sabato 31 ottobre 2020

È morto monsignor Bruno Maggioni

dalla pagina https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/morto-bruno-maggioni

Monsignor Bruno Maggioni in una foto di archivio - Avvenire

È morto monsignor Bruno Maggioni, firma familiare per i lettori di Avvenire che per anni lo hanno seguito su questo quotidiano. Si è spento nella sua abitazione di Como-Muggiò. Originario di Abbadia Lariana, aveva compiuto 88 anni lo scorso febbraio.

Fu ordinato sacerdote il 26 giugno 1955 e, dopo la consacrazione presbiterale, fino al 1958 ha studiato presso il Seminario Lombardo a Roma. Da allora ha dedicato la sua intera vita all’approfondimento, allo studio e all’insegnamento delle Scritture come docente di Teologia biblica e autore di centinaia di pubblicazioni.

È stato docente del Seminario diocesano: dal 1958 intere generazioni di sacerdoti diocesani hanno studiato con lui teologia biblica. È stato anche professore dell’Università Cattolica e della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale.

“Siamo profondamente colpiti e addolorati da questo nuovo lutto per la nostra Diocesi e per la Chiesa intera – dice commosso il vescovo di Como monsignor Oscar Cantoni –. Don Bruno ha dedicato tutta la sua vita alla Parola di Dio, con amore, passione, competenza, intelligenza. Don Bruno ha veramente incarnato la Parola di Dio e ha donato tutto se stesso all’insegnamento, rivolto a tutti: ai sacerdoti, ai laici, ai consacrati, alla Chiesa e al mondo intero. Ci stringiamo nella preghiera e lo affidiamo all'amore misericordioso di Dio".


giovedì 29 ottobre 2020

pldm: "Perché, in Veneto, il centro-sinistra non tocca palla?"

dalla pagina https://www.ans21.org/semina-e-raccolto/primolunedidelmese


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Perché, in Veneto,
il centro-sinistra non tocca palla?...

Alle radici di una sconfitta strategica,
alla ricerca di nuove strategie per tornare in partita

Tre politici, rappresentanti di altrettante aree che compongono il centro-sinistra, rispondono alle domande di accademici, studiosi e appassionati

Giacomo Possamai (PD)
Cristina Guarda (Europa Verde)
Carlo Cunegato (Il Veneto che vogliamo)

Discussant:
Marco Almagisti
Selena Grimaldi
Matteo Zanellato
dell’Osservatorio Democrazia a NordEst (DANE)

In studio, inoltre, Vladimiro Soli e Marco Cantarelli

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Il Parlamento Ue dice stop armi ad Arabia, Egitto e Turchia. L’Italia tace...

dalla pagina https://www.unimondo.org/Notizie/Parlamento-Ue-dice-stop-armi-a-Arabia-Egitto-e-Turchia.-L-Italia-tace-201641

“Astenersi dal vendere armi e attrezzature militari all’Arabia Saudita, agli Emirati Arabi Uniti e a qualsiasi membro della coalizione internazionale attiva nel conflitto in Yemen, nonché al governo yemenita e ad altre parti del conflitto”. “Sospendere la concessione di licenze di esportazione di armi alla Turchia”. “Sospendere le esportazioni verso l’Egitto di armi, tecnologie di sorveglianza e altre attrezzature di sicurezza”. Lo chiede, senza troppi giri di parole, il Parlamento Europeo che lo scorso 16 settembre ha approvato un’importante risoluzione sulla “Esportazione di armi” in attuazione della Posizione comune 2008/944/PESC.

Una risoluzione beatamente ignorata da gran parte dei maggiori mezzi di informazione italiani, a parte qualche lodevole eccezione come il nuovo quotidiano “Domani” (che vi ha dedicato un ampio articolo), forse perché scomoda ai loro partiti di riferimento o anche solo per non inimicarsi gruppi industriali e fornitori di pubblicità.

L’Europa e la corsa agli armamenti

La risoluzione evidenzia innanzitutto un fatto preoccupante. “A livello mondiale – nota l’Europarlamento – si sta diffondendo una nuova corsa agli armamenti e le principali potenze militari non ricorrono più al controllo degli armamenti e al disarmo per ridurre le tensioni internazionali e migliorare il clima di sicurezza globale”. In questo contesto non è da sottovalutare il ruolo che ricopre l’Europa: come riporta la risoluzione “le esportazioni di armi dall’UE a 28, nel periodo 2015-2019, ammontavano a circa il 26% del totale mondiale, facendo dell’UE a 28 nel suo complesso il secondo maggiore fornitore di armi del mondo dopo gli Stati Uniti (36%) e prima della Russia (21%)”. Vi è quindi una “particolare responsabilità” degli Stati membri nelle esportazioni di armi e sistemi militari considerato che queste esportazioni possono “aggravare le tensioni e i conflitti esistenti”. In particolare “verso i Paesi di Medio Oriente e Nord Africa, regione teatro di vari conflitti armati, che continuano a essere la prima destinazione regionale delle esportazioni".

L’Europa tra pulsioni nazionaliste e disarmo

Non solo. L’Europarlamento evidenzia un ulteriore elemento di crisi e, di conseguenza di particolare attenzione per l’Unione. “In un mondo multipolare sempre più instabile, ove sono in aumento forze nazionaliste, xenofobe e antidemocratiche, è essenziale che l’Unione europea diventi un attore influente sulla scena mondiale e conservi il suo ruolo guida con un potere di persuasione (soft power) a livello globale, impegnata a favore del disarmo sia delle armi convenzionali che di quelle nucleari, e investendo nella prevenzione dei conflitti, nella gestione delle crisi e nella mediazione prima di prendere in considerazione le opzioni militari”. Il richiamo al disarmo e alla prevenzione dei conflitti non è scontato ed è importante che l’Europarlamento abbia ribadito che l’industria della difesa debba servire innanzitutto a “garantire la difesa e la sicurezza degli Stati membri dell’Unione” rispetto alla “competitività” industiale: “l'ambizione di accrescere la competitività del settore europeo della difesa non deve compromettere l'applicazione degli otto criteri della Posizione comune poiché essi sono prioritari rispetto a eventuali interessi economici, commerciali, sociali o industriali degli Stati membri” - ribadisce la risoluzione.

E’ in questo contesto che il Parlamento europeo chiede agli Stati membri di sospendere le forniture di armamenti e sistemi militari non solo ai Paesi già sottoposti a misure di embargo da parte dell’UE (Bielorussia, Repubblica centrafricana, Cina, Iran, Libia, Myanmar, Corea del Nord, Federazione russa, Somalia, Sud Sudan, Sudan, Siria, Venezuela, Yemen e Zimbabwe), ma anche a Paesi che, con il loro intervento militare, stanno aggravando conflitti regionali.

Stop alle forniture di armi alla coalizione saudita

Tra questi, innanzitutto, il conflitto in Yemen. Ricordando la risoluzione del 4 ottobre 2018 sulla situazione nello Yemen, l’Europarlamento “esorta tutti gli Stati membri dell’UE ad astenersi dal vendere armi e attrezzature militari all’Arabia Saudita, agli Emirati Arabi Uniti e a qualsiasi membro della coalizione internazionale, nonché al governo yemenita e ad altre parti del conflitto”.

La risoluzione, inoltre, “accoglie con favore le decisioni dei governi di Belgio, Danimarca, Finlandia, Germania, Grecia, Italia e Paesi Bassi di adottare restrizioni sulle loro esportazioni di armi verso paesi che sono membri della coalizione a guida saudita coinvolti nella guerra nello Yemen”. Ed evidenzia che “tali esportazioni violano chiaramente la posizione comune”. Ricorda inoltre che tra il 25 febbraio 2016 e il 14 febbraio 2019 il Parlamento ha invitato, mediante risoluzioni in plenaria, almeno dieci volte il Vicepresidente/Alto rappresentante (che era Federica Mogherini) ad “avviare un processo finalizzato ad un embargo dell’UE sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita, anche per quanto riguarda, nel 2018, altri membri della coalizione a guida saudita nello Yemen e ribadisce nuovamente tale invito”.

Un invito che l’Italia farebbe bene ad ascoltare almeno prorogando la sospensione di forniture di “bombe d’aereo e missili” verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti decisa nel giugno dell’anno scorso a seguito della mozione presentata dai partiti dell’allora maggioranza di governo (M5S e Lega) ed approvata col voto favorevole dei due suddetti partiti, con l’astensione di tutti gli altri e nessun voto contrario. Come noto, una mozione per sospendere tutte le forniture militari a tutti i Paesi facenti parte della coalizione a guida saudita coinvolti nei bombardamenti in Yemen era stata fortemente richiesta, da almeno tre anni, da un ampio gruppo di associazioni tra cui Rete italiana per il disarmo, Amnesty International, Oxfam e Save the Children.

L’ultima Relazione governativa riporta invece che anche lo scorso anno sono state rilasciate ben 57 nuove autorizzazioni per forniture di sistemi militari per l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti del valore complessivo di oltre 196 milioni di euro tra cui figurano “bombe, siluri, razzi e missili”, cioè proprio i sistemi militari che avrebbero dovuto essere sospesi. Nessuna spiegazione è finora pervenuta né dal nuovo governo né dall’autorità preposta al rilascio delle autorizzazioni: l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento (UAMA).

Sospendere le licenze di armi alla Turchia

Anche nei confronti della Turchia, l’Europarlamento invita il Vicepresidente/Alto rappresentante a “introdurre un’iniziativa in seno al Consiglio affinché tutti gli Stati membri dell’UE sospendano la concessione di licenze di esportazione di armi”. La risoluzione “condanna fermamente la firma dei due memorandum d’intesa tra la Turchia e la Libia sulla delimitazione delle zone marittime e su una cooperazione militare e di sicurezza globale che sono interconnessi e violano chiaramente il diritto internazionale e la risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che impone un embargo sulle armi nei confronti della Libia”. La risoluzione ricorda la “decisione presa da alcuni Stati membri di sospendere la concessione di licenze di esportazione di armi alla Turchia”.

Decisione che l’anno scorso ad ottobre il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, ha annunciato di aver implementato firmando un “atto interno alla Farnesina” – che non è mai stato reso pubblico – per bloccare però solo le “vendite future di armi alla Turchia” e per “avviare un’istruttoria sui contratti in essere». Come ha rivelato un’ampia inchiesta di Altreconomia, nonostante questi annunci, l’Italia ha continuato a fornire armamenti alle forze armate di Ankara.

Non solo: dai dati del registro dell’Istat sul commercio estero, analizzati dall’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (OPALda novembre del 2019 a luglio del 2020 sono stati esportati in Turchia più di 85 milioni di euro di “armi e munizioni”, una cifra che costituisce il record storico dal 1991; solo nel primo semestre del 2020 l’export si attesta a quasi 60 milioni di euro. Si tratta in gran parte di munizionamento pesante, prodotto ed esportato soprattutto all’azienda “Meccanica per l’elettronica e servomeccanismi” (MES) con sede a Colleferro in provincia di Roma: azienda che produce ed esporta munizionamento militare come il colpo completo di calibro 105/51 millimetri HEAT-T e di 120 millimetri HEAT-MP-T. Ma sono continuate anche le esportazioni ad Ankara di bombe aeree prodotte dalla RWM Italia. Anche a fronte di queste nuove forniture, ieri con un comunicato la Rete Italiana Pace e Disarmo ha rinnovato la richiesta al governo italiano di bloccare le forniture di armamenti al regime di Erdogan.

Sospendere le esportazioni di armi all’Egitto

Ricordando che, a seguito del colpo di stato del generale Al Sisi, già nell’agosto del 2013 il Consiglio degli Affari esteri dell’UE aveva deciso che “gli Stati membri dell’Unione hanno convenuto di sospendere le licenze di esportazione verso l’Egitto di attrezzature che potrebbero essere usate a fini di repressione interna”, l’Europarlamento “condanna il mancato rispetto persistente di tali impegni da parte degli Stati membri” ed “invita pertanto gli Stati membri a sospendere le esportazioni verso l’Egitto di armi, tecnologie di sorveglianza e altre attrezzature di sicurezza in grado di facilitare gli attacchi contro i difensori dei diritti umani e gli attivisti della società civile, anche sui social media, nonché qualsiasi altro tipo di repressione interna”. La risoluzione invita inoltre il Vicepresidente/Alto rappresentante “a riferire sullo stato attuale della cooperazione militare e di sicurezza degli Stati membri con l’Egitto” e chiede che “l’Unione dia piena attuazione ai controlli sulle esportazioni verso l’Egitto per quanto riguarda i beni che potrebbero essere utilizzati a fini repressivi o per infliggere torture o la pena capitale”.

In questi anni, nonostante il persistere della repressione interna, la mancata cooperazione da parte delle autorità egiziane a fornire le informazioni richieste dai magistrati italiani riguardo all’orribile uccisione di Giulio Regeni e anche all’incarcerazione illegittima di Patrick Zakil’Italia ha continuato a fornire armi e sistemi militari all’Egitto. Anche in questo caso, nonostante il ministro Di Maio lo scorso giugno abbia affermato che la vendita delle due fregate Fremm all’Egitto non è ancora conclusa, nei giorni scorsi un’ampia inchiesta de “L’Espresso” ha rivelato che l’affare è stato portato a termine. Amnesty International e Rete Italiana Pace e Disarmo con un comunicato hanno sollecitato il Governo a rivedere questa decisione “illegale e pericolosa” e hanno rinnovato la richiesta al Parlamento di esaminare con attenzione la questione e di manifestare pubblicamente il proprio parere. Non va dimenticato, inoltre, che l’Italia nonostante la decisione del Consiglio dell’UE, già dal 2014 ha continuato a inviare alle forze di sicurezza egiziane anche armi e munizioni che possono essere impiegate per la repressione interna.

E il Parlamento italiano?

E' compito delle forze politiche che hanno promosso e votato la risoluzione al Parlamento europeo chiedere al governo italiano di sostenerla in sede di Consiglio Ue e, soprattutto, di cominciare ad attuarla con precise restrizioni che deve assumere il governo italiano. I due partiti al governo, Movimento 5 Stelle e Partito Democratico, a Bruxelles hanno votato a favore della risoluzione e, nelle loro dichiarazioni, hanno richiamato la necessità degli Stati di “essere credibili” nell'attuare le restrizioni previste sulle esportazioni di armi e sistemi militari. Ci auguriamo che vogliano esserlo anche i loro colleghi che siedono nel Parlamento italiano.

Giorgio Beretta
giorgio.beretta@unimondo.org


mercoledì 28 ottobre 2020

È tempo di scelte coraggiose, se non ora quando?

dalla pagina https://ilmanifesto.it/e-tempo-di-scelte-coraggiose-se-non-ora-quando/

Economia politica. Se vogliamo salvarci dal Covid 19 (ormai sarebbe corretto chiamarlo Covid 20) dobbiamo fare scelte coraggiose. La politica dei piccoli passi non paga e ci porta nel baratro

Siamo rientrati in un incubo collettivo. Dove è finita l’Italia indicata dall’Oms, a settembre, come un modello da seguire? Guardavamo con sufficienza i paesi europei entrati nell’occhio malefico della pandemia pensando già al Recovery Fund e a grandi progetti da presentare a Bruxelles.

In meno di due settimane è cambiato tutto. Gli esperti l’avevano preannunciato in estate, sia pure con cautela: una seconda ondata sarebbe stata molto probabile. Non gli abbiamo voluto credere, e soprattutto abbiamo fatto ben poco per prevenire, per correre ai ripari ai primi segnali che arrivavano dal resto d’Europa, come se il Bel Paese grazie a una sorta di buona stella – il sole, la dieta mediterranea, il buon governo… – ci avesse immunizzato.

Non bisogna essere scienziati per capire che quando la curva della pandemia mostra una crescita iperbolica abbiamo poco tempo per correre ai ripari. Il nostro sistema sanitario, se non si rallenta l’espansione dei contagi, non è in grado di reggere. Soprattutto nel Mezzogiorno, dove le Regioni hanno fatto ben poco per adeguare i reparti destinati alle terapie intensive, sia come posti letto a disposizione che come personale. Le nuove assunzioni di medici e infermieri sono state o inadeguate, o addirittura non ci sono state, e oggi ci troviamo in una situazione che potrebbe superare quanto abbiamo visto nella scorsa primavera in Lombardia.

Purtroppo, la paura avanza a passi da gigante e sinceramente non vorremmo essere nel ruolo di governatori o premier. Se chiudiamo tutto, o quasi, rischiamo di vedere affossata una debole ripresa economica e, soprattutto, di sotterrare quel poco di speranza e progettualità che si stava ricostruendo. Senza contare i milioni di lavoratori precari, piccoli imprenditori, che finiscono nella miseria e nella disperazione. E’ una situazione simile alla condizione di chi sta per affogare e si è salvato, ma al momento di essere soccorso e salire su una nave cade di nuovo in acqua in maniera rovinosa.

Se invece, continuiamo con blande misure anticovid che colpiscono più l’immaginario collettivo che il virus, allora rischiamo la catastrofe umanitaria con gli ospedali che scoppiano, file di ambulanze di fronte al pronto soccorso, persone gravemente malate che rimangono a casa senza cure. In pratica ci troviamo di fronte a quella doppia epidemia disegnata nell’editoriale di domenica scorsa («Il sintomo di un’altra epidemia»)..

Se possiamo fare un paragone, con i dovuti distinguo, è quello con la crisi da stagflazione che colpì l’economia occidentale, e in special modo la nostra negli anni ’80. Allora, stagnazione economica ed alti tassi d’inflazione ponevano i governi di fronte al dilemma: combattere l’inflazione riducendo la liquidità del sistema, oppure rilanciare l’economia uscendo da una lunga stagnazione. Nel primo caso si abbassava la crescita dei prezzi ma si aggravava la recessione e aumentava la disoccupazione già alta in quel decennio. Nel secondo caso si favoriva un ulteriore crescita dell’inflazione che colpiva il potere d’acquisto dei ceti a reddito fisso e le fasce più deboli della popolazione.

La maggior parte dei governi adottarono una politica dello “stop and go”, che tradotto in altri termini significa “un colpo al cerchio e una alla botte”. Ma, alla fine la via d’uscita si trovò con una ristrutturazione del mercato mondiale, attraverso il decentramento produttivo dell’industria manifatturiera, una compressione dei salari (che in Italia si concluse con la cancellazione della scala mobile), e la vittoria della Thacher in Inghilterra e Reagan negli Usa che inaugurarono l’era neoliberista. Speriamo che nel nostro caso non finisca così!

Certamente non ci troviamo di fronte ad una semplice scelta tra la salute e l’economia, ad una scelta tecnica, ma politica che ridisegnerà il nostro futuro. Se vogliamo salvarci dal Covid 19 (ormai sarebbe più corretto chiamarlo Covid 20) dobbiamo avere il coraggio di scelte drastiche. La politica dei piccoli passi non paga e ci porta nel baratro.

Se dobbiamo rallentare la diffusione della pandemia perché le nostre strutture sanitarie non sono in grado di reggere allora finiamola con questi provvedimenti a macchia di leopardo. Allo stesso tempo garantiamo a tutte le categorie colpite, compresi precari e disoccupati, inoccupati, un reddito di base, a cui accedere immediatamente senza farraginose procedure. Inoltre, per non continuare a indebitarci, facciamo pagare chi ha continuato a guadagnare da questa situazione, a partire dal mondo della finanza, dagli speculatori che hanno festeggiato durante questo crollo dell’economia reale. Ieri il governo spagnolo di Sanchez e Iglesias ha fatto una scelta di indubbio rilievo proponendo una tassa sui grandi patrimoni.

In una situazione come questa si impongono drastiche scelte di redistribuzione della ricchezza nazionale, se vogliamo evitare che il paese vada verso il default e la maggioranza della gente s’impoverisca.


martedì 27 ottobre 2020

Covid, il domani sostenibile si può se si cambia governance oggi

dalla pagina https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2020-10/covid-project-coronavirus-ranganathan-clima-economia.html

Papa Francesco ne è certo e lo ripete a tutti: dalla pandemia si esce migliori o peggiori. La crisi globale chiede un ripensamento dei parametri della convivenza umana in chiave solidale. Su questa idea si basa il Progetto “Covid 19 Costruire un futuro migliore”, creato in collaborazione dal Dicastero per la Comunicazione e dello Sviluppo Umano Integrale: offrire un percorso che dalla fine della pandemia porti all’inizio di una nuova fraternità

VATICAN NEWS

È una questione di prospettiva. Il mondo messo in quarantena dal coronavirus, sospeso nell’evoluzione delle sue attività, vuole ritrovare il suo senso di marcia ma deve stare attento a imboccare la strada giusta. Soprattutto a non commettere errori già commessi. Primo fra tutti pensare che la salute passi dalla crescita economica. “La crescita è l'obiettivo sbagliato. Ciò a cui dobbiamo puntare è lo sviluppo umano - lo sviluppo umano sostenibile”, afferma Janet Ranganathan, vicepresidente del “Research, Data, and Innovation of World Resource Institute”, una delle esperte chiamate da Papa Francesco nella Commissione vaticana Covid-19. La Ranganathan lancia un’idea. “Un primo passo concreto – propone – potrebbe essere la convocazione, da parte di Papa Francesco, di un summit con altri leader religiosi per realizzare un ‘Circolo virtuoso di sostenibilità’ che continui ad espandersi fino a coinvolgere l'intero pianeta”. Per evitare che il conto salato del virus lo paghino soprattutto i poveri.

Lei fa parte della Commissione vaticana COVID 19, il meccanismo di risposta istituito da Papa Francesco per far fronte a una pandemia senza precedenti. Personalmente, cosa spera di imparare da questa esperienza? In che modo la società, nel suo complesso, potrà trarre ispirazione dal lavoro della Commissione?

R. – Spero di imparare di più sul ruolo che la Chiesa svolge per fare fronte alle crisi globali. Le stesse cause di fondo hanno probabilmente avuto un ruolo nelle precedenti crisi documentate, ad esempio, già nella Bibbia: “leader” che rappresentano solo i pochi privilegiati, il consumo eccessivo delle risorse naturali, la preoccupazione per l'oggi a discapito del domani, la scarsa trasparenza e responsabilità e l’incapacità di valutare come gli effetti dei problemi e delle risposte si riflettano poi nel tempo e in un sistema calibrato di chi ne riceve i benefici e chi ne paga i costi. La Commissione ispirerà altri (e noi stessi!) se collaboreremo veramente alla creazione/sperimentazione di approcci che risolvano le cause che stanno alla radice del cambiamento climatico, dell'insicurezza alimentare e idrica, delle malattie e della disuguaglianza massiccia. L’imperativo alla collaborazione non è mai stato più grande.

Papa Francesco ha chiesto alla Commissione COVID 19 di preparare il futuro invece che di prepararsi per il futuro. In questa impresa, quale dovrebbe essere il ruolo della Chiesa cattolica come istituzione?

R. – Papa Francesco dovrebbe unire le sue forze con quelle degli altri leader religiosi per creare un movimento globale e locale che chieda, voti a favore e conduca il discorso sulla preparazione di un futuro sostenibile. La Commissione può fornire le motivazioni, le tappe fondamentali e le indicazioni a sostegno di questo movimento. Il tempo è essenziale.  

Quali insegnamenti personali (se ce ne sono) ha tratto dall’esperienza di questa pandemia? Quali cambiamenti concreti spera di vedere dopo questa crisi, sia da un punto di vista personale che globale?

R. – La pandemia mette in luce il rischio che deriva dall'interconnessione ambientale, sociale ed economica a livello globale. Ogni crisi globale (cambiamenti climatici, pandemie, insicurezza alimentare e idrica, recessioni, migrazioni), inasprisce i problemi e le vulnerabilità esistenti, soprattutto per i poveri. Personalmente, ho avuto la sensazione che la pandemia abbia creato un divario ancora maggiore tra me e la mia famiglia “globale”. Dopo la fine di questa crisi, spero che la disuguaglianza salga in cima alle agende politiche di tutto il mondo e diventi una priorità assoluta anche per la mia organizzazione. Il cambiamento climatico e la disuguaglianza hanno alla base cause simili. Devono essere affrontati insieme.

Non sappiamo con certezza l’origine del coronavirus, ma sappiamo quali danni può provocare e sta provocando. Può esserci un collegamento tra la pandemia di Sars-cov-2 e i cambiamenti climatici? Cioè, il virus può essere un segnale del nostro tardo agire?

R. – È troppo presto per fare affermazioni ufficiali sull'origine della pandemia di Covid. È probabile che sia di origine zoonotica. Le malattie zoonotiche e il cambiamento climatico hanno un motore comune: la conversione degli ecosistemi naturali. La perdita di habitat naturali porta a un forte avvicinamento tra animali selvatici ed esseri umani. Il cambiamento del territorio, in particolare la deforestazione, è uno dei principali fattori che contribuiscono al cambiamento climatico (producendo circa l'11% dei gas serra globali). Il cambiamento climatico, a sua volta, influisce sulla diffusione delle malattie, modificando le dinamiche serbatoio-vettore e creando nuove nicchie ecologiche per le malattie e i loro vettori. I governi possono affrontare in modo congiunto le cause comuni che sono alla radice delle pandemie zoonotiche e del cambiamento climatico, e dare priorità agli sforzi per “decarbonizzare” le loro economie nei pacchetti di ripresa economica. 

Quindi, se la comunità internazionale si impegna in modo decisivo contro l’emergenza climatica, questo può trascinare l’economia mondiale verso la crescita?

R. – La crescita è l'obiettivo sbagliato. Ciò a cui dobbiamo puntare è lo sviluppo umano - lo sviluppo umano sostenibile. Questo è ciò che chiedono gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Troppi governi hanno perseguito la crescita economica, permettendo che diventasse il "fine" piuttosto che il "mezzo". Questo ha contribuito a far crescere le disuguaglianze e il degrado della base di risorse naturali che sostiene la vita sulla terra. Un'azione efficace contro il cambiamento climatico deve essere parte integrante degli sforzi per ricablare le economie, in modo da realizzare uno sviluppo sostenibile. Ciò richiede uno spostamento dell'attenzione per affrontare le cause che sono alla radice delle disuguaglianze e del degrado ambientale, come interessi particolari, sovraconsumo, mancanza di trasparenza e di responsabilità eccetera, come ho detto prima.

Ma la crescita da sola non basta, se i suoi benefici non sono più equamente distribuiti. E senza una migliore distribuzione delle ricchezze, ci sono scarse possibilità di lottare in modo coordinato contro l’emergenza climatica. È d’accordo?

R. – Sì, proprio così. Abbiamo bisogno di parametri migliori per misurare lo stato di salute di un'economia. Il PIL esclude il valore delle risorse naturali e il costo delle esternalità ambientali. Un Paese può degradare il proprio suolo, abbattere le foreste, inquinare le acque facendo passare queste attività per contributi economici positivi. Gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell'Onu possono misurare ciò che il PIL non fa, ma la loro completezza (17 OSS, gli obiettivi di sviluppo sostenibile, 169 obiettivi e 232 indicatori) non è sufficiente per fornire ai responsabili politici il necessario quadro di riferimento ristretto. Per affrontare questo problema, i governi possono coinvolgere i cittadini nella definizione delle priorità degli OSS e degli obiettivi più rilevanti per il contesto del loro Paese.

Ancora una volta appare evidente che siano ben note le soluzioni che potrebbero offrire a tutti un futuro sostenibile in questa nostra “casa comune”, che dobbiamo consegnare alle generazioni future in condizioni migliori rispetto a quelle in cui si trova oggi. Ma è altrettanto netta la sensazione che si stia facendo poco o niente. Perché?

R. – Una soluzione non è tale a meno che non sia effettivamente implementata per risolvere un problema. E poiché la maggior parte dei problemi globali di cui mi sto occupando sta peggiorando, o non abbiamo le "soluzioni" giuste o non riusciamo a far fronte alle forze che ne impediscono l’adozione. Torno su quello che dicevo prima: dobbiamo affrontare le cause che sono alla radice della disuguaglianza e del degrado ambientale. Le stesse cause che sono alla loro radice si manifestano come forze che si oppongono all'adozione di soluzioni promettenti e che possono offrire a tutti un futuro sostenibile nella nostra "casa comune". Il detto "l'economia descrive il problema, la governance lo spiega" coglie nel segno. Dobbiamo rafforzare i nostri sistemi di governance, locali e globali, per offrire un futuro più sostenibile ed equo. La Chiesa può aiutare a catalizzare la richiesta di tali cambiamenti.

C’è ancora chi sostiene che la battaglia contro i cambiamenti climatici è affare degli ambientalisti. Papa Francesco nella Laudato si' afferma che “il clima è un bene comune”, quindi un problema di tutti. Nei governi c’è questa consapevolezza? O importa poco il fatto che “nei prossimi decenni probabilmente gli impatti più pesanti ricadranno sui Paesi in via di sviluppo”?

R. – Ogni volta che leggo un rapporto che fa riferimento al cambiamento climatico come a un problema ambientale, mi viene voglia di cancellarlo e sostituire con "problema di sviluppo". Il cambiamento climatico è un moltiplicatore di rischio per le altre sfide dello sviluppo tra cui l'insicurezza alimentare e idrica, la disuguaglianza, i conflitti e le migrazioni causate dalla mancanza di risorse, le malattie, gli incendi - per citarne solo alcune. E mentre i suoi effetti ci danneggeranno tutti, i Paesi poveri e i gruppi vulnerabili saranno sicuramente quelli colpiti più duramente. La mia sensazione è che nella maggior parte dei governi ci sono individui che colgono questo aspetto, ma le loro voci non sono quelle della maggioranza e raramente sono quelle più forti. Per affrontare questo, avremo bisogno di un movimento globale sostenuto dal basso che chieda di agire. Qui la Chiesa può svolgere un ruolo importante per preparare un futuro sostenibile, catalizzando e incanalando il movimento.

 

lunedì 26 ottobre 2020

Le colonie del nostro tempo e il filantrocapitalismo

dalla pagina https://comune-info.net/le-colonie-del-nostro-tempo-e-il-filantrocapitalismo/

Vandana Shiva


Ormai lo sappiamo da tempo, da molto prima che il virus che dilaga nel mondo cominciasse a diffondere il panico in mezzo pianeta: la sopravvivenza della nostra specie non era forse mai stata tanto minacciata. Sappiamo altresì che mai così poche persone avevano avuto il controllo sulla vita dell’intera comunità e mai come oggi i nostri corpi e le nostre menti erano stati trasformati in vere e proprie colonie da cui estrarre rendita e accumulare una ricchezza spropositata in poche mani. Come secoli addietro, per appropriarsi dei territori abitati da gente considerata inferiore o sub-umana, le potenze coloniali europee avevano recuperato la nozione di Terra Nullius [Terra di Nessuno] – terra non popolata, dunque pronta per essere conquistata -, così oggi la biotecnologia e l’industria chimica, per appropriarsi di una vita “conquistabile”, usano il concetto di Bio Nullius per sottrarre i semi e cimentarsi nella biopirateria, con l’uso dei brevetti e dei diritti di proprietà intellettuale. Intanto, più o meno allo stesso modo, i giganti digitali e i capitalisti della sorveglianza – Google, Facebook, Microsoft, ecc. – creano la nozione di Mens Nullius per prendere possesso e controllare, con le nostre vite, anche le nostre menti. La ricolonizzazione del nostro tempo ha bisogno di nuove “missioni civilizzatrici” per presentare la rapina delle risorse e le azioni predatorie che promuove come “liberazione” di quanti sono considerati in genere “selvaggi” e “barbari”. Mentre solennemente proclamano guerra alla fame e alla povertà, ai virus e al cancro, alla diserzione scolastica e all’odio, Bill Gates e i suoi degni colleghi privatizzano sistematicamente i beni comuni, a cominciare dal software, arricchendosi in modo assurdo grazie ai monopoli brevettuali e alla rendita finanziaria, dispensata generosamente dai governi dall’obbligo di pagare le tasse. Mai abbiamo avuto bisogno come oggi di resistere insieme, su scala globale e approfondendo le solidarietà, a tutto questo. Ragiona su tutto questo e molte altre cose ancora la bella prefazione di Vandana Shiva a Ricchi e buoni?, il libro di Nicoletta Dentico che “sarà una bussola importante per guidare l’evoluzione delle nostre strategie collettive e per difendere le nostre esistenze e libertà dalle forme della ricolonizzazione variamente avallate attraverso il filantrocapitalismo”

Il Mondo Nuovo dell’1%, il mondo dei miliardari e dei filantrocapitalisti che formano l’élite più esclusiva sul pianeta, è in realtà il vecchio mondo, brutale e violento, della colonizzazione. La colonizzazione crea colonie dichiarando ciò che appartiene agli altri come vuoto – Nullius – così da poterselo accaparrare. Quei beni comuni che appartengono alle comunità, e a cui le comunità appartengono, vengono trasformati in proprietà private dei colonizzatori.

Questo fa la colonizzazione. Espropria le comunità dei loro diritti di accesso, le sfratta dai loro territori, salvo poi raccogliere le rendite di ciò che è stato sottratto e chiuso, grazie al processo di colonizzazione. L’economia globale contemporanea poggia sulla reinvenzione del progetto di colonizzazione. Proprio così. Sono i colonizzatori a definire la narrazione storica, scrivendo le leggi e le regole che servono per legittimare i saccheggi delle terre, delle risorse, delle ricchezze, perpetrati contro i colonizzati.

Ciò che poté la Bolla Papale a favore della colonizzazione nel XV secolo, possono oggi, nel XXI secolo, gli accordi di libero scambio, la deregolamentazione dell’economia, i nuovi strumenti di ingegneria genetica e la digitalizzazione, le nuove narrazioni sulla tecnologia. La prima colonizzazione costruì la nozione della Terra Nullius – la terra vuota – per appropriarsi dei territori delle popolazioni colonizzate e farle diventare le proprietà dei colonizzatori. 

Nel mondo contemporaneo la biotecnologia e l’industria chimica hanno costruito la nozione di Bio Nullius – o vita vuota – per sottrarre i semi e cimentarsi nella biopirateria, con l’uso dei brevetti e dei diritti di proprietà intellettuale. I giganti digitali e i capitalisti della sorveglianza come Google, Facebook e Microsoft hanno costruito la nozione della Mens Nullius – o mente vuota – per prendere possesso e controllare le nostre menti e le nostre vite. 

Bill Gates ha privatizzato il bene comune del software facendosi ricco grazie ai monopoli brevettuali nel campo dell’informatica, e alla rendita finanziaria raccolta da ciò che avrebbe dovuto essere open source. E’ riuscito anche a evitare il pagamento delle tasse in virtù di regole ed escamotage del “libero commercio” che gli hanno permesso di depositare il denaro accumulato nei paradisi fiscali. 

I nuovi miliardari come Mark Zuckerberg usano Facebook per intercettare le nostre menti, estrarre dati dai nostri comportamenti e manipolarli, indirizzare le nostre scelte e guidare le nostre relazioni, salvo poi venderle alla macchina dei soldi o a quella elettorale. 

Con il crescente dominio del digitale nella nostra democrazia elettorale, l’intelligenza artificiale si è messa a eleggere leader da intelligenza artificiale, perché dominino la scena politica contemporanea.

I diritti di proprietà intellettuale su ogni idea, su ogni essere vivente, su ogni aspetto dei processi naturali e delle funzioni della comunicazione sociale, agiscono come elementi di una industria estrattiva di rapina delle risorse e dei beni comuni delle persone , ivi inclusi la nostra conoscenza e la nostra democrazia. 

Filantrocapitalisti come Bill Gates sottraggono il potere alla governance e alla politica. Sostituiscono le decisioni democratiche di governi eletti e riescono a imporre politiche e leggi che lubrificano la loro macchina dei soldi.


E così la democrazia cambia i connotati. Da democrazia “del popolo, dal popolo, e per il popolo” diventa democrazia “delle imprese, dalle imprese e per le imprese”. La filantropia è divenuta lo strumento per dirottare la democrazia e colonizzare le vite delle persone, al fine di estrarne soldi. Non è “dare”. È sofisticata appropriazione (grabbing). 

Il filantrocapitalismo è ricolonizzazione in una versione moderna. Se i beni comuni di un tempo erano la terra e i territori, i beni comuni di oggi, sottratti all’accesso dai plutocrati, sono la vita stessa. I nostri semi e la biodiversità, i nostri corpi e la nostra mente, queste sono oggi le colonie e i filantropi come Bill Gates sono i Nuovi Colombo. 

La novità dei nostri tempi è la tipologia delle nuove colonie che sono state create: le forme della vita, gli organismi viventi, la nostra biodiversità, il cibo, la salute, i nostri corpi e le nostre menti, la nostra conoscenza e le nostre storie, le nostre relazioni e amicizie, le nostre comunicazioni e le nostre scelte.

Tutto questo è assoggettato ai nuovi strumenti che sono i nuovi diritti di proprietà, le nuove dipendenze, le nuove aporie, le nuove schiavitù, i nuovi imperi e dittature. Come scrive Shoshana Zuboff in “Il Capitalismo della Sorveglianza”, siamo noi la nuova materia prima. La novità è anche la creazione di una nuova religione fondata sull’innalzamento di alcuni strumenti, la tecnologia e il denaro.

Questi dovrebbero servire in teoria come mezzi per conseguire obiettivi al servizio dell’umanità e della terra. Vengono invece elevati a fini in sé stessi, a fondamenti di questa nuova religione fatta ad arte per legittimare la ricolonizzazione che minaccia il pianeta e il nostro futuro. 

500 anni fa, la religione della chiesa cattolica era utilizzata per giustificare la violenza della colonizzazione. La nuova chiesa è plasmata dall’1%. E’ la religione dei soldi: fare soldi sempre e comunque. Le tecnologie e la macchina del denaro sono state elevate fino a farne un credo assoluto, nel campo del cibo e dell’agricoltura come in quello della salute, dell’informazione e della finanza. I filantrocapitalisti sono allo stesso tempo i nuovi papi e i nuovi sacerdoti. In quanto 1% sono anche i nuovi Re e Regine, i nuovi sovrani.

Sono i nuovi Cristoforo Colombo, avventurieri e mercanti. E provano anche a essere Dio quando reclamano di “inventare” la vita e di “geo-ingegnerizzare” il pianeta. La ricolonizzazione in veste moderna ha bisogno di nuove “missioni civilizzatrici” per presentare il furto e le appropriazioni che promuove come “liberazione” di quanti sono considerati in genere “selvaggi” e “barbari”

Alla fine del 2016 in India abbiamo assistito al modo in cui l’economia digitale è stata imposta con la forza nel paese, attraverso una “eliminazione del contante” e le demonetizzazione dell’economia. Coloro che erano privi di smartphone e di carte di credito sono diventati, nel giro di poche ore, barbari e selvaggi da addomesticare e civilizzare con programmi di “educazione digitale” e “dittatura digitale”. 

C’è adesso una nuova iniziativa annunciata dalla Fondazione Bill & Melinda Gates che si chiama “Bill & Melinda Gates Agricultural Innovations LLC” o “Gates Ag One”, nella versione abbreviata. Gates Ag One sarà presto una sussidiaria della Fondazione Gates con a capo Joe Cornelius, l’uomo che guida attualmente la Divisione della fondazione denominata Crescita e Opportunità Globali.

Foto tratta dal Fliker di DFID – UK Department for International Development


Ag One lavorerà con il team della fondazione che si occupa di Sviluppo Agricolo e con altri partner multidisciplinari per “accelerare lo sviluppo di innovazioni” che sono “necessarie a migliorare la produttività dei raccolti e aiutare i piccoli agricoltori, la gran parte donne, ad adattarsi ai cambiamenti climatici”.

Ciò che non viene detto nelle fanfare dell’annuncio dei Gates è che i piccoli agricoltori, voglio dire soprattutto le donne che hanno selezionato varietà di semi resistenti al clima – varietà che Navdanya conserva, moltiplica e condivide – che la conoscenza di queste donne insomma e la qualità dei semi che si è evoluta per millenni, sono resi completamente invisibili in questa ultima fase della colonizzazione da parte del patriarcato capitalista.

Non esistono culture diverse o biodiversità, non esiste democrazia o sovranità, nel mondo di Bill Gates. Ci viene detto adesso che esiste una sola agricoltura, Ag One, quella somministrata da lui e dalla sua fondazione. Esiste una sola scienza, una agricoltura, un uomo che decide se e come milioni di persone dovranno vivere o morire. Questo altro non è se non imperialismo nella sua fase più avanzata. 

La “tecnologia” è stata mistificata e fatta assurgere a nuova religione per sottomettere e controllare. La “tecnologia” e l’”innovazione” sono diventate le nuove parole d’ordine, per la missione civilizzatrice che distorce completamente il significato originario di “innovare”.

Innovare significa “rendere nuovo”, mutare le cose “introducendo norme metodi o sistemi nuovi”. Tutto questo è stato ridotto a invenzione meccanica, e usato per definire le piraterie e le appropriazioni esclusive come “invenzioni” di cui si diventa proprietari tramite brevetti.

Bill Gates è sempre in agitazione alla ricerca di nuove opportunità per utilizzare i suoi miliardi tramite la filantropia e creare nuove colonie di cui impossessarsi con le sequenze digitali dei sistemi viventi. 

Melinda Gates e la propaganda sui vaccini. Foto Pixabay


Minaccia convenzioni internazionali delle Nazioni Unite come la Convenzione sulla Diversità Biologica e il Trattato sulle Risorse Genetiche delle Piante per il Cibo e l’Agricoltura.

E’ il nuovo Colombo che rivendica di inventare ciò che in realtà già esisteva, e ha rubato. Cancella la varietà del mondo vivente e della vita sociale, costruisce “il vuoto” come licenza di conquista, e poi costruisce il suo Impero sulla vita. 

Ma oggi come allora l’obiettivo è sterminare la diversità della vita, delle culture, delle conoscenze, delle economie, delle sovranità, delle democrazie, delle libertà. La pirateria e le appropriazioni dei beni comuni sono, senza soluzione di continuità, il vecchio metodo. Nulla di nuovo sotto il sole. 

Il Dharma, la giusta azione e il giusto stile di vita è rimpiazzato dall’Adharma della macchina del denaro e dello sviluppo delle tecnologie, per i profitti e il controllo come finalità umane.

Tratta dal Flicker di Global Justice Now


Senza tener in minimo conto le conseguenze che tutto questo produce sulla natura e la società. Così, riducendo al profitto il significato e il valore dell’umano, l’accumulazione del denaro da parte dell’1%, pur non etica e di fatto ingiusta in molti casi, viene definita la misura della superiorità umana. Una superiorità che non richiede valutazioni di sorta. 

Mai prima nella sua storia l’umanità ha dovuto fare i conti con una ricchezza tanto sproporzionata, assiepata in così poche mani. Mai prima è accaduto che così poche persone avessero il controllo sulla vita dell’intera umanità. Mai come oggi i nostri corpi e le nostre menti sono state trasformate in colonie da cui estrarre rendita, e accumulare ricchezza.

Mai, mai prima la sopravvivenza della nostre specie è stata così in bilico. Mai prima le minacce alle nostre libertà e al nostro futuro si sono manifestate a noi su scala planetaria. Mai abbiamo avuto bisogno come oggi di resistere insieme, su scala globale, in solidarietà. 

Il libro di Nicoletta Dentico (Ricchi e buoni?) arriva al momento giusto, ed è necessario. Sarà una bussola importante per guidare l’evoluzione delle nostre strategie collettive, e per difendere le nostre esistenze e libertà dalle forme della ricolonizzazione variamente avallate attraverso il filantrocapitalismo.

E ci servirà, questo libro, per identificare le traiettorie democratiche di resistenza all’affermazione dell’Impero che si espande per controllare la nostra agricoltura, il nostro cibo, la nostra salute, i nostri corpi e le nostre menti, i nostri modelli di vita e le nostre democrazie.


L’introduzione di Nicoletta Dentico al suo libro


domenica 25 ottobre 2020

Il Trattato di proibizione delle armi nucleari entra in vigore: gli ordigni nucleari sono illegali

dalla pagina http://retepacedisarmo.org/2020/il-trattato-di-proibizione-delle-armi-nucleari-entra-in-vigore-gli-ordigni-nucleari-sono-illegali/

Raggiunte negli ultimi giorni le 50 ratifiche grazie ad Honduras, Giamaica e Nauru: il Trattato rende illegale per i paesi che lo firmano permettere qualsiasi violazione nella loro giurisdizione e rafforza la posizione internazionale contro le armi nucleari perché si tratta del primo strumento legale che le vieta esplicitamente.
Il TPNW entrerà in vigore il 22 gennaio 2021 e impedirà specificamente l’uso, lo sviluppo, i test, la produzione, la fabbricazione, l’acquisizione, il possesso, l’immagazzinamento, il trasferimento, la ricezione, la minaccia di usare, lo stazionamento, l’installazione o il dispiegamento di armi nucleari.

Proprio in occasione della 75ª Giornata delle Nazioni Unite, che segna l’inizio della Settimana Internazionale per il Disarmo, una importante e storica notizia ha rallegrato la comunità internazionale per il controllo degli armamenti e per la pace. Con il deposito della ratifica dell’Honduras si sono infatti raggiunte 50 adesione al Trattato di Proibizione delle armi nucleari (TPNW) che così entrerà in vigore tra 90 giorni, il 22 gennaio 2021. Una tappa cruciale per la norma internazionale che ha l’obiettivo di mettere le armi nucleari fuori legge fortemente voluta dalla società civile internazionale a seguito di una forte “iniziativa umanitaria” (sostenuta da molti Paesi ed organizzazioni, tra cui la Croce Rossa Internazionale) e ottenuta con il voto alle Nazioni Unite del luglio 2017.

Oggi dunque si concretizza un nuovo passo verso la totale eliminazione dalla faccia della terra delle armi più distruttive mai costruite dall’umanità: con la cinquantesima ratifica e la conseguente l’entrata in vigore il il Trattato TPNW diventa infatti la prima legge internazionale vincolante, per chi ha firmato e ratificato, contro questi sistemi d’arma. La Rete Italiana Pace e Disarmo e Senzatomica (membri italiani della International Campaign to Abolish Nuclear Weapons) si rallegrano e gioiscono per il risultato ottenuto anche grazie allo sforzo della società civile italiana e internazionale e si impegneranno fin da subito affinché il numero degli Stati aderenti al Trattato possa aumentare, a partire dall’Italia.

“Siamo emozionati e felici non solo per il risultato ottenuto – commenta Lisa Clark, co-presidente dell’International Peace Bureau e coordinatrice delle iniziative di disarmo nucleare per la Rete Italiana Pace e Disarmo – ma anche che la cinquantesima ratifica arrivi proprio nell’anniversario della firma dello Statuto dell’ONU, 75 anni fa. La campagna globale che ha portato all’approvazione del TPNW è stata portata avanti nello spirito di quello Statuto, con il desiderio di restituire democraticità alla suprema istituzione mondiale”.

“Parafrasando Beatrice Fihn (direttrice esecutiva di ICAN, la Campagna per il Trattato che ha ricevuto il premio Nobel per la Pace nel 2017) si può certamente dire che il nostro lavoro non è finito – aggiunge Daniele Santi, presidente di Senzatomica – La nostra campagna si impegnerà ancora di più al fianco di ICAN e di RIPD per far crescere ulteriormente la rete di solidarietà di azioni che, con i giovani in prima linea, incoraggi l’Italia a stare dalla parte giusta della storia. A tal fine è in cantiere una versione aggiornata della nostra mostra che speriamo possa essere inaugurata nel 2021”.

Gli sforzi di Rete Italiana Pace e Disarmo, Senzatomica e di tutta la società civile italiana per il disarmo nucleare si concentreranno in particolare sul rafforzamento della mobilitazione “Italia, ripensaci” che già dal 2017 punta a far cambiare idea a Governo e politica italiani finora rimasti al fuori, per scelta, da  questo percorso di disarmo nucleare. Riteniamo che l’Italia dovrebbe liberarsi dalle pressioni ed indicazioni provenienti dalla Nato e dagli Stati Uniti, che mirano a tenerla sotto il loro ombrello nucleare. Va ricordato infatti che nel nostro Paese sono presenti circa 50 testate nucleari statunitensi (nelle basi di Ghedi ed Aviano) e che la motivazione evocata contro la partecipazione al percorso del TPWN risiederebbe in un fantomatico indebolimento e non coerenza col Trattato di Non Proliferazione nucleare firmato anche dall’Italia decenni fa. Al contrario questo nuovo Trattato voluto dalla società civile internazionale rafforza i principi di disarmo già presenti nel TNP (Articolo VI) e mai completamente realizzati. Pensiamo che sia chiaro come l’indebolimento dei percorsi di disarmo nucleare non provenga certo da una norma che mette questi ordigni fuori legge, ma sia minacciato soprattutto dall’ammodernamento degli arsenali nucleari che tutte le potenze stanno mettendo in atto e che coinvolgerà anche le bombe presenti in Italia.

Una situazione rigettata dalla maggioranza della popolazione italiana che, come mostra una serie di recenti sondaggi, ha confermato un evidente e continuato rifiuto delle armi nucleari: nell’ultima indagine di metà 2019 ben il 70% dei cittadini italiani si è detto favorevole all’adesione al Trattato TPNW (con solo il 16% contrario) mentre il 60% ritiene che si dovrebbero eliminare dal nostro territorio le testate nucleari statunitensi (solamente il 21% concorda con il mantenerle in Italia).

Facciamo appello dunque a tutte le forze politiche e a tutti i cittadini e cittadine che hanno a cuore il futuro dell’umanità: l’Italia cambi la propria posizione e contribuisca a rendere obsolete e inaccettabili le armi nucleari, riconvertendo le ingenti somme che ogni anno vengono spese per costruirle e mantenerle ad usi più utili per l’umanità come il contrasto al cambiamento climatico, alla pandemia, alla povertà.