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Anno XXV - Incontro n. 194
lunedì 5 settembre 2022, ore 20:30
(in presenza!)
Sala Turchese, Centro "A. Onisto"
Via Rodolfi 14, Vicenza
(in presenza!)
Sala Turchese, Centro "A. Onisto"
Via Rodolfi 14, Vicenza
dalla pagina https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2022-08/papa-francesco-appello-ucraina-udienza-generale-sei-mesi-guerra.html
Salvatore Cernuzio - Città del Vaticano
Tutti “pazzi”, perché dalla follia della guerra nessuno è esente. E a
farne le spese “sono sempre gli innocenti”. A sei mesi esatti dallo
scoppio della prima bomba russa in terra ucraina, il Papa, al termine
dell’udienza generale, rinnova “l’invito a implorare dal Signore la pace
per l’amato popolo ucraino che, da sei mesi oggi, patisce l’orrore
della guerra”. Francesco scandisce il suo appello con tono sottile ma
solenne:
Auspico che si intraprendano passi concreti per mettere fine alla guerra e scongiurare il rischio di un disastro nucleare a Zaporizhzhia.
[...]
Tanti feriti, tanti bambini ucraini e bambini russi sono diventati orfani. La orfanità non ha nazionalità, hanno perso il papà o la mamma. Siano russi, siano ucraini. Penso a tanta crudeltà a tanti innocenti che stanno pagando la pazzia, la pazzia, la pazzia di tutte le parti, perché la guerra una pazzia. E nessuno che è in guerra può dire: "No, io non sono pazzo". La pazzia della guerra…
[...]
“Pensiamo a questa realtà e diciamoci l’un l’altro, la guerra è una pazzia”, ripete ancora il Vescovo di Roma. E non usa mezzi termini per denunciare tutti coloro che dall’orrore ricavano profitto: “Coloro che guadagnano con la guerra e il commercio delle armi sono delinquenti che ammazzano l’umanità”, afferma.
[...]
_________________________
Newsletter n. 88 del 23 agosto 2022
in TV ci si domanda perché la guerra in Ucraina è sparita dalla campagna
elettorale, che peraltro si sta facendo nella stessa TV. Già, perché è
sparita? Chi sa un po’ di giornalismo sa che a “fare notizia” è ciò che è
nuovo e fuori dell’ordinario, per esempio un padrone che morde il cane,
non un cane che morde il padrone. La guerra in Ucraina non fa più
notizia perché è diventata di routine, dura da sei mesi, e non accenna a
finire. E perché non finisce? È una guerra bizzarra e insensata: essa
non era affatto necessaria: platealmente annunciata (dall’armata russa
sul confine) non ci voleva niente ad evitarla. Bastava smettere di dire
che l’Ucraina doveva entrare nella NATO (come aveva osato fare il
cancelliere tedesco Scholz), bastava per il Donbass rispettare gli
accordi di Minsk, e l’aggressione non ci sarebbe stata; poi sarebbe
bastato un negoziato in cui si stabilisse la neutralità dell’Ucraina e
un’autodeterminazione per il Donbass, come ventilato subito
nell’incontro tra i belligeranti ad Ankara, e la guerra sarebbe
immediatamente cessata. Invece Biden e la NATO si sono affrettati a dire
che sarebbe stata una guerra di lunga durata, Zelensky è andato su
tutti i teleschermi del mondo a chiedere armi, gli “Alleati” e Draghi
gliene hanno fornito sempre di più, e la guerra è diventata perenne, né
Putin ha scatenato l’Armata ex Rossa o ha voluto rischiare i 26 milioni
di morti della II guerra mondiale per occupare Kiev e farla finire in
fretta. Così la guerra d’Ucraina è diventata una guerra strutturale, non
più tra Russia e Ucraina, ma per il nuovo “ordine” del mondo, mettendo
ai margini la Russia e la Cina. La guerra mondiale “a pezzi”, lamentata
dal Papa, è diventata così una guerra mondiale intera, con un solo
“pezzo” votato al sacrificio dai suoi amici, dai suoi nemici e dai suoi
cattivi governanti, l’Ucraina. È questa la ragione per cui prendiamo il
lutto per l’Ucraina, partecipiamo al suo immenso dolore, vittima com’è
di un gioco che la supera.
Ma come mai, evitata la terza guerra mondiale per tutto il Novecento, si
è preso spensieratamente il rischio di farla nel 2000? La ragione è che
tutti sono convinti, o sperano, che non sia una guerra nucleare; Putin
ha del resto assicurato che non userà l’atomica se non nel caso che la
Russia sia al limite di scomparire come Stato. D’altra parte la dottrina
sulla guerra non è più quella virtuosa millantata fino a ieri, solo “di
difesa” (come si chiamano ora i ministeri che prima erano “della
guerra”) o di reazione a un’aggressione; dopo la catastrofe imprevista
delle Due Torri la “Strategia della sicurezza nazionale americana” ha
stabilito che non si può lasciare “che i nemici sparino per primi”, la
deterrenza non funziona, la miglior difesa è l’attacco, gli Stati Uniti
agiranno, se necessario, preventivamente: tutto testuale. Così,
esorcizzata l’atomica, Il recupero della guerra, deciso subito dopo la
rimozione del muro di Berlino con la guerra del Golfo, si è reso
effettivo, ed ecco che ora la guerra è diventata strutturale, fondativa,
è stata ripristinata cioè come strutturante delle relazioni
internazionali e dell’ordine del mondo, come è sempre stata dall’inizio
della storia fino ad ora, indissolubile dalla politica degli Stati; la
guerra non solo come continuazione, ma come sostituzione della politica
con altri mezzi.
Questa è la ragione per farne il ripudio. Nella Costituzione italiana
esso già c’è, ma la guerra non si fa mai da soli, se non è ripudiata
anche dagli altri il ripudio non funziona. E neanche ci permettono di
praticarlo: durante l’equilibrio del terrore, nella divisione
internazionale (atlantica) del lavoro a noi era assegnato il compito di
distruggere l’Ungheria con i missili da Comiso; chissà perché dovevamo
prendercela con l’Ungheria. Poi abbiamo fatto anche noi la guerra
all’Iraq, poi da Aviano sono partiti gli aerei che bombardavano
Belgrado, ed ora abbiamo riempito di armi l’Ucraina e facciamo anche
quella guerra là. Perciò abbiamo preso l’iniziativa di proporre ai
candidati al futuro Parlamento di promuovere un Protocollo ai Trattati
internazionali esistenti per un ripudio generalizzato della guerra e la
difesa dell’integrità della Terra; e in pochi giorni da quando l’abbiamo
annunciata, nell’ultima newsletter, le adesioni sono state molte
centinaia: un successo, ma soprattutto un impegno e una speranza. E il
ripudio deve essere “sovrano”: cioè deve stare sopra a tutto, ed essere
propugnato non solo dai governi, ma dai parlamentari e dagli abitanti
del pianeta come sovrani.
Sul Corriere della Sera si sono domandati poi “dove stanno i
cattolici in questa campagna elettorale”, dato che non si preoccupano
nemmeno del Credo proclamato da Salvini (ma quale, il credo
niceno-costantinopolitano?). Bene, se li cercassero li troverebbero,
insieme agli altri, tra i sostenitori di questa iniziativa, tra quelli
che vanno a portare gli aiuti all’Ucraina invasa, tra quelli che con la
Mediterranea Savings Humans e le altre navi umanitarie tirano fuori i
naufraghi dal Mediterraneo e li fanno scampare ai flutti e alla Guardia
costiera dei lager libici, finanziata e patrocinata da noi, e in chi
ogni domenica chiede la pace dalla finestra di piazza san Pietro.
Nel sito “Costituente Terra” pubblichiamo l’appello e il Protocollo da promuovere “per il ripudio sovrano della guerra e la difesa dell’integrità della Terra”
con le firme che finora siamo riusciti a registrare; e ai firmatari
chiediamo ora di rivolgersi ai candidati alle elezioni, di cui ieri sono
state pubblicate le liste, per sapere se vogliono assumerne il
relativo impegno. Pubblichiamo inoltre degli “Appunti” di Enrico Peyretti per un programma di pace dei partiti nel futuro Parlamento.
Con i più cordiali saluti,
www.costituenteterra.it
In mattinata celebra la Messa, visita la mostra dedicata a don Luigi Giussani, incontra brevemente i giornalisti e infine per un’ora dibatte con Bernard Scholz, presidente della Fondazione del Meeting, sul tema che ispira l’edizione 2022 dell’evento riminese: una passione per l’uomo.
Parlando con la stampa, Zuppi elenca una serie di preoccupazioni: “per l’educazione, per il lavoro, per la pace, per la famiglia, per il Terzo Settore”. Il Terzo Settore, ha poi precisato l’arcivescovo di Bologna, “interessa tanto la Chiesa perché è il frutto dI tanta passione per l’umano che interpreta tante sofferenze e tanti desideri. Per questo è un interlocutore, importante e decisivo per le Istituzioni presenti e future. Sottolineo, future”. Zuppi auspica che la politica non sia convenienza o piccolo interesse, ma “amore politico’”, “una grande indicazione per tutti pensando anche al nostro immediato futuro”. Il riferimento è alle elezioni politiche del 25 settembre.
Il Presidente della CEI mette in guardia contro il rischio del nazionalismo, che definisce “un grande io che difende tanti io isolati”. “L’individualismo che sembrerebbe darci forza, farci essere noi stessi, affermare noi stessi, in realtà ci rende deboli, pieni di paure, rende l’altro un avversario, un concorrente, qualcuno che non capisco, di cui non capisco neanche la domanda per cui cerco di difendermi e proteggermi”.
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dalla pagina https://www.avvenire.it/attualita/pagine/zuppi-al-meeting-la-politica-non-sia-piccolo-interesse
Il cardinale ha concelebrato la Messa domenicale alla kermesse di Comunione e Liberazione a Rimini, poi ha partecipato a un colloquio con Bernard Scholz
[...] non fare della politica solo «convenienza e piccolo interesse» perché tutt'altro è «l’amore politico» che preoccupa il Papa. Di fuggire personalismi e polarizzazioni, che non consentono di vedere la complessità del presente, ma di partire dal bene comune. Di tener conto delle preoccupazioni della Chiesa per l’educazione, il lavoro, la pace e la famiglia, nonché della «grande preoccupazione per il terzo settore».
[...] Un’altra indicazione omnibus è stata quella di rifuggire la «intossicazione da individualismo» che «genera anche nazionalismi». E naturalmente di «non abituarci all'orrore della guerra, della disumanità» perché «il male ci divide dagli altri, ci isola». [...]
Newsletter n. 87 del 12 agosto 2022
Cari Amici,
la guerra in corso in Ucraina e una campagna elettorale infelice, tra le più drammatiche nella storia della Repubblica, costituiscono l’intreccio perverso nel quale è implicata oggi la nostra vita e la nostra azione pubblica. Anche il nostro obiettivo di una Costituzione della Terra ne è duramente messo alla prova.
Dinanzi a queste due emergenze dobbiamo registrare purtroppo una risposta di rassegnazione e una doppia resa.
La prima nei confronti di questa guerra, che viene identificata con la “fine della pace” e il ritorno a un mondo diviso da un conflitto permanente tra il blocco occidentale e quello opposto. Tale conflitto, passando per la neutralizzazione della Russia, dovrebbe concludersi (ammesso che sfugga all’olocausto atomico) con la partita finale tra l’America (o la NATO) e la Cina. Questa visione comporta la fine della globalizzazione, il ritorno al mercato selvaggio in cui irretire anche il nuovo protagonismo cinese, l’abbandono delle politiche ecologiche, la rinunzia alla prospettiva di un’umana unità del mondo.
Qui la resa consiste nel dare tutto ciò per scontato, nel dedurne un unico allineamento possibile dell’Italia, quello con la NATO e l’Europa a lei fedele, e nel considerare ogni infrazione di questa ortodossia un attentato alla sicurezza dell’Italia: lo dice il coro mediatico ed è quanto sostiene il ministro Di Maio, che invoca una Commissione parlamentare d’inchiesta per snidare quanti abbiano intrattenuto rapporti amichevoli con la Russia, dimenticando che la cura dell’amicizia con la Russia e con ogni altro Paese faceva parte fino a ieri dei suoi doveri come ministro degli Esteri, e ignorando che l’ostinazione dei governanti nel voler dare la propria sicurezza in ostaggio alla NATO è quella che ha gettato l’Ucraina nell’attuale tragedia.
La seconda rassegnazione è quella all’incubo di una vittoria elettorale della Destra, che darebbe l’Italia alla Meloni, la “mujer” che non giudica il fascismo ma, imparziale, lo “consegna alla storia”. Di più, obbedendo ai sondaggi e miracolando la Destra, l’ingegnosa legge elettorale vigente riporterebbe al ministero degli Interni Salvini, che chiuderebbe in faccia ai naufraghi il chiavistello dei porti e, con appositi accordi, sulle orme di Minniti, provvederebbe a far loro riaprire le porte delle carceri e dei lager libici. Per non dire della festosa ascesa di Berlusconi alla presidenza del Senato, e magari al Quirinale.
Qui la resa consiste nel considerare questi risultati come già acquisiti, abbandonandosi alla sindrome della sconfitta, e cercando di salvare il salvabile o almeno se stessi, “perdendo con onore”.
L’iniziativa, di cui diamo qui l’annuncio, promossa da “Costituente Terra” è un tentativo di resistere ad ambedue queste rassegnazioni e di reagire a questa doppia resa. Essa infatti incrocia sia la guerra che le elezioni, ed è sottoscritta da un gran numero di elettori, “sovrani e sovrane”, ispirati ai valori costituzionali e agli ideali di una vasta rete associativa del mondo laico e di quello cristiano. Si tratta di un invito ai candidati di tutti i partiti a guardare più in alto e a prendere l’impegno di promuovere, nel futuro Parlamento, un Protocollo da sottoporre a tutti gli Stati e da allegare sia al Trattato sull’Unione europea che allo Statuto delle Nazioni Unite: un “PROTOCOLLO SUL RIPUDIO SOVRANO DELLA GUERRA E LA DIFESA DELL’INTEGRITÀ DELLA TERRA”.
Il ripudio è quello già sancito dalla Costituzione italiana e previsto dalla Carta dell’ONU, e comprende ogni forma di genocidio, come quella consistente in sanzioni indiscriminate. Questo ripudio è detto sovrano (come è “sovrano” il debito!) perché è richiesto agli Stati, e intende rovesciare la guerra sovrana e il suo dominio come criterio del politico e arbitra del rapporto tra i popoli. Esso intende infine deporre ogni altro sovrano, economico, culturale o religioso, che si pretenda tale non riconoscendo alcun altro “al di sopra di sé”.
L’adozione di questo Protocollo come integrazione e sviluppo dei Trattati esistenti, sarebbe in linea di continuità con altri grandi momenti della vita internazionale: con la Carta Atlantica del 1941 (14 agosto 1941), con la dichiarazione di Nuova Delhi del 1986 per un mondo libero dalle armi nucleari e non violento (27 novembre 1986), con il Trattato INF Reagan-Gorbaciov per l’eliminazione dei missili a raggio intermedio del 1987 (8 dicembre 1987), con il Trattato dell’ONU per la proibizione delle armi nucleari (TPNW, 20 settembre 2017).
Il Protocollo proposto comporterebbe la definitiva abolizione e interdizione delle armi nucleari e delle altre armi di distruzione di massa. Esso segnerebbe anche il superamento della NATO e di ogni altra alleanza difensiva di parte, che sarebbero sostituite da un nuovo sistema di sicurezza collettivo, garantito dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e dovrebbe cominciare da una riduzione graduale e condivisa delle spese militari nonché della fabbricazione e del commercio di tutti gli armamenti.
Il Protocollo sancirebbe anche il dovere della difesa della Terra, patria e madre di tutti, nonché la rinunzia a modificare con la forza i confini degli Stati , la liberazione e il riconoscimento del diritto e dell’autodeterminazione dei popoli, e si concluderebbe con l’indicazione dell’obiettivo finale, che è quello di una Costituzione della Terra che assicuri giusti ordinamenti e la garanzia dei diritti e dei beni fondamentali per tutti gli uomini e le donne del Pianeta nessuno escluso.
Il testo del Protocollo si trova in questo sito, a questo link ed una sua presentazione si trova in una relazione dal titolo “Invece della vittoria” tenuta da Raniero La Valle a “Tonalestate”, una Università internazionale estiva nata negli anni Novanta da una rete di centri culturali di vari Paesi del mondo. All’appello rivolto ai candidati si può aderire con la firma da inviare all’indirizzo mail:
ripudiosovrano@gmail.com.
Pubblichiamo anche un rivelatore e importante articolo di Paola Paesano sulle mistificazioni militariste del rapporto tra le donne e la guerra, e un articolo di Daniela Padoan “Contro il nichilismo della disperazione” divenuto anche un appello firmato da molti per una “unità delle forze ecologiste, pacifiste e progressiste”.
Con i più cordiali saluti
www.costituenteterra.it
dalla pagina http://www.popoliemissione.it/alex-zanotelli-inaccettabile-il-silenzio-sullafrica/
«Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli africani stanno vivendo.
Scusatemi se mi rivolgo a voi in questa torrida estate, ma è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo. Per questo, come missionario e giornalista, uso la penna per far sentire il loro grido, un grido che trova sempre meno spazio nei mass-media italiani, come in quelli di tutto il modo del resto.
Trovo infatti la maggior parte dei nostri media, sia cartacei che televisivi, così provinciali, così superficiali, così ben integrati nel mercato globale.
So che i mass-media , purtroppo, sono nelle mani dei potenti gruppi economico-finanziari, per cui ognuno di voi ha ben poche possibilità di scrivere quello che veramente sta accadendo in Africa.
Mi appello a voi giornalisti/e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa.
È inaccettabile per me il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane stato dell’Africa) ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga.
È inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba, il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur.
È inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni.
È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa.
È inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai.
È inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera.
È inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi.
È inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa , soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi.
È inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia , Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’ONU.
È inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile.
È inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. (Lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per un valore di 14 miliardi di euro!).
Non conoscendo tutto questo è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi.
Questo crea la paranoia dell’“invasione”, furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi.
Questo forza i governi europei a tentare di bloccare i migranti provenienti dal continente nero con l’Africa Compact , contratti fatti con i governi africani per bloccare i migranti.
Ma i disperati della storia nessuno li fermerà.
Questa non è una questione emergenziale, ma strutturale al sistema economico-finanziario.
L’ONU si aspetta già entro il 2050 circa cinquanta milioni di profughi climatici solo dall’Africa. Ed ora i nostri politici gridano: «Aiutiamoli a casa loro», dopo che per secoli li abbiamo saccheggiati e continuiamo a farlo con una politica economica che va a beneficio delle nostre banche e delle nostre imprese, dall’ENI a Finmeccanica.
E così ci troviamo con un Mare Nostrum che è diventato Cimiterium Nostrum dove sono naufragati decine di migliaia di profughi e con loro sta naufragando anche l’Europa come patria dei diritti.
Davanti a tutto questo non possiamo rimane in silenzio. (I nostri nipoti non diranno forse quello che noi oggi diciamo dei nazisti?).
(Foto di Oleg Magni da Pexels ESENTE DA COPYRIGHT)
dalla pagina https://comune-info.net/crisi-climatica-il-mondo-oltre-al-nulla%ef%bf%bc-%ef%bf%bc/
Convincere Letta o Calenda che il gas, l’inceneritore, il consumo di suolo, l’auto elettrica, le Olimpiadi con la neve finta (fatta anch’essa con il gas), il nucleare, il pareggio di bilancio o le guerre della Nato non sono la soluzione non è più facile che convincerne Salvini o la Meloni. E certo per riuscirci non bastano i discorsi, né le analisi, e nemmeno le manifestazioni. Ma sarà l’evoluzione del disastro climatico e ambientale incombente a parlare per chi è stato lasciato oggi senza voce. E a parlare sarà la Terra stessa; l’importante è che a quel punto a darle voce ci sia qualcuno; ci siano le nuove generazioni, quelle che devono non solo costruirsi il loro futuro, ma innanzitutto metterlo in salvo
Foto tratte dal Fb di Risultati della ricerca Fridaysforfuture-Roma
Che rapporto c’è tra il nulla rappresentato
dalla scomparsa dell’umanità dalla Terra – dall’estinzione della specie
umana o di una sua gran parte, insieme a quella di migliaia di altre
specie viventi – e il nulla rappresentato da Carlo Calenda, il grado
zero della politica, dell’intelligenza, della cultura, della
consapevolezza dei problemi che incombono sul nostro tempo? Vero
rappresentante dell’”agenda Draghi”, tanto che non si sa se quel nulla
sia Draghi o la sua agenda da sei euro al mese a testa.
Il rapporto è diretto: Calenda rappresenta il punto – uno dei punti – di precipitazione della deriva imboccata ormai da anni dalla politica mondiale di fronte al cambio di paradigma imposto dall’evoluzione del pianeta Terra nell’era dell’Antropocene: come se niente fosse cambiato o dovesse o potesse cambiare.
L’estinzione della specie umana rappresenta ciò che tutti i politici, insieme a gran parte dell’establishment mondiale – economico, accademico, finanziario, religioso (si salva solo papa Francesco) – non vogliono vedere, anche se i più lo sanno, o ne hanno sentito parlare, o lo stanno constatando, ma hanno altro da fare.
Ma che cosa c’è in mezzo tra quei due nulla? Un mondo intero, fatto di vita, di futuro, di pensieri, di passioni, di voglia di vivere come di dolori, di attaccamento alla terra – intesa sia come suolo che ci nutre, sia come Terra, il pianeta che ha fatto nascere ed evolvere la nostra specie – di generazioni che si alternano nell’affrontare i problemi che di volta in volta i tempi impongono loro.
Oggi quei problemi hanno un solo nome: crisi climatica e ambientale. Mancano solo pochi anni (se ancora mancano) all’irreversibilità della catastrofe. Non che di problemi non ce ne siano anche altri, anzi, ce ne sono a bizzeffe: disoccupazione, precariato, emarginazione, fame, povertà, miseria materiale e spirituale, ignoranza, salute, violenza, guerre…
Ma come pensare di affrontarne, o risolverne, anche uno solo, senza fare i conti con un futuro in grado di azzerare qualsiasi risultato? Come evitare di misurarsi con una crisi che già oggi si presenta come cornice, se non come principale causa, della perdita di ogni sicurezza?
Non si sta parlando dell’ambiente come contorno, ornamento o complemento di un programma elettorale, in una lista posticcia di desiderata per fare marketing politico, bensì del nostro (dell’umanità) rapporto con la Terra e dei nostri – pur così differenti, ma al tempo stesso così interconnessi – modi di vivere.
Tra quei due nulla che lo circondano c’è dunque un mondo che deve ancora farsi strada. E che oggi più che mai, con le elezioni alle porte, non può che mettere in chiaro l’inconsistenza delle dispute che sembrano avvincere i protagonisti di quel loro nulla.
Non che sia indifferente se vince Meloni o Letta, anche se ormai è chiaro che “non c’è partita”; è già stata giocata da tempo, anche se io, come tanti altri, ho firmato tutti gli appelli possibili per scongiurare quell’esito. Ma l’indifferenza verso il niente del comune futuro e l’incapacità di vedere il niente del loro presente accomunano entrambi.
Convincere Letta o Calenda che il gas, l’inceneritore, il consumo di suolo, l’auto elettrica, le Olimpiadi con la neve finta (fatta anch’essa con il gas), il nucleare, il pareggio di bilancio o le guerre della Nato non sono la soluzione non è più facile che convincerne Salvini o la Meloni. E certo per riuscirci non bastano i discorsi, né le analisi, e nemmeno le manifestazioni.
Ma sarà l’evoluzione del disastro climatico e ambientale incombente a parlare per chi è stato lasciato oggi senza voce. E a parlare sarà la Terra stessa; l’importante è che a quel punto a darle voce ci sia qualcuno; ci siano le nuove generazioni, quelle che devono non solo costruirsi il loro futuro, ma innanzitutto metterlo in salvo.
Questa campagna elettorale sarà a metà un incubo e a metà una farsa, ma potrebbe diventare l’occasione per mostrare a chi ha ormai rinunciato non solo a votare, ma anche a interessarsi al nulla messo in campo dai contendenti, che qualcosa per cui battersi c’è.
E che è qualcosa per cui ne va non solo del loro futuro, o di quello delle generazioni di un futuro ormai prossimo, ma anche di tutte le cose che stanno loro veramente a cuore.
Perché ormai è chiaro che non è possibile affrontare le tante crisi che ci attanagliano delegandone la soluzione agli esponenti di una democrazia rappresentativa che non rappresenta più nessuno, senza farsi protagonisti di una radicale revisione di tutti i parametri della nostra vita quotidiana – insieme ai milioni di attivisti messi già oggi in campo dai Fridays for Future e dai tanti movimenti loro fratelli e ai miliardi di altri esseri umani che già si vedono o, in un domani ormai prossimo, si vedranno costretti a mobilitarsi per non soccombere.
Senza una partecipazione diretta di tutti gli interessati e senza un conflitto aperto con tutti i promotori e gli spargitori di indifferenza nei confronti della nostra casa comune e del nostro comune futuro non c’è problema al mondo che possa essere affrontato né tanto meno risolto.
dalla pagina Il Papa ai potenti della terra: in nome di Dio, cambiate un sistema di morte - Vatican News
Michele Raviart- Città del Vaticano
Sognare insieme un mondo migliore dopo la pandemia, cercando di superare le resistenze che impediscono il raggiungimento di “quel buon vivere in armonia con tutta l’umanità e con il creato” che si ottiene solo attraverso libertà, uguaglianza, giustizia e dignità. Cambiare “un sistema di morte” chiedendo, in nome di Dio, a chi detiene il potere politico ed economico, di mutare lo status quo e permettere che ai nostri sogni si infiltri “il sogno di Dio per tutti noi, che siamo suoi figli”.
È quanto Papa Francesco propone, in un lungo videomessaggio, ai rappresentanti dei movimenti popolari, riuniti in videoconferenza per il loro quarto incontro mondiale organizzato dal Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale.
I movimenti popolari e le persone che loro rappresentano e aiutano sono quelli che hanno sofferto di più per la pandemia. Il Papa li chiama “poeti sociali” per “la capacità e il coraggio di creare speranza” e dignità:
Vedervi mi ricorda che non siamo condannati a ripetere né a costruire un futuro basato sull’esclusione e la disuguaglianza, sullo scarto o sull’indifferenza; dove la cultura del privilegio sia un potere invisibile e insopprimibile e lo sfruttamento e l’abuso siano come un metodo abituale di sopravvivenza. No! Questo voi lo sapete annunciare molto bene.
“La pandemia - ribadisce Francesco - ha fatto vedere le disuguaglianze sociali che colpiscono i nostri popoli e ha esposto – senza chiedere permesso né perdono – la straziante situazione di tanti fratelli e sorelle”. Tutti “abbiamo subito il dolore della chiusura” e “abbiamo sperimentato come, da un giorno all’altro, il nostro modo di vivere può cambiare drasticamente” ma, sebbene “in molti Paesi gli Stati hanno reagito”, “hanno ascoltato la scienza e sono riusciti a porre limiti per garantire il bene comune”, “a voi come sempre è toccata la parte peggiore”:
Nei quartieri che sono privi d’infrastruttura di base (dove vivono molti di voi e milioni di persone) è difficile restare in casa; non solo perché non si dispone di tutto il necessario per portare avanti le misure minime di cura e di protezione, ma semplicemente perché la casa è il quartiere. I migranti, le persone prive di documenti, i lavoratori informali senza reddito fisso, si sono visti privati, in molti casi, di qualsiasi aiuto statale e impossibilitati a svolgere i loro compiti abituali, aggravando la loro già lacerante povertà.
Una situazione talmente evidente da non potere essere occultata da “tanti meccanismi di post-verità” e anche un’espressione della cultura dell’indifferenza, come se “questo terzo sofferente del nostro mondo non rivesta sufficiente interesse per i grandi media e per chi fa opinione”. Un mondo che rimane “nascosto, rannicchiato”, come altri aspetti poco noti della vita sociale che la pandemia ha peggiorato. Lo stress e l’ansia cronica di bambini, adolescenti e giovani, ad esempio, aggravati dall’isolamento e dalla mancanza di contatto reale con gli amici. “L’amicizia è la forma in cui l’amore risorge sempre”, ricorda infatti il Papa, e sebbene sia evidente che la tecnologia possa essere uno strumento di bene, “non può mai sostituire il contatto”. “Non fa notizia”, “non genera empatia”, nemmeno la crisi alimentare, che potrebbe generare nell’immediato futuro più morti annuali di quelli per il Covid-19.
Quest’anno venti milioni di persone in più si sono viste trascinate a livelli estremi di insicurezza alimentare, salendo a (molti) milioni di persone. L’indigenza grave si è moltiplicata. Il prezzo degli alimenti è aumentato notevolmente. I numeri della fame sono orribili, e penso, per esempio, a paesi come Siria, Haiti, Congo, Senegal, Yemen, Sud Sudan; ma la fame si fa sentire anche in molti altri Paesi del mondo povero e, non di rado, anche nel mondo ricco.
Eppure, in questo contesto, gli operatori dei movimenti popolari hanno sentito come loro il dolore degli altri. “Cristiani e non”, dice il Papa “avete risposto a Gesù che ha detto ai suoi discepoli di fronte alla gente affamata: voi stessi date loro da mangiare”.
Come i medici, gli infermieri e il personale sanitario nelle trincee sanitarie, voi avete messo il vostro corpo nella trincea dei quartieri emarginati. Ho presente molti, tra virgolette, “martiri”, di questa solidarietà, dei quali ho saputo tramite voi. Il Signore ne terrà conto. Se tutti quelli che per amore hanno lottato insieme contro la pandemia potessero anche sognare insieme un mondo nuovo, come sarebbe tutto diverso!
Il Papa ribadisce che “da una crisi non si esce mai uguali”. Dalla pandemia “o ne usciremo migliori o ne usciremo peggiori, come prima no”. Per cogliere un’opportunità di miglioramento bisogna quindi “riflettere, discernere e scegliere”, perché “ritornare agli schemi precedenti sarebbe davvero suicida”, “ecocida e genocida”. Per uscirne migliori è “imprescindibile adeguare i nostri modelli socio-economici affinché abbiano un volto umano, perché tanti modelli lo hanno perso”. Modelli che sono diventati “strutture di peccato” che persistono e che siamo chiamati a cambiare.
Questo sistema, con la sua logica implacabile del guadagno, sta sfuggendo o ogni controllo umano. È ora di frenare la locomotiva, una locomotiva fuori controllo che ci sta portando verso l’abisso. Siamo ancora in tempo.
Di qui l’appello forte al cambiamento rivolto per nove volte “in nome di Dio” a chi conta e ha il potere di decidere.
A tutti voglio chiedere in nome di Dio. Ai grandi laboratori, che liberalizzino i brevetti. Compiano un gesto di umanità e permettano che ogni Paese, ogni popolo, ogni essere umano, abbia accesso al vaccino. Ci sono Paesi in cui solo il tre, il quattro per cento degli abitanti è stato vaccinato.
Voglio chiedere, in nome di Dio, ai gruppi finanziari e agli organismi internazionali di credito di permettere ai Paesi poveri di garantire i bisogni primari della loro gente e di condonare quei debiti tante volte contratti contro gli interessi di quegli stessi popoli.
Voglio chiedere, in nome di Dio, alle grandi compagnie estrattive – minerarie, petrolifere –, forestali, immobiliari, agroalimentari, di smettere di distruggere i boschi, le aree umide e le montagne, di smettere d’inquinare i fiumi e i mari, di smettere d’intossicare i popoli e gli alimenti.
Voglio chiedere, in nome di Dio, alle grandi compagnie alimentari di smettere d’imporre strutture monopolistiche di produzione e distribuzione che gonfiano i prezzi e finiscono col tenersi il pane dell’affamato.
Voglio chiedere, in nome di Dio, ai fabbricanti e ai trafficanti di armi di cessare totalmente la loro attività, che fomenta la violenza e la guerra, spesso nel quadro di giochi geopolitici il cui costo sono milioni di vite e di spostamenti.
Voglio chiedere, in nome di Dio, ai giganti della tecnologia di smettere di sfruttare la fragilità umana, le vulnerabilità delle persone, per ottenere guadagni, senza considerare come aumentano i discorsi di odio, il grooming [adescamento di minori in internet], le fake news [notizie false], le teorie cospirative, la manipolazione politica.
Voglio chiedere, in nome di Dio, ai giganti delle telecomunicazioni di liberalizzare l’accesso ai contenuti educativi e l’interscambio con i maestri attraverso internet, affinché i bambini poveri possano ricevere un’educazione in contesti di quarantena.
Voglio chiedere, in nome di Dio, ai mezzi di comunicazione di porre fine alla logica della post-verità, alla disinformazione, alla diffamazione, alla calunnia e a quell’attrazione malata per lo scandalo e il torbido; che cerchino di contribuire alla fraternità umana e all’empatia con le persone più ferite.
Voglio chiedere, in nome di Dio, ai Paesi potenti di cessare le aggressioni, i blocchi e le sanzioni unilaterali contro qualsiasi Paese in qualsiasi parte della terra. No al neocolonialismo. I conflitti si devono risolvere in istanze multilaterali come le Nazioni Unite. Abbiamo già visto come finiscono gli interventi, le invasioni e le occupazioni unilaterali, benché compiuti sotto i più nobili motivi o rivestimenti.
Ai governi e ai politici di tutti i partiti, Francesco chiede di evitare di “ascoltare soltanto le élite economiche” per mettersi “al servizio dei popoli che chiedono terra, tetto, lavoro e una vita buona”, mentre ai leader religiosi chiede di “non usare mai il nome di Dio per fomentare guerre o colpi di Stato”. Occorre invece gettare ponti di amore.
I discorsi populisti d’intolleranza, xenofobia e disprezzo per i poveri, continua il Papa, sono narrative che portano all’indifferenza e all’individualismo, dividendo i popoli per impedirgli di sognare insieme un mondo migliore. In questa sfida a sognare, i movimenti popolari fungono da “samaritani collettivi”. Il Buon Samaritano, ricorda il Papa - lungi dall’essere quel “personaggio mezzo tonto” ritratto da “una certa industria culturale” che vuole “neutralizzare la forza trasformatrice dei popoli e specialmente della gioventù” – è infatti la rappresentazione più chiara di un’opzione impegnata nel Vangelo.
Sapete che cosa mi viene in mente adesso, insieme ai movimenti popolari, quando penso al Buon Samaritano? Sapete che cosa mi viene in mente? Le proteste per la morte di George Floyd. È chiaro che questo tipo di reazione contro l’ingiustizia sociale, razziale o maschilista può essere manipolato o strumentalizzato da macchinazioni politiche o cose del genere; ma l’essenziale è che lì, in quella manifestazione contro quella morte, c’era il “samaritano collettivo” (che non era per niente scemo!). Quel movimento non passò oltre, quando vide la ferita della dignità umana colpita da un simile abuso di potere.
Papa Francesco propone alcuni principi tradizionali della Dottrina sociale della Chiesa, come l’opzione preferenziale per i poveri, la destinazione universale dei beni, la solidarietà, la sussidiarietà, la partecipazione, il bene comune.
A volte mi sorprende che ogni volta che parlo di questi principi alcuni si meravigliano e allora il Papa viene catalogato con una serie di epiteti che si utilizzano per ridurre qualsiasi riflessione alla mera aggettivazione screditante. Non mi fa arrabbiare, mi rattrista. Fa parte della trama della post-verità che cerca di annullare qualsiasi ricerca umanistica alternativa alla globalizzazione capitalista; fa parte della cultura dello scarto e fa parte del paradigma tecnocratico.
Francesco si dice rattristato quando “alcuni fratelli della Chiesa s’infastidiscono se ricordiamo questi orientamenti che appartengono a tutta la tradizione della Chiesa” e invita tutti a leggerne un compendio nel “piccolo manuale” di Dottrina Sociale della Chiesa voluto da San Giovanni Paolo II.
Il Papa non può non ricordare questa Dottrina anche se molto spesso dà fastidio alla gente, perché a essere in gioco non è il Papa ma il Vangelo.
Francesco indica in particolare due principi: la solidarietà, intesa come “determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune”, e la sussidiarietà che contrasta “qualsiasi schema autoritario, qualsiasi collettivismo forzato o qualsiasi schema stato-centrico”. Infatti - sottolinea - non si può utilizzare il bene comune “come scusa per schiacciare l’iniziativa privata, l’identità locale o i progetti comunitari”.
È “tempo di agire” e il Papa propone alcune misure concrete: un reddito minimo (o salario universale) e la riduzione della giornata lavorativa. In questo modo ogni persona potrebbe permettersi di “accedere ai beni più elementari della vita”.
È giusto lottare per una distribuzione umana di queste risorse. Ed è compito dei Governi stabilire schemi fiscali e redistributivi affinché la ricchezza di una parte sia condivisa con equità, senza che questo presupponga un peso insopportabile, soprattutto per la classe media, generalmente, quando ci sono questi conflitti, è quella che soffre di più.
I vantaggi della riduzione della giornata lavorativa, per il Papa si possono ritrovare nella storia:
Nel XIX secolo gli operai lavoravano dodici, quattordici, sedici ore al giorno. Quando conquistarono la giornata di otto ore non collassò nulla, come invece alcuni settori avevano previsto. Allora – insisto – lavorare meno affinché più gente abbia accesso al mercato del lavoro è un aspetto che dobbiamo esplorare con una certa urgenza. Non ci possono essere tante persone che soffrono per l’eccesso di lavoro e tante altre che soffrono per la mancanza di lavoro.
Infine, Francesco, ricorda l’importanza di ascoltare le periferie, il luogo da dove “il mondo si vede più chiaramente”.
Bisogna ascoltare le periferie, aprire loro le porte e permettere loro di partecipare. La sofferenza del mondo si capisce meglio insieme a quelli che soffrono. Nella mia esperienza, quando le persone, uomini e donne, che hanno subito nella propria carne l’ingiustizia, la disuguaglianza, l’abuso di potere, le privazioni, la xenofobia, nella mia esperienza vedo che capiscono meglio ciò che vivono gli altri e sono capaci di aiutarli ad aprire, realisticamente, strade di speranza.
dalla pagina https://www.pressenza.com/it/2022/07/clima-quanto-ci-costa-vivere-male/
Marco Bersani - Attac Italia
Climate Social Camp, 25-29 luglio 2022, Parco della Colletta, Torino.
Giovedì 28 luglio è stato l’Earth Overshoot Day 2022, ovvero il giorno dell’anno in cui la popolazione globale esaurisce tutte le risorse che la Terra riesce a generare. Cade ben 156 giorni prima della fine dell’anno, il che vuol dire che a fine dicembre avremo utilizzato il 74% in più di quanto gli ecosistemi riescono a rigenerare.
Il dato, tremendo in sé, assume caratteristiche ancor più drammatiche se lo consideriamo nelle sue disparità interne: paesi come Stati Uniti, Canada, Australia e Russia hanno iniziato l’anno già in debito ecologico, mentre il nostro Paese ha raggiunto l’apice il 15 maggio scorso (che ne dice, ministro Cingolani?). E, naturalmente, il dato per Paese omette di leggere le stratificazioni interne, dalle quali ormai sappiamo con certezza matematica come il debito ecologico sia causato in gran parte dalla classe dei ricchi e ricchissimi (“Climate change & the global inequality of carbon emissions, 1990-2020”).
Quindi viviamo male e mettiamo a repentaglio la sopravvivenza della vita umana sul pianeta quasi solo per permettere a un’infima fascia di persone di spendere, spandere e naturalmente comandare. Il paradosso è che tutto questo ci costa infinitamente di più, sottraendo ricchezza collettiva che potrebbe essere destinata alla giustizia sociale e climatica.
Sono gli stessi analisti finanziari a dirlo a chiare lettere. Secondo il “Global Turning Point Report 2022”, studio effettuato dalla società di consulenza finanziaria Deloitte, l’inazione contro il cambiamento climatico potrebbe costare all’economia globale 178 trilioni di dollari da qui al 2070. Risultati analoghi riscontriamo dagli indicatori dell’”Osservatorio Climate Finance, School of Management” del Politecnico di Milano, secondo i quali, analizzando le attività di un 1,1 milioni di imprese in termini di operatività in relazione ai cambiamenti climatici, si è rilevata una diretta rispondenza fra l’aumento di un grado della temperatura e il crollo a -5,8% del fatturato e a -3,4% della redditività. Ma già nel 2019 (ben prima di pandemia, guerra e crisi climatica attuale), il rapporto “The Lancet Countdown” lanciava l’allarme e prevedeva, per quanto riguarda l’Italia, un calo dell’8,5% del Pil nei prossimi decenni, con una perdita di produttività del 13,3% nel settore agricolo e dell’11,5 per cento del settore industriale.
Parliamo di conti perché la politica pare interessata solo a quelli, ma si tratta di vite, persone, affetti, comunità, relazioni sociali e psicologiche.
Il fatto è che nell’economia liberista i costi globali non sono un fattore da tenere in conto, essendo la narrazione tutta basata sull’individuo indipendente, autonomo e tutto d’un pezzo, sull’imprenditore di se stesso artefice del proprio destino, sull’uomo ‘che non deve chiedere mai’, meglio se ‘maschio-bianco-proprietario’.
Per un sistema siffatto, non esistono costi globali che non siano scaricabili sulla collettività, siano questi le risorse naturali, delle quali si presuppone la disponibilità e la predazione, siano questi gli effetti sanitari e sociali di un modello di vita e di produzione.
In queste giornate, una nuova generazione ecologista di migliaia di ragazze e di ragazzi è riunita a Torino: reclamano il diritto al futuro e chiedono un’inversione radicale di rotta prima che sia troppo tardi. Affermano un noi contro l’ipertrofia dell’io.
Può darsi che vi troviate imbottigliati sull’asfalto perché, per farsi sentire, hanno bloccato l’autostrada. Non è detto che le urgenze delle vostre vite vi consentano di condividere quello che stanno facendo. Basterebbe sapeste che loro non sono il problema, semmai la soluzione.