dalla pagina Il mondo malato e quelli di sotto - Comune-info
Sergio Segio
Il disastro ambientale non può essere più nascosto. La violenza e la
militarizzazione dei territori sono ormai la regola che accompagna,
dalle Ande alla Val Susa, l’estrattivismo. Intanto riscaldamento
climatico e pandemia da Covid-19 richiamano i medesimi problemi e
rimandano alle stesse cause, prima di tutte lo scellerato e intensivo
sfruttamento ambientale, umano e animale. In questo grigio panorama –
nel quale cresce la guerra non dichiarata contro i migranti
-, nuovi movimenti globali come Fridays For Future ed Extinction
Rebellion hanno cominciato a dimostrare che l’impossibile è a portata di
mano, che la salvezza del mondo che brucia e dell’umanità che lo abita
non risiedono nella fede in tecnologie salvifiche né tanto meno nel greenwashing.
Occorre allargare in tanti modi diversi lo sguardo e l’analisi, “o
meglio abbassarli, perché è solo dal basso della piramide sociale, dalle
ragioni di chi quotidianamente paga i costi di un sistema ingiusto e
diseguale – scrive Sergio Segio, curatore del Rapporto Diritti globali 2021 Stato dell’impunità nel mondo – che si possono mettere in moto le dinamiche del cambiamento…”. Alcuni estratti dell’introduzione del Rapporto
Diritti globali 2021: indice completo
1. Il pianeta che brucia
l disastro ambientale è davvero ormai sotto gli occhi di tutti:
di chi drammaticamente e in prima persona ha la propria vita o
l’abitazione messe a rischio o addirittura distrutte, ma anche della
maggioranza della popolazione che vede le immagini della catastrofe al
telegiornale, sotto forma di incendi indomabili, di alluvioni e di frane
altrettanto devastanti. Situazioni sempre più frequenti negli ultimi
anni, ampiamente previste dagli scienziati, regolarmente ignorate dai
decisori politici, prontamente scordate da chi non le ha vissute
direttamente su di sé. È rimasta latitante ogni seria politica di
prevenzione, manutenzione e gestione oculata del territorio. È stata
ricorrente – anno dopo anno, incendio dopo incendio – la constatazione
dell’insufficiente dotazione di aerei Canadair per spegnere i roghi,
regolarmente dimenticata il giorno dopo dell’emergenza. Si tratta di
catastrofi sempre meno definibili “naturali”.
Così, di omissione in omissione a livello locale e a livello globale,
si è arrivati all’estate 2021, con il mese di luglio più caldo di
sempre, in un’escalation che dura ormai da tempo: dicono i meteorologi
che l’ultima volta che il globo ha avuto un luglio più fresco della
media del XX secolo è stato nel 1976 e che quello del 2021 è stato il
mese più caldo in 142 anni di registrazione (Borenstein, 2021). Ma già
il 2020, documenta la World Meteorological Organization, era stato uno
dei tre anni più caldi mai registrati, con una temperatura media globale
di circa 1,2 °C al di sopra del livello preindustriale. Circostanza che
è andata a cumularsi alla pandemia da Covid-19 in corso, con i relativi
effetti moltiplicati sulla salute e, per una parte del mondo,
sull’insicurezza alimentare. La pandemia ha, inoltre, complicato gli
sforzi di riduzione del rischio di catastrofi (WMO, 2021).
Per quanto del tutto prevedibile e previsto, ancorché
irresponsabilmente ignorato, il disastro è arrivato inesorabile, con un
quotidiano bollettino di guerra estivo: inondazioni in Germania;
piogge torrenziali nella regione cinese dell’Hubei; alluvioni in
Turchia; terremoto ad Haiti; immani roghi in Grecia e Cipro; sud
dell’Italia in fiamme e tromba d’aria a Pantelleria con morti e feriti;
inondazioni nel nord-est della Spagna, con gravi danni e stagione
turistica compromessa, e poi incendi con migliaia di evacuati; alluvioni
nel sud-est dell’Inghilterra con stato di calamità in ospedali
londinesi; incendi in Cabilia e nelle altre regioni del nord
dell’Algeria; il Dixie Fire, il secondo maggiore incendio nella storia dello Stato, che ha incenerito oltre 200.000 ettari in California; l’uragano Ida
nel nord-est degli Stati Uniti con almeno 46 morti e New York allagata;
inondazioni e fiumi esondati in India, con interi villaggi sommersi
dall’acqua; alluvioni e fiumi straripati in Giappone con morti, dispersi
e cinque milioni di sfollati; un’area di quasi seimila chilometri
quadrati interessata da roghi in Canada.
Sino all’incendio più grande, nella Siberia
nord-orientale, con una linea del fuoco lunga duemila chilometri, che
potrebbe risultare il maggiore della storia. E il più devastante: non
solo per la perdita di 13 milioni e mezzo di ettari bruciati registrati
ad agosto 2021 a livello nazionale, ma per la produzione di un record di
505 megatoni di anidride carbonica, ad aggravare la già drammatica
situazione del riscaldamento globale che non a caso vede nell’Artico
temperature medie che stanno aumentando oltre tre volte più velocemente
del resto del mondo (The Moscow Times, 2021).
Migliaia i morti (2.200 solo ad Haiti, nell’agosto 2021 martoriata da
un terremoto di magnitudo 7,2 e contemporaneamente da una tempesta
tropicale dal nome ferocemente beffardo, Grace), decine di
migliaia i feriti, centinaia di migliaia i senza casa, milioni gli
sfollati; sono le prime cifre delle catastrofi dell’estate 2021. Bilanci
provvisori che quasi sempre dimenticano di citare le centinaia di
milioni di animali, selvatici e domestici, uccisi dai disastri, a loro
volta indice di una tragedia che non si esaurisce nella contingenza
dell’emergenza ma si ripercuoterà nella distruzione degli habitat,
condizionando il futuro. E c’è stato anche chi in Italia, nonostante le
distruzioni degli incendi con almeno venti milioni di animali morti, ha
disposto l’inizio anticipato della stagione venatoria. A dimostrazione
che alla pulsione ecocida talvolta non esiste davvero limite. Un campo
nel quale, per la verità, anche nel 2021 è apparsa ineguagliata la
politica del presidente del Brasile, dove al sostegno del sistema
dell’agribusiness e delle attività estrattive, alla devastazione
amazzonica e di millenari ecosistemi si accompagnano la repressione
delle comunità indigene, le violenze e gli omicidi contro i difensori
dei diritti umani e dell’ambiente.
2. Ecocidio ed etnocidio nel Brasile di Bolsonaro
«L’ecocidio da cui derivano i megaincendi è anche un etnocidio.
Distruggere la foresta, compartimentalizzarla, privatizzarla, sfruttarla
o disboscarla su aree immense a beneficio dell’estrazione mineraria,
degli allevamenti, delle coltivazioni di soia transgenica o di palma da
olio, significa, allo stesso tempo e con altrettanta violenza,
distruggere culturalmente i popoli che la abitano» (Zask, 2021). Con
Bolsonaro, presidente dal gennaio 2019, la distruzione della foresta
amazzonica, il principale polmone verde del globo, si è fortemente
intensificata. Nonostante ciò, gli appetiti della lobby Bancada ruralista
non sono ancora soddisfatti: a maggio 2021 una forte mobilitazione
popolare e dell’opposizione parlamentare è riuscita a bloccare, almeno
temporaneamente, l’ennesimo tentativo di fare passare un disegno di
legge (n. 490/2007) sul “Marco Temporal” che vuole introdurre limiti
temporali alla demarcazione delle terre dei popoli indigeni, modificando
i diritti acquisiti e sanciti a livello costituzionale, in base ai
quali vi sono terre loro riservate – complessivamente 440.000 ettari con
una popolazione di 70.000 persone. Ma sono circa 900.000 gli indigeni
che vivono in Brasile in 305 tribù. […]
3. L’estrattivismo assassino e suicida
In America Latina il sistema dell’agribusiness e
dell’allevamento intensivo, della monocultura e del settore minerario e
in generale il modello estrattivista sono particolarmente concentrati e
sviluppati, oltre che favoriti da classi politiche locali spesso
espressione del latifondismo e permeate da fenomeni di corruzione. Come già – e tuttora – per l’Africa,
la ricchezza di risorse naturali e minerali diventa una dannazione,
poiché calamita gli interessi devastatori delle grandi corporation e dei
fondi di investimento, nonché dei governi dediti al land e water grabbing, in cui latita ogni responsabilità sociale ed ecologica. Il Cile,
ad esempio, possiede circa il 40 per cento delle riserve mondiali di
litio, un metallo strategico fondamentale nell’elettronica e nelle nuove
tecnologie il cui già intenso sfruttamento è destinato a lievitare
nell’attuale fase di transizione ecologica con la necessità di
produzione di energia da fonti rinnovabili. Uno dei giacimenti maggiori
di litio, forse il più grande al mondo, è però in Afghanistan.
La stima comprensiva di altri metalli e terre rare presenti nel
sottosuolo afghano arriva al valore di tremila miliardi di dollari. Il
pluridecennale stato di guerra, prima con l’Unione Sovietica poi con gli
Stati Uniti e la NATO, ne hanno sinora impedito lo sfruttamento che
potrebbe però cominciare nel prossimo futuro, anche per sopperire alle
necessità economiche del regime talebano tornato al potere e per dare
ristoro allo stato di prostrazione del paese e della sua popolazione
dopo una guerra così lunga. E di questo si avvantaggerebbe probabilmente
la Cina, abilmente posizionatasi per tempo. La questione riguarda anche
l’Unione Europea, come rimarcato dalla coalizione di 180 associazioni e
accademici che ha denunciato i piani sulle materie prime contenuti nel
Green Deal europeo, basati su un’idea contraddittoria e incoerente di
“crescita verde”, che porterà «a un drammatico aumento della domanda di
minerali e metalli che la Commissione Europea prevede di soddisfare
attraverso un gran numero di nuovi progetti di estrazione mineraria, sia
all’interno che all’esterno dell’Unione». Tra questi metalli vi è,
appunto, anche il litio. Pure qui, come per le fonti fossili, oltre al
danno ambientale che colpisce tutti per favorire il profitto privato, vi
è la beffa dei sussidi pubblici europei di cui beneficiano le compagnie
minerarie e i loro azionisti, nonostante il Green Deal, che anzi
diventa occasione per nuovi fronti di saccheggio di beni comuni e nuovi
guadagni da parte di grandi gruppi, lobby e corporation.
A tutto discapito e con precise responsabilità anche riguardo i
diritti umani: «La domanda della UE di minerali e metalli dall’estero
porta a conflitti sociali, uccisioni di difensori dell’ambiente e dei
diritti umani, distruzione ambientale ed emissioni di carbonio in tutto
il mondo. L’attuale politica commerciale della UE ha come unico
obiettivo la liberalizzazione del settore delle materie prime senza
riguardo per i diritti umani, l’ambiente e la sovranità dei paesi del
Sud globale, intrappolando queste nazioni in un ciclo di estrattivismo e
dipendenza cronica» (AA.VV., 2021).
Il paradigma della crescita infinita, pur se tinta di verde e di
dichiarata transizione verso fonti rinnovabili, rimane pratica che
distrugge ogni equilibrio e dunque suicida. Come già emerge in tutta
evidenza dai dati relativi all’ultimo mezzo secolo: dagli anni Settanta
del secolo scorso la popolazione mondiale è raddoppiata (e anche quella
demografica è questione trascurata e rimossa), ma il prodotto interno
lordo globale è quadruplicato.
In quel paradigma gli appetiti e i profitti crescono, autoalimentati
dalle dinamiche speculative della finanza, e con essi aumentano la
violenza contro chi difende territori e popolazioni e i conflitti
ambientali: 3.516 quelli sinora registrati (Environmental Justice Atlas,
2021).
Il modello estrattivista contraddistingue il processo di
accumulazione per spossessamento, a sua volta caratteristico del dominio
del capitale finanziario; il suo principale strumento
«è la violenza, e i
suoi agenti sono, indistintamente, poteri statali, parastatali e
privati, che spesso lavorano insieme perché condividono gli stessi
obiettivi…. La violenza e la militarizzazione dei territori sono la
regola, sono una parte inseparabile dal modello; i morti, i feriti e le
persone seviziate non sono il risultato di eccessi accidentali dei
controlli polizieschi o militari. È il modo “normale” di agire
dell’estrattivismo nella zona del non-essere. Il terrorismo di Stato
praticato dalle dittature militari distrusse i gruppi di ribelli e
spianò la strada all’avvio delle miniere a cielo aperto e delle
monocolture transgeniche. Successivamente, le democrazie – conservatrici
e/o progressiste – approfittarono delle condizioni create dai regimi
autoritari per approfondire l’accumulazione per spossessamento»
(Zibechi, 2016).
Non è, insomma, un caso se la gran parte delle uccisioni di difensori
dei diritti umani è concentrata in quella parte del globo dove questi
processi sono più intensi, ma anche maggiormente contrastati da
collettività e popolazioni. Secondo Front Line Defenders, nel 2020 ne
sono stati assassinati 331, la gran parte (69 per cento) impegnati nella
difesa della terra, delle comunità indigene e dei diritti ambientali.
Ben 264 degli omicidi sono avvenuti nelle Americhe […] (Global Witness,
2021).
Naturalmente e purtroppo, la dimensione complessiva della violenza,
della repressione e della violazione dei diritti umani e anche degli
omicidi sociali e politici in quei paesi è assai più vasta (ne riferiamo
qui nei capitoli Diritti Globali e Osservatorio sulle impunità) e indubbiamente la Colombia
vede un terribile e storico primato negativo, che ha spinto il
Tribunale Permanente dei Popoli a dedicarvi nel 2021 una Sessione sul
genocidio politico, impunità e crimini contro la pace. La sentenza,
emessa il 17 giugno 2021, ha riconosciuto lo Stato colombiano colpevole
del crimine di genocidio, portato avanti nel corso dei decenni (Tribunal
Permanente de los Pueblos, 2021). Un genocidio che continua, a opera
degli stessi poteri e governi collusi con gli interessi economici che ne
devastano i territori, con 115 difensori e leader sociali e 36 ex
guerriglieri uccisi nel 2021 (al 28 agosto). Un genocidio che non riesce
però a fermare la protesta popolare che ha segnato il 2021, con il paro nacional,
una rivolta cominciata il 28 aprile contro il governo Duque e la sua
riforma tributaria e per un pacchetto di misure sociali su reddito,
istruzione e salute. Dall’inizio della protesta al 26 giugno si sono
registrati 4.687 casi di violenza da parte della polizia, 2.005
detenzioni arbitrarie, 82 feriti gravemente agli occhi, 75 uccisi nel
corso delle manifestazioni, già saliti a 80 al 23 di luglio (INDEPAZ,
2021; Temblores, 2021). […]
5. Senza giustizia ambientale non c’è pace
Come tutte le guerre, anche questa è un piano inclinato,
troppo facile da cominciare e complicata da frenare e interrompere. Come
tutte le guerre, il carburante che la tiene in vita è la religione del
profitto, l’interesse dei pochi contro i diritti dei molti. Per
fare la pace con la Terra – e con la maggioranza di coloro che la
abitano – bisogna cambiare l’attuale sistema, che, con la potenza
dell’informazione condizionata e del dominio culturale e grazie al
vassallaggio e passività di gran parte della classe politica, fa
apparire il suo tramonto e superamento un trauma impensabile, un
cambiamento impossibile.
Certo, quella trasformazione radicale sarebbe un fatto enorme e ciò
sembra fare ritenere questo sistema economico e sociale insuperabile,
magari non il migliore ma senza alternative. Invece, ogni alternativa è
preferibile all’apocalisse ambientale e all’estinzione di massa che si
profila. L’alternativa c’è, è sul tavolo, peraltro così netta ed
evidente da sembrare persino troppo semplice. Invece è quella giusta. È
la riconversione ecologica dell’economia.
La indicano da decenni gli scienziati non asserviti, le associazioni
ambientaliste e, più di recente, le poche voci alte e libere come quella
di papa Francesco e quella di una ragazzina molto determinata e capace
di stimolare un movimento mondiale di giovani che rivendicano futuro,
per sé e per tutti. «Abbiamo già la soluzione per la crisi climatica.
Sappiamo esattamente cosa dobbiamo fare. L’unica cosa che manca è che ci
decidiamo. Economia o ecologia? Dobbiamo scegliere» (Thunberg, 2019).
Il 20 agosto 2018 Greta Thunberg iniziava la sua protesta solitaria
davanti al parlamento svedese. Un sassolino che è divenuto valanga: Fridays For Future,
un movimento che ha mobilitato milioni di persone in tutto il mondo,
non per niente indirizzato a riconquistare quel futuro e quei diritti
confiscati dai padroni del clima e dai distruttori dell’ambiente. Pochi
mesi dopo, nell’ottobre di quello stesso anno, a Londra faceva la sua
comparsa nelle piazze per la prima volta un altro movimento, Extinction Rebellion, che pure si mobilitava con decisione per la giustizia ambientale. Quei
movimenti e quella radicalità, divenuti globali, rappresentano le
gambe, la testa e il cuore del cambiamento necessario e drammaticamente
urgente. Hanno dimostrato e dimostrano che l’impossibile è a portata di
mano, che la salvezza del mondo che brucia e dell’umanità che lo abita
non risiedono nella fede in tecnologie salvifiche di là da venire, né
tanto meno nel greenwashing, ma in un soprassalto di volontà e
lucidità politica, sino a oggi sacrificata ai dogmi della crescita e
subordinata ai sacerdoti del mercato globalizzato.
La giustizia climatica impone di ripensare l’economia e di
riconvertirla, questo è il punto ineludibile. Proprio come – purtroppo
sinora in pochi casi – si è fatto con le industrie belliche.
Interrompere le produzioni di morte e spostare investimenti e lavoro in
quelle ecologicamente, eticamente e socialmente compatibili: non è
impossibile, basta un cambio di prospettiva nello sguardo e nelle
coscienze che faccia comprendere come le produzioni fossili comportino
disastri, e dunque genocidio ambientale, in modo diverso ma con gli
stessi effetti delle fabbriche di mine antiuomo o di missili. Basta che
ci decidiamo, come scrive Greta. O – forse più esattamente – basta che
chi sta in basso e paga i costi maggiori della distruttività del sistema
costruisca la forza politica per imporre la decisione a chi può e deve
prenderla, ma non lo vuole fare e non lo sta facendo. Quanto meno con
l’urgenza e la determinazione necessarie.
Una riflessione, quella della decrescita, che si era
affacciata una quindicina di anni fa è stata forse troppo
sbrigativamente tolta dal tavolo e archiviata. Per quanto controversa,
poneva la questione ineludibile sui limiti allo e dello sviluppo.
Il drammatizzarsi dell’emergenza climatica dovrebbe riaprire
interrogativi cruciali e capaci di prospettiva, a cominciare da quello
se unico o determinante metro di misura possa continuare a essere quello
del PIL.
6. Alle radici del Covid-19
In modo simile, ed egualmente non innocente, in questi due
anni di pandemia, dal dibattito politico e nei luoghi della riflessione
pubblica, dai media e dai social è rapidamente scomparso un vocabolo che
aveva fatto capolino: zoonosi. Un altro, sindemia, non è mai riuscito neppure ad affacciarsi. Non
è un caso. Attraverso di essi avrebbero potuto farsi strada gli
interrogativi sulle cause – e sugli effetti diseguali – della pandemia,
invece appunto prontamente rimossi e occultati, che a loro volta
rimandano al sistema in cui l’intera umanità è immersa e costretta a
vivere nel tempo della globalizzazione, quello del capitalismo fossile e
finanziario. E a quel suo segmento che ha trasformato anche
l’agricoltura e l’allevamento animale in sistema industriale di
iper-sfruttamento, indifferente alle ricadute su ecosistemi ed equilibri
tra specie. Un sistema predatorio e distruttivo, come ormai ci mostrano
tutti gli indicatori sociali, economici e ambientali.
Un sistema gravemente malato che ha fatto ammalare il mondo. In
questo caso, provocando e producendo una pandemia che non ha precedenti,
quanto a diffusione e gravità, e che dimostra specificità assenti in
quelle del passato, non solo per i processi di globalizzazione che hanno
annullato le distanze geografiche e favorito l’estrema mobilità umana
(sempre che non si sia poveri e migranti), ma semmai per quei processi –
anch’essi connessi alla globalizzazione – relativi alle modalità di produzione di merci e
di cibo, di accaparramento di materie prime, di sfruttamento delle
risorse naturali ed energetiche. Modalità che, nelle loro sinergie
distruttive, hanno progressivamente portato il pianeta, e chi lo abita,
sull’orlo del tracollo. Nel caso di specie, causa scatenante è stata… il
salto di specie, vale a dire lo spillover secondo la
definizione anglosassone. Che per l’attuale pandemia è stato il
passaggio del coronavirus dal pipistrello all’uomo, attraverso un
passaggio intermedio, probabilmente il pangolino, facilitato dai mercati
cinesi di animali vivi, dalle abitudini alimentari locali e dagli
allevamenti intensivi di maiali installati ai margini delle foreste in
cui vivono questi animali. Allevamenti industriali che sottraggono
spazio agli habitat di specie selvatiche e costringono alla coabitazione
forzata e ravvicinata animali selvatici, quelli allevati e l’uomo. Da
qui la zoonosi, ovvero la malattia infettiva trasmessa dall’animale
vertebrato all’uomo. I cambiamenti climatici e l’inquinamento
atmosferico hanno reso quest’ultimo più vulnerabile alle infezioni
respiratorie, potendosi così parlare di sindemia, che è l’interazione
sinergica di due o più malattie trasmissibili e non trasmissibili, che
colpisce particolarmente le fasce di popolazione svantaggiata,
implicando una correlazione tra quelle malattie e le condizioni
ambientali e socio-economiche.
Riscaldamento climatico e pandemia da Covid-19 richiamano i
medesimi problemi e rimandano alle stesse cause: prima di tutte lo
scellerato e intensivo sfruttamento ambientale, umano e animale.
Quest’ultimo rimane peraltro invisibile e nascosto nelle sue forme,
drammatizzate dall’industrializzazione degli allevamenti, giganteschi
lager e catene di montaggio dell’orrore, che se rivelate e conosciute
diverrebbero intollerabili per la sensibilità comune. Sono questi temi e
aspetti quasi totalmente assenti dalla riflessione e informazione
pubblica, confinati nei ristrettissimi recinti di gruppi animalisti e di
sparuti scienziati e filosofi antispecisti. Eppure, sono fondamentali e
costituenti per una prospettiva di cambiamento, necessariamente
radicale.
C’è, allora, da mettere in discussione e convertire il
sistema economico ma c’è anche una questione di stili di vita e di
culture del consumo da ripensare, cui anche la pandemia dovrebbe
sollecitare.
«Il dolore, l’incertezza, il timore e la consapevolezza dei propri
limiti che la pandemia ha suscitato, fanno risuonare l’appello a
ripensare i nostri stili di vita, le nostre relazioni, l’organizzazione
delle nostre società e soprattutto il senso della nostra esistenza»
(Bergoglio, 2020). Di nuovo lo ha detto bene papa Francesco, spesso
capace di parole di verità, di denunce e di proposte in materia sociale e
ambientale che, dato il pulpito, ci si aspetterebbe fossero in grado di
indurre mutamenti o almeno un dibattito incisivo e che invece rimangono
inascoltate dai decisori politici, ma pure dallo stesso popolo della
chiesa al cui vertice siede il pontefice: perché il cambiamento fa
paura, perché permane come un fossato lo scarto tra ciò che si sa essere
giusto e ciò che si mette in opera, essendo rara e costosa la capacità
di coerenza e di conseguenza. E perché, alla fine e in misura sempre
maggiore, nell’epoca della comunicazione globale ogni parola, anche la
più giusta e autorevole, rimane smarrita nell’oceano indistinto e nel
frastuono perpetuo che confonde e rende meno distinguibile ciò che è
vero e vitale. Questo vale anche per la parola e l’evidenza scientifica,
durante la pandemia messe in discussione da aree non ristrette di
popolazione sia riguardo le cause, sia riguardo i rimedi.
Ciò che è successo – il passaggio di un coronavirus dal pipistrello
all’uomo – era peraltro stato esattamente previsto già nel 2012
(Quammen, 2014). Del resto, nel corso dell’ultimo secolo le zoonosi sono
state un centinaio e hanno avuto un’accelerazione negli ultimi due
decenni. Vale a dire nel periodo storico che ha visto un deciso
peggioramento delle complessive condizioni ambientali. Se, dunque, il
Covid-19 è una zoonosi, «la pandemia è stata causata dai danni
ambientali che l’umanità provoca per procurarsi le quantità sempre
maggiori di risorse necessarie ad alimentare la crescita economica, i
profitti e i consumi» (Pallante, 2021).
Ecco perché è sbagliato ricercare la causa che ha dato
origine alla pandemia, tanto più se si cerca di attribuirla alle ipotesi
di fuga del virus da un laboratorio di Wuhan, come ha insistentemente e
strumentalmente provato a fare Donald Trump senza che ve ne fossero gli
elementi. Considerando, oltretutto, che se è vero che in quel
laboratorio in Cina erano in corso ricerche sul coronavirus dei
pipistrelli, queste erano finanziate da EcoHealth Alliance,
un’organizzazione sanitaria con sede negli Stati Uniti (Lerner,
Hvistendahl, 2021). […]
9. La causa paga: cittadini e movimenti si organizzano
All’inerzia o – alla meglio – lentezza dei decisori politici, alla
disinformazione truffaldina dei negazionisti climatici, al camaleontismo
del greenwashing e a cosmetici e ingannevoli rebranding
(come quello della compagnia petrolifera francese Total che nel maggio
2021 ha deciso di cambiare nome e logo: si chiamerà TotalEnergies e il
marchio diventa di un’ecologica tinta arcobaleno) e al potere di
condizionamento delle lobby dell’industria fossile tentano di fare
fronte i movimenti globali che hanno invaso la scena
negli ultimi anni, mettendo in gioco i propri corpi per conquistare il
futuro che viene loro sottratto giorno dopo giorno, proponendo
cambiamenti radicali di paradigma e lottando per la giustizia climatica.
Su altri piani e con altri strumenti, negli anni recenti sta
crescendo anche un significativo fenomeno: quello dei contenziosi legali
connessi ai cambiamenti climatici, con numeri importanti. Le
controversie sono quasi raddoppiate in quattro anni, passando da 884
casi in 24 paesi nel 2017 a oltre 1.550 in 38 paesi nel 2020.
Maggiormente concentrati nelle nazioni ad alto reddito, stanno comunque
interessando anche aree del sud del mondo come Colombia, India,
Pakistan, Perù, Filippine e Sudafrica. I querelanti sono ONG, gruppi di
cittadini e di attivisti, comunità indigene. Sono chiamate in cause le
aziende ma anche i governi incapaci di fare rispettare norme e impegni o
inattivi rispetto a cambiamenti climatici e a eventi meteorologici
estremi (UNEP, 2021).
Quando i cittadini si organizzano e gli attivisti si mobilitano i
risultati arrivano, come comprova, ad esempio, la sentenza della Corte
costituzionale tedesca dell’aprile 2021, che ha imposto al legislatore
di cambiare la norma esistente per regolamentare in modo dettagliato e
più rigidamente gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra
per il periodo successivo al 2030. O come dimostra il risarcimento di
111 milioni di dollari stabilito dalla Corte Suprema del Regno Unito nel
maggio 2021 – a termine di una battaglia legale durata ben 13 anni –
nei confronti di un gruppo di 42.500 agricoltori e pescatori nigeriani che
hanno citato in giudizio la Royal Dutch Shell per anni di fuoriuscite
di petrolio nel delta del Niger, con contaminazione di terreni e acque
sotterranee. Sempre la Shell ha perso la causa intentata contro di lei
da Friends of the Earth Netherlands e da altre sei ONG insieme a circa
17.000 singoli cittadini: il 26 maggio 2021, il Tribunale distrettuale
dell’Aia ha ordinato alla compagnia di ridurre le proprie emissioni
mondiali di CO2 del 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2019.
In attesa – e nella sollecitazione – di una capacità di governi e
legislatori di far fronte in modo adeguato e generalizzato all’emergenza
climatica e ai disastri ambientali, imponendo limiti e regole allo
strapotere delle multinazionali, l’iniziativa dal basso dimostra una
fondamentale volontà di rivendicare e anche di conquistare quei diritti
ambientali troppo a lungo violati. […]
12. Il vaccino diseguale
Pandemia che, a sua volta, per quella logica e per quel sistema
economico è stata utilizzata quale occasione di immensi profitti.
Al colorito universo del negazionismo No-vax, insostenibile dal punto
di vista scientifico, un robusto argomento arriva dalla innegabile,
enorme, valenza economica legata ai vaccini, ai condizionamenti e allo strapotere di Big Pharma.
Se il green pass diventa strumento e
pretesto per licenziamenti, discriminazioni e disciplinamento dei
dipendenti o costo da riversare, al solito, sui cittadini costretti a
pagarsi i tamponi – di nuovo alimentando il business sanitario privato –
è arduo pretendere che da parte dei lavoratori e dei sindacati vi possa
essere un’acritica adesione alla misura e alle modalità imposte. Se la
salute, anziché essere affermata come diritto, viene gestita come un
grande business, diventa più difficile convincere i cittadini della
responsabilità individuale e sociale del vaccinarsi. Se il vaccino,
anziché quale bene pubblico globale viene gestito come privilegio per la
solita parte del mondo, quella più ricca e sviluppata, diventa meno
credibile un discorso di sanità pubblica, per giunta articolata per
decreti, imposizioni e misure d’eccezione.
Se venisse dai governi affermato – e tradotto in scelte conseguenti –
un vaccino per la popolazione, anziché un vaccino per il profitto, le
obiezioni svanirebbero rapidamente e in gran parte. Ma questo si traduce
in un solo modo: un vaccino esente da brevetti. Che è
la richiesta sin dall’inizio venuta da paesi come India e Sudafrica,
sotto forma di moratoria temporanea su brevetti vaccinali e terapie anti
Covid-19, così come dalle ONG, da reti associative, da innumerevoli
personalità. Appelli rimasti però privi di risposte. […]
Invece, le scelte globali in materia di vaccino anti Covid-19
stanno abbandonando la maggior parte della popolazione mondiale al
proprio destino. Scelte sciagurate che rivelano la profonda
inconsapevolezza e indifferenza al fatto che, proprio come per la
questione climatica, la grande e tragica lezione che arriva da questa pandemia è che il destino del mondo è comune e che nessuno si salva da solo. […
21. Il discusso guardiano dei confini: il caso Frontex
Si conferma dunque anche per l’Afghanistan la politica pilatesca messa in atto dall’Europa nel 2015 per fronteggiare la crisi dei profughi siriani: esternalizzare le proprie frontiere o, detta più crudamente, appaltare il lavoro sporco ad altri.
Con l’ulteriore paradosso che allora i miliardi di euro vennero dati al
sultano Erdogan, vale a dire al presidente autoritario di un paese
comunque aderente alla NATO e a suo tempo richiedente l’ingresso
nell’Unione Europea, mentre ora le risorse finiranno a Pakistan,
Tagikistan e Iran; quest’ultimo è un paese già sottoposto a sanzioni
anche da parte europea e nel quale i diritti umani sono forse ancor meno
tutelati che non in Afghanistan, mentre il Pakistan è sempre stato
protettore e ispiratore dei talebani, oltre che protettivo rifugio per
Osama bin Laden.
Paradosso nel paradosso, viene richiamato anche in questa evenienza il «sostegno di Frontex nel proteggere le frontiere», vale a dire di una Agenzia da più parti accusata di violare i diritti umani e
di respingimenti illegali, tanto che nel 2021 la Commissione Libertà
civili del Parlamento Europeo ha istituito un gruppo di lavoro per
approfondire la questione. Il report dell’indagine conoscitiva svolta,
pubblicato solo un mese prima, afferma che, pur in assenza di prove
conclusive sull’esecuzione diretta da parte di Frontex di respingimenti o
espulsioni collettive, dunque illegittime, l’Agenzia, pur avendo prove a
sostegno delle accuse di violazioni dei diritti fondamentali negli
Stati membri con cui aveva un’operazione congiunta, «non ha affrontato e
seguito queste violazioni in modo tempestivo, vigile ed efficace».
Sull’attività di Frontex, peraltro, ha aperto un’inchiesta anche
l’European Anti-Fraud Office (OLAF), l’organismo di vigilanza antifrode
dell’UE (European Parliament – LIBE, 2021). […]
22. Partire è sempre più morire
Quando si parla di rifugiati e migranti, però, sono molti quelli che non si salvano.
Dal 1993 al 1° giugno 2021 sono stati oltre 44.764 i migranti morti
mentre cercavano di entrare in Europa. Almeno quelli riscontrati, in
questo caso dal network UNITED for Intercultural Action, perché non
pochi sfuggono a ogni rilevamento. Molte altre morti sono avvenute nel
Mediterraneo, da tempo propriamente definibile un “cimitero marino”: dal
1° gennaio al 30 agosto 2021 i decessi di migranti registrati sono
stati 1.311, più del doppio del corrispondente periodo dell’anno
precedente, quando erano stati 625, con una forte riduzione dovuta alle
minori partenze nel periodo più intenso della pandemia, ma anche
inferiori alle 1.094 dei primi otto mesi del 2019. Anche in questo caso
una cifra sicuramente meno elevata rispetto alla realtà, dato il minor
numero di navi umanitarie presenti nel Mediterraneo e allestite dalle
ONG, osteggiate da istituzioni nazionali e comunitarie in quanto
testimoni non graditi degli effetti letali delle politiche disumane di
chiusura delle frontiere e dei porti.
Politiche che non riguardano solo l’Europa, anche se il Mediterraneo
rimane l’area più micidiale. A livello mondiale, nello stesso periodo
dei primi otto mesi del 2021, le vittime sono state in totale 2.727
(erano state 2.079 l’anno precedente e 3.326 nel 2019). Oltre ai 1.311
morti nel Mediterraneo, le aree più letali sono state le Americhe, con
572 vittime, e l’Africa, con 513 (UNITED for Intercultural Action, 2021;
IOM, 2021).
Quali che siano il continente e i governi, si tratta sempre di morti
impunite a causa di scelte di “realismo” e di convenienza che
quotidianamente fanno carta straccia delle Convenzioni internazionali in
materia di diritti umani e di rifugiati e del principio di non-refoulement,
a ulteriore dimostrazione che anche il diritto internazionale risponde
prioritariamente e quasi sempre alla legge del più forte.
Se molte morti sfuggono a ogni rilevazione e sono impossibili da
quantificare, anche su quelle decine di migliaia corredate di date,
fonti, modalità, quando possibile nomi e provenienza, il silenzio è
assoluto. Tombale, verrebbe da dire.
È una guerra anche questa, non dichiarata ma con i
medesimi devastanti effetti, che colpiscono la parte più debole e
bisognosa delle popolazioni a livello mondiale. Chi pure sopravvive non
ha comunque vita facile nel tempo dei populismi e della pandemia.
A fine 2020 gli sfollati forzati in tutto il mondo erano 82,4
milioni, 48 milioni all’interno del loro stesso paese, persone private
di tutto e in balia di politiche sempre più restrittive, costrette a
lasciare le loro case a causa di guerre e violenze, persecuzioni e
violazioni dei diritti umani, crisi politiche e sociali. E, sempre più e
in misura preponderante, a causa di disastri ambientali e degli effetti
del riscaldamento globale (UNHCR, 2021 a; UNHCR, 2021 b; IDMC, 2021).
Con questo Rapporto annuale, la nostra costitutiva scelta è
di provare a leggere il mondo – con i suoi tanti, intrecciati e spesso
drammatici problemi, aggravati e approfonditi durante la pandemia del
Covid-19 – anche con i loro occhi di rifiutati e sommersi, di annegati e
torturati, di rinchiusi in campi di concentramento dopo essere stati
costretti dalle bombe o dalla carestia a fuggire dalle proprie case.
Più in generale, anno dopo anno, cerchiamo di analizzare ciò che succede a livello globale dall’angolatura visiva di quelli di sotto.
Con lo sforzo di fare scaturire dal ragionamento e dalla denuncia
proposte costruttive, nella prospettiva della giustizia ambientale,
economica e sociale, della democrazia integrale e dello Stato di
diritto. In una parola, dei diritti globali. Una scelta che è, a
un tempo, politica, culturale ed etica. Che ci pare necessitata dalla
parzialità interessata attraverso cui vengono invece rappresentati dal mainstream
la realtà e i suoi problemi. Cercare di capire la prima, per poter
affrontare i secondi, significa allora allargare lo sguardo e l’analisi,
o meglio abbassarli. Perché è solo dal basso della piramide sociale,
dalle ragioni di chi quotidianamente paga i costi di un sistema ingiusto
e diseguale che si possono mettere in moto le dinamiche del cambiamento.