sabato 29 giugno 2019

LA FIGURA DELLO STRANIERO NELLA SCRITTURA


da SHALOM, Periodico della Comunità Betania di Parma, N. 4 – dicembre 2012

Card. Martini

Convegno "Integrazione e integralismi.
La via del dialogo è possibile?"

(Cesano Maderno 19-01-2001)

I DATI DELLA BIBBIA SULLA FIGURA DELLO STRANIERO
A modo di premessa va ricordato che Israele, il popolo ebraico vive in Palestina, a partire circa dal 1200 a.C., in un ambito geografico e geopolitico caratterizzato da molti spostamenti di popoli, da esodi e da migrazioni frequenti. La Palestina, infatti, è luogo di passaggio, come un corridoio tra l'Egitto e i grandi regni attorno all'Eufrate (Babilonia e Assiria), percorso continuamente da carovane ed eserciti stranieri. È quindi un luogo dove l'esperienza dello straniero è un fatto quotidiano; ciò spiega la rilevanza del nostro tema in particolare nella Bibbia ebraica, nel Primo Testamento. Del resto Israele stesso è un popolo che ha vissuto una lunga e dolorosa esperienza di migrazione e di esilio. Ha abitato da straniero in Egitto per 400 anni. Dopo la caduta di Gerusalemme (586 a.C.), molti israeliti furono deportati in Babilonia. Per tutti questi motivi Israele ha sviluppato una concezione varia e articolata del fenomeno dello straniero, espressa anche dal vocabolario.
Sono almeno tre i termini fondamentali della Bibbia ebraica per indicare lo "straniero" o "forestiero". Tre termini nei quali si può leggere qualcosa dell'esperienza sofferta e dinamica di Israele e del cammino della rivelazione nel cuore di questo popolo (suggeriscono perciò, in qualche modo, anche a noi una dinamica, un cammino): lo straniero lontano -zar-, lo straniero di passaggio -nokri-, lo straniero residente o integrato -gher o toshav-.
1. La parola ebraica zar sta a significare lo straniero che abita fuori dei confini di Israele, colui che è del tutto estraneo al popolo. Verso questa figura si verifica un senso di timore, di estraneità, di paura e di inimicizia. La paura dello straniero ha quindi delle radici molto profonde nel cuore umano, e viene documentata dalla Scrittura. C'è anzi un gioco di parole nell'ebraico, che permette di confondere zar (straniero) con sar (il nemico da cui ci si deve difendere). Un gioco di parole che fa comprendere come Israele si sentisse un popolo piccolo e debole, circondato da popoli potenti che ne insidiano la sovranità. Da qui la paura e il senso di estraneità verso i popoli vicini aggressivi e prepotenti. Tra i tanti possibili testi, cito Isaia, là dove compiange le sofferenze della sua gente: "Il vostro paese è devastato, le vostre città arse dal fuoco. La vostra campagna, sotto i vostri occhi, la divorano gli stranieri" (1,7). È chiaro che "stranieri" vuoi dire "nemici" temibili.
Questa considerazione praticamente negativa dei popoli stranieri si evolve verso toni più positivi specialmente dal momento dell'esilio in Babilonia (circa VI secolo a.C.), quando affiora la percezione che l'esilio non ha segnato la disfatta del Dio d'Israele, quasi fosse stato sconfitto da idoli, da dèi più potenti di cui si vantavano gli altri popoli. Al contrario l'esilio fa prendere maggiormente coscienza della elezione dei figli d'Israele, fa emergere quanto Dio ami il suo popolo e gli affidi una missione in mezzo alle genti straniere. Paradossalmente la sconfitta aiuta a percepire la missione verso gli stranieri.
Richiamo un brano di Isaia, che si riferisce al popolo in esilio: "Io ti ho formato e stabilito come luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri" (42,6). E, in 49,6: "Io ti renderò luce delle nazioni perché porti la salvezza fino all'estremità della terra". Lo straniero allora non è più solo un nemico da temere, ma un popolo da illuminare, e la paura nei suoi confronti si riduce per fare posto a un senso di missione. Notiamo che una simile coscienza risuona anche nel Nuovo Testamento, per esempio nelle parole di Zaccaria al tempio: Gesù bambino è chiamato "luce per illuminare le genti e gloria del suo popolo Israele". Sono parole che riprendono verbalmente Isaia e segnano il superamento della paura dello straniero verso la coscienza di una missione nei suoi riguardi.
2. Il secondo termine, nokri, è usato per lo straniero di passaggio, l'avventizio, colui che si trova momentaneamente in mezzo al popolo per motivi di viaggio, di commercio (una sorta di "pendolare").  Verso il nokri ci sono alcune distinzioni che denotano ancora una lontananza, ma non più una paura. Un passo del Deuteronomio fa un elenco di animali puri e impuri, con le distinzioni legali, e dice tra l'altro: "Non mangerete alcuna bestia che sia morta di morte naturale; la darete al forestiero che risiede nelle tue città perché la mangi, o la venderai a qualche straniero, perché tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio" (14,21). Si mantiene una certa distanza verso gli avventizi e insieme si fanno delle concessioni. Comunque la regola di base è l'ospitalità, tipica della tradizione dell'Oriente, ospitalità che comporta rispetto e buona accoglienza. Chi di noi ha avuto occasione di andare presso le tende dei beduini, ai margini del deserto, conosce questa ospitalità, questa accoglienza gioiosa. Cito in proposito l'esempio di Abramo, che accoglie tre angeli, a lui stranieri, non membri del suo popolo, si mette alloro servizio e prepara un lauto pasto: "Abramo sedeva all'ingresso della tenda, nell'ora più calda del giorno", quando si ha voglia di dormire, di abbandonarsi al sonno. "Alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall'ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po' d'acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l'albero" (Gen 18,1-4). Fa quindi preparare focacce e un vitello tenero e buono. È una bella descrizione dell'accoglienza riservata agli stranieri di passaggio, agli ospiti.
3. Il terzo vocabolo è gher o toshav e viene impiegato per lo straniero residente, colui che essendo di origine straniera e non appartenendo perciò al popolo ebraico per nascita, risiede più a lungo o stabilmente in Israele. Questa figura gode di una vera protezione giuridica, come appare fin dai testi legislativi più antichi: "Non molesterai il forestiero né l'opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese di Egitto" (Es 22,20). È un testo da cui emerge una radice più profonda dell'accoglienza allo straniero: la ragione, il motivo del rispetto sta anche nell'esperienza di migrante vissuta e sofferta dal popolo eletto: il popolo è invitato a ricordarsi delle sofferenze passate. Proprio perché tu sei stato forestiero in terra altrui e hai visto quanto sia dura tale condizione, cerca di avere comprensione e misericordia verso coloro che fanno questa esperienza nel tuo paese. Nel corso dei secoli, con la maturazione religiosa avvenuta nell'esilio -cioè nella purificazione e nella sofferenza- e anche con la evoluzione delle leggi e dei costumi, il gher sarà sempre più inserito nella comunità religiosa, come leggiamo in Dt 10,18-19: "Il Signore rende giustizia all'orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito. Amate dunque il forestiero". L'amore per il forestiero è visto quale imitazione di Dio stesso. Emerge un parallelo tra la concezione che il popolo ha di Dio e la concezione dello straniero. Se Dio ama i deboli, l'orfano, la vedova, lo straniero, noi pure dobbiamo amarli.

I PRINCIPI TEOLOGICI DELL'ACCOGLIENZA DELLO STRANIERO NEL NUOVO TESTAMENTO
Il Nuovo Testamento segna un passo ulteriore e decisivo nel rapporto con lo straniero. Il discorso sarebbe molto lungo e volendo riassumere in breve le motivazioni che nel Nuovo Testamento fondano il comportamento cristiano verso il forestiero, le esprimo così: una motivazione cristologica, una carismatica e una escatologica.
1. Il motivo cristologico è ricordato in Matteo 25, nella scena del giudizio finale, là dove Gesù proclama che chi accoglie il forestiero accoglie lui stesso: "ero forestiero e mi avete ospitato ... Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me". Si dice dunque molto di più del testo del Deuteronomio (Dio ama il forestiero e tu devi imitarlo). L'accoglienza dello straniero non è una semplice opera buona, che verrà ripagata da Dio, bensì l'occasione per vivere un rapporto personale con Gesù.
2. Il secondo motivo, che chiamo carismatico, sta nel primato della carità. "Aspirate ai carismi più grandi", insegna san Paolo in 1Cor 12, 31 e, nel capitolo 13 dice che il carisma più grande è la carità. L'accoglienza dello straniero è una delle attuazioni dell'amore, amore che è la legge fondamentale del cristiano. "Ama il prossimo tuo come te stesso", risponde Gesù a chi gli chiede qual è il primo dei comandamenti (cf Mc 12,31); e in Mt 7,12 Gesù riassume la Legge e i Profeti nella cosiddetta regola d'oro: "Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro". La carità, dono superiore a ogni altro, si esercita verso tutti, quindi pure verso lo straniero, come sottolinea la parabola del buon samaritano. Costui, considerato straniero dal popolo ebraico, non ha esitato a soccorrere un ebreo ferito che si trovava sul ciglio della strada; ha superato le barriere razziali e religiose, "si è fatto prossimo" (cf Lc 10,36), ha vissuto il carisma della carità.
3. Il terzo motivo che emerge da alcuni passi del Nuovo Testamento è di carattere escatologico, concerne le cose ultime, la destinazione dell'uomo alla vita eterna. In tale visuale, tutti i credenti in Cristo sono pellegrini e stranieri in questo mondo: "Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura"(Eb 13,14; cf Eb 11,10-16). Dunque, come il ricordo di essere stati migranti e forestieri in Egitto, costituiva per gli Israeliti un invito all'ospitalità verso gli stranieri, ad avere compassione e solidarietà per coloro che partecipavano alla medesima sorte, così i cristiani, sentendosi pellegrini in questa terra, sono invitati a comprendere le sofferenze e i bisogni di quanti sono stranieri e pellegrini rispetto alla patria terrena. Un cristiano dei primi secoli descriveva lo stato di "pellegrino" proprio del cristiano in un modo molto bello: "I cristiani abitano la propria patria, partecipano a tutto come dei cittadini, e però tutto sopportano come stranieri. Ogni terra straniera è la loro patria e ogni patria è terra straniera" (Lettera a Diogneto). E non perché i cristiani si disinteressano della città terrena, bensì perché sanno di essere in cammino verso quella città che Dio stesso ci sta preparando.
Davvero la Bibbia ci pone davanti a un grande messaggio che sentiamo tanto lontano dai nostri comportamenti, dalle nostre capacità. Ci fa comprendere che la morte di Gesù in croce abbatte ogni frontiera e ci fa membri di un'umanità che trova la sua unità in Cristo. E lo Spirito del Risorto suscita in ogni credente il carisma della accoglienza. Dobbiamo sentire che, sospinti da questa forza, noi possiamo aprirci alla scoperta di Cristo nello straniero che bussa alla nostra porta. Abbiamo tanti motivi, umani e civili, per accogliere lo straniero, motivi a cui forse pensiamo poco e che sono certamente molto esigenti e radicali.

LE DIFFICOLTÀ E LA GRADUALITÀ DI UN CAMMINO DI INTEGRAZIONE
Vogliamo allora chiederci: in quale contesto ci raggiunge il messaggio biblico? quali reazioni e quali resistenze suscita in noi? A me sembra infatti che la questione degli stranieri oggi -in Italia e in Europa - non sia soltanto delicata e difficile, ma pure un segno dei tempi e anche un segno di contraddizione. L'atteggiamento più o meno ospitale degli europei, in particolare dei cristiani, nei confronti degli stranieri acquista, per le scelte globali che implica, una rilevanza speciale e costituisce probabilmente un tornante decisivo per la nostra cultura e la nostra storia.
Riguardo alla situazione, la presenza degli stranieri tra noi, pur con tutti i progressi compiuti, non è ancora ben assimilata e nemmeno ben tollerata. Vi sono delle reazioni negative comprensibili, dovute a momenti particolarmente drammatici: per esempio, quando gli stranieri commettono dei reati. In questi casi l'orrore e il rifiuto sono giustificabili, come pure la domanda di legalità e di difesa dell'ordine pubblico è più che legittima.
Ma, al di là di tali circostanze, permane nella gente un timore e una diffidenza verso gli stranieri.
Riguardo allo scenario di fondo, siamo di fronte a un nuovo, grande processo di rimescolamento delle genti, per una serie di fattori che conosciamo. L'Europa e il Nord America vivono un'epoca di benessere e di democrazia tra i più alti della storia. Di conseguenza, il sud del mondo, povero e spesso sottosviluppato, preme verso il nord del mondo. L'ideale sarebbe lo sviluppo di questi paesi nelle loro terre, in modo che ogni persona trovi cibo, lavoro e libertà a casa propria. A livello internazionale occorre certamente puntare sullo sviluppo e la promozione del sud. Non è però una soluzione attuabile a breve termine, per motivi sia politici sia socio-economici, motivi che in questa sede non è possibile approfondire.
Quali sono dunque gli sviluppi prevedibili della situazione attuale, in particolare per gli stranieri extracomunitari che fanno più fatica a essere integrati? In proposito si è parlato molto negli ultimi mesi dell' Islam e delle probabilità maggiori o minori che ha di integrarsi con la nostra cultura e le nostre tradizioni. A mio avviso siamo di fronte a tre ipotesi possibili: secolarizzazione, integralismo, integrazione.
• C'è l'ipotesi di una secolarizzazione o omogenizzazione dei nuovi venuti che accettano la modernità europea, con il suo scetticismo, il suo individualismo, il suo indifferentismo, e abbandonano a poco a poco le tradizioni d'origine mescolandosi con l'ambiente circostante.
• L'ipotesi contraria è quella del costituirsi di ghetti, di luoghi di chiusura e di resistenza, in cui si conservino rigidamente le tradizioni e la coscienza della propria estraneità, magari con la prospettiva "medicale", di una conquista graduale del territorio, grazie soprattutto alla crescita della natalità.
• Una terza ipotesi possibile è quella di una integrazione graduale e progressiva, nel rispetto dell'identità e nel quadro della legalità e della cultura del paese ospitante.
Non sappiamo quale di queste prospettive si realizzerà, e molto dipende anche da noi. Mi pare tuttavia che la terza ipotesi -integrazione graduale e progressiva, nel rispetto dell'identità e nel quadro della legalità e della cultura del paese ospitante- sia l'unica accettabile. È una prospettiva ardua, per la quale occorre operare non solo nel quadro del superamento delle paure, non solo nel quadro della legalità, ma con una pedagogia che insista specialmente sui bambini e sui ragazzi, figli degli immigrati, dal momento che sono più facilmente adattabili alle situazioni nelle quali vivono. Per loro è un bene potersi integrare con serenità nell'ambiente dove imparano ogni giorno a vivere. Non chiediamo, naturalmente, che rinuncino ai tratti civili e morali che li caratterizzano, purché siano rispettosi della cultura del paese ospitante. Chiediamo dunque, anzi esigiamo il rispetto delle leggi proprie del paese.

LA DOMANDA PIÙ SPECIFICAMENTE RELIGIOSA
Rimane la domanda più specificamente religiosa che è stata posta all'inizio del nostro incontro, la domanda sul mandato di Gesù: "Andate e predicate il Vangelo". Nel confronto che siamo tenuti ad avere con le altre religioni e culture, quanto c'è ancora della forza evangelizzatrice che avevano i primi cristiani?
La risposta va articolata. Vi sono, infatti, gli immigrati cristiani (circa la metà), in parte cattolici e in parte ortodossi, che stanno già portando un'iniezione di vitalità e di generosità nelle nostre parrocchie e nei loro luoghi di culto; basta partecipare ad alcune delle loro feste per rendersene conto.
La domanda sull'evangelizzazione non riguarda quindi lo straniero in genere, bensì i non cristiani, in maniera speciale l'Islam. E al riguardo rispondo ricordando anzitutto la parola di san Paolo: "Guai a me se non evangelizzo" (1 Cor 9,16). Il cristiano è sempre tenuto a testimoniare la sua fede ovunque e a chiunque, tenendo ovviamente conto della diversità delle situazioni e della molteplicità degli approcci. Bisogna per questo evangelizzare col Vangelo della carità, dell' accoglienza e anche col Vangelo della pazienza. È la prima testimonianza che rende presente il Dio che amiamo.
C'è poi l'evangelizzazione fatta col Vangelo della vita, vivendo l'onestà, la sincerità, la trasparenza nei rapporti di lavoro, l'accoglienza e la mutua fiducia.
Infine, il Vangelo della parola, che può essere particolarmente arduo da annunciare in certe circostanze. Sarà necessario cominciare togliendo i pregiudizi, chiarendo le idee sbagliate, crescendo nella conoscenza reciproca. Non dobbiamo però mai tralasciare di proporre la verità, in cui crediamo e che amiamo, nella maniera più adeguata alle singole situazioni, cioè nei tempi e nei modi opportuni.

CONCLUSIONE
Concludo riferendomi al racconto di Luca dei dieci lebbrosi guariti da Gesù, di cui soltanto uno, lo straniero, ritorna a ringraziarlo; e Gesù, stupito e amareggiato, domanda: "Non sono forse stati guariti tutti e dieci? Dove sono gli altri nove? Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?" (17, 17-18). Noi ci troviamo più volte tra i nove che non sanno ringraziare, non sanno apprezzare il dono della fede perché lo ritengono quasi ovvio e scontato, e che hanno dunque perso qualcosa della forza evangelizzatrice dei primi cristiani. La presenza crescente di stranieri nel nostro paese è davvero un'occasione provvidenziale per noi di ritornare indietro da Gesù, di guardare alla nostra origine, al nostro battesimo, al dono della fede. Se ci lasceremo invadere dalla gratitudine per tanto dono e lo vedremo bello ed entusiasmante per noi stessi, sarà più facile farlo comprendere e trasmetterlo ad altri.




domenica 23 giugno 2019

«Il “prima noi” non è la soluzione dei problemi»

dalla pagina http://www.vocedeiberici.it/non-la-soluzione-dei-problemi/

di Andrea Frison

«Abbiamo bisogno di “essere umani” e il “prima noi” non è la soluzione ai problemi». Padre Michele De Salvia, scalabriniano, è il direttore dell’Ufficio per la pastorale dei migranti della Diocesi di Vicenza, quotidianamente “in prima linea” per promuovere una cultura dell’accoglienza nelle parrocchie, in linea anche con il “carisma” del beato Giovanni Battista Scalabrini, fondatore della congregazione di cui fa parte.

«Il punto più preoccupante è che di fronte al fenomeno dell’immigrazione si è cercato di dare una risposta semplice e immediata, riducendo tutto allo stop degli sbarchi. Alle ultime elezioni questa linea ha pagato, ma non è nulla di più che una “réclame” elettorale. Di fatto, non si è intervenuti sulla quotidianità dell’immigrazione ma sulla “emergenza”. Porre fine all’immigrazione è un’illusione, ma forse è quello che la gente ha bisogno di sentirsi dire. La problematica, reale, è stata affrontata dando soluzioni immediate ma non di lunga durata e nemmeno “profetiche”, cioè che guardano al futuro».

«Tutti i timori che c’erano all’inizio, rispetto al decreto, si stanno lentamente avverando – prosegue padre Michele – Ci si rende conto che non si può ridurre il problema costruendo un muro. Ci sono azioni sul territorio che cercano di portare avanti un lavoro d’inclusione. La migrazione non è qualcosa di straordinario, un fenomeno da cui ci si può sottrarre, ma bisogna operare perché le nostre società diventino più inclusive».

Tuttavia «anche mediaticamente prevale la tendenza al rifiuto: la propaganda di questi anni ha inciso sul modo di pensare delle persone. Non possiamo dire di essere cristiani cattolici e poi contravvenire al magistero e al vangelo stesso. Questo non vuol dire negare le difficoltà, ma non possiamo arrenderci ad una cultura che serpeggia e che rischia di tradire il vangelo e l’umanità».
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"PRIMA GLI ULTIMI", È IL MOTTO DEL CRISTIANO

27/05/2019  Papa Francesco firma il messaggio per la prossima Giornata mondiale del migrante e del rifugiato e spiega che questo è un tema che interpella il nostro stesso modo di essere. Per questo "Non si tratta solo di migranti", dice il titolo del documento.

 

domenica 16 giugno 2019

La Diocesi e il Pride: Dialogo e reciproco rispetto

dalla pagina http://www.vocedeiberici.it/la-diocesi-pride-dialogo-rispetto/

Un atteggiamento di dialogo e di rispetto tra le diversità. È quello assunto dalla Chiesa Vicentina e annunciato con una nota ufficiale, rispetto alla manifestazione ‘Vicenza pride’, in programma il corrente sabato e alle relative contromanifestazioni.

« Il rispetto di ogni uomo e di ogni donna e l’accoglienza delle gioie e delle fatiche di ciascuno rappresentano per ogni cristiano i valori fondamentali della convivenza umana – scrive la Diocesi nella nota a firma di don Flavio Marchesini, direttore dell’Ufficio per la pastorale familiare e di don Matteo Zorzanello, direttore del’Ufficio per la pastorale sociale e del lavoro -. A partire da tale convinzione, la Chiesa vicentina, fedele al Vangelo e al Magistero, cerca di porsi accanto ad ogni situazione esistenziale e sociale che interpella il territorio in cui vive, adoperandosi per la ricerca del bene comune, per il dialogo e il positivo confronto tra le diversità ».

«Come già avvenuto nel 2013 – prosegue la nota -, con questo atteggiamento la Diocesi di Vicenza desidera porsi anche in riferimento alla manifestazione del “Vicenza pride” in programma sabato 15 giugno in città. La Costituzione del nostro Paese garantisce peraltro la libertà di espressione ad ogni persona e realtà sociale e dunque anche tale evento deve essere rispettato al di là delle legittime convinzioni personali».

«Come Diocesi – afferma la nota -, riconosciamo tale libertà e ci auguriamo che la stessa manifestazione possa essere attenta a rispettare le differenti sensibilità culturali e religiose del popolo vicentino, dei suoi luoghi pubblici e dei suoi simboli evitando ogni atteggiamento che potrebbe risultare offensivo o irriverente».

«In questi anni, come indicato più volte dal Magistero (cfr. ad esempio Amoris Laetitia n. 250), la Chiesa vicentina ha manifestato la sua cura pastorale verso le persone omosessuali credenti. È questo un impegno che proseguirà con la delicatezza e il rispetto necessari verso la sensibilità di ciascuno per un autentico percorso di accompagnamento e di crescita umana e cristiana».

«Nello stesso spirito rispettiamo anche le contromanifestazioni programmate nel medesimo giorno in città, pur dichiarando l’estraneità della Diocesi alla loro organizzazione.

Al di là dei contenuti espressi, riteniamo, peraltro, che le modalità scelte non siano conformi ad uno stile evangelico e rischino di alimentare conflittualità e atteggiamenti discriminatori. L’annuncio del Vangelo, anche quello riguardante la famiglia – che per la Chiesa resta comunque la comunità di vita e di amore tra un uomo e una donna, nella reciprocità, fedeltà e apertura alla vita, fondata sul sacramento del matrimonio – deve essere fatto “con dolcezza, rispetto e retta coscienza” (1 Pt 3, 17)».

giovedì 13 giugno 2019

Accordo commerciale CETA: le lobby canadesi dell'agribusiness attaccano l'Italia e impongono regole

dalla pagina https://www.repubblica.it/solidarieta/equo-e-solidale/2019/06/11/news/accordo_commerciale_ceta_le_lobby_canadesi_dell_agribusiness_attaccano_l_italia_e_impongono_regole-228528588/

Vogliono cancellare l'origine del grano in etichetta, facilitare l'OGM e proteggere il glifosato. La Campagna Stop TTIP/CETA replica: “Cosa aspetta il Parlamento a bocciare questo accordo tossico?”

11 giugno 2019

ROMA – L'Italia è nel mirino dell'associazione internazionale delle aziende agrochimiche (CropLife) per le misure di etichettatura di origine del grano, la diffidenza verso il glifosato e il divieto di OGM. E il trattato di liberalizzazione commerciale UE-Canada (CETA) è visto come il cavallo di Troia per far saltare norme fortemente volute dai consumatori a tutela della salute e delle produzioni locali.
L'attacco diretto alla legislazione italiana ed europea in materia di agricoltura e cibo è contenuto in un dossier scritto a quattro mani dalla Camera di Commercio canadese e da CropLife Canada, che mette in fila tutti quegli ostacoli al libero commercio che le multinazionali del settore vorrebbero rimuovere attraverso il trattato commerciale con l'Unione europea.

"Barriere da radere al suolo". All'Italia viene dedicata un'intera pagina del report, per criticare le regole di tracciabilità in etichetta dell’origine delle farine, il bando degli OGM per uso alimentare e i limiti di residui di pesticidi nel grano duro. Tutte “barriere non tariffarie”, secondo gli estensori, e come tali da radere al suolo attraverso un lavoro certosino da svolgere nel controverso comitato per la cooperazione regolatoria istituito dal CETA. Nel documento, la Camera di Commercio canadese spiega infatti con chiarezza che “uno dei punti di forza del CETA è la struttura istituzionale creata dall’accordo, che forza il governo del Canada e la Commissione europea a mettere sul tavolo i fattori ‘irritanti’ per il commercio”.

Etichettare il grano "è stato disastroso" per i canadesi. L'etichettatura di origine del grano, in quest'ottica, ha avuto un impatto definito “disastroso” per l'export canadese, crollato dai 557 milioni di dollari canadesi del 2014 ai 93 milioni del 2018. La misura – si legge nel documento – è stata introdotta “per chiare ragioni protezionistiche” dall’allora ministro Martina, criticato perché “non è stata assunta per gli interessi dei consumatori, ma piuttosto per proteggere il mercato interno”. Si sostiene che l’etichettatura sia stata promossa da “attivisti che amplificano informazioni errate su presunti residui di glifosato nelle esportazioni canadesi”. Per questo, Tuttavia, “è vitale dare un segnale preciso per risolvere questo problema e respingere il protezionismo”.

"Attacchi che dovrebbero far riflettere". “Fa sorridere che l'ex Ministro Martina, gran tifoso del CETA e di tutti i trattati di libero scambio, venga tacciato di protezionismo – dichiara Monica Di Sisto, portavoce della Campagna StopTTIP/CETA – Ma questi attacchi dovrebbero far riflettere chi oggi ricopre incarichi di governo e ha promesso in tutte le sedi che avrebbe contrastato simili accordi. Dall'altra parte dell'Atlantico si apprestano ad utilizzare il CETA come grimaldello per scardinare norme che aiutano i nostri agricoltori e proteggono i consumatori. È inaccettabile. Questo Parlamento deve mobilitarsi immediatamente per bocciare il trattato e riaprire una discussione seria in Europa su una globalizzazione selvaggia, promossa da un manipolo di poteri forti che calpesta la volontà dei cittadini e l'interesse generale”.

Alcuni passaggi inquietanti del dossier. Il dossier contiene altri passaggi inquietanti: le aziende riunite sotto l'ombrello di CropLife Canada criticano la stretta europea ai residui dei pesticidi, raggiunta dopo potenti campagne di denuncia svolte dalle organizzazioni della società civile. Anche questo timido passo avanti nella riduzione della chimica in agricoltura sarebbe da annoverare fra le “barriere al commercio ingiustificate che non offrono alcun livello superiore di sicurezza per i consumatori”. Da qui l’invito di usare a fondo le possibilità del CETA perché vengano risolti i “disallineamenti” sui residui minimi di pesticidi, poiché “la scienza ha bisogno di essere depoliticizzata, facilitando il rapporto diretto tra i regolatori per costruire una maggiore fiducia”. Un’intera pagina spiega poi come il comitato istituito dal CETA per dialogare sulle biotecnologie sarà fondamentale, perché i prodotti canadesi contaminati da OGM vecchi e nuovi “non siano buttati fuori dal mercato europeo”.

La presa sulle istituzioni scientifiche. “Con metà degli esperti dell'Agenzia europea per la sicurezza alimentare in conflitto di interessi e le valutazioni del rischio copiate e incollate dalle veline della Monsanto, questi signori puntano il dito contro la società civile chiedendo che la scienza venga depoliticizzata – chiosa Monica Di Sisto – In realtà cercano soltanto di conservare la presa sulle istituzioni scientifiche a cui è affidato il processo di autorizzazione delle loro sostanze tossiche e del loro cibo frankenstein. Bocciando il CETA possiamo dare una lezione a queste lobby spregiudicate: il Parlamento si attivi subito”.

Con buona pace della sovranità e della libera concorrenza. Per finire, la lobby dell'agroindustria chiede che nei comitati segreti del CETA vengano ammessi osservatori statunitensi, in modo da aiutare il dialogo verso un'armonizzazione maggiore del sistema di regole europeo con quello americano. Da leggere, a questo proposito, le 6 risposte a chi difende il TTIP. "Mentre ripartono i negoziati USA-UE per un nuovo TTIP, anche il CETA diventa un utile strumento per rivedere, lontano dagli occhi indiscreti dell'opinione pubblica, i pilastri su cui di architetture normative che si richiamano al principio di precauzione. Con buona pace della sovranità degli Stati europei e della concorrenza leale.

mercoledì 12 giugno 2019

Rapporto Gimbe 2019: "Sanità pubblica cade a pezzi e si avvia in silenzio verso la privatizzazione"

dalla pagina http://www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/sanita/2019/06/11/gimbe-ssn-a-pezzi.-tagliati-28-miliardi-in-10-anni_7cad26b6-4420-4236-8fad-0e2dab4d803f.html

Rapporto Gimbe in Senato, in crisi anche per sprechi, fondi integrativi e Lea fantasma
Un definanziamento che ha sottratto alla sanità pubblica circa 28 miliardi dal 2010 al 2019, cure essenziali non garantite a tutti, sprechi e la progressiva crescita di fondi integrativi per ammortizzare la spesa privata per la salute. Questo mix di 4 fattori sta "facendo cadere a pezzi il Servizio Sanitario Nazionale". E' la denuncia che arriva dal quarto Rapporto della Fondazione Gimbe sulla Sostenibilità dell'Ssn, presentato oggi in Senato. "Nel periodo 2010-2019 sono stati sottratti al Ssn 37 miliardi - precisa il presidente Gimbe, Nino Cartabellotta - e, parallelamente, l'incremento del fabbisogno sanitario nazionale è cresciuto di quasi 9 miliardi", con una differenza di 28 miliardi e "con una media annua di crescita dello 0,9%, insufficiente anche solo a pareggiare l'inflazione (+1,07%)".

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Rapporto Gimbe 2019: “Sanità pubblica cade a pezzi e si avvia in silenzio verso la privatizzazione. In 10 anni tagliati 37 mld. Senza un disegno politico sarà il disastro”. Grillo: “Basta balletti sui fondi. Serve certezza”

Fotografia impietosa nel 4° report della Fondazione sullo stato del Ssn. “Troppi Lea garantiti solo sulla carta, sprechi, inefficienze e chiari segnali di privatizzazione rendono infausta la prognosi del servizio sanitario nazionale. Senza un adeguato rilancio il disastro sanitario, sociale ed economico è dietro l’angolo, ma negli ultimi 10 anni nessun esecutivo ha avuto il coraggio di mettere la sanità pubblica al centro dell’agenda politica, né i cittadini sono mai scesi in piazza per difendere un fondamentale diritto costituzionale”. Da Gimbe le proposte per evitare la “catastrofe”.


lunedì 10 giugno 2019

Papa Francesco: l'ira di Dio contro la vendita di armi

dalla pagina https://www.avvenire.it/papa/pagine/il-papa-l-ira-di-dio-contro-chi-vede-armi

 lunedì 10 giugno 2019

Nell'udienza alla Roaco, organismo che aiuta le Chiese orientali, la denuncia dell'ipocrisia di chi parla di pace e poi promuove la guerra. La speranza di andare in Iraq l'anno prossimo.

È uno sguardo sull'umanità ferita quello che ispira il discorso rivolto dal Papa alla 92ª Riunione delle opera di aiuto alle Chiesa orientali (Roaco), che si svolge in sede plenaria.

La grande ipocrisia
Negli occhi innanzitutto «il dramma della Siria e le dense nubi che sembrano riaddensarsi su di essa» mentre cresce il rischio dell’aggravarsi della «crisi umanitaria» in cui «quelli che non hanno cibo, quelli che non hanno cure mediche, che non hanno scuola, gli orfani, i feriti e le vedove levano in alto le loro voci». Durissima a questa proposito la denuncia del Papa: «Tante volte penso all’ira di Dio che si scatenerà con quelli responsabili dei paesi che parlano di pace e vendono le armi per fare queste guerre: questa è ipocrisia, è un peccato».
Doloroso ma colorato anche di speranza è invece il pensiero all’Iraq dove Francesco spera di andare l’anno prossimo, una realtà in cui cresce la fiducia nella «pacifica e condivisa partecipazione alla costruzione del bene comune di tutte le componenti anche religiose della società».

martedì 4 giugno 2019

Scarp de' tenis di giugno

dalla pagina http://www.blogdetenis.it/in-questo-numero/


www.social-shop.it
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"per i prossimi quasi 50 anni, in Italia dovremo far entrare circa 165 mila migranti all'anno"

da Scarp de tenis. Il mensile della strada, giugno 2019, p.11

Malick lava i piatti, che fine ha fatto la logica?

di Paolo Brivio

"Vendeva cianfrusaglie fuori da un market di provincia. Fino a che un'anziana l'ha fatto beccare dai Carabinieri. Che gli hanno dato il foglio di via, Ignorato. Anche perché è spuntato un lavoro. In nero: niente di nuovo sotto il sole italico. Se non fosse per quella noticina..." 

[...] 
La tenuta del sistema
Quando una conoscente mi ha raccontato la storia di Malick, non ho potuto fare a meno di sovrapporla alla noticina di un importante documento. La quale recita così: "Il flusso migratorio netto si attesta su un livello annuo di 165 mila unità fino al 2065 con un profilo leggermente decrescente". Tradotto: per i prossimi quasi 50 anni, in Italia dovremo far entrare circa 165 mila migranti all'anno (più o meno quanti ne entravano tre-quattro anni fa, prima che ci ingegnassimo a murare il mare). Si penserà: il solito documento da ultrà buonisti. L'avrà scritto Soros. Un impiegato Ue mentre non è impegnato a pescare le zucchine. Il mullah Omar travestito da Bin Laden. L'eretico Bergoglio con la maglietta del Che. Invece si tratta de Documento di economia e finanza 2019, approvato, guarda un po', dal Governo italiano. Che di fatto, alla pagina 36 della Sezione II [pdf, p.36 del Documento - p.52 del pdf, nota 30], assume le proiezioni Istat (costate la presidenza a Tito Boeri) sulle condizioni per garantire la tenuta del sistema pensionistico e socio-sanitario italiano. 
Ricapitolando. Malick l'irregolare lavora in nero. Perché è nero. E perché non ha letto il Dpef. Dove c'è scritto che c'è bisogno di 165 mila invasori come lui, ogni anno per mezzo secolo, al fine di garantire la pensione alla signora che l'ha fatto beccare dai Carabinieri. L'ha approvato il governo che lo rimanderebbe volentieri in Libia, a lavare i piatti e farsi torturare negli agriturismi delle milizie. Qualcuno mi spiega che fine ha fatto, nel nostro sovrano e stellato Paese, non solo l'umanità, ma anzitutto la logica? 

sabato 1 giugno 2019

2 Giugno: Festa della Repubblica

dalla pagina http://www.governo.it/it/costituzione-italiana/principi-fondamentali/2839

Art. 11 della Costituzione italiana

L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

2 Giugno: Festa della Repubblica che Ripudia la Guerra