venerdì 14 aprile 2023

Non ci sono alternative alla guerra: un dogma da mettere in discussione

dalla pagina https://www.pressenza.com/it/2023/04/non-ci-sono-alternative-alla-guerra-un-dogma-da-mettere-in-discussione/


 

(Foto di archivio Pressenza)

E’ verosimilmente doloroso per tutti constatare quanto nel corso degli anni i nostri modi di pensare si siano allontanati non solo tra di loro, ma anche da quanto davamo per scontato, forse avventatamente, in un periodo di intenso coinvolgimento collettivo, non solo politico, ma anche personale ed esistenziale. Certo, dopo il dissolvimento di quella stagione, ciascuno ha preso la sua strada; strade differenti e spesso divergenti, contrassegnate per anni da figure e personaggi inconsistenti e spesso ridicoli, incapaci di creare incomprensioni reciproche radicali. Anche perché poi di fatto il loro operare non divergeva granché. Ma ora che di mezzo c’è il massacro dei migranti, la guerra mondiale alle porte e l’imminente distruzione della vita umana sulla terra, ritrovare quell’afflato che ci aveva tenuti uniti è più difficile per tutti. Ora ci viene detto di difendere i valori occidentali contro la barbarie che viene dall’est.

Nel frattempo, sul fronte sud che ci separa dal mondo dei sommersi, facciamo valere quegli stessi valori affidando la soppressione di migliaia e migliaia di vite ai silenzi del deserto e del mare (il quale a volte urla, inascoltato, quando i naufragi avvengono troppo vicino alle “nostre” coste). Mentre sulla “rotta” dei Balcani affidiamo a polizie nazionali, intergovernative (Frontex) e private un corpo a corpo con quei nemici dei nostri valori fatto di bastonate, furto di soldi e miseri valori, distruzione di documenti e cellulari, abbandono nella neve di gente nuda e scalza, graffiata dal filo spinato che ha già cercato decine di volte di passare, insieme a mogli e figli, a vecchi e bambini. Siamo pieni di lager, non solo in Libia, ma anche ai confini interni dell’Europa e facciamo finta di non vederli.

Do comunque per scontata – c’è chi lo richiede – la regola di non ridurre ciò che precede a causa di ciò che segue; altrimenti – si è detto – dovremmo risalire a Caino (che forse aveva i suoi “buoni motivi”, ma non per questo una giustificazione) e Abele (che forse qualcosa avrà fatto pure lui…). Quindi, tabula rasa del passato, anche se per me il primo aggressore in questo conflitto non è stata la Russia di Putin contro l’Ucraina, ma questa contro la sua stessa popolazione del Donbass, perché di lingua, cultura e sentimenti filorussi. Dal 2014 ci sono state in Donbass 14mila vittime di guerra. Alcune, certo, tra le milizie (naziste) di Kiev, altre nel suo esercito, molte tra le milizie (non esenti da presenze naziste anch’esse) delle regioni che aspiravano all’autonomia e altre ancora tra le truppe russe di supporto. Ma la maggior parte tra la popolazione civile di quei territori, ucraina ma russofona, costretta per otto anni a vivere come topi nella cantine di case bombardate un giorno sì e l’altro anche. E da chi?

Da chi stava aspettando, anzi, si stava adoperando, perché la Russia di Putin scendesse in guerra. D’altronde la Nato stava da tempo armando l’Ucraina come se fosse già un suo membro e la stessa Merkel (non una “guerrafondaia”) ha ammesso che gli accordi di Minsk, che prevedevano una forte, ancorché indeterminata, autonomia del Donbass, erano stati sottoscritti e disattesi “per prendere tempo”: in attesa di una guerra provocata dagli Stati già inclusi nella Nato, “abbaiando” ai confini della Federazione Russa.

Ma da oltre un anno le truppe ucraine sparano 9mila cannonate al giorno – tanto da esaurire persino le scorte di proiettili degli Stati Uniti – su un territorio che considerano loro. E le truppe russe ne sparano altrettante al di là del fronte, contro un Paese che considerano nemico, anche se non gli hanno mai dichiarato guerra. Sappiamo, ce lo raccontano ogni giorno TV e quotidiani, i danni e i morti che provocano i russi, anche deliberatamente, ma i 9mila proiettili ucraini (cioè della Nato) colpiscono solo obiettivi militari? Non distruggono anche loro edifici e infrastrutture, non ammazzano persone, non inquinano campi, fiumi e falde, ora anche con proiettili all’uranio impoverito? Proprio quelli che hanno provocato 8mila tumoti e 400 morti ai soldati italiani impegnati a suo tempo in Serbia e chissà quanti – si dice 30mila all’anno, da allora e “per sempre” – tra la popolazione civile. Gli stessi con cui sono stati devastati per sempre anche l’Iraq e la sua popolazione…

Che senso ha allora difendere – anzi, voler riconquistare – i confini di un territorio proprio mentre lo si sta distruggendo? Che “amor di patria” è mai quello che spinge a trasformarne una parte in una gigantesca Chernobyl? Vediamo in TV molti testimoni delle persecuzioni inflitte dai russi, per lo più a popolazioni che anche il governo ucraino si era già premurato di perseguitare. Ma come verranno trattati i profughi ucraini russofoni, “rifugiati” in Russia per amore o per forza, se mai potranno fare ritorno in quei territori martoriati, una volta che restituiti alla loro matrigna madrepatria? E quando? E come?

Si invoca il diritto all’autodifesa. Sacrosanto. Ma difesa di che? Di un territorio che intanto viene distrutto e reso inabitabile da chi lo rivendica, facendo pagare il prezzo di questa distruzione anche a chi, da questa parte del fronte, subisce un trattamento corrispondente a opera dell’artiglieria e dei razzi russi? Che cosa rimarrà dell’Ucraina dopo una vittoria che più viene invocata e più si profila lontana?

Il fatto è che si discute di questo conflitto, che sta costando centinaia di migliaia di morti (Quanti? Non si sa. Abbiamo le stime, spesso farlocche, diffuse dal governo ucraino, ma anche quelle dei servizi segreti Usa trafugate dai russi, anch’esse probabilmente farlocche) come se l’alternativa fosse solo tra “vittoria” e “resa”. Quale vittoria? La resa di Putin? Il suo disarcionamento a opera di Prigozin e soci? La dissoluzione della Federazione Russa e la sua trasformazione in un’immensa Libia a disposizione degli appetiti di Nato, Cina, Turchia, Pakistan e – perché no? – Isis? O, estrema ratio – ma non più tanto estrema – una bomba atomica che scateni l’Armageddon? O quale resa? L’occupazione militare permanente di una popolazione che ci viene raccontata indomita da parte di truppe mercenarie, o inconsapevoli, o insofferenti, reclutate ai margini dell’impero russo? Una Grozny permanente al centro dell’Europa, destinata poi a moltiplicarsi per cento, fino alle coste atlantiche del Portogallo?

E’ fin troppo chiaro, allora, perché nessuno si spinga a spiegare che cosa significa vittoria e che cosa significa resa in questo frangente. Quello che in questo modo non viene messo in discussione è un dogma: non quello della pace perpetua di Kant, ma l’idea che a ogni guerra non ci sia altra alternativa che più guerra.

Invece le alternative ci sono. Intanto il cessate il fuoco: il risparmio di decine se non centinaia di migliaia di altre vite umane e dei pochi habitat ancora vitali e l’allontanamento dell’”opzione” atomica. Poi la mediazione: ieri gli accordi di Minsk, oggi una soluzione che salvaguardi le condizioni minime di vivibilità delle popolazioni restituite ai loro territori. Con una garanzia internazionale della loro autonomia, in attesa che l’ossessione dei confini si allenti. Poi, forse, la ricostruzione. Ma quale, su un suolo irreversibilmente inquinato? E pagata da chi? E come? Con una nuova Versailles a spese della popolazione russa? E le armi? Truppe, mezzi e atomiche lungo questa nuova cortina di ferro che divide l’Europa da se stessa? Ma che non divide più capitalismo (e “democrazia”) da comunismo (e “totalitarismo”), bensì due imperi, non meno nocivi uno dell’altro per le popolazioni a essi soggette dalla Siberia alla Terra del Fuoco.

E poi? Non siamo forse alle soglie di una catastrofe climatica e ambientale? Ed è forse con le bombe, i cannoni, i tanks e i razzi che intendiamo sventarla? E non è forse questo – sventarla – il compito prioritario di chi ci governa? Ovunque e comunque? Ma quanti “convinti ambientalisti” se ne sono dimenticati…

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Guido Viale è nato a Tokyo nel 1943 e vive a Milano. Ha partecipato al movimento degli studenti del ‘68 a Torino e militato nel gruppo Lotta Continua fino al 1976. Si è laureato in filosofia all’università di Torino. Ha lavorato come insegnante, precettore, traduttore, giornalista, ricercatore e consulente. Ha svolto studi e ricerche economiche con diverse società e lavorato a progetti di cooperazione in Asia, Africa, Medioriente e America Latina. Ha fatto parte del comitato tecnico scientifico dell’ANPA (oggi ISPRA). Tra le sue pubblicazioni: Un mondo usa e getta, Tutti in taxi, A casa, Governare i rifiuti, Vita e morte dell’automobile, Virtù che cambiano il mondo. Con le edizioni NdA Press di Rimini ha pubblicato: Prove di un mondo diverso, La conversione ecologica, Si può fare e Rifondare l’Europa insieme a profughi e migranti. Con Interno4 edizioni ha pubblicato nel 2017, Slessico Familiare, parole usurate prospettive aperte, un repertorio per i tempi a venire. Sempre con Interno4 Edizioni nel 2018 ha pubblicato l’edizione definitiva e aggiornata del suo importante libro sul ‘68.

 

sabato 8 aprile 2023

Pasqua di resurrezione: non solo per i cristiani

dalla pagina https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/04/07/pasqua-di-resurrezione-non-solo-per-i-cristiani/

 

Per i cristiani il tempo della storia si innerva nel rapporto con la Scrittura, presente nell’anno liturgico giorno per giorno, domenica dopo domenica. In seguito alla rivoluzione operata in tal senso dal Concilio Vaticano II, si è tornati, dopo lunghi anni in cui la Bibbia era tenuta lontano dal Popolo di Dio, a pensarla come fondamento della fede, tenendo sicuramente conto della provocazione luterana, ma anche dei Padri della Chiesa, che in San Girolamo affermano: «L’ignoranza della Scrittura è ignoranza della fede». Il Vangelo e gli altri testi ci accompagnano quindi tempo per tempo, stagione dopo stagione. Vi posso dire che una mia grande sorpresa, che si rinnova quasi sempre, è cogliere il rapporto tra queste letture e il tempo preciso che stiamo vivendo, a volte con una linearità di corrispondenza impressionante. In questo 2023 è il Vangelo di Matteo ad accompagnarci. È su questo testo che rifletto con la mia comunità. Leggendo la Passione qui narrata, faccio qualche considerazione sparsa.

Il Gesù dei vangeli non è l’espressione di una umanità stoica, atarassica, indifferente al dolore per i giochi del destino, da considerare al di qua del divino: di fronte alla prospettiva della violenza e della morte che dovrà subire, Gesù prova angoscia, cerca la vicinanza dei suoi amici, prega perché le cose vadano diversamente. La coerenza alla sua predicazione, la determinazione a non cedere alle autorità farisaiche, soprattutto l’amore per i suoi e il Dio che gli è Padre e Madre, lo condurranno a non fuggire, a trovare il coraggio per essere di fronte all’abisso della morte senza che esso annienti tre anni di incontri, di prossimità terapeutica, di parole significative rivolte a chi soffre, a chi è stato accantonato negli angoli della socialità, a chi veniva bollato con i termini della maledizione divina. È la fedeltà ai poveri, il senso della solidarietà radicale con chi soffre l’insulto sistematico del potere a motivare il Cristo oltre i limiti del buonsenso, che prescrive sempre la tutela di sé. Ma tutto questo ha un costo, ed è la sofferenza di non poter essere sicuri che ciò abbia senso. Gesù che muore gridando: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Il nostro Dio fragile per amore, ci insegna che così si persegue una forza autentica, che sorregge e struttura senza bisogno di ferire nessuno, senza far pagare il prezzo delle proprie superiorità. Il Dio che trascende a partire dall’umano, non contro di esso. Il Dio travolto dai poteri umani per aver osato contestarne i presupposti: la divinizzazione di chi esercita dominio e controllo. Il Dio dei cristiani non è quello delle gerarchie e dei padronati: se gli uomini di chiesa li hanno benedetti, hanno bestemmiato il Suo nome. Un Cristo/Messia totalmente spiazzante, che rinuncia ad ogni tutela di sé, senza in niente acconsentire all’immaginario collettivo che lo avrebbe voluto uomo forte e di autorità storica, capace di riportare Israele a essere un Regno degno di questo nome. Invece è un uomo inerme che scompare nei gorghi oscuri in cui i fondamentalismi e i regimi oppressivi fanno scomparire le dissidenze. Un uomo torturato, privato di dignità, che si pensa di poter piegare nell’insulto e nel dolore.

Ormai da molti anni mi occupo di diritti umani, di pace, di tutela delle minoranze. Ho letto molti rapporti sulle violazioni dei diritti umani fondamentali, a partire da quelli che hanno portato alla sbarra i peggiori regimi latinoamericani (a proposito, vi consiglio di non perdervi Argentina 1985, di Santiago Mitre, sul processo a Videla e gli altri generali delle giunte militari, con le mani lorde di sangue innocente: non l’ha scampata, è morto in galera, all’ergastolo). Vi ritrovo quanto si legge nella Passione dei vangeli, con le storie di uomini e donne che non hanno guardato soltanto alla propria vita, ma a quella di tutti. Una parte di loro era motivata dall’esempio del Cristo: moltissimi altri no, facevano riferimento a diversi modi di motivarsi al sacrificio. Nell’impossibilità di pensare il proprio sacrificio con un valore diverso da quello dei suoi compagni di carcere comunisti, il teologo e pastore protestante Dietrich Bonhoeffer arriverà a capire chiaramente cosa significa cercare insieme a chi la pensa diversamente un senso alle cose “come se Dio non fosse dato”: non per negarlo, anzi. Per capirne il volto attraverso quelli che dichiarano di non averne bisogno, ma la vita la danno generosamente come i credenti sovente non sanno fare. Per una teoria condivisa di giustizia e di speranza.

Nella storia vediamo una sequenza impressionante di sadismo, che non si interrompe mai, anche perché radicalmente funzionale a un concetto di politica a cui molti non sanno rinunciare. Si veda la proposta di una parte dell’attuale maggioranza di governo di abrogare la legislazione sulla tortura, faticosamente approvata non molto tempo fa. Le logiche che portano a parlare – in modo assolutamente indegno – di “carico residuale”, riferito a degli esseri umani evidentemente non considerati tali visto che è un termine che si applica alle merci, dimostrano una volta di più che c’è chi pretende di governare la realtà con il disprezzo, la violenza istituzionalizzata, le vetuste (e quanto mai nefaste) categorie delle superiorità etniche.

Gesù è un uomo che sembra imprigionato in un sogno impossibile quando dice ai suoi: «Rimetti la spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno». Nel tempo di guerre che continuano a sedurre le convinzioni, sedando le coscienze, una parola determinata su cosa davvero sono le armi: strumenti di morte senza nessun autentico umanesimo che possa sostenerne il valore. Aver dichiarato inutili i sogni è uno dei crimini più violenti di questa stagione storica. Ci ha resi impotenti di fronte alla realtà, senza più speranza di contrastarne le logiche alla luce dell’utopia. Un Dio di vita contro il dio del potere, dell’asservimento mediatico, dell’economicizzazione di tutto ciò che è umano. Gesù Cristo “non è qui”, non è in queste logiche di svalutazione delle persone: “è risorto”, è oltre e altrove, perché tutti gli esseri umani imparino a considerare questa speranza di ulteriore. Da tempo rifletto sulla possibile laicizzazione del concetto di resurrezione: valutando quella dalla morte altrui, dall’ingiustizia, dalle dipendenze cattive, dalle malattie. Il potere della morte e il potere che si serve della morte, contro cui siamo chiamati a dire azione e parola nel senso contrario, quello del vivere. Antonio Tabucchi che fa iniziare l’arringa processuale di un processo contro lo Stato omicida di Salazar, ne La testa perduta di Damasceno Monteiro, con «Comincerò con una domanda che rivolgo prima di tutto a me stesso. Cosa significa essere contro la morte?», mi consegna una domanda fondamentale, da cui non mi sono mai liberato. Nella passione contro la morte si trova uno spiraglio che dice luce contro il cinismo cattivo dei tutelati e dei privilegiati. Ancora Tabucchi in Sostiene Pereira contro i fascisti salazariani: «Viva la morte? Viva la vita, piuttosto». Rispetto profondamente chi non crede o crede diversamente, ma penso che la trascendenza è un contesto umano prima che confessionale. Vi si può del tutto rinunciare?

Nelle letture di molti anni fa, un libro del teologo brasiliano Leonardo Boff, Passione di Cristo, passione del mondo. Vi si ricorda un dato importante della cristologia: la passione di Cristo continua nei secoli, in ogni singola esistenza umana che sperimenti il male di vivere. Se il significato della resurrezione è che Gesù rimane vicino a chiunque, per qualsiasi motivo, lo voglia accanto a sé, questa prospettiva si può pensare anche nei confronti della sofferenza. Il Dio cristiano libera dal patire prendendolo con sé e portandoselo addosso, assumendone le conseguenze. E aprendo la porta alla fine del dolore. Lo dico a partire da un profondo rispetto per tutte le confessioni di fede, le mistiche, i percorsi di spiritualità e ancor più per chi non ne professa nessuna: fuori dal cristianesimo sarei sicuramente ateo. Un Dio che non soffre con gli umani, incarnandosi nella loro condizione quotidiana e usuale, non mi interessa, non è in grado di rispondere a domande che si accumulano nei secoli sulla sua passività nei confronti del male. Alle mie, sicuramente no. Nessuna istanza sulla superiorità del cristianesimo su altre dinamiche di ricerca dei significati: è così per me. Non posso dire diversamente. Certo, contro i fondamentalismi, che schiacciano donne e uomini in nome di dio: ma quale dio?

Solo un Dio radicalmente dedito all’umano, fino a voler vedere la Creazione con gli occhi della creatura, abitarla con sudore, lacrime, sorrisi, lutti e feste, può essere di fronte al grande cordoglio necessario per le sofferenze inflitte e subite dagli umani stessi con l’unico argomento che vale davvero: è stato con noi, lo sarà sempre. Resusciteremo con lui.


martedì 4 aprile 2023

Guerra, armi e militarismo

dalla pagina https://comune-info.net/guerra-armi-e-militarismo/

Pasquale Pugliese 

Stiamo precipitando in una doppia escalation: quella di una guerra sempre più alimentata da tutte le parti e quella del balzo in avanti senza precedenti della spesa italiana per gli armamenti e della relativa diffusione del militarismo per renderla accettabile

Tratta da unsplash.com

Nella filmografia di Ivano Marescotti, grande attore recentemente scomparso, c’è anche un film visionario a episodi uscito negli anni Novanta, Strane storie. Racconti di fine secolo (regia di Sandro Baldoni), del quale un episodio rappresenta la dinamica dell’escalation all’interno dei conflitti. Il racconto mette in scena due famiglie che abitano lo stesso condominio, una povera e indigena l’altra ricca e immigrata, che sviluppano un conflitto passando dal pregiudizio reciproco alle accuse verbali, dall’esibizione delle armi alla guerra vera e propria. Con esiti catastrofici per tutti, non solo per i confliggenti. È narrata in quell’episodio, pur nei toni grotteschi, la dinamica di uno scontro tra due gruppi umani (familiari, in questo caso, compresi i bambini), che si ricompattano al loro interno nella guerra al nemico comune in un crescendo di violenza speculare, che si svolge nell’assenza di qualsiasi soggetto mediatore e, contemporaneamente, alla presenza di aizzatori per entrambi i “fronti”, ossia fornitori di armi per incrementare la guerra e i loro profitti. Intanto sugli schermi televisivi di entrambi gli appartamenti scorrono le immagini reali dei notiziari sulla guerra nei Balcani, contemporanea ai fatti narrati.

È un film da rivedere perché spiega ciò che c’è di sbagliato nell’abbandonare un conflitto a se stesso – in balia di chi ha interessi affinché l’escalation continui all’infinito – anziché attivare percorsi di de-escalation, di canali di comunicazione, di mediazione, di costruzione della pace fondata non sull’impossibile assenza di conflitti, come sa ogni bravo mediatore di condominio, ma sulla loro gestione nonviolenta.

 

Oggi stiamo precipitando tutti, nostro malgrado, in una doppia escalation, non nella finzione cinematografica ma nella realtà – che, per molti versi, ricorda proprio quella “strana storia” – che vede un’altra guerra in corso in Europa. Anche in questa guerra reale, nell’assenza di soggetti terzi mediatori, gli esterni che dovrebbero svolgere questo compito necessario e delicato – per esempio l’Unione Europea, mediatrice del condominio Europa – alimentano invece l’escalation attraverso la fornitura di armamenti sempre più potenti e numerosi. Naturalmente, le ripetute minacce nucleari di Vladimir Putin sono inaccettabili, ma sono parte integrante della dinamica alla quale partecipano gli stessi governi occidentali, i quali a loro volta alzano l’asticella dell’invio di armi al governo ucraino – ormai fino all’uranio impoverito, come dichiarato dal governo inglese – e contemporaneamente si stupiscono che dall’altra parte venga alzato parimenti il livello della minaccia. È l’escalation, che si nutre della irresponsabilità reciproca e complementare, tra potenze atomiche. Dentro alla quale non c’è salvezza per nessuno, tanto meno per il popolo ucraino.

Ma dentro a questa escalation bellica – e strettamente collegata ad essa – si sta svolgendo nel nostro paese un’escalation interna: quella del balzo in avanti senza precedenti della spesa per gli armamenti e della relativa diffusione del militarismo per renderla accettabile. La prima è documentata dall’Osservatorio sulle spese militari italiane, il quale, oltre ad aver registrato il continuo aumento delle spese militari – cresciute ancora dai 25,7 del 2022 ai 26,5 miliardi del 2023 – e l’invio di armi al governo ucraino per circa un miliardo di euro, informa che i capi di stato maggiore di Esercito, Marina e Aeronautica nelle audizioni al parlamento hanno chiesto complessivamente una spesa straordinaria aggiuntiva in nuovi armamenti di almeno 25 miliardi di euro. Per più carri armati, più navi da guerra e più caccia F35, volendo riportare a 131 il numero di questi aerei da guerra (già ridotto a 90 dal governo Monti) capaci di trasportare armi nucleari in giro per il pianeta. Non a caso il 30 marzo, in occasione delle celebrazioni per l’Aeronautica Militare, Giorgia Meloni si è messa alla “guida” di uno di questi esemplari in Piazza del Popolo, circondata da scolaresche di bambini festanti per l’oscena messa in scena. Un tassello della propaganda militarista che sta investendo massicciamente anche le scuole italiane, come documenta l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole denunciando che anche i Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento (PCTO) stanno sempre di più diventando strumenti per promuovere cultura di guerra. Un’escalation di follia, ma non è un film.


sabato 1 aprile 2023

pldm

dalla pagina https://ans21.org/semina-e-raccolto/primolunedidelmese

diretta del primolunedìdelmese su Facebook  e YouTube

Crisi demografica e migrazione
(facce della stessa medaglia)

Denatalità, invecchiamento, spopolamento di territori, disuguaglianze:
l'urgenza di ripensare il nostro welfare 
Gianpiero Dalla Zuanna
professore ordinario di Demografia presso il Dipartimento di Scienze Statistiche dell'Università degli Studi di Padova; è stato senatore della Repubblica

La necessità di regolare i flussi,
avviare nuove politiche di accoglienza
e di integrazione sociale ed economica 

Silvana Fanelli 
segretaria CGIL Veneto, si occupa di politiche dell'Immigrazione, della Legalità, della Formazione Salute e Sicurezza nei luoghi di lavoro

 
Il pldm è frutto di un coordinamento ad hoc promosso, a Vicenza, da Alternativa Nord/Sud per il XXI secolo (ANS-XXI) cui aderiscono le associazioni vicentine:

Associazione Centro Astalli; Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI); Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL); Gruppo di Iniziativa Territoriale (GIT) Banca Etica; Progetto sulla soglia (Cooperativa Insieme, Cooperativa Tangram, Rete Famiglie Aperte); Ufficio Migrantes.

Info: primolunedidelmese@ans21.org