lunedì 27 dicembre 2021

Vicenza, sabato 1º gennaio 2022, 13º Cammino diocesano di Pace

Parole e Passi di Pace, sabato 1º Gennaio 2022 

Il Cammino di Pace 2022 torna in presenza, dopo l’esperienza on line del 1 Gennaio 2021. 

Ci troveremo presso la Chiesa di San Lorenzo alle ore 15.00 per un primo momento di riflessione biblica mentre alle 16.15 il secondo momento si terrà presso la Chiesa Cattedrale. Non ci saranno manifestazioni e cortei pubblici all'aperto in quanto espressamente vietati in questo periodo. Nel caso fossero promulgate nuove normative più restrittive cercheremo di informare il più presto possibile gli eventuali necessari cambiamenti di programma, in modo da poter proporre e vivere al megli l’esperienza del camminodi  Pace.

La tappa in Cattedrale sarà trasmessa in diretta da Radio Oreb.

don Matteo Zorzanello


martedì 21 dicembre 2021

Messaggio di papa Francesco per la Giornata Mondiale Della Pace 2022

dalla pagina https://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/peace/documents/20211208-messaggio-55giornatamondiale-pace2022.html

 

MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ
PAPA FRANCESCO

PER LA LV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

1° GENNAIO 2022

Dialogo fra generazioni, educazione e lavoro:
strumenti per edificare una pace duratura

 

1. «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace» (Is 52,7).

Le parole del profeta Isaia esprimono la consolazione, il sospiro di sollievo di un popolo esiliato, sfinito dalle violenze e dai soprusi, esposto all’indegnità e alla morte. Su di esso il profeta Baruc si interrogava: «Perché ti trovi in terra nemica e sei diventato vecchio in terra straniera? Perché ti sei contaminato con i morti e sei nel numero di quelli che scendono negli inferi?» (3,10-11). Per questa gente, l’avvento del messaggero di pace significava la speranza di una rinascita dalle macerie della storia, l’inizio di un futuro luminoso.

Ancora oggi, il cammino della pace, che San Paolo VI ha chiamato col nuovo nome di sviluppo integrale, [1] rimane purtroppo lontano dalla vita reale di tanti uomini e donne e, dunque, della famiglia umana, che è ormai del tutto interconnessa. Nonostante i molteplici sforzi mirati al dialogo costruttivo tra le nazioni, si amplifica l’assordante rumore di guerre e conflitti, mentre avanzano malattie di proporzioni pandemiche, peggiorano gli effetti del cambiamento climatico e del degrado ambientale, si aggrava il dramma della fame e della sete e continua a dominare un modello economico basato sull’individualismo più che sulla condivisione solidale. Come ai tempi degli antichi profeti, anche oggi il grido dei poveri e della terra [2] non cessa di levarsi per implorare giustizia e pace.

In ogni epoca, la pace è insieme dono dall’alto e frutto di un impegno condiviso. C’è, infatti, una “architettura” della pace, dove intervengono le diverse istituzioni della società, e c’è un “artigianato” della pace che coinvolge ognuno di noi in prima persona. [3] Tutti possono collaborare a edificare un mondo più pacifico: a partire dal proprio cuore e dalle relazioni in famiglia, nella società e con l’ambiente, fino ai rapporti fra i popoli e fra gli Stati.

Vorrei qui proporre tre vie per la costruzione di una pace duratura. Anzitutto, il dialogo tra le generazioni, quale base per la realizzazione di progetti condivisi. In secondo luogo, l’educazione, come fattore di libertà, responsabilità e sviluppo. Infine, il lavoro per una piena realizzazione della dignità umana. Si tratta di tre elementi imprescindibili per «dare vita ad un patto sociale», [4] senza il quale ogni progetto di pace si rivela inconsistente.

2. Dialogare fra generazioni per edificare la pace

In un mondo ancora stretto dalla morsa della pandemia, che troppi problemi ha causato, «alcuni provano a fuggire dalla realtà rifugiandosi in mondi privati e altri la affrontano con violenza distruttiva, ma tra l’indifferenza egoista e la protesta violenta c’è un’opzione sempre possibile: il dialogo. Il dialogo tra le generazioni». [5]

Ogni dialogo sincero, pur non privo di una giusta e positiva dialettica, esige sempre una fiducia di base tra gli interlocutori. Di questa fiducia reciproca dobbiamo tornare a riappropriarci! L’attuale crisi sanitaria ha amplificato per tutti il senso della solitudine e il ripiegarsi su sé stessi. Alle solitudini degli anziani si accompagna nei giovani il senso di impotenza e la mancanza di un’idea condivisa di futuro. Tale crisi è certamente dolorosa. In essa, però, può esprimersi anche il meglio delle persone. Infatti, proprio durante la pandemia abbiamo riscontrato, in ogni parte del mondo, testimonianze generose di compassione, di condivisione, di solidarietà.

Dialogare significa ascoltarsi, confrontarsi, accordarsi e camminare insieme. Favorire tutto questo tra le generazioni vuol dire dissodare il terreno duro e sterile del conflitto e dello scarto per coltivarvi i semi di una pace duratura e condivisa.

Mentre lo sviluppo tecnologico ed economico ha spesso diviso le generazioni, le crisi contemporanee rivelano l’urgenza della loro alleanza. Da un lato, i giovani hanno bisogno dell’esperienza esistenziale, sapienziale e spirituale degli anziani; dall’altro, gli anziani necessitano del sostegno, dell’affetto, della creatività e del dinamismo dei giovani.

Le grandi sfide sociali e i processi di pacificazione non possono fare a meno del dialogo tra i custodi della memoria – gli anziani – e quelli che portano avanti la storia – i giovani –; e neanche della disponibilità di ognuno a fare spazio all’altro, a non pretendere di occupare tutta la scena perseguendo i propri interessi immediati come se non ci fossero passato e futuro. La crisi globale che stiamo vivendo ci indica nell’incontro e nel dialogo fra le generazioni la forza motrice di una politica sana, che non si accontenta di amministrare l’esistente «con rattoppi o soluzioni veloci», [6] ma che si offre come forma eminente di amore per l’altro, [7] nella ricerca di progetti condivisi e sostenibili.

Se, nelle difficoltà, sapremo praticare questo dialogo intergenerazionale «potremo essere ben radicati nel presente e, da questa posizione, frequentare il passato e il futuro: frequentare il passato, per imparare dalla storia e per guarire le ferite che a volte ci condizionano; frequentare il futuro, per alimentare l’entusiasmo, far germogliare i sogni, suscitare profezie, far fiorire le speranze. In questo modo, uniti, potremo imparare gli uni dagli altri». [8] Senza le radici, come potrebbero gli alberi crescere e produrre frutti?

Basti pensare al tema della cura della nostra casa comune. L’ambiente stesso, infatti, «è un prestito che ogni generazione riceve e deve trasmettere alla generazione successiva». [9] Vanno perciò apprezzati e incoraggiati i tanti giovani che si stanno impegnando per un mondo più giusto e attento a salvaguardare il creato, affidato alla nostra custodia. Lo fanno con inquietudine e con entusiasmo, soprattutto con senso di responsabilità di fronte all’urgente cambio di rotta, [10] che ci impongono le difficoltà emerse dall’odierna crisi etica e socio-ambientale [11] .

D’altronde, l’opportunità di costruire assieme percorsi di pace non può prescindere dall’educazione e dal lavoro, luoghi e contesti privilegiati del dialogo intergenerazionale. È l’educazione a fornire la grammatica del dialogo tra le generazioni ed è nell’esperienza del lavoro che uomini e donne di generazioni diverse si ritrovano a collaborare, scambiando conoscenze, esperienze e competenze in vista del bene comune.

3. L’istruzione e l’educazione come motori della pace

Negli ultimi anni è sensibilmente diminuito, a livello mondiale, il bilancio per l’istruzione e l’educazione, considerate spese piuttosto che investimenti. Eppure, esse costituiscono i vettori primari di uno sviluppo umano integrale: rendono la persona più libera e responsabile e sono indispensabili per la difesa e la promozione della pace. In altri termini, istruzione ed educazione sono le fondamenta di una società coesa, civile, in grado di generare speranza, ricchezza e progresso.

Le spese militari, invece, sono aumentate, superando il livello registrato al termine della “guerra fredda”, e sembrano destinate a crescere in modo esorbitante. [12]

È dunque opportuno e urgente che quanti hanno responsabilità di governo elaborino politiche economiche che prevedano un’inversione del rapporto tra gli investimenti pubblici nell’educazione e i fondi destinati agli armamenti. D’altronde, il perseguimento di un reale processo di disarmo internazionale non può che arrecare grandi benefici allo sviluppo di popoli e nazioni, liberando risorse finanziarie da impiegare in maniera più appropriata per la salute, la scuola, le infrastrutture, la cura del territorio e così via.

Auspico che all’investimento sull’educazione si accompagni un più consistente impegno per promuovere la cultura della cura. [13] Essa, di fronte alle fratture della società e all’inerzia delle istituzioni, può diventare il linguaggio comune che abbatte le barriere e costruisce ponti. «Un Paese cresce quando dialogano in modo costruttivo le sue diverse ricchezze culturali: la cultura popolare, la cultura universitaria, la cultura giovanile, la cultura artistica e la cultura tecnologica, la cultura economica e la cultura della famiglia, e la cultura dei media». [14] È dunque necessario forgiare un nuovo paradigma culturale, attraverso «un patto educativo globale per e con le giovani generazioni, che impegni le famiglie, le comunità, le scuole e le università, le istituzioni, le religioni, i governanti, l’umanità intera, nel formare persone mature». [15] Un patto che promuova l’educazione all’ecologia integrale, secondo un modello culturale di pace, di sviluppo e di sostenibilità, incentrato sulla fraternità e sull’alleanza tra l’essere umano e l’ambiente. [16]

Investire sull’istruzione e sull’educazione delle giovani generazioni è la strada maestra che le conduce, attraverso una specifica preparazione, a occupare con profitto un giusto posto nel mondo del lavoro. [17]

4. Promuovere e assicurare il lavoro costruisce la pace

Il lavoro è un fattore indispensabile per costruire e preservare la pace. Esso è espressione di sé e dei propri doni, ma anche impegno, fatica, collaborazione con altri, perché si lavora sempre con o per qualcuno. In questa prospettiva marcatamente sociale, il lavoro è il luogo dove impariamo a dare il nostro contributo per un mondo più vivibile e bello.

La pandemia da Covid-19 ha aggravato la situazione del mondo del lavoro, che stava già affrontando molteplici sfide. Milioni di attività economiche e produttive sono fallite; i lavoratori precari sono sempre più vulnerabili; molti di coloro che svolgono servizi essenziali sono ancor più nascosti alla coscienza pubblica e politica; l’istruzione a distanza ha in molti casi generato una regressione nell’apprendimento e nei percorsi scolastici. Inoltre, i giovani che si affacciano al mercato professionale e gli adulti caduti nella disoccupazione affrontano oggi prospettive drammatiche.

In particolare, l’impatto della crisi sull’economia informale, che spesso coinvolge i lavoratori migranti, è stato devastante. Molti di loro non sono riconosciuti dalle leggi nazionali, come se non esistessero; vivono in condizioni molto precarie per sé e per le loro famiglie, esposti a varie forme di schiavitù e privi di un sistema di welfare che li protegga. A ciò si aggiunga che attualmente solo un terzo della popolazione mondiale in età lavorativa gode di un sistema di protezione sociale, o può usufruirne solo in forme limitate. In molti Paesi crescono la violenza e la criminalità organizzata, soffocando la libertà e la dignità delle persone, avvelenando l’economia e impedendo che si sviluppi il bene comune. La risposta a questa situazione non può che passare attraverso un ampliamento delle opportunità di lavoro dignitoso.

Il lavoro infatti è la base su cui costruire la giustizia e la solidarietà in ogni comunità. Per questo, «non si deve cercare di sostituire sempre più il lavoro umano con il progresso tecnologico: così facendo l’umanità danneggerebbe sé stessa. Il lavoro è una necessità, è parte del senso della vita su questa terra, via di maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale». [18] Dobbiamo unire le idee e gli sforzi per creare le condizioni e inventare soluzioni, affinché ogni essere umano in età lavorativa abbia la possibilità, con il proprio lavoro, di contribuire alla vita della famiglia e della società.

È più che mai urgente promuovere in tutto il mondo condizioni lavorative decenti e dignitose, orientate al bene comune e alla salvaguardia del creato. Occorre assicurare e sostenere la libertà delle iniziative imprenditoriali e, nello stesso tempo, far crescere una rinnovata responsabilità sociale, perché il profitto non sia l’unico criterio-guida.

In questa prospettiva vanno stimolate, accolte e sostenute le iniziative che, a tutti i livelli, sollecitano le imprese al rispetto dei diritti umani fondamentali di lavoratrici e lavoratori, sensibilizzando in tal senso non solo le istituzioni, ma anche i consumatori, la società civile e le realtà imprenditoriali. Queste ultime, quanto più sono consapevoli del loro ruolo sociale, tanto più diventano luoghi in cui si esercita la dignità umana, partecipando così a loro volta alla costruzione della pace. Su questo aspetto la politica è chiamata a svolgere un ruolo attivo, promuovendo un giusto equilibrio tra libertà economica e giustizia sociale. E tutti coloro che operano in questo campo, a partire dai lavoratori e dagli imprenditori cattolici, possono trovare sicuri orientamenti nella dottrina sociale della Chiesa.

Cari fratelli e sorelle! Mentre cerchiamo di unire gli sforzi per uscire dalla pandemia, vorrei rinnovare il mio ringraziamento a quanti si sono impegnati e continuano a dedicarsi con generosità e responsabilità per garantire l’istruzione, la sicurezza e la tutela dei diritti, per fornire le cure mediche, per agevolare l’incontro tra familiari e ammalati, per garantire sostegno economico alle persone indigenti o che hanno perso il lavoro. E assicuro il mio ricordo nella preghiera per tutte le vittime e le loro famiglie.

Ai governanti e a quanti hanno responsabilità politiche e sociali, ai pastori e agli animatori delle comunità ecclesiali, come pure a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, faccio appello affinché insieme camminiamo su queste tre strade: il dialogo tra le generazioni, l’educazione e il lavoro. Con coraggio e creatività. E che siano sempre più numerosi coloro che, senza far rumore, con umiltà e tenacia, si fanno giorno per giorno artigiani di pace. E che sempre li preceda e li accompagni la benedizione del Dio della pace!

Dal Vaticano, 8 dicembre 2021


Francesco

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[1] Cfr Lett. enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 76ss.

[2] Cfr Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 49 .

[3] Cfr Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 231.

[4] Ibid., 218.

[5] Ibid., 199.

[6] Ibid., 179.

[7] Cfr ibid., 180.

[8] Esort. ap. postsin. Christus vivit (25 marzo 2019), 199.

[9] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 159.

[10] Cfr ibid., 163; 202.

[11] Cfr ibid., 139.

[12] Cfr Messaggio ai partecipanti al 4° Forum di Parigi sulla pace, 11-13 novembre 2021.

[13] Cfr Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 231; Messaggio per la LIV Giornata Mondiale della Pace. La cultura della cura come percorso di pace (8 dicembre 2020).

[14] Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 199.

[15] Videomessaggio per il Global Compact on Education. Together to Look Beyond (15 ottobre 2020).

[16] Cfr Videomessaggio per l’High Level Virtual Climate Ambition Summit (13 dicembre 2020).

[17] Cfr S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens (14 settembre 1981), 18.

[18] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 128.

 

 

lunedì 20 dicembre 2021

Come evitare lo scontro tra operai e ambientalisti

dalla pagina https://ilmanifesto.it/come-evitare-lo-scontro-tra-operai-e-ambientalisti/ 

Transizione ecologica. Un forte e determinato intervento pubblico nell’economia sul lato della domanda non è una scelta ideologica e va oltre la disputa tra neoclassici e keynesiani


Una reale transizione ecologica, ha ragione sul piano teorico Guido Viale, si può realizzare solo attraverso il coinvolgimento di tutta la società. Ma, ci domandiamo, perché la maggioranza dei cittadini dovrebbe farsi coinvolgere se questo richiede dei sacrifici, in termini di comodità, sobrietà, cambiamenti radicali negli stili di vita? Rinunciare a stare in pieno inverno con la t-shirt in casa, o tenere accesso tutto il giorno il climatizzatore nelle torride giornate estive. Perché dovrei farlo proprio io, e che cosa cambia se i miei consumi energetici o alimentari (a base di carne) diminuiscono, dato che rappresentano una quota assolutamente infinitesimale dell’impatto ambientale globale. Ma, ammettiamo pure che questo accada, che la stragrande maggioranza dei cittadini cambi stile di vita, quali ripercussioni avrà sulla crescita economica, sull’occupazione?

Partiamo da un fatto: la società dello spreco è funzionale alla crescita del Pil, ma rema contro la conversione ecologica. La società dell’obsolescenza programmata per i beni di consumo non alimentari è funzionale alla crescita economica, ma è assolutamente contro la conversione ecologica. Se, ad esempio il nostro frigorifero durasse (come avveniva fino agli anni ’70) mediamente 30-40 anni, o la nostra lavatrice/lavapiatti durasse vent’anni e non 5-8 di oggi, le imprese che lavorano in questo settore subirebbero un crollo della domanda, i lavoratori messi in cassa integrazione diventerebbero nemici della conversione ecologica se non avessero delle alternative.

Ugualmente nella filiera della plastica, dove il governo italiano, grazie anche a Renzi, si è opposto a una messa al bando dei prodotti monouso di plastica. Pensiamo solo all’industria legata all’auto tradizionale con motore a scoppio. Con il passaggio all’auto elettrica, ormai inevitabile, solo in Italia secondo stime attendibili salterebbero intorno a 170mila posti di lavoro. Non è un caso che Confindustria e sindacati dei lavoratori abbiano insieme protestato e chiesto che l’impegno preso dall’Italia per l’eliminazione delle auto tradizionali che usano combustibili fossili venga procrastinato.

Se non vogliamo un ritorno allo scontro tra classe operaia e movimenti ecologisti, come è avvenuto più volte in passato, dobbiamo immaginare un intervento pubblico che promuova una domanda alternativa. Questo significa che il governo dovrebbe avere una strategia di medio-lungo periodo, con un quadro complessivo dei settori che devono essere ristrutturati per ridurre il nostro impatto ambientale, i nuovi settori che devono essere promossi e hanno bisogno di una domanda pubblica iniziale, e infine un cronoprogramma che dichiari tempi e modalità di realizzazione. Ovviamente oggi di tutto questo non c’è niente. Si procede a tentoni e si pensa di utilizzare le risorse finanziarie del Pnrr per rilanciare le strutture economiche esistenti o ampliarle, a partire dalle infrastrutture per l’alta velocità.

Richiedere un forte e determinato intervento pubblico nell’economia sul lato della domanda non è una scelta ideologica e va oltre la disputa tra neoclassici e keynesiani. Se Keynes negli anni ’30 del secolo scorso aveva rovesciato l’approccio classico che affidava all’offerta, e quindi alle imprese private, il compito di trovare l’equilibrio macroeconomico, oggi non è più sufficiente una generica politica della domanda per tendere alla piena occupazione.

La crisi ecologica ci impone di qualificare questa domanda pubblica orientandola verso settori ad alto valore aggiunto e basso impatto ambientale. Un importante ruolo potranno giocare gli investimenti nella cura del territorio, nella ricerca teorica e applicata, nell’economia circolare, nei materiali ecosostenibili, nella cultura (questa reietta, ultima ruota del carro di tutti i governi), nell’elevare il livello medio di istruzione, nella telemedicina, nella sanità territorializzata, ecc.

Un grande sforzo andrà fatto per trasformare l’agro-industria e zootecnia, dove gli allevamenti intensivi andranno aboliti, senza fare aumentare sensibilmente il costo degli alimenti. Per questo non si può lasciare che il libero gioco della domanda e dell’offerta trovi un nuovo equilibrio, ma trasformare la struttura del mercato agro-alimentare con un ridimensionamento del ruolo della grande distribuzione a favore di filiere corte e un’alleanza, che già esiste in tanti rivoli territoriali, tra consumatori e aziende agricole.

La transizione ecologica se presa sul serio è una sfida gigantesca che non può essere gestita da nani, ma richiede la presa di coscienza della maggioranza della popolazione insieme a un governo che faccia una scelta coraggiosa e coerente in questa direzione.

 

venerdì 17 dicembre 2021

Ridurre le spese militari del 2% in tutti i Paesi...


“Giorgio Parisi lancia un appello con altri Nobel e con il Dalai Lama per spostare il 2% dei fondi dei Governi dalla difesa alle emergenze planetarie”.
“Dici che capiscono?"
Questa è la vignetta di Mauro Biani oggi su Repubblica e questo è il link per sottoscrivere l'appello: https://peace-dividend.org
 
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Condividiamo questa concreta e giusta iniziativa 
- nata non dai "soliti pacifisti, nè dalle utopie cristiane di un Papa argentino" -
descritta nell'articolo pubblicato su "Mosaico di pace", rivista promossa da Pax Christi
 

I Nobel della scienza per il disarmo: firma l’appello

Tonio Dell'Olio -  
 

La spesa militare mondiale dal 2000 ad oggi è raddoppiata e si sta avvicinando a 2 mila miliardi di dollari all’anno. Uno spreco enorme di risorse a favore di strumenti di morte. Un applauso, quindi, ai 50 Nobel (Fisica, Chimica e Medicina) e ai presidenti di Accademie della Scienza nazionali che hanno indirizzato un appello ai capi di Stato di tutto il mondo per chiedere semplicemente di negoziare un accordo globale per una riduzione bilanciata delle spese militari del 2% all’anno per cinque anni.

Chiedono che la metà dei 1.000 miliardi che si libererebbero entro il 2030 siano destinate a un fondo globale per far fronte a pandemie, cambiamenti climatici e povertà estrema. L’altra metà resterebbe a disposizione dei singoli governi. Non si tratta dei “soliti pacifisti”, né delle utopie cristiane di un Papa argentino, ma di uomini di scienza che comprendono l’assurdità abnorme della spesa in armi e la conseguente urgenza del disarmo.

Ora quello stesso appello è aperto all’adesione di tutte le cittadine e i cittadini del mondo e vale la pena firmarlo. Anche se nell’appello non compare, mi piacerebbe che ciascuno degli scienziati si impegnasse pubblicamente con un giuramento solenne a non accettare mai (più) di vendere la propria intelligenza e il talento nella ricerca di morte, rinunciando a qualunque lauto compenso da qualunque governo.

 

martedì 14 dicembre 2021

Petrini «Questo sistema alimentare è emblema del fallimento del modello capitalistico»

dalla pagina https://www.slowfood.it/petrini-questo-sistema-alimentare-e-emblema-del-fallimento-del-modello-capitalistico/

«Voglio chiedere, in nome di Dio, alle grandi compagnie alimentari di smettere d’imporre strutture monopolistiche di produzione e distribuzione che gonfiano i prezzi e finiscono col tenersi il pane dell’affamato»
Papa Francesco

Con l’appello rivolto alle grandi compagnie alimentari, lo scorso 16 ottobre Papa Francesco ha voluto mettere in risalto il fatto che questo sistema alimentare ci sta avvelenando. Un intervento oltre che rivoluzionario quanto mai necessario. È alquanto significativo che una figura della caratura di un Pontefice denunci in maniera schietta le strutture e i processi che stanno mettendo a repentaglio la vita del genere umano su questo Pianeta. Nel caso specifico, Bergoglio ha puntato il dito contro un’industria alimentare incentrata esclusivamente su consumo e profitto, la quale, se non contrastata, continuerà a impinguare e ad accrescere gli effetti negativi delle due principali crisi che da anni ci attanagliano: quella economico-sociale e quella climatico-ambientale.

Il sistema alimentare industriale contribuisce alle crisi economico-sociale e quella climatico-ambientale.

 

La crisi economico-sociale

Partiamo dalla prima. Per comprovare l’impatto dell’agroindustria in termini economici e sociali basta richiamare in causa quella che a prima vista può sembrare una semplice e paradossale equazione. Da una parte troviamo poche grandi aziende che si occupano della cosiddetta produzione di massa del cibo. I prezzi con cui questi entrano nel mercato rendono i loro prodotti appetibili a quella maggioranza di famiglie che vivono a ridosso della soglia di povertà.

Nel medesimo tempo però, gli stessi prezzi dettati da una logica di mercato dopata, non possono essere competitivi per il secondo membro dell’equazione: la moltitudine di contadini e piccoli produttori che rappresentano oltre il 70% del totale delle aziende agricole. Quest’ultimi infatti, oltre al duro lavoro richiesto dalla terra, devono riuscire a ritagliarsi una “nicchia” di mercato che garantisca loro di non commerciare sottocosto il cibo ottenuto da pratiche agricole sane e virtuose. In altre parole, per vendere i loro prodotti a un valore equo e allontanare così lo spettro dell’estinzione, i produttori di piccola scala sono costretti a vendere a prezzi più alti e meno accessibili.


Questo scenario risulta essere davvero inquietante, soprattutto se a governare il tutto (ovvero a determinare il prezzo dei prodotti), non vi è solo lo sfruttamento di economie di scala, bensì la scarsa qualità delle materie prime, l’utilizzo di nocivi prodotti di sintesi (sia a livello di produzione che a livello di trasformazione), condizioni di lavoro che spesso rasentano la schiavitù e soprattutto logiche di mercato in grado di influenzare un consumo spesso superfluo e che alimenta e legittima lo spreco.

Il risultato di questa equazione? Polarizzazione dei redditi e ingiustizia sociale. In altre parole: disuguaglianza!

Il sistema alimentare odierno è sinonimo di disuguaglianza

E non è tutto qua. Il sistema alimentare odierno è sinonimo di disuguaglianza anche per un ulteriore drammatico paradosso.

È infatti doveroso rimarcare il fatto che noi oggi viviamo in un mondo che conta da una parte oltre 1 miliardo e 600 milioni di persone che soffrono di patologie strettamente connesse all’ipernutrizione; contemporaneamente si superano gli 800 milioni di casi di fame e malnutrizione. Se da un lato del globo, quello meno sviluppato a livello economico, si patisce ancora la fame e ci si ammala per la scarsa qualità del cibo. Dall’altro lato, quello che noi consideriamo progredito, galoppano l’obesità, il diabete e le malattie cardiovascolari. Questo è un altro scenario che inquadra in maniera limpida come questo sistema crei delle pericolose divergenze, le quali non possono più essere tollerate.

Aggiungo, se il modello di consumo alimentare occidentale venisse adottato nello stesso momento da tutto il mondo, allora non basterebbero due Pianeti per soddisfare uno stile di vita che contraddistingue l’economia dello scarto. Dobbiamo necessariamente renderci conto che, sono soprattutto le scelte alimentari che noi adottiamo a incidere sulla nostra salute, e quindi sulla salute della società e della nostra Terra.

Ipernutrire noi stessi si traduce con una sovrapproduzione di cibo, la quale implica a sua volta un dispendio di energie non necessario. Interi campi vengono coltivati, diserbati e super sfruttati del tutto inutilmente; il consumo delle risorse idriche risulta sovrabbondante, così come il relativo inquinamento delle falde acquifere; la trasformazione, il packaging e il trasporto della sovrabbondanza del cibo chiudono un circolo mefistofelico che fa ammalare noi e l’ambiente che ci circonda.

La crisi climatico – ambientale

Passando dunque alla questione climatico-ambientale possiamo constatare che i risultati non cambiano. Oltre un terzo delle emissioni di gas serra è riconducibile alla produzione di cibo. Di questo oltre la metà è da imputare agli allevamenti di bestiame. Basterebbe sottolineare questi dati per comprendere l’impatto del sistema alimentare in questa crisi. Eppure, anche in questo caso, entrando più nel dettaglio la situazione si fa sempre più paradossale.


Spiego il perché. Il primo settore che risente degli effetti immediati del cambiamento climatico è proprio quello alimentare. L’innalzamento di un solo grado di temperatura implica lo spostamento delle coltivazioni di 150 metri in altitudine e di addirittura 150 chilometri in latitudine. Ecco che come effetti collaterali abbiamo l’abbandono di terreni ormai improduttivi (la desertificazione è una piaga ormai diffusissima) per bonificare nuove zone: la coltivazione della vite che arriva nel Regno Unito e i frutti esotici in Sicilia. Tutto ciò non implica solo dei costi imprevisti per le aziende alimentari, ma anche ulteriori disboscamenti che, esattamente come in un circolo vizioso, alimentano il galoppare del surriscaldamento globale.

La responsabilità dell’eccessivo consumo e produzione di carne

Ma dico di più. L’Organizzazione mondiale della sanità sostiene che per una dieta sana ed equilibrata sono sufficienti 25 chilogrammi di carne all’anno. Oggi in Italia c’è un consumo procapite annuo di 80 chilogrammi; e dire che siamo tra i meno carnivori d’Europa. Senza prendere in considerazione gli oltre 120 chilogrammi di carne che ogni anno uno statunitense mangia.

In sostanza, circa il 15% delle emissioni di gas serra dipendono da una produzione e un consumo eccessivo ed esagerato di carne.

Lo stesso discorso sviluppato finora sul tema del superfluo si può riportare sulla questione dello spreco. La Fao denuncia che ogni anno viene sprecato 1/3 del cibo prodotto. Vi è quindi da prendere in considerazione anche l’impatto ambientale che questo dilapidare e scialacquare risorse implica.

Questo sistema alimentare è emblema del fallimento del modello capitalistico.

Ecco perché questo sistema alimentare è emblema del fallimento del modello capitalistico. Infatti, la logica fondante del capitalismo, la quale prevede l’accumulo finalizzato all’investimento, non è per nulla confacente a un settore che tratta essenzialmente beni deperibili.

Un settore che evidenzia, sempre più nitidamente, quanto Papa Francesco sostiene sin dalla stesura della sua Laudato Si’: ovvero che non ci è consentito pensare di poter superare la crisi economica senza dover affrontare gli sconquassi ambientali; così come non ci è possibile oltrepassare la violazione dei diritti umani e la disuguaglianza sociale senza doverci confrontare nel medesimo momento con la crisi climatica.

Cambiare paradigma per salvare la Terra

Dico di più, proprio in questi ultimi due anni si è palesata una situazione che dimostra come dalla nostra incuranza e dalla nostra staticità nella gestione di queste due crisi, sia possibile incappare in situazioni ancora peggiori. La crisi pandemica che stiamo tuttora vivendo è infatti la prova lampante di come la distruzione degli ecosistemi e della biodiversità che li popola, così come la mal distribuzione delle risorse (problemi di cui il sistema alimentare è parte in causa), generino naturalmente effetti tanto devastanti quanto poco prevedibili.

A maggior ragione risulta quanto mai necessario schierarsi dalla parte di Papa Francesco quando sostiene che ripartire da questa pandemia ritornando ai vecchi paradigmi è allo stesso tempo un’azione suicida, ecocida e genocida. E in attinenza con quanto sostenuto finora, molto passa da come decidiamo di nutrirci.

Noi oggi necessitiamo  urgentemente di una sensibilizzazione e di un’educazione alimentare completamente diversa, perché solo in questo modo potremo avviare una vera transizione ecologica e cambiare il destino delle generazioni future.

Dobbiamo smetterla di prendere scelte alimentari nocive basandosi esclusivamente sulla logica del prezzo

Ampliando la nostra consapevolezza in tema di alimentazione e nutrizione, dobbiamo smetterla di prendere scelte alimentari nocive basandosi esclusivamente sulla logica del prezzo. Così facendo, fino ad ora abbiamo solo contribuito a incrementare il divario sociale, con l’aggravante di lasciare nelle mani di pochi le redini del gioco.

Non solo: diversi studi dichiarano che per ogni dollaro speso in cibo di bassa qualità, ci sono dei costi sommersi che ammontano a 2 dollari di esternalità negative per l’ambiente e 2 dollari da imputare al vero costo sociale. Abbiamo visto cosa questo può voler dire.

Il prezzo più alto è pagato dagli umili

Abbiamo inoltre bisogno di prendere coscienza sul fatto che i primi a perire degli angoscianti risultati sociali, economici e ambientali sono sempre i più umili. Sono i piccoli contadini che non possono permettersi di convertire le loro produzioni o di abbandonare i propri terreni ormai resi infertili. Con loro le popolazioni di quelle zone del mondo in cui il surriscaldamento globale sta rendendo quasi impossibile la sopravvivenza e che per questo sono dunque costrette a migrare. Sono i poveri che soffrono la fame o che sono costretti a cibarsi di cibo insalubre.

Petrini in visita al villaggio di Qi Yan, foto © Guo Haotian

Allo stesso tempo, avvertendo un obbligo morale, dobbiamo mobilitarci affinché vengano adottate misure di contrazione per chi consuma cibo oltre misura e di convergenza delle risorse alimentari verso quelle popolazioni che vedono ancora concretamente il rischio di morire di fame. Stesso principio vale per il consumo della carne: al mondo vi sono oltre venti nazioni che hanno un consumo medio di carne sotto i 10 chilogrammi all’anno. A queste non possiamo chiedere di ridurre i loro consumi, bensì aiutarle a raggiungere livelli di nutrizione idonei e sostenibili.

Le risorse non sono infinite

Se con la rivoluzione industriale abbiamo raggiunto livelli di benessere diffuso mai visti prima, da tre secoli ci portiamo avanti l’effetto collaterale di un modello produttivo che si basa sull’infinitezza delle risorse naturali. Con impegno e attraverso i comportamenti quotidiani l’avvio di questa nuova era di conversione ecologica sarà in capo alle azioni e alle decisioni di ogni singolo cittadino. Ecco che il mio auspicio e il mio augurio è che in ogni meandro della società si possa diffondere il coraggio e la speranza che Papa Francesco riconosce ai movimenti popolari. È giunta l’ora di unirsi a questi “poeti sociali” per muovere forti azioni comuni che ci possano traghettare verso un futuro più buono più pulito e più giusto.

Carlo Petrini per l’Osservatore Romano
c.petrini@slowfood.it

 

sabato 11 dicembre 2021

Il mondo malato e quelli di sotto

dalla pagina Il mondo malato e quelli di sotto - Comune-info 

Sergio Segio 

Il disastro ambientale non può essere più nascosto. La violenza e la militarizzazione dei territori sono ormai la regola che accompagna, dalle Ande alla Val Susa, l’estrattivismo. Intanto riscaldamento climatico e pandemia da Covid-19 richiamano i medesimi problemi e rimandano alle stesse cause, prima di tutte lo scellerato e intensivo sfruttamento ambientale, umano e animale. In questo grigio panorama – nel quale cresce la guerra non dichiarata contro i migranti -, nuovi movimenti globali come Fridays For Future ed Extinction Rebellion hanno cominciato a dimostrare che l’impossibile è a portata di mano, che la salvezza del mondo che brucia e dell’umanità che lo abita non risiedono nella fede in tecnologie salvifiche né tanto meno nel greenwashing. Occorre allargare in tanti modi diversi lo sguardo e l’analisi, “o meglio abbassarli, perché è solo dal basso della piramide sociale, dalle ragioni di chi quotidianamente paga i costi di un sistema ingiusto e diseguale – scrive Sergio Segio, curatore del Rapporto Diritti globali 2021 Stato dell’impunità nel mondo – che si possono mettere in moto le dinamiche del cambiamento…”. Alcuni estratti dell’introduzione del Rapporto 

Diritti globali 2021: indice completo

Tratta da Extinction Rebellion

1. Il pianeta che brucia

l disastro ambientale è davvero ormai sotto gli occhi di tutti: di chi drammaticamente e in prima persona ha la propria vita o l’abitazione messe a rischio o addirittura distrutte, ma anche della maggioranza della popolazione che vede le immagini della catastrofe al telegiornale, sotto forma di incendi indomabili, di alluvioni e di frane altrettanto devastanti. Situazioni sempre più frequenti negli ultimi anni, ampiamente previste dagli scienziati, regolarmente ignorate dai decisori politici, prontamente scordate da chi non le ha vissute direttamente su di sé. È rimasta latitante ogni seria politica di prevenzione, manutenzione e gestione oculata del territorio. È stata ricorrente – anno dopo anno, incendio dopo incendio – la constatazione dell’insufficiente dotazione di aerei Canadair per spegnere i roghi, regolarmente dimenticata il giorno dopo dell’emergenza. Si tratta di catastrofi sempre meno definibili “naturali”.

Così, di omissione in omissione a livello locale e a livello globale, si è arrivati all’estate 2021, con il mese di luglio più caldo di sempre, in un’escalation che dura ormai da tempo: dicono i meteorologi che l’ultima volta che il globo ha avuto un luglio più fresco della media del XX secolo è stato nel 1976 e che quello del 2021 è stato il mese più caldo in 142 anni di registrazione (Borenstein, 2021). Ma già il 2020, documenta la World Meteorological Organization, era stato uno dei tre anni più caldi mai registrati, con una temperatura media globale di circa 1,2 °C al di sopra del livello preindustriale. Circostanza che è andata a cumularsi alla pandemia da Covid-19 in corso, con i relativi effetti moltiplicati sulla salute e, per una parte del mondo, sull’insicurezza alimentare. La pandemia ha, inoltre, complicato gli sforzi di riduzione del rischio di catastrofi (WMO, 2021).

Per quanto del tutto prevedibile e previsto, ancorché irresponsabilmente ignorato, il disastro è arrivato inesorabile, con un quotidiano bollettino di guerra estivo: inondazioni in Germania; piogge torrenziali nella regione cinese dell’Hubei; alluvioni in Turchia; terremoto ad Haiti; immani roghi in Grecia e Cipro; sud dell’Italia in fiamme e tromba d’aria a Pantelleria con morti e feriti; inondazioni nel nord-est della Spagna, con gravi danni e stagione turistica compromessa, e poi incendi con migliaia di evacuati; alluvioni nel sud-est dell’Inghilterra con stato di calamità in ospedali londinesi; incendi in Cabilia e nelle altre regioni del nord dell’Algeria; il Dixie Fire, il secondo maggiore incendio nella storia dello Stato, che ha incenerito oltre 200.000 ettari in California; l’uragano Ida nel nord-est degli Stati Uniti con almeno 46 morti e New York allagata; inondazioni e fiumi esondati in India, con interi villaggi sommersi dall’acqua; alluvioni e fiumi straripati in Giappone con morti, dispersi e cinque milioni di sfollati; un’area di quasi seimila chilometri quadrati interessata da roghi in Canada.

Sino all’incendio più grande, nella Siberia nord-orientale, con una linea del fuoco lunga duemila chilometri, che potrebbe risultare il maggiore della storia. E il più devastante: non solo per la perdita di 13 milioni e mezzo di ettari bruciati registrati ad agosto 2021 a livello nazionale, ma per la produzione di un record di 505 megatoni di anidride carbonica, ad aggravare la già drammatica situazione del riscaldamento globale che non a caso vede nell’Artico temperature medie che stanno aumentando oltre tre volte più velocemente del resto del mondo (The Moscow Times, 2021).

Migliaia i morti (2.200 solo ad Haiti, nell’agosto 2021 martoriata da un terremoto di magnitudo 7,2 e contemporaneamente da una tempesta tropicale dal nome ferocemente beffardo, Grace), decine di migliaia i feriti, centinaia di migliaia i senza casa, milioni gli sfollati; sono le prime cifre delle catastrofi dell’estate 2021. Bilanci provvisori che quasi sempre dimenticano di citare le centinaia di milioni di animali, selvatici e domestici, uccisi dai disastri, a loro volta indice di una tragedia che non si esaurisce nella contingenza dell’emergenza ma si ripercuoterà nella distruzione degli habitat, condizionando il futuro. E c’è stato anche chi in Italia, nonostante le distruzioni degli incendi con almeno venti milioni di animali morti, ha disposto l’inizio anticipato della stagione venatoria. A dimostrazione che alla pulsione ecocida talvolta non esiste davvero limite. Un campo nel quale, per la verità, anche nel 2021 è apparsa ineguagliata la politica del presidente del Brasile, dove al sostegno del sistema dell’agribusiness e delle attività estrattive, alla devastazione amazzonica e di millenari ecosistemi si accompagnano la repressione delle comunità indigene, le violenze e gli omicidi contro i difensori dei diritti umani e dell’ambiente.

2. Ecocidio ed etnocidio nel Brasile di Bolsonaro

«L’ecocidio da cui derivano i megaincendi è anche un etnocidio. Distruggere la foresta, compartimentalizzarla, privatizzarla, sfruttarla o disboscarla su aree immense a beneficio dell’estrazione mineraria, degli allevamenti, delle coltivazioni di soia transgenica o di palma da olio, significa, allo stesso tempo e con altrettanta violenza, distruggere culturalmente i popoli che la abitano» (Zask, 2021). Con Bolsonaro, presidente dal gennaio 2019, la distruzione della foresta amazzonica, il principale polmone verde del globo, si è fortemente intensificata. Nonostante ciò, gli appetiti della lobby Bancada ruralista non sono ancora soddisfatti: a maggio 2021 una forte mobilitazione popolare e dell’opposizione parlamentare è riuscita a bloccare, almeno temporaneamente, l’ennesimo tentativo di fare passare un disegno di legge (n. 490/2007) sul “Marco Temporal” che vuole introdurre limiti temporali alla demarcazione delle terre dei popoli indigeni, modificando i diritti acquisiti e sanciti a livello costituzionale, in base ai quali vi sono terre loro riservate – complessivamente 440.000 ettari con una popolazione di 70.000 persone. Ma sono circa 900.000 gli indigeni che vivono in Brasile in 305 tribù. […]

3. L’estrattivismo assassino e suicida

In America Latina il sistema dell’agribusiness e dell’allevamento intensivo, della monocultura e del settore minerario e in generale il modello estrattivista sono particolarmente concentrati e sviluppati, oltre che favoriti da classi politiche locali spesso espressione del latifondismo e permeate da fenomeni di corruzione. Come già – e tuttora – per l’Africa, la ricchezza di risorse naturali e minerali diventa una dannazione, poiché calamita gli interessi devastatori delle grandi corporation e dei fondi di investimento, nonché dei governi dediti al land e water grabbing, in cui latita ogni responsabilità sociale ed ecologica. Il Cile, ad esempio, possiede circa il 40 per cento delle riserve mondiali di litio, un metallo strategico fondamentale nell’elettronica e nelle nuove tecnologie il cui già intenso sfruttamento è destinato a lievitare nell’attuale fase di transizione ecologica con la necessità di produzione di energia da fonti rinnovabili. Uno dei giacimenti maggiori di litio, forse il più grande al mondo, è però in Afghanistan. La stima comprensiva di altri metalli e terre rare presenti nel sottosuolo afghano arriva al valore di tremila miliardi di dollari. Il pluridecennale stato di guerra, prima con l’Unione Sovietica poi con gli Stati Uniti e la NATO, ne hanno sinora impedito lo sfruttamento che potrebbe però cominciare nel prossimo futuro, anche per sopperire alle necessità economiche del regime talebano tornato al potere e per dare ristoro allo stato di prostrazione del paese e della sua popolazione dopo una guerra così lunga. E di questo si avvantaggerebbe probabilmente la Cina, abilmente posizionatasi per tempo. La questione riguarda anche l’Unione Europea, come rimarcato dalla coalizione di 180 associazioni e accademici che ha denunciato i piani sulle materie prime contenuti nel Green Deal europeo, basati su un’idea contraddittoria e incoerente di “crescita verde”, che porterà «a un drammatico aumento della domanda di minerali e metalli che la Commissione Europea prevede di soddisfare attraverso un gran numero di nuovi progetti di estrazione mineraria, sia all’interno che all’esterno dell’Unione». Tra questi metalli vi è, appunto, anche il litio. Pure qui, come per le fonti fossili, oltre al danno ambientale che colpisce tutti per favorire il profitto privato, vi è la beffa dei sussidi pubblici europei di cui beneficiano le compagnie minerarie e i loro azionisti, nonostante il Green Deal, che anzi diventa occasione per nuovi fronti di saccheggio di beni comuni e nuovi guadagni da parte di grandi gruppi, lobby e corporation.

A tutto discapito e con precise responsabilità anche riguardo i diritti umani: «La domanda della UE di minerali e metalli dall’estero porta a conflitti sociali, uccisioni di difensori dell’ambiente e dei diritti umani, distruzione ambientale ed emissioni di carbonio in tutto il mondo. L’attuale politica commerciale della UE ha come unico obiettivo la liberalizzazione del settore delle materie prime senza riguardo per i diritti umani, l’ambiente e la sovranità dei paesi del Sud globale, intrappolando queste nazioni in un ciclo di estrattivismo e dipendenza cronica» (AA.VV., 2021).

Il paradigma della crescita infinita, pur se tinta di verde e di dichiarata transizione verso fonti rinnovabili, rimane pratica che distrugge ogni equilibrio e dunque suicida. Come già emerge in tutta evidenza dai dati relativi all’ultimo mezzo secolo: dagli anni Settanta del secolo scorso la popolazione mondiale è raddoppiata (e anche quella demografica è questione trascurata e rimossa), ma il prodotto interno lordo globale è quadruplicato.

In quel paradigma gli appetiti e i profitti crescono, autoalimentati dalle dinamiche speculative della finanza, e con essi aumentano la violenza contro chi difende territori e popolazioni e i conflitti ambientali: 3.516 quelli sinora registrati (Environmental Justice Atlas, 2021).

Il modello estrattivista contraddistingue il processo di accumulazione per spossessamento, a sua volta caratteristico del dominio del capitale finanziario; il suo principale strumento

«è la violenza, e i suoi agenti sono, indistintamente, poteri statali, parastatali e privati, che spesso lavorano insieme perché condividono gli stessi obiettivi…. La violenza e la militarizzazione dei territori sono la regola, sono una parte inseparabile dal modello; i morti, i feriti e le persone seviziate non sono il risultato di eccessi accidentali dei controlli polizieschi o militari. È il modo “normale” di agire dell’estrattivismo nella zona del non-essere. Il terrorismo di Stato praticato dalle dittature militari distrusse i gruppi di ribelli e spianò la strada all’avvio delle miniere a cielo aperto e delle monocolture transgeniche. Successivamente, le democrazie – conservatrici e/o progressiste – approfittarono delle condizioni create dai regimi autoritari per approfondire l’accumulazione per spossessamento» (Zibechi, 2016).

Non è, insomma, un caso se la gran parte delle uccisioni di difensori dei diritti umani è concentrata in quella parte del globo dove questi processi sono più intensi, ma anche maggiormente contrastati da collettività e popolazioni. Secondo Front Line Defenders, nel 2020 ne sono stati assassinati 331, la gran parte (69 per cento) impegnati nella difesa della terra, delle comunità indigene e dei diritti ambientali. Ben 264 degli omicidi sono avvenuti nelle Americhe […] (Global Witness, 2021).

Naturalmente e purtroppo, la dimensione complessiva della violenza, della repressione e della violazione dei diritti umani e anche degli omicidi sociali e politici in quei paesi è assai più vasta (ne riferiamo qui nei capitoli Diritti Globali e Osservatorio sulle impunità) e indubbiamente la Colombia vede un terribile e storico primato negativo, che ha spinto il Tribunale Permanente dei Popoli a dedicarvi nel 2021 una Sessione sul genocidio politico, impunità e crimini contro la pace. La sentenza, emessa il 17 giugno 2021, ha riconosciuto lo Stato colombiano colpevole del crimine di genocidio, portato avanti nel corso dei decenni (Tribunal Permanente de los Pueblos, 2021). Un genocidio che continua, a opera degli stessi poteri e governi collusi con gli interessi economici che ne devastano i territori, con 115 difensori e leader sociali e 36 ex guerriglieri uccisi nel 2021 (al 28 agosto). Un genocidio che non riesce però a fermare la protesta popolare che ha segnato il 2021, con il paro nacional, una rivolta cominciata il 28 aprile contro il governo Duque e la sua riforma tributaria e per un pacchetto di misure sociali su reddito, istruzione e salute. Dall’inizio della protesta al 26 giugno si sono registrati 4.687 casi di violenza da parte della polizia, 2.005 detenzioni arbitrarie, 82 feriti gravemente agli occhi, 75 uccisi nel corso delle manifestazioni, già saliti a 80 al 23 di luglio (INDEPAZ, 2021; Temblores, 2021). […]

5. Senza giustizia ambientale non c’è pace

Come tutte le guerre, anche questa è un piano inclinato, troppo facile da cominciare e complicata da frenare e interrompere. Come tutte le guerre, il carburante che la tiene in vita è la religione del profitto, l’interesse dei pochi contro i diritti dei molti. Per fare la pace con la Terra – e con la maggioranza di coloro che la abitano – bisogna cambiare l’attuale sistema, che, con la potenza dell’informazione condizionata e del dominio culturale e grazie al vassallaggio e passività di gran parte della classe politica, fa apparire il suo tramonto e superamento un trauma impensabile, un cambiamento impossibile.

Certo, quella trasformazione radicale sarebbe un fatto enorme e ciò sembra fare ritenere questo sistema economico e sociale insuperabile, magari non il migliore ma senza alternative. Invece, ogni alternativa è preferibile all’apocalisse ambientale e all’estinzione di massa che si profila. L’alternativa c’è, è sul tavolo, peraltro così netta ed evidente da sembrare persino troppo semplice. Invece è quella giusta. È la riconversione ecologica dell’economia. La indicano da decenni gli scienziati non asserviti, le associazioni ambientaliste e, più di recente, le poche voci alte e libere come quella di papa Francesco e quella di una ragazzina molto determinata e capace di stimolare un movimento mondiale di giovani che rivendicano futuro, per sé e per tutti. «Abbiamo già la soluzione per la crisi climatica. Sappiamo esattamente cosa dobbiamo fare. L’unica cosa che manca è che ci decidiamo. Economia o ecologia? Dobbiamo scegliere» (Thunberg, 2019).

Il 20 agosto 2018 Greta Thunberg iniziava la sua protesta solitaria davanti al parlamento svedese. Un sassolino che è divenuto valanga: Fridays For Future, un movimento che ha mobilitato milioni di persone in tutto il mondo, non per niente indirizzato a riconquistare quel futuro e quei diritti confiscati dai padroni del clima e dai distruttori dell’ambiente. Pochi mesi dopo, nell’ottobre di quello stesso anno, a Londra faceva la sua comparsa nelle piazze per la prima volta un altro movimento, Extinction Rebellion, che pure si mobilitava con decisione per la giustizia ambientale. Quei movimenti e quella radicalità, divenuti globali, rappresentano le gambe, la testa e il cuore del cambiamento necessario e drammaticamente urgente. Hanno dimostrato e dimostrano che l’impossibile è a portata di mano, che la salvezza del mondo che brucia e dell’umanità che lo abita non risiedono nella fede in tecnologie salvifiche di là da venire, né tanto meno nel greenwashing, ma in un soprassalto di volontà e lucidità politica, sino a oggi sacrificata ai dogmi della crescita e subordinata ai sacerdoti del mercato globalizzato.

La giustizia climatica impone di ripensare l’economia e di riconvertirla, questo è il punto ineludibile. Proprio come – purtroppo sinora in pochi casi – si è fatto con le industrie belliche. Interrompere le produzioni di morte e spostare investimenti e lavoro in quelle ecologicamente, eticamente e socialmente compatibili: non è impossibile, basta un cambio di prospettiva nello sguardo e nelle coscienze che faccia comprendere come le produzioni fossili comportino disastri, e dunque genocidio ambientale, in modo diverso ma con gli stessi effetti delle fabbriche di mine antiuomo o di missili. Basta che ci decidiamo, come scrive Greta. O – forse più esattamente – basta che chi sta in basso e paga i costi maggiori della distruttività del sistema costruisca la forza politica per imporre la decisione a chi può e deve prenderla, ma non lo vuole fare e non lo sta facendo. Quanto meno con l’urgenza e la determinazione necessarie.

Una riflessione, quella della decrescita, che si era affacciata una quindicina di anni fa è stata forse troppo sbrigativamente tolta dal tavolo e archiviata. Per quanto controversa, poneva la questione ineludibile sui limiti allo e dello sviluppo. Il drammatizzarsi dell’emergenza climatica dovrebbe riaprire interrogativi cruciali e capaci di prospettiva, a cominciare da quello se unico o determinante metro di misura possa continuare a essere quello del PIL.

6. Alle radici del Covid-19

In modo simile, ed egualmente non innocente, in questi due anni di pandemia, dal dibattito politico e nei luoghi della riflessione pubblica, dai media e dai social è rapidamente scomparso un vocabolo che aveva fatto capolino: zoonosi. Un altro, sindemia, non è mai riuscito neppure ad affacciarsi. Non è un caso. Attraverso di essi avrebbero potuto farsi strada gli interrogativi sulle cause – e sugli effetti diseguali – della pandemia, invece appunto prontamente rimossi e occultati, che a loro volta rimandano al sistema in cui l’intera umanità è immersa e costretta a vivere nel tempo della globalizzazione, quello del capitalismo fossile e finanziario. E a quel suo segmento che ha trasformato anche l’agricoltura e l’allevamento animale in sistema industriale di iper-sfruttamento, indifferente alle ricadute su ecosistemi ed equilibri tra specie. Un sistema predatorio e distruttivo, come ormai ci mostrano tutti gli indicatori sociali, economici e ambientali.

Un sistema gravemente malato che ha fatto ammalare il mondo. In questo caso, provocando e producendo una pandemia che non ha precedenti, quanto a diffusione e gravità, e che dimostra specificità assenti in quelle del passato, non solo per i processi di globalizzazione che hanno annullato le distanze geografiche e favorito l’estrema mobilità umana (sempre che non si sia poveri e migranti), ma semmai per quei processi – anch’essi connessi alla globalizzazione – relativi alle modalità di produzione di merci e di cibo, di accaparramento di materie prime, di sfruttamento delle risorse naturali ed energetiche. Modalità che, nelle loro sinergie distruttive, hanno progressivamente portato il pianeta, e chi lo abita, sull’orlo del tracollo. Nel caso di specie, causa scatenante è stata… il salto di specie, vale a dire lo spillover secondo la definizione anglosassone. Che per l’attuale pandemia è stato il passaggio del coronavirus dal pipistrello all’uomo, attraverso un passaggio intermedio, probabilmente il pangolino, facilitato dai mercati cinesi di animali vivi, dalle abitudini alimentari locali e dagli allevamenti intensivi di maiali installati ai margini delle foreste in cui vivono questi animali. Allevamenti industriali che sottraggono spazio agli habitat di specie selvatiche e costringono alla coabitazione forzata e ravvicinata animali selvatici, quelli allevati e l’uomo. Da qui la zoonosi, ovvero la malattia infettiva trasmessa dall’animale vertebrato all’uomo. I cambiamenti climatici e l’inquinamento atmosferico hanno reso quest’ultimo più vulnerabile alle infezioni respiratorie, potendosi così parlare di sindemia, che è l’interazione sinergica di due o più malattie trasmissibili e non trasmissibili, che colpisce particolarmente le fasce di popolazione svantaggiata, implicando una correlazione tra quelle malattie e le condizioni ambientali e socio-economiche.

Riscaldamento climatico e pandemia da Covid-19 richiamano i medesimi problemi e rimandano alle stesse cause: prima di tutte lo scellerato e intensivo sfruttamento ambientale, umano e animale. Quest’ultimo rimane peraltro invisibile e nascosto nelle sue forme, drammatizzate dall’industrializzazione degli allevamenti, giganteschi lager e catene di montaggio dell’orrore, che se rivelate e conosciute diverrebbero intollerabili per la sensibilità comune. Sono questi temi e aspetti quasi totalmente assenti dalla riflessione e informazione pubblica, confinati nei ristrettissimi recinti di gruppi animalisti e di sparuti scienziati e filosofi antispecisti. Eppure, sono fondamentali e costituenti per una prospettiva di cambiamento, necessariamente radicale.

C’è, allora, da mettere in discussione e convertire il sistema economico ma c’è anche una questione di stili di vita e di culture del consumo da ripensare, cui anche la pandemia dovrebbe sollecitare.

«Il dolore, l’incertezza, il timore e la consapevolezza dei propri limiti che la pandemia ha suscitato, fanno risuonare l’appello a ripensare i nostri stili di vita, le nostre relazioni, l’organizzazione delle nostre società e soprattutto il senso della nostra esistenza» (Bergoglio, 2020). Di nuovo lo ha detto bene papa Francesco, spesso capace di parole di verità, di denunce e di proposte in materia sociale e ambientale che, dato il pulpito, ci si aspetterebbe fossero in grado di indurre mutamenti o almeno un dibattito incisivo e che invece rimangono inascoltate dai decisori politici, ma pure dallo stesso popolo della chiesa al cui vertice siede il pontefice: perché il cambiamento fa paura, perché permane come un fossato lo scarto tra ciò che si sa essere giusto e ciò che si mette in opera, essendo rara e costosa la capacità di coerenza e di conseguenza. E perché, alla fine e in misura sempre maggiore, nell’epoca della comunicazione globale ogni parola, anche la più giusta e autorevole, rimane smarrita nell’oceano indistinto e nel frastuono perpetuo che confonde e rende meno distinguibile ciò che è vero e vitale. Questo vale anche per la parola e l’evidenza scientifica, durante la pandemia messe in discussione da aree non ristrette di popolazione sia riguardo le cause, sia riguardo i rimedi.

Ciò che è successo – il passaggio di un coronavirus dal pipistrello all’uomo – era peraltro stato esattamente previsto già nel 2012 (Quammen, 2014). Del resto, nel corso dell’ultimo secolo le zoonosi sono state un centinaio e hanno avuto un’accelerazione negli ultimi due decenni. Vale a dire nel periodo storico che ha visto un deciso peggioramento delle complessive condizioni ambientali. Se, dunque, il Covid-19 è una zoonosi, «la pandemia è stata causata dai danni ambientali che l’umanità provoca per procurarsi le quantità sempre maggiori di risorse necessarie ad alimentare la crescita economica, i profitti e i consumi» (Pallante, 2021).

Ecco perché è sbagliato ricercare la causa che ha dato origine alla pandemia, tanto più se si cerca di attribuirla alle ipotesi di fuga del virus da un laboratorio di Wuhan, come ha insistentemente e strumentalmente provato a fare Donald Trump senza che ve ne fossero gli elementi. Considerando, oltretutto, che se è vero che in quel laboratorio in Cina erano in corso ricerche sul coronavirus dei pipistrelli, queste erano finanziate da EcoHealth Alliance, un’organizzazione sanitaria con sede negli Stati Uniti (Lerner, Hvistendahl, 2021). […]

9. La causa paga: cittadini e movimenti si organizzano

All’inerzia o – alla meglio – lentezza dei decisori politici, alla disinformazione truffaldina dei negazionisti climatici, al camaleontismo del greenwashing e a cosmetici e ingannevoli rebranding (come quello della compagnia petrolifera francese Total che nel maggio 2021 ha deciso di cambiare nome e logo: si chiamerà TotalEnergies e il marchio diventa di un’ecologica tinta arcobaleno) e al potere di condizionamento delle lobby dell’industria fossile tentano di fare fronte i movimenti globali che hanno invaso la scena negli ultimi anni, mettendo in gioco i propri corpi per conquistare il futuro che viene loro sottratto giorno dopo giorno, proponendo cambiamenti radicali di paradigma e lottando per la giustizia climatica.

Su altri piani e con altri strumenti, negli anni recenti sta crescendo anche un significativo fenomeno: quello dei contenziosi legali connessi ai cambiamenti climatici, con numeri importanti. Le controversie sono quasi raddoppiate in quattro anni, passando da 884 casi in 24 paesi nel 2017 a oltre 1.550 in 38 paesi nel 2020. Maggiormente concentrati nelle nazioni ad alto reddito, stanno comunque interessando anche aree del sud del mondo come Colombia, India, Pakistan, Perù, Filippine e Sudafrica. I querelanti sono ONG, gruppi di cittadini e di attivisti, comunità indigene. Sono chiamate in cause le aziende ma anche i governi incapaci di fare rispettare norme e impegni o inattivi rispetto a cambiamenti climatici e a eventi meteorologici estremi (UNEP, 2021).

Quando i cittadini si organizzano e gli attivisti si mobilitano i risultati arrivano, come comprova, ad esempio, la sentenza della Corte costituzionale tedesca dell’aprile 2021, che ha imposto al legislatore di cambiare la norma esistente per regolamentare in modo dettagliato e più rigidamente gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra per il periodo successivo al 2030. O come dimostra il risarcimento di 111 milioni di dollari stabilito dalla Corte Suprema del Regno Unito nel maggio 2021 – a termine di una battaglia legale durata ben 13 anni – nei confronti di un gruppo di 42.500 agricoltori e pescatori nigeriani che hanno citato in giudizio la Royal Dutch Shell per anni di fuoriuscite di petrolio nel delta del Niger, con contaminazione di terreni e acque sotterranee. Sempre la Shell ha perso la causa intentata contro di lei da Friends of the Earth Netherlands e da altre sei ONG insieme a circa 17.000 singoli cittadini: il 26 maggio 2021, il Tribunale distrettuale dell’Aia ha ordinato alla compagnia di ridurre le proprie emissioni mondiali di CO2 del 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2019.

In attesa – e nella sollecitazione – di una capacità di governi e legislatori di far fronte in modo adeguato e generalizzato all’emergenza climatica e ai disastri ambientali, imponendo limiti e regole allo strapotere delle multinazionali, l’iniziativa dal basso dimostra una fondamentale volontà di rivendicare e anche di conquistare quei diritti ambientali troppo a lungo violati. […]

12. Il vaccino diseguale

Pandemia che, a sua volta, per quella logica e per quel sistema economico è stata utilizzata quale occasione di immensi profitti.

Al colorito universo del negazionismo No-vax, insostenibile dal punto di vista scientifico, un robusto argomento arriva dalla innegabile, enorme, valenza economica legata ai vaccini, ai condizionamenti e allo strapotere di Big Pharma.

Se il green pass diventa strumento e pretesto per licenziamenti, discriminazioni e disciplinamento dei dipendenti o costo da riversare, al solito, sui cittadini costretti a pagarsi i tamponi – di nuovo alimentando il business sanitario privato – è arduo pretendere che da parte dei lavoratori e dei sindacati vi possa essere un’acritica adesione alla misura e alle modalità imposte. Se la salute, anziché essere affermata come diritto, viene gestita come un grande business, diventa più difficile convincere i cittadini della responsabilità individuale e sociale del vaccinarsi. Se il vaccino, anziché quale bene pubblico globale viene gestito come privilegio per la solita parte del mondo, quella più ricca e sviluppata, diventa meno credibile un discorso di sanità pubblica, per giunta articolata per decreti, imposizioni e misure d’eccezione.

Se venisse dai governi affermato – e tradotto in scelte conseguenti – un vaccino per la popolazione, anziché un vaccino per il profitto, le obiezioni svanirebbero rapidamente e in gran parte. Ma questo si traduce in un solo modo: un vaccino esente da brevetti. Che è la richiesta sin dall’inizio venuta da paesi come India e Sudafrica, sotto forma di moratoria temporanea su brevetti vaccinali e terapie anti Covid-19, così come dalle ONG, da reti associative, da innumerevoli personalità. Appelli rimasti però privi di risposte. […]

Invece, le scelte globali in materia di vaccino anti Covid-19 stanno abbandonando la maggior parte della popolazione mondiale al proprio destino. Scelte sciagurate che rivelano la profonda inconsapevolezza e indifferenza al fatto che, proprio come per la questione climatica, la grande e tragica lezione che arriva da questa pandemia è che il destino del mondo è comune e che nessuno si salva da solo. […

21. Il discusso guardiano dei confini: il caso Frontex

Si conferma dunque anche per l’Afghanistan la politica pilatesca messa in atto dall’Europa nel 2015 per fronteggiare la crisi dei profughi siriani: esternalizzare le proprie frontiere o, detta più crudamente, appaltare il lavoro sporco ad altri. Con l’ulteriore paradosso che allora i miliardi di euro vennero dati al sultano Erdogan, vale a dire al presidente autoritario di un paese comunque aderente alla NATO e a suo tempo richiedente l’ingresso nell’Unione Europea, mentre ora le risorse finiranno a Pakistan, Tagikistan e Iran; quest’ultimo è un paese già sottoposto a sanzioni anche da parte europea e nel quale i diritti umani sono forse ancor meno tutelati che non in Afghanistan, mentre il Pakistan è sempre stato protettore e ispiratore dei talebani, oltre che protettivo rifugio per Osama bin Laden.

Paradosso nel paradosso, viene richiamato anche in questa evenienza il «sostegno di Frontex nel proteggere le frontiere», vale a dire di una Agenzia da più parti accusata di violare i diritti umani e di respingimenti illegali, tanto che nel 2021 la Commissione Libertà civili del Parlamento Europeo ha istituito un gruppo di lavoro per approfondire la questione. Il report dell’indagine conoscitiva svolta, pubblicato solo un mese prima, afferma che, pur in assenza di prove conclusive sull’esecuzione diretta da parte di Frontex di respingimenti o espulsioni collettive, dunque illegittime, l’Agenzia, pur avendo prove a sostegno delle accuse di violazioni dei diritti fondamentali negli Stati membri con cui aveva un’operazione congiunta, «non ha affrontato e seguito queste violazioni in modo tempestivo, vigile ed efficace». Sull’attività di Frontex, peraltro, ha aperto un’inchiesta anche l’European Anti-Fraud Office (OLAF), l’organismo di vigilanza antifrode dell’UE (European Parliament – LIBE, 2021). […]

22. Partire è sempre più morire

Quando si parla di rifugiati e migranti, però, sono molti quelli che non si salvano. Dal 1993 al 1° giugno 2021 sono stati oltre 44.764 i migranti morti mentre cercavano di entrare in Europa. Almeno quelli riscontrati, in questo caso dal network UNITED for Intercultural Action, perché non pochi sfuggono a ogni rilevamento. Molte altre morti sono avvenute nel Mediterraneo, da tempo propriamente definibile un “cimitero marino”: dal 1° gennaio al 30 agosto 2021 i decessi di migranti registrati sono stati 1.311, più del doppio del corrispondente periodo dell’anno precedente, quando erano stati 625, con una forte riduzione dovuta alle minori partenze nel periodo più intenso della pandemia, ma anche inferiori alle 1.094 dei primi otto mesi del 2019. Anche in questo caso una cifra sicuramente meno elevata rispetto alla realtà, dato il minor numero di navi umanitarie presenti nel Mediterraneo e allestite dalle ONG, osteggiate da istituzioni nazionali e comunitarie in quanto testimoni non graditi degli effetti letali delle politiche disumane di chiusura delle frontiere e dei porti.

Politiche che non riguardano solo l’Europa, anche se il Mediterraneo rimane l’area più micidiale. A livello mondiale, nello stesso periodo dei primi otto mesi del 2021, le vittime sono state in totale 2.727 (erano state 2.079 l’anno precedente e 3.326 nel 2019). Oltre ai 1.311 morti nel Mediterraneo, le aree più letali sono state le Americhe, con 572 vittime, e l’Africa, con 513 (UNITED for Intercultural Action, 2021; IOM, 2021).

Quali che siano il continente e i governi, si tratta sempre di morti impunite a causa di scelte di “realismo” e di convenienza che quotidianamente fanno carta straccia delle Convenzioni internazionali in materia di diritti umani e di rifugiati e del principio di non-refoulement, a ulteriore dimostrazione che anche il diritto internazionale risponde prioritariamente e quasi sempre alla legge del più forte.

Se molte morti sfuggono a ogni rilevazione e sono impossibili da quantificare, anche su quelle decine di migliaia corredate di date, fonti, modalità, quando possibile nomi e provenienza, il silenzio è assoluto. Tombale, verrebbe da dire.

È una guerra anche questa, non dichiarata ma con i medesimi devastanti effetti, che colpiscono la parte più debole e bisognosa delle popolazioni a livello mondiale. Chi pure sopravvive non ha comunque vita facile nel tempo dei populismi e della pandemia.

A fine 2020 gli sfollati forzati in tutto il mondo erano 82,4 milioni, 48 milioni all’interno del loro stesso paese, persone private di tutto e in balia di politiche sempre più restrittive, costrette a lasciare le loro case a causa di guerre e violenze, persecuzioni e violazioni dei diritti umani, crisi politiche e sociali. E, sempre più e in misura preponderante, a causa di disastri ambientali e degli effetti del riscaldamento globale (UNHCR, 2021 a; UNHCR, 2021 b; IDMC, 2021).

Con questo Rapporto annuale, la nostra costitutiva scelta è di provare a leggere il mondo – con i suoi tanti, intrecciati e spesso drammatici problemi, aggravati e approfonditi durante la pandemia del Covid-19 – anche con i loro occhi di rifiutati e sommersi, di annegati e torturati, di rinchiusi in campi di concentramento dopo essere stati costretti dalle bombe o dalla carestia a fuggire dalle proprie case.

Più in generale, anno dopo anno, cerchiamo di analizzare ciò che succede a livello globale dall’angolatura visiva di quelli di sotto. Con lo sforzo di fare scaturire dal ragionamento e dalla denuncia proposte costruttive, nella prospettiva della giustizia ambientale, economica e sociale, della democrazia integrale e dello Stato di diritto. In una parola, dei diritti globali. Una scelta che è, a un tempo, politica, culturale ed etica. Che ci pare necessitata dalla parzialità interessata attraverso cui vengono invece rappresentati dal mainstream la realtà e i suoi problemi. Cercare di capire la prima, per poter affrontare i secondi, significa allora allargare lo sguardo e l’analisi, o meglio abbassarli. Perché è solo dal basso della piramide sociale, dalle ragioni di chi quotidianamente paga i costi di un sistema ingiusto e diseguale che si possono mettere in moto le dinamiche del cambiamento.