che l’Italia ripudia la guerra come strumento nella soluzione delle controversie con gli altri Stati. Vorremmo una iniziativa forte e coesa dei grandi leader europei, che rispondesse al sentire di tante popolazioni che non sono rappresentate da ciò che sta accadendo sulla scena pubblica.

Come si può sostenere la vostra proposta di pace?

Io credo che la strada sia quella di organizzare mobilitazioni dal basso, come già accade. Occorre dimostrare ai governi che non può permanere questo scollamento tra tanta parte dell’opinione pubblica e quelli che hanno le leve per spingere in una direzione diversa. Bisogna saper premere sui protagonisti della guerra, perché scelgano un percorso diverso, che la faccia finita con le sofferenze delle popolazioni, a cominciare dalla popolazione ucraina che, in questa fase, è quella aggredita.

Le posizioni del Papa sulla guerra sono state criticate e ritenute una utopia. Lei come le considera?

La cosa più grave è che siano anche state censurate. Credo che in questo momento si debba avere gratitudine verso il Papa. Ancora una volta c’è una strada che si inabissa e che sembra non si possa percorrere. Il Papa sa dirci questo e lo fa da uomo di fede, da primo cittadino di un mondo che non ha altri primi cittadini che sappiano prendere iniziative di pace. Non è un caso che anche i proponenti dell’appello a cui ho aderito, abbiano voluto rivolgersi per primi al mondo cattolico, attraverso il presidente della Cei, il cardinale Zuppi, che si è impegnato  a riceverlo e a consegnarlo alla Santa Sede, perché tutti riconoscono in Francesco il punto di riferimento più alto, più credibile e più limpido, in un momento in cui, purtroppo, alcune delle altre voci che sono in campo, non hanno l’interesse generale della costruzione di un nuovo livello di sicurezza, di convivenza e di rispetto reciproco nel segno, fondamentale per noi cristiani, della fraternità.

di Gabriella Ceraso


martedì 28 giugno 2022

ITALIA: TANTA ACQUA e TANTA SICCITÀ

dalla pagina https://www.officinadeisaperi.it/materiali/italia-tanta-acqua-e-tanta-siccita-allo-stesso-tempo-da-agi-e-il-fatto/

Erasmo D’Angelis: “Noi abbiamo 526 grandi dighe più circa 20 mila piccoli invasi. Immagazziniamo oggi più o meno l’11,3% dell’acqua piovana in questi contenitori. Cinquant’anni fa se ne immagazzinava circa il 15%”

Alberto Ferrigolo

– Dottor D’Angelis, qual è la novità clamorosa di questa siccità? “Che ha colpito il Nord, al Sud – si sa – è endemica, ci si fa i conti da anni, ma il Nord è in condizioni mai viste. Questo è un campanello d’allarme forte. Ecco perché il Pnrr deve finanziare la Rete delle reti, che sono le vie d’acqua. Va bene finanziare le reti stradali, autostradali, ferroviarie, le reti digitali, ma la rete idrica è essenziale, vitale. Siamo rimasti all’Ottocento, a quelle opere lì, il Canale Cavour, ma ora bisogna avviare un nuovo cantiere di opere come è stato fatto alla fine di quel secolo e negli anni ’50 e ’60 del dopoguerra. È un lavoro enorme, ma va fatto”.

Mario Tozzi, ambientalista e divulgatore scientifico della tv, l’ha definito “una enciclopedia dell’acqua, con risposte a ogni domanda possa venire in mente” e anche come “un libro di storia, che parte dalla mitologia, ma è pure un trattato di idrologia e di idrografia, un prontuario, ma anche una lettura stimolante che apre punti di osservazione poco comuni”, come osserva nell’introduzione. Stiamo parlando di “Acque d’Italia” (Giunti Editore, € 7,50) scritto da Erasmo D’Angelis tra i massimi esperti di acque e delle sue problematiche ambientali e climatiche, un lungo impegno di ecologista e giornalista ambientale, già presidente di Publiacqua, l’azienda degli acquedotti e della depurazione della Toscana centrale, presidente della Commissione Ambiente del Consiglio Regionale della Toscana, sottosegretario del Governo Letta con delega anche alle dighe e infrastrutture idriche, ideatore e coordinatore di Italiasicura, la struttura di missione di Palazzo Chigi per il contrasto al dissesto idrogeologico e lo sviluppo delle infrastrutture idriche, oggi nelle vesti di Segretario Generale dell’Autorità di bacino dell’Italia Centrale.

Il suo libro esce nella fase più critica dell’approvvigionamento idrico del nostro Paese, con il Po in secca e un rischio razionamento assai vicino, e all’Agi dice in questa intervista: “Siamo un paese paradossale, perché siamo il Paese più ricco d’acqua d’Europa e questa è una cosa da Settimana Enigmistica. Incredibile, ma è vero”.

Però parlare di acqua oggi in Italia è come parlare di corda in casa dell’impiccato, riferito all’emergenza siccità.

“Eppure abbiamo un cumulato di pioggia elevato, anche perché due terzi dell’Italia è fatto da colline e montagna e sui rilievi piove tanto. Non ce ne accorgiamo, perché viviamo tutti in pianura, ma abbiamo piogge medie l’anno per 302 miliardi di metri cubi. Un raffronto? A Roma piovono ogni anno in media circa 800 millimetri di pioggia, a Londra 760 e però, nell’immaginario, l’Inghilterra è il Paese delle piogge come la Germania, la Francia. Noi abbiamo più piogge, più corsi d’acqua di ogni altro paese europeo: ne abbiamo 7.596, di cui 1.242 sono fiumi. Ma tutti i nostri corsi d’acqua, di cui oggi la gran parte sono in secca, alcuni sono addirittura polvere, hanno – unico paese europeo di queste dimensioni – un carattere torrentizio, non fluviale come sono i grandi fiumi europei, che sono lunghi oltre mille chilometri, larghi che sembrano enormi laghi. Ma in Italia se c’è pioggia hanno acqua, se non c’è vanno in secca subito. Infatti rischiamo le alluvioni proprio perché d’improvviso non ce la fanno ad assorbire l’acqua”.

Una condizione che però è insieme un paradosso e una contraddizione.

“Esatto. Ma il paradosso è che siamo ricchi d’acqua, abbiamo 342 laghi, ma siamo poverissimi d’infrastrutture idriche. I grandi investimenti italiani negli schemi idrici si sono fermati negli anni ’60 dal Novecento. E da lì in poi, trent’anni dopo, lo Stato ha cancellato di fatto dai fondi pubblici tutte le risorse per il bene pubblico e con la legge Galli del 1996 ha delegato per l’idropotabile tutto alle risorse della tariffa e non sono state più costruite né dighe né invasi”.

Il risultato qual è?

“Noi abbiamo 526 grandi dighe più circa 20 mila piccoli invasi. Immagazziniamo oggi più o meno l’11,3% dell’acqua piovana in questi contenitori. Cinquant’anni fa se ne immagazzinava circa il 15%, perché nel frattempo non essendoci manutenzione, sfangamenti – i sedimenti mano a mano si accumulano e lo spazio per l’acqua si riduce –, il risultato è che abbiamo queste grandi dighe che non vengono ripulite perciò riescono a stoccare sempre meno acqua”.

Allora, l’acqua c’è, in abbondanza, non sappiamo trattenerla ma dove finisce?

“Ne sprechiamo una quantità inenarrabile. Fatto 100 i prelievi dell’acqua, noi però sappiamo quasi tutto solo di un segmento del 20%, che è poi l’acqua che arriva al rubinetto. Ed è l’unica acqua controllata da un’autorità, che è Arera, Autorità di controllo di energia, gas, acqua che controlla le aziende idriche. E sappiamo che nei 600 mila km di rete idrica italiana noi perdiamo per strada il 42% di acqua. Uno scandalo, la più alta percentuale mai esistita”.

Ma dell’80% d’acqua che resta, cosa sappiamo invece?

“Questo è il punto. Su quell’80% non c’è alcuna autorità di controllo, di regolazione. Circa il 51% viene utilizzato in agricoltura, dove se ne spreca almeno la metà con l’irrigazione a pioggia, e poi c’è un 25% di acqua prelevata per usi industriali. Siamo l’unico paese europeo che con l’acqua potabile ci lava i piazzali, gli automezzi, raffredda gli impianti produttivi, quando potrebbe esser fatto con il riuso delle acque di depurazione, di riciclo. Noi abbiamo ottimi depuratori da cui fuoriescono più o meno 9 miliardi di metri cubi acqua ogni anno, anche di grande qualità, trattata, depurata, e la ributtiamo a mare…”

Come in mare?

“Siamo l’unico paese europeo che non riusa l’acqua di depurazione. E da giugno del prossimo anno l’Europa ci sanziona anche per questo motivo. Abbiamo un ritardo pazzesco nelle infrastrutture idriche dell’acqua che va al rubinetto perché con la legge Galli tutto è delegato alla bolletta e avendo noi la bolletta più bassa d’Europa, non è che con i proventi si possono fare grandi riparazioni, sostituzioni, sono costose. L’acqua non è più nei bilanci dei Comuni, delle Regioni. La conclusione di questo stato paradossale è il Pnrr: su quasi 200 miliardi l’acqua ne ha 4, il 2% delle risorse. Una cosa indecente”.

Più che crisi idrica per mancanza d’acqua è crisi di infrastrutture.

“Certo, è un problema di stoccaggio e distribuzione. Oggi ci mancano almeno 2.000 piccoli e medi invasi ma c’è il piano dei Consorzi di bonifica che ne ha 400 pronti e progettati solo da sbloccare”.

Cosa impedisce di farlo?

“I finanziamenti. C’è molto disinteresse e rimozione del problema acqua”.

Anche Draghi?

“Anche questo governo. Tutti i governi, nessuno escluso. Abbiamo avuto due grandi siccità, nel 2003 e nel 2017, ma come accade in tutte le cose passata l’emergenza ce ne dimentichiamo, rimuoviamo tutto. Dopo le grandi emozioni arrivano le grandi rimozioni. La nostra indole è questa: dimenticare”.

Chi sta peggio di noi? Il Sahel?

“Il punto è che ci stanno arrivando solo ora gli effetti delle previsioni climatiche fatte venti anni fa, che ci dicevano delle ondate di calore permanenti, precoci, che hanno devastato le fasce mediterranee, quelle africane, spagnole, eccetera: alla fine sono arrivate. Purtroppo questa crisi è il preannuncio di quello che accadrà nei prossimi trent’anni come ci spiegavano i climatologi anche ieri”.

Proprio ieri il capo della Protezione civile, Fabrizio Curcio, è stato a dir poco apocalittico.

“Le previsioni climatiche sono queste. Il professor Renzo Rosso, un luminare dell’idrologia, addirittura ci diceva ieri che questo potrebbe essere l’anno più fresco dei prossimi trenta. A dimostrazione che c’è un problema enorme e che va gestito con una pianificazione che può durare anni ma che è importante fare da subito. È come per l’altra faccia delle alluvioni, passata l’emergenza nessuno pensa a mettere in sicurezza il territorio”.

Lei lamenta il fatto che non è mai stato indetto un G7 o un G20 sull’acqua. Si farà mai?

“Spero di sì. Ma che nel frattempo in Italia si facciano almeno sedute straordinarie del Parlamento per lanciare un Piano acqua per i prossimi trent’anni, con risorse adeguate. Alcune cose vanno messe in cantiere subito, immediatamente i 400 medi e piccoli invasi in tutta Italia, un set di tecnologie in l’agricoltura per il risparmio idrico, un’agricoltura di precisione o 4.0 della Coldiretti, tutte cose che fanno risparmiare il 70% delle risorse irrigue. Si deve portare acqua in tutte le fasce costiere dove il cuneo salino sta penetrando per 15, 20 chilometri nell’entroterra. Il Piave, fiume Sacro alla Patria della Prima Guerra Mondiale, che d’improvviso tracimò sbarrando la strada e inghiottendo il nemico che lo stava attraversando, “il Piave mormorò…”, per 13 km è salato. Il mare avanza. Man mano che si riducono le falde dolci costiere perché s’irriga e si svuotano, quelle si riempiono con l’acqua salmastra del mare che sale. L’acqua va portata lì, altrimenti quelle aree si desertificano. Già un 20% di fascia costiera è desertificato e l’agricoltura non può più esser praticata”.

L’Italia s’è candidata ad essere il Paese che vorrebbe ospitare il Decimo Forum Mondiale dell’acqua per il 2024. Ce la farà?

“No, ma abbiamo spuntato un evento mondiale sull’acqua e la cultura da fare nel 2023. Il Forum del ’24 è andato all’Indonesia, ma noi lo avremo quasi sicuramente nel 2027. Però il prossimo anno ci sarà questo evento mondiale in Italia sulla cultura dell’acqua, siamo comunque al centro dell’attenzione”.

Una raccomandazione?

“Di non sprecare più neanche una goccia d’acqua, è la raccomandazione numero 1”.

Cioè tirare l’acqua una volta su quattro, lavarsi meno o, come dice Fulco Pratesi, presidente onorario del Wwf, cambiarsi le mutande ogni tre, quattro giorni…?

“No, no, laviamoci, beviamo, perché comunque non siamo in un’area desertica. L’igiene è la prima cosa. Quanto a Fulco, lo fa anche quando ci sono piogge torrenziali. È il suo stile di vita. Da sempre ha quest’approccio accorto sull’uso delle risorse naturali. Ma sono soluzioni estreme. Non dimentichiamoci che l’Italia ha tutte le forme dell’acqua del Pianeta Terra, dai ghiacciai alle cascate, le paludi, fiumi, laghi, laghetti. Ci rendiamo conto? Nessun Paese è come il nostro, eppure siamo in questa condizione per lo spreco, la mancanza di infrastrutture, lo scarso impiego delle tecnologie per il risparmio e un piano per il riuso dell’acqua adeguato”.

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dalla pagina https://www.treccani.it/enciclopedia/erasmo-d-angelis/

D'Angelis, Erasmo. – Giornalista e uomo politico italiano (n. Formia 1955). Laureato in Psicologia, ha intrapreso la carriera giornalistica lavorando tra l’altro in RAI e per Il Manifesto. Attivo in Legambiente, è stato eletto nel Consiglio Regionale della Toscana nel 2000 e riconfermato nel 2005. Nel 2009 è stato nominato Presidente di Publiacqua, la più grande società pubblica della Toscana, che gestisce il servizio idrico integrato nella Toscana centrale. È stato nominato sottosegretario di Stato ai Trasporti nel governo Letta. Ha pubblicato molti libri e guide, su temi come l'ambiente, gli Angeli del Fango, l'acqua e la tutela del territorio. Dal 2015 al 2016 è stato direttore de l’Unità. Tra gli ultimi saggi: Un Paese nel fango (2015) e Angeli del fango (2016).

domenica 26 giugno 2022

Per una vera transizione ecologica bisogna cambiare strada (e ministro)

dalla pagina https://volerelaluna.it/commenti/2022/06/24/per-una-vera-transizione-ecologica-bisogna-cambiare-strada-e-ministro/


Il governo, conscio dell’emergenza climatica globale, ha pensato bene di dotarsi di un Ministero della Transizione Ecologica e ha chiamato a gestirlo in qualità di ministro una personalità competente, come il ministro Cingolani. Su di lui si stanno addensando ultimamente molteplici critiche, ma Cingolani competente lo è davvero, i numeri li sa comprendere e gestire, conosce i modelli matematici, e si è occupato di problemi connessi con la struttura della materia. La sua competenza fa sì che si renda conto dei rischi che si stanno correndo in relazione con il mutamento climatico, ma soprattutto con la potenziale scarsità di risorse, soprattutto energetiche, e di tanto in tanto manifesta le sue preoccupazioni in pubbliche dichiarazioni ai giornali.

E dunque? Dov’è il problema? Beh, già molti hanno osservato che sembra esserci una netta scollatura fra gli allarmi lanciati, le preoccupazioni espresse e le azioni di governo. Il problema non è, in questo caso (a differenza che in altri), la competenza, ma il sistema degli a-priori e delle invarianti. Mi spiego: i guai che stiamo attraversando e che attraverseremo sempre più sono strutturalmente connessi con i meccanismi dell’economia corrente, con la spinta continua verso la crescita dei consumi di qualsiasi cosa (e quindi anche di energia) e pertanto, se se ne vuole venire a capo, occorre certo affinare tecniche e tecnologie, ma è indispensabile mettere mano a quei meccanismi, per esempio considerando che la massimizzazione del profitto non coincide affatto con l’interesse generale né è compatibile con le leggi fisiche di conservazione.

Ora, il fatto è che, per Cingolani (come per Draghi) c’è qualcosa che viene prima di qualsiasi considerazione scientifica e razionale sul sistema mondo; qualcosa che è assolutamente indiscutibile. Si tratta appunto del modello economico corrente, sintetizzabile nel mercato globale in cui si compete per massimizzare i profitti e alimentare la crescita perenne. Qualunque cosa si faccia occorre innanzi tutto non disturbare il divin mercato.

Questo orientamento d’altra parte si può a volte cogliere nelle vicende personali di ciascuno. Quando si parla di scienza, pura o applicata che sia, si possono incontrare persone che decidono di dedicarvisi perché vogliono capire cose che fino a quel momento nessuno ha ancora capito, oppure trovare soluzioni tecnologiche a problemi che sono aperti, oppure semplicemente perché vogliono saperne di più sul mondo materiale. Se poi si dimostra di saper veramente concorrere a progressi in questi ambiti, questo potrà (non necessariamente dovrà) produrre risultati positivi anche per la carriera degli interessati o delle interessate. Anche i ricercatori sono esseri umani per cui nulla di strano se alle motivazioni strettamente scientifiche si mescoleranno anche aspirazioni più o meno forti riguardo al “far carriera”: le università sono piene di esempi in cui la qualità si abbina con la carriera, ma anche in cui la carriera sopravanza la qualità scientifica, grazie a cordate, sotterfugi e giochi di potere.

Vi sono però dei casi in cui, in maniera organica e fin dal principio, la competenza è strumentale rispetto al fine primario della “carriera”: sapere non vale di per sé, ma serve per scalare le gerarchie professionali e sociali. A occhio direi che questo è il caso di Cingolani: la sua storia è una successione di salite verso livelli dirigenziali via via più elevati di vari enti scientifici a volte neocostituiti, per poi passare al mondo dell’industria, ivi incluso il settore militare, nel caso di Leonardo. Va da sé che per lui l’economia su cui ha puntato per il conseguimento di posizioni di vertice debba essere indiscutibile e certo non intende cooperare a metterne in discussione i meccanismi fondamentali, con buona pace delle considerazioni scientifiche relative a ciò che è o non è sostenibile. Di qui una certa simpatia per il nucleare, tatticamente rigirata nel senso dell’importanza di promuovere la ricerca del settore; di qui la promozione dell’idrogeno, che sta molto a cuore dei grandi gruppi che si occupano oggi di fonti fossili e che vorrebbero transire verso qualcosa che di quelle fonti continui a valersi o che comunque richiede impianti molto simili, come taglia e complessità, a quelli in uso.

Di qui la scarsa sostanziale promozione, in termini di investimenti, delle cosiddette “rinnovabili”. I fondi pubblici, nazionali ed europei, così come le agevolazioni, sono prevalentemente orientati verso i grandi operatori con posizioni importanti e spesso dominanti sul mercato dell’energia; certamente non verso la promozione dell’autoproduzione diffusa da parte di piccoli operatori o addirittura diretti consumatori/produttori: questi bisogna nella retorica promuoverli, ma nella sostanza evitare che possano disturbare il divin mercato. Eppure chi sappia un minimo leggere dati e numeri si rende facilmente conto che massicci investimenti distribuiti nel campo delle rinnovabili potrebbero in poco tempo produrre quella transizione ecologica che pomposamente compare nella denominazione del ministero, ma che è per ora lontanissima nei fatti e certamente non va d’accordo col rilancio delle trivellazioni, con le centrali a carbone (“giustificate” dalla guerra) e nemmeno con i mega impianti di fotovoltaico su migliaia di ettari a terra. Il divin mercato privilegia i grandi investimenti pubblici concentrati: tanto denaro pubblico in poche mani (private) in modo da produrre interessantissimi livelli di profitto a corto termine.

Gli interlocutori privilegiati di Cingolani sono i grandi marchi dell’industria; quelli vengono consultati e con loro si concerta. L’economia (quella economia) viene prima e se poi ci stiamo avvicinando a un tipping point climatico (punto critico che comporta un brusco tracollo del sistema) pazienza! Su questa strada temo che quella sarà la vera “transizione ecologica” che potremo aspettarci. Oppure cambiamo strada (e ministro).

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Angelo Tartaglia è professore emerito di Fisica presso il Dipartimento di Scienza Applicata e Tecnologia del Politecnico di Torino. Si occupa, tra l’altro, di impatto delle attività umane sull’ambiente, di effetto serra e di perturbazioni dell’atmosfera generate da immissioni di gas. Da anni è impegnato nell’applicazione della logica dei sistemi ai problemi trasportistici, con particolare riferimento al progetto delle ferrovie ad Alta Velocità. È consulente della Unione Montana Val Susa e del Comune di Torino sulle questioni del TAV. 


venerdì 24 giugno 2022

«Fino alla totale eliminazione delle armi nucleari»

dalla pagina https://ilmanifesto.it/fino-alla-totale-eliminazione-delle-armi-nucleari

 
IL VERTICE DI VIENNA.  
Tpnw attualmente ratificato da 65 Paesi

Lanterne commemorative al Memorial per la pace di Hiroshima in Giappone - Koji Sasahara /Ap

 

Francesco Vignarca Coordinatore Campagne della Rete Italiana Pace e Disarmo

Con queste applaudite parole Alexander Kmentt, ambasciatore austriaco presidente della Conferenza, ha concluso ieri il Primo incontro degli Stati Parti del Trattato di Proibizione delle armi nucleari. «Siamo venuti a Vienna per definire il lavoro dei prossimi anni, e c’è molto da fare. Ma in un momento in cui il multilateralismo e le politiche sulle armi nucleari stanno andando nella direzione sbagliata. Noi abbiamo puntato chiaramente nella giusta direzione adottando quella che forse è la più forte condanna delle minacce nucleari mai votata in una conferenza delle Nazioni Unite».

Senza grande ribalta in questi giorni il percorso verso un disarmo nucleare globale ha segnato passi concreti rilevanti, tanto che pure i tradizionalmente compassati diplomatici hanno parlato di decisioni «storiche» contro la spada di Damocle nucleare.

Adottati per consenso la Dichiarazione di Vienna «Il nostro impegno per un mondo libero da armi nucleari» e un Piano di Azione declinato in ben 50 punti: risultato straordinario raggiunto in tre giorni di lavoro in cui oltre 80 Stati e centinaia di organizzazioni della società civile hanno approfondito la questione, soprattutto a partire dalla prospettiva dell’impatto umanitario.

Soddisfazione piena da parte della International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (che insieme al Comitato Internazionale della Croce Rossa avrà uno status consultivo) e del mondo scientifico, dalle cui analisi sono derivate molte delle scelte prese a Vienna.

In risposta alle minacce nucleari della Russia e ai crescenti pericoli di guerra nucleare la Dichiarazione condanna in modo inequivocabile «ogni e qualsiasi minaccia nucleare, sia essa esplicita o implicita e a prescindere dalle circostanze» e crea una nuova alleanza globale che si avvale del Tpnw e comprende sopravvissuti, Stati, scienziati, parlamentari, giovani e istituzioni finanziarie (come nella presa di posizione di oltre 35 fondi, guidati da Etica sgr, che hanno sottratto alla produzione di armi nucleari oltre 200 miliardi di dollari).

Dichiarazione di Vienna

«Condanniamo in modo inequivocabile ogni e qualsiasi minaccia nucleare, sia essa esplicita o implicita e a prescindere dalle circostanze»

Sono state prese decisioni chiave sulla creazione di un fondo fiduciario a sostegno delle persone colpite dalle esplosioni nucleari, sull’istituzione di un comitato consultivo scientifico, sulla fissazione di una scadenza di 10 anni per la distruzione delle armi nucleari e sull’allargamento del Trattato ad altri Paesi al fine di fermare l’insensata corsa agli armamenti nucleari.

Il Piano d’azione sottolinea poi l’importante principio del «nulla su di noi, senza di noi» e garantisce che le persone più colpite siano maggiormente coinvolte nei processi decisionali.

Con Vienna il Tpnw dimostra buona salute e un cammino efficacemente, nonostante le critiche di chi lo ritiene inutile in quanto non ancora sottoscritto dalle potenze nucleari o addirittura «in contrasto» con altre norme di disarmo (accusa rigettata dalla Conferenza, che ha ribadito in particolare la centralità del Trattato di Non Proliferazione).

Purtroppo e nonostante la Risoluzione in Commissione Esteri votata da tutte le forze di maggioranza che chiedeva al Governo di valutare una presenza a Vienna, l’Italia non si è presentata. Mancando l’occasione di un confronto costruttivo invece sperimentato da Germania, Belgio, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia… tutti Stati Nato o in qualche modo associati all’ombrello nucleare.

Che invece oltre ad alcune scontate e prevedibili critiche hanno espresso la volontà di essere coinvolti in un percorso collettivo, in particolare a riguardo dei cosiddetti «obblighi positivi» cioè quei progetti di trasparenza, sostegno alle vittime e rimedio ai danni ambientali che possono migliorare la situazione internazionale legata all’armamento nucleare.

Scelte che anche l’Italia potrebbe fare già ora, come da sempre chiesto dalla società civile, e che anche il Parlamento ha suggerito come strada possibile al Governo.

«C’è molto fermento e siamo solo all’inizio: questa prima conferenza non è un punto di arrivo, ma l’inizio di molte azioni che cambieranno in meglio il futuro del nostro pianeta e di chi lo abita», ha dichiarato Daniele Santi presidente dell’associazione i Senzatomica, con Rete Italiana Pace e Disarmo promotrice dell’azione «Italia, ripensaci» con l’obiettivo un’approvazione del Trattato anche da parte del nostro Paese.

Atteso a questa scelta da tutti gli Stati del Tpnw e dalla società civile che lo sostiene, come evidenziano in maniera potente le frasi conclusive della Dichiarazione di Vienna: «Non ci fermeremo finché l’ultimo Stato non avrà aderito al Trattato, l’ultima testata non sarà stata smantellata e distrutta e le armi nucleari non saranno totalmente eliminate dalla Terra».

 

martedì 21 giugno 2022

Crisi idrica, Petrini: «le soluzioni ci sono, è ora di passare dalla teoria alla pratica»

dalla pagina https://www.slowfood.it/crisi-idrica-petrini-le-soluzioni-ci-sono-e-ora-di-passare-dalla-teoria-alla-pratica/

Dal livello individuale a quello istituzionale le soluzioni per prendersi cura della risorsa più preziosa di cui disponiamo per la nostra sopravvivenza ci sono. È giunto il tempo di metterle in pratica.

Viviamo la peggiore crisi idrica in 70 anni, e non possiamo dire che la causa è una coincidenza sfortunata data dall’assenza di pioggia che si somma alle temperature più alte rispetto alla media, e alla scarsità di precipitazioni nei mesi invernali che hanno già fatto esaurire le nevi alpine.

No, questi sono i segnali lampanti del cambiamento climatico; di un processo irreversibile che è in atto e per il quale è necessario passare urgentemente dalla teoria alla pratica attraverso l’implementazione di strategie di adattamento.

La siccità rischia infatti di passare dall’essere una crisi saltuaria a una problematica cronica. A livello mondiale oggigiorno la siccità colpisce già 1,5 miliardi di persone, con stime delle Nazioni Unite che prevedono che nel 2030 il 47% della popolazione vivrà in condizioni di stress idrico.

Noi italiani, che viviamo in un territorio definito dai climatologi come un hotspot dei cambiamenti climatici, rientriamo a pieno titolo all’interno di quella percentuale (basti vedere alcune misure straordinarie ipotizzate in questi giorni: dalla sospensione notturna dell’acqua potabile alla turnazione dell’irrigazione nei campi). Ci troviamo di fronte a dati che evidenziano un periodo “di magra”, ma che al contempo si scontrano con un fabbisogno d’acqua sempre più alto.

Crisi idrica soluzioni che possiamo adottare

Le soluzioni alla crisi idrica esistono. Vediamo qualche esempio. Dal punto di vista delle istituzioni bisogna indirizzare le risorse del PNRR verso investimenti sensati basati su una seria programmazione d’insieme. Come ad esempio un potenziamento del riutilizzo dell’acqua piovana – ad oggi si attesta all’11% – e la ristrutturazione della rete idrica nazionale che registra perdite pari al 42% dell’acqua immessa.

Pensiamo poi al comparto agricolo che è quello che più dipende e più consuma acqua (circa il 70% del totale). È necessario sostituire l’irrigazione a pioggia con tecniche più mirate ed efficienti. Dotarsi di cisterne per la raccolta dell’acqua piovana. E poi ancora adottare pratiche circolari come il riutilizzo di acque reflue depurate.

Un’ulteriore soluzione ce la può fornire la biodiversità con la coltivazione di varietà vegetali locali e stagionali. Quest’ultime, essendosi co-evolute con il territorio, necessitano infatti di meno input esterni tra cui l’acqua, e allo stesso tempo mantengono il suolo vivo e permeabile. Rimanendo in ambito alimentare, anche le azioni individuali possono fare un uso migliore della risorsa idrica.

Dietro al 34% di cibo sprecato annualmente si cela una perdita d’acqua sufficiente a riempire 100 milioni di piscine olimpioniche.

E dunque importante comprare solo ciò che siamo davvero in grado di mangiare; preferendo inoltre i cibi vegetali, dal momento che l’acqua necessaria alla produzione è di circa 10 volte inferiore rispetto agli alimenti di origine animale.

Dal livello individuale a quello istituzionale le soluzioni per prendersi cura della risorsa più preziosa di cui disponiamo per la nostra sopravvivenza ci sono. È giunto il tempo di metterle in pratica.

Carlo Petrini
c.petrini@slowfood.it

Su siccità e cambiamento climatico leggi Allarme siccità. «Sarà la prossima pandemia mondiale per la quale non esistono vaccini»


sabato 18 giugno 2022

Il Governo porta l’Italia verso una drammatica crisi sociale, economica e ambientale

dalla pagina https://europaverde.it/2022/06/17/governo-porta-italia-verso-drammatica-crisi-sociale-economica-ambientale/ 

“Questo Governo sta portando l’Italia ad affrontare, nei prossimi mesi, una delle più gravi crisi sociali ed economiche della storia della Repubblica, che si affianca a una gravissima crisi ambientale, oggi rappresentata dalla drammatica siccità che coinvolge tutto il Paese. Di fronte alla crisi energetica legata al conflitto russa in Ucraina, il governo propone un piano energetico d’emergenza che porterà, già nei prossimi mesi, a nuovi aumenti delle bollette elettriche e del gas, per almeno il 30% rispetto a quanto paghiamo oggi”.

Così in una nota, i co-portavoce nazionali di Europa Verde, Angelo Bonelli ed Eleonora Evi, che spiegano: “Il Ministro fonti fossili, Cingolani, dopo aver bocciato la proposta presentata da molte associazioni di imprenditori delle rinnovabili di nominare un commissario per accelerare l’autorizzazione all’installazione di 60 GW di rinnovabili tacciandola come ‘lobby delle rinnovabili’, propone un piano fatto di carbone, trivelle e gas liquido che costerà il 40% in più rispetto a prezzi attuali”.

“Siamo indignati, – proseguono, – dal modo di operare di questo Governo, che sarà responsabile dell’aumento della povertà sociale nel Paese e della chiusura di tante piccole e medio imprese per cui i costi energetici diventeranno insostenibili. Per difendere le lobby delle fonti fossili, il Governo non preleva integralmente i vergognosi extraprofitti realizzati dalle compagnie Oil&Gas che raggiungono la cifra record di 50 miliardi euro e non intende mettere un tetto temporaneo al prezzo di gas ed energia per tutelare famiglie e imprese”.

“Nel frattempo, – aggiungono i due ecologisti, – 30 miliardi di soldi pubblici, che pesano come un macigno sulle spalle delle future generazioni, sono stati spesi dal governo per ridurre bollette e costo dei carburanti. L’obiettivo del Governo non è riprendere questi soldi là dove ci sia stata speculazione, così come non è un obiettivo puntare a un forte piano di misure straordinarie per realizzare una rete solida di energie rinnovabile nel nostro Paese per raggiungere lo scopo di abbattere i costi e le emissioni in un colpo solo”.

“Alla luce di tutti questi avvenimenti, chiedere le dimissioni di Cingolani è diventata una necessità inderogabile: questo Paese ha bisogno di una forte scossa, di un cambiamento che solo una scelta democratica attraverso nuove elezioni può garantire. La scelta, – concludono Bonelli ed Evi, – è tra l’innovazione e la conservazione: tra chi vuole cambiare l’Italia, puntare sulle rinnovabili, ridurre il costo dell’energia, dando una risposta sociale e chi, come Cingolani e la Lega, punta unicamente a fermare la transizione ecologica proprio mentre l’Italia vive un dramma ambientale senza precedenti, rappresentato dalla desertificazione e dalla siccità”.


giovedì 16 giugno 2022

La storia tossica della Miteni che avvelena mezzo Veneto

dalla pagina https://ilmanifesto.it/la-storia-tossica-della-miteni-che-avvelena-mezzo-veneto

INQUINAMENTO. I dati sanitari raccolti dalle mamme No Pfas evidenziano un alto tasso di malattie e mortalità

Maria Cristina Fraddosio

Ha prodotto per 50 anni impermeabilizzanti liquidi, noti come Pfas, causando danni per 136 milioni di euro.

È la storia della società Miteni spa, finita sul banco degli imputati della Corte d’Assise di Vincenza. Le stime dell’Ispra riguardano la contaminazione della falda acquifera (la seconda più grande d’Europa) di una vasta porzione di territorio in Veneto. I circa 350 mila cittadini coinvolti vivono nelle province di Vicenza, Verona e Padova. Si calcolano almeno 700 chilometri quadrati compromessi.

Nel 1965 a Trissino, nel vicentino, il gruppo Marzotto aprì il centro di ricerca dell’azienda tessile RiMar. Successivamente divenne una joint venture tra Mitsubishi ed Eni, poi la società venne rilevata prima da Mitsubishi, dopo da Icig e infine il fallimento.

Su pressione delle associazioni ambientaliste tra il 2015 e il 2016 è partito un bio monitoraggio a campione.

I valori elevati di Pfas nel sangue hanno spinto il Consiglio dei ministri, nel mese di marzo 2018, a dichiarare lo stato di emergenza con il divieto di consumo di acqua potabile e l’istituzione di una zona rossa, in cui sono stati inseriti 30 comuni. Nel Piano di sorveglianza sanitaria sono state incluse tutte le persone residenti nate dal 1951 al 2002.

Non è possibile sottoporsi autonomamente alle analisi, occorre essere convocati. La società, assieme ai vertici, quindici in tutto, è accusata in concorso di colpa di avvelenamento delle acque, disastro, inquinamento ambientale, false comunicazioni, omissioni e attività di gestione rifiuti non autorizzata.

Tra le accuse anche quella di aver reiterato una politica aziendale fallimentare: debiti con le banche, una garanzia ipotecaria sullo stabilimento e le bonifiche e la messa in sicurezza al palo. Gli imputati hanno ricoperto tra il 2002 e il 2013 ruoli apicali. Le costituzioni di parte civile ammesse sono 229.

Durante l’ultima udienza del 9 giugno scorso si è concluso l’esame del maresciallo del Nucleo operativo ecologico dei carabinieri Manuel Tagliaferri. Il prossimo giovedì è fissato il controesame.

«L’azienda ha sottratto, secondo quanto accertato dal Noe, agli organi di controllo fondamentale documentazione relativa alla presenza di questi inquinanti nelle acque – denuncia il comitato Mamme No Pfas – nella sua deposizione il maresciallo Tagliaferri ha altresì precisato che, anche se la produzione ufficiale di C6O4 (uno dei composti chimici incriminati, ndr) parte nel 2013, in realtà la sostanza veniva già prodotta in impianti pilota dal 2011 su incarico di Solvay».

I dati sanitari sinora raccolti testimoniano un elevato tasso di mortalità. Tra il 2007 e il 2014, infatti, è stato riscontrato un eccesso di decessi per malattie cerebrovascolari, diabete mellito, cardiopatia ischemica e demenza. Tra le patologie sono state registrate in eccesso l’ipertensione arteriosa e le malattie tiroidee.

Anche per gli ex lavoratori Miteni è stato accertato un tasso di mortalità più alto del 45% rispetto alla media regionale. Recentemente uno studio del Maine Medical Center Research Institute di Portland, negli Stati Uniti, ha dimostrato la correlazione tra alti livelli di interferenti endocrini – in particolare alcuni Pfas – nel sangue e la minore densità minerale ossea in ragazzi maschi in età compresa tra i 12 e i 19 anni. La conseguenza è una maggiore fragilità ossea che, se confermata, potrebbe perdurare anche in età adulta.

La messa al bando degli impermeabilizzanti liquidi è la richiesta che le Mamme No Pfas, insieme a Greenpeace, hanno avanzato anche in Commissione Ambiente in Senato a marzo scorso in merito all’approvazione del ddl n. 2392 «Misure urgenti per la riduzione dell’inquinamento da sostanze poli e perfluoroalchiliche e per il miglioramento della qualità delle acque destinate al consumo umano».

Ad aver richiesto la messa al bando di queste sostanze c’è anche la Rete ambientalista – Movimenti di lotta per la salute, l’ambiente, la pace e la nonviolenza. Sul caso Veneto il giornalista e documentarista Andrea Tomasi ha da poco pubblicato, per Terra Nuova Edizioni, Le insospettabili che rapirono Salvini, un docu-romanzo ispirato alla video inchiesta Pfas, quando le mamme si incazzano.

Il caso Veneto putroppo non è il solo. In merito a queste sostanze chimiche, anche lo stabilimento Solvay di Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, è fortemente contestato da agguerritissimi comitati locali che da tempo stanno dando battaglia per chiederne la definitiva chiusura.

 

martedì 14 giugno 2022

«Armi nucleari, adesso il rischio è più alto che nella Guerra fredda»

dalla pagina https://ilmanifesto.it/armi-nucleari-adesso-il-rischio-e-piu-alto-che-nella-guerra-fredda

CORSA AL RIARMO. L'allarme lanciato dall'ultimo rapporto del Sipri: gli Stati «atomici» ampliano l’arsenale. Gli altri si riuniscono la prossima settimana Vienna con la società civile e i pacifisti per frenarli

Francesco Vignarca, Coordinatore Campagne della Rete Italiana Pace e Disarmo

«Ormai i dati lo dicono chiaramente: è terminata la tendenza alla riduzione degli arsenali nucleari che era in corso dalla fine della guerra fredda».

È QUESTO IL LAPIDARIO (e preoccupato) commento di Hans Kristensen, associate senior fellow del Programma Armi di Distruzione di Massa del SIPRI e direttore del Nuclear Information Project della Federation of American Scientists, nel presentare i dati più aggiornati sulla consistenza delle forze nucleari contenuti nell’Annuario appena pubblicato dall’Istituto di ricerca svedese.

Un allarme direttamente collegabile alla modernizzazione degli arsenali dei nove Paesi (Stati uniti, Russia, Regno unito, Francia, Cina, India, Pakistan, Israele e Nord Corea) che le possiedono segnalata negli ultimi anni: pper tale motivo sebbene il numero totale di testate sia leggermente diminuito tra il 2021 e il 2022 è prevedibile per il prossimo decennio che la tendenza sarà quella di un aumento.

Tra gli «ammodernamenti» in corso vanno ricordate anche le nuove bombe B61-12 che verranno dispiegate in Italia anche per essere utilizzate dagli F-35 della nostra Aeronautica militare.

CIRCA 9.440 TESTATE delle 12.705 esistenti a inizio 2022 si trovavano in condizione di uso potenziale: 3.732 dispiegate con missili e aerei, circa 2mila – quasi tutte appartenenti a Russia o Usa – tenute in stato di massima allerta operativa.

I due Paesi possiedono congiuntamente oltre il 90% di tutte le testate, ma gli altri sette Stati «nucleari» stanno a loro volta sviluppando o dispiegando nuovi sistemi d’arma o ne hanno annunciato l’intenzione.

Ad esempio la Cina è nel mezzo di una sostanziale espansione del proprio arsenale nucleare che, secondo alcune immagini satellitari, comprende tra l’altro la costruzione di oltre 300 nuovi silos missilistici.

TUTTI GLI STATI DOTATI di armi nucleari stanno aumentando o potenziando i loro arsenali e la maggior parte di essi sta intensificando la retorica nucleare e il ruolo che tali armamenti svolgono nelle loro strategie militari.

Senza dimenticare il costo anche finanziario: secondo la International Campaign to Abolish Nuclear Weapons il mantenimento degli arsenali nucleari costa circa 75 miliardi di dollari all’anno e lo stesso Congresso degli Stati uniti ipotizza un costo complessivo di 634 miliardi di dollari per i soli Usa nel decennio 2021-2030.

«Condivido le preoccupazioni bene esplicitate da Hans Kristensen – sottolinea Daniele Santi, presidente di Senzatomica – Se non saremo in grado di abolire le armi nucleari tutti gli altri temi di cui parliamo (emergenza climatica, democrazia, futuro) non avranno significato. Non avrà senso parlare di diritti civili perché non ci sarà nessuno che potrà goderne: non importa come o per quanto tempo le persone si sforzino di realizzare un mondo o una società migliore, una volta iniziata una guerra nucleare tutto sarà stato inutile. La realtà dell’era nucleare è che tutti siamo costretti a vivere accompagnati costantemente dal peggiore, dal più incomprensibile e assurdo pericolo che si possa immaginare».

DA QUESTA CONSAPEVOLEZZA è nata l’azione della società civile per un disarmo umanitario anche nell’ambito degli arsenali nucleari, con l’ottenimento del Trattato per la proibizione delle armi nucleari (Tpnw) votato nel 2017 ed entrato in vigore nel 2021.

«Senzatomica continuerà a impegnarsi nella mobilitazione “Italia, ripensaci” al fianco di tutti i cittadini e le cittadine italiane per un mondo libero da questa follia – aggiunge Santi – e per tale motivo continuiamo a chiedere anche al governo italiano di partecipare come osservatore alla prima Conferenza degli Stati parte del Tpnw che si terrà a Vienna dal 21 al 23 giugno».

«SAREMO A VIENNA, insieme ai movimenti per il disarmo nucleare, per partecipare alla prima conferenza degli Stati che fanno parte del Tpnw in un momento storico unico – fa eco Lisa Clark, co-presidente dell’International Peace Bureau e responsabile del disarmo nucleare per Rete Italiana Pace e Disarmo – Abbiamo sempre detto che le armi nucleari devono essere messe al bando in quanto rappresentano, insieme ai cambiamenti climatici, la principale crisi esistenziale per l’umanità e il pianeta. Purtroppo con le minacce del presidente Putin del febbraio scorso e con la diffusione dei dati del SIPRI di questi giorni, la discussione su come impedire la catastrofe ha assunto un ruolo di primo piano anche per l’opinione pubblica in generale. La buona notizia è che, con le società civili di tutto il mondo allertate contro il pericolo nucleare, siamo fiduciosi di convincere i governi nazionali a impegnarsi concretamente per liberare l’umanità da questa minaccia».

Un percorso che dovrà avere come primo obiettivo lo stop all’allargamento degli arsenali nucleari.