sabato 29 luglio 2023

L'appello. Rompiamo il silenzio sull'Africa

dalla pagina Rompiamo il silenzio sull'Africa (avvenire.it) 

Alex Zanotelli

Pubblichiamo volentieri l’«appello africano» che padre Alex Zanotelli, comboniano, ha lanciato ai giornalisti e alle giornaliste italiani. Con lo stile, la passione evangelica e la libertà di giudizio che ben conosciamo dice la sua e, in buona misura, la nostra (visto che su “Avvenire” l’Africa e i suoi popoli hanno piena cittadinanza mediatica). Per quanto ci riguarda, possiamo assicurargli che col nostro stile, la stessa passione e una non minore libertà di giudizio continueremo a tenere gli occhi bene aperti e la voce e le pagine (cartacee e digitali) ben spiegate. (mt)

 

Cari colleghi e colleghe,
scusatemi se mi rivolgo a voi in questa torrida estate, ma è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo. Per questo come missionario uso la penna (anch’io appartengo alla vostra categoria) per far sentire il loro grido, un grido che trova sempre meno spazio nei mass-media italiani. Trovo infatti la maggior parte dei nostri media, sia cartacei che televisivi, così provinciali, così superficiali, così ben integrati nel mercato globale. So che i mass-media, purtroppo, sono nelle mani dei potenti gruppi economico-finanziari, per cui ognuno di voi ha ben poche possibilità di scrivere quello che vorrebbe. Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli stanno vivendo.

Mi appello a voi giornalisti/e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa. (Sono poche purtroppo le eccezioni in questo campo!).
È inaccettabile per me il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane stato dell’Africa), ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga.
È inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba, il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur.
È inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni.
È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa.
È inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai.
È inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera.
È inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi.
È inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa, soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi.
È inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia, Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’Onu.
È inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile.
È inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. (Lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per un valore di 14 miliardi di euro!!)

Non conoscendo tutto questo è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi. Questo crea la paranoia dell’«invasionne», furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi. Questo forza i governi europei a tentare di bloccare i migranti provenienti dal continente nero con l’Africa Compact , contratti fatti con i governi africani per bloccare i migranti Ma i disperati della storia nessuno li fermerà. Questa non è una questione emergenziale, ma strutturale al Sistema economico-finanziario. L’Onu si aspetta già entro il 2050 circa cinquanta milioni di profughi climatici solo dall’Africa. Ed ora i nostri politici gridano: , dopo che per secoli li abbiamo saccheggiati e continuiamo a farlo con una politica economica che va a beneficio delle nostre banche e delle nostre imprese, dall’Eni a Finmeccanica.
E così ci troviamo con un Mare Nostrum che è diventato Cimiterium Nostrum dove sono naufragati decine di migliaia di profughi e con loro sta naufragando anche l’Europa come patria dei diritti.

Davanti a tutto questo non possiamo rimane in silenzio. (I nostri nipoti non diranno forse quello che noi oggi diciamo dei nazisti?). Per questo vi prego di rompere questo silenzio- stampa sull’Africa, forzando i vostri media a parlarne. Per realizzare questo, non sarebbe possibile una lettera firmata da migliaia di voi da inviare alla Commissione di Vigilanza sulla Rai e alle grandi testate nazionali? E se fosse proprio la Federazione Nazionale Stampa Italiana (Fnsi) a fare questo gesto? Non potrebbe essere questo un’Africa Compact giornalistico, molto più utile al Continente che non i vari Trattati firmati dai governi per bloccare i migranti? Non possiamo rimanere in silenzio davanti a un‘altra Shoah che si sta svolgendo sotto i nostri occhi.
Diamoci tutti/e da fare perché si rompa questo maledetto silenzio sull’Africa.

Napoli, 17 luglio 2017

 

lunedì 17 luglio 2023

L’appello: usiamo i soldi delle spese militari per combattere la crisi climatica

dalla pagina L’appello: usiamo i soldi delle spese militari per combattere la crisi climatica (valori.it)

L'aumento delle spese militari è inutile e controproducente: lo affermano Greenpeace Italia, Sbilanciamoci e Rete Italiana Pace e Disarmo

Valentina Neri

Era in corso la Cop15 di Copenaghen, nel 2009, quando i Paesi industrializzati si sono impegnati a stanziare 100 miliardi di dollari l’anno per aiutare quelli in via di sviluppo ad affrontare la crisi climatica. Questa promessa doveva essere rispettata nel 2020. Forse, ma non è ancora sicuro al 100%, lo sarà nel 2023. Nel frattempo, però, i soldi per le spese militari non sono mai mancati. Anzi, nel 2022 hanno toccato il loro record assoluto di 2.240 miliardi di dollari complessivi. Questo paradosso è al centro dell’appello lanciato da Greenpeace Italia, Sbilanciamoci e Rete Italiana Pace e Disarmo in una conferenza stampa al Senato, in concomitanza con il vertice NATO che si è tenuto a Vilnius tra l’11 e il 12 luglio.

Le spese militari aumentano (e non aiutano la pace)

Nel 2022, l’anno in cui è scoppiata la guerra in Ucraina, le spese militari globali hanno raggiunto i 2.240 miliardi di dollari complessivi. Una cifra che cresce del 3,7% in termini reali rispetto all’anno precedente, toccando un record assoluto. È quanto fa sapere l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma (Sipri). L’Europa è protagonista di questa tendenza, con +13% anno su anno: non si assisteva a un aumento simile dalla fine della Guerra Fredda. La nostra Italia non si tira indietro, anzi. L’Osservatorio Mil€x parla di spese militari (incluse quelle pensionistiche) pari a 25,7 miliardi di euro previsionali del 2022. E destinate di salire di altri 800 milioni nel 2023, raggiungendo dunque i 26,5 miliardi di euro.

Una giustificazione molto comune vuole che le spese militari fungano da deterrente. I dati però smentiscono questa tesi. Il Global Peace Index descrive un mondo in cui negli ultimi 15 anni i conflitti sono aumentati del 14% e il tasso di sicurezza è sceso del 5,4%. Nel 2022, ben 237mila persone sono morte a causa della violenza organizzata. Un numero che equivale alla popolazione di una città come Messina e quasi raddoppia rispetto al 2021 (+97%). Era dal genocidio del Ruanda del 1994 che non si registrava un dato del genere.

Guerra e crisi climatica, due fenomeni diversi ma correlati

Abbiamo ancora (poco) tempo a disposizione per garantire un futuro alle nuove generazioni, arginando la catastrofe climatica. Ma a quanto pare preferiamo usarlo per contribuire alla distruzione. E i due fenomeni, guerra e clima, sono in realtà più intrecciati di quanto non possa sembrare a uno sguardo superficiale. L’aumento delle spese militari «è incoerente con gli sforzi per raggiungere gli obiettivi essenziali di emissioni e aggraverà, non arginerà, l’emergenza climatica. La guerra e i conflitti armati non portano solo morte e distruzione, ma anche devastazione dell’ambiente e distruzione del clima», sostiene la Dichiarazione congiunta della Campagna internazionale contro le spese militari GCOMS.

«I fondi che potrebbero essere utilizzati per mitigare o invertire il dissesto climatico e per promuovere la trasformazione pacifica dei conflitti, il disarmo e le iniziative di giustizia globale, vengono invece spesi per militarizzare un mondo già troppo militarizzato», le fa eco Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Italiana Pace e Disarmo. Portare le spese militari fino al 2% del Prodotto interno lordo (PIL) è dunque una scelta miope e controproducente, contro la quale si è già espressa la campagna Sbilanciamoci attraverso la sua Controfinanziaria.

La proposta: tassare gli extra profitti delle aziende della Difesa

Per qualcuno, la guerra è un affare. Stiamo parlando del variegato panorama di imprese nel settore della Difesa. Greenpeace Italia, grazie a un’analisi condotta in collaborazione con Merian Research, fa sapere che nel 2022 le principali aziende italiane esportatrici di armi hanno incassato profitti (in termini di utile netto) che, nel loro insieme, superano di oltre 380 milioni di euro quelli del 2021. Il balzo in avanti stimato, dunque, è del 55%. A fare la parte del leone è Leonardo che, da sola, ha prodotto l’86% di questi utili.

«Di fronte alle entrate record delle aziende energetiche il governo italiano ha deciso di tassare gli extra profitti delle aziende fossili», fa notare Sofia Basso, Research Campaigner di Greenpeace Italia. «La richiesta ora è quella che siano tassati al 100% anche gli utili extra delle aziende della Difesa, perché nessuno possa beneficiare delle stragi di civili e di militari». Un’altra richiesta avanzata al governo da Greenpeace è quella di smettere di proteggere militarmente le infrastrutture legate alle fonti fossili. Nel 2022 tali missioni militari sono costate 830 milioni di euro. Soldi dei contribuenti spesi per salvaguardare gli interessi dei responsabili della catastrofe climatica.


domenica 16 luglio 2023

È morto monsignor Bettazzi, costruttore di pace

dalla pagina https://www.avvenire.it/av/pagine/monsignor-luigi-bettazzi 

Si è spento stamattina, aveva 99 anni il vescovo emerito di Ivrea, era l'ultimo padre conciliare ancora vivente. Presidente di Pax Christi partecipò alla marcia della pace nel 1992 a Sarajevo


Tra le note caratteriali che sottolinea chi l’ha conosciuto bene, c’erano la gentilezza e un certo gusto dell’ironia, caratteristica conservata fino alla fine.

Monsignor Luigi Bettazzi è scomparso questa mattina prima dell'alba a 99 anni (ne avrebbe compiti 100 anni il 26 novembre) è stato un uomo disponibile e aperto al dialogo. Garbato anche quando, per esempio sull’obiezione fiscale alle spese militari, assumeva posizioni scomode, di rottura.

Era nato a Treviso ma si era trasferito da giovane a Bologna dove aveva ricevuto l’ordinazione sacerdotale il 4 agosto 1946. Il 10 agosto 1963 la nomina a vescovo ausiliare di Bologna cui seguì il 4 ottobre la consacrazione episcopale.

Una settimana prima però ci fu l’emozione del Concilio Vaticano II di cui prese parte, accanto al cardinale Giacomo Lercaro a tre sessioni, iniziando dalla seconda, il 29 settembre 1963. Concluse le assise conciliari, fu nominato vescovo di Ivrea, prendendo possesso della diocesi il 15 gennaio 1967. Parallelamente al servizio nella Chiesa locale cresceva l’impegno per la causa della non violenza, fino ad essere nominato nel 1968 presidente di Pax Christi, vivendo in maniera così profonda quell’incarico da ricevere il premio internazionale dell’Unesco per l’educazione alla pace. Ma al di là delle tappe ufficiali di una biografia molto ricca, restano i gesti rimasti nell’immaginario collettivo: la scuola di laicità, come amava definirla, accanto agli studenti della Fuci, la vicinanza ai lavoratori dell’Olivetti, della Lancia e del cotonificio Vallesusa, lo scambio epistolare con il segretario del Partito comunista italiano Enrico Berlinguer.

Un dialogo sul rapporto tra la fede cattolica e l’ideologia marxista ma soprattutto sul valore della laicità. Bettazzi scrisse a Berlinguer il 6 luglio 1976, avendone risposta un anno dopo: il 14 ottobre 1977. «Mi scusi – scrisse Bettazzi – questa lettera, che molti giudicheranno ingenua, e non pochi contraddittoria con la mia qualifica di vescovo. Eppure mi sembra legittimo e doveroso, per un vescovo, aprirsi al dialogo, interessandosi in qualche modo perché si realizzi la giustizia e cresca una più autentica solidarietà tra gli uomini. Il “Vangelo”, che il vescovo è chiamato ad annunciare, non costituisce un’alternativa, tanto meno una contrapposizione alla ‘liberazione’ dell’uomo, ma ne dovrebbe costituire l’ispirazione e l’anima». «Lei – rispose Berlinguer – ha sollevato problemi la cui soluzione positiva è molto importante per l’avvenire della società e dell’Italia, per una serena convivenza fra tutti i nostri concittadini, non credenti e credenti, oltre che, in particolare, per lo sviluppo di quel dialogo, per amore del quale ha pensato di rivolgersi a me, come lei dice, in quanto segretario del Partito comunista italiano».

Nel Partito comunista italiano – proseguiva Berlinguer – «esiste ed opera la volontà non solo di costruire e di far vivere qui in Italia un partito laico e democratico, come tale non teista, non ateista e non antiteista; ma di volere anche, per diretta conseguenza, uno Stato laico e democratico, anch’esso dunque non teista, non ateista, non antiteista».

Nel 1978, un’altra scelta “scomoda”. Assieme agli altri vescovi Clemente Riva e Alberto Ablondi, chiese di potersi offrire prigioniero in cambio del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro rapito dalle Brigate Rosse. La richiesta, tuttavia, venne respinta dalla Curia Romana e Bettazzi raccontò che, quando fece presente che si trattava di una vita umana e non di un fatto politico, ricevette in risposta la frase “È meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera”.

Celebre anche per le battaglie per l’obiezione fiscale alle spese militari, sostenne l’obiezione di coscienza quando ancora si rischiava il carcere e nel 1992 partecipò alla marcia pacifista organizzata a Sarajevo da “Beati costruttori di pace e Pax Christi” insieme a monsignor Antonio Bello nel mezzo della guerra civile in Bosnia ed Erzegovina.

Sette anni dopo, la rinuncia alla guida della diocesi di Ivrea per raggiunti limiti di età, un passo che però non ne segnò la pensione come comunemente la si potrebbe intendere. Anzi nel 2007 si dichiarò favorevole ai Dico, disegno di legge presentato dal governo Prodi sui “diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi”, comprese le coppie omosessuali.

Gli ultimi anni sono stati ancora all’insegna dell’educazione alla nonviolenza (ha partecipato a tutte le Marce della pace organizzate il 31 dicembre) e della riflessione sul Concilio Vaticano II.

Fino alla morte sopravvenuta ad Albano d’Ivrea dove viveva da molti anni. A precedere il lutto l’invito dell’attuale vescovo della diocesi eporediese monsignor Edoardo Cerato. Poche righe, semplici ma di grande partecipazione: «Accompagniamo monsignor Bettazzi che si sta avviando lucidamente al tramonto terreno. La nostra preghiera lo sostenga».

 

lunedì 10 luglio 2023

Dalla croce alle crociere

dalla pagina https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/07/10/dalla-croce-alle-crociere/


Dalla croce (dei poveri) alle crociere (dei ricchi): rischia di essere questo il triste slogan del Giubileo del 2025. È vero, fin dal suo discutibilissimo inventore (Bonifacio VIII, nell’anno 1300: il papa della Roma «là dove Cristo tutto dì si merca», nelle amare parole di Dante) l’anno santo è sempre stato anche (quando non solo) un affare economico. Una «trista commedia» (Massimo D’Azeglio), nella quale da secoli «i romani tutti erano fatti albergatori» (così già Matteo Villani): una tale bancarotta morale da far cantare al Belli che «un giubbileo pe ttanti ladri è ppoco!».

Ma forse a questo giro si rischia di esagerare davvero: perché invece di conversione e salvezza, l’anno santo porterà un nuovo terminal per le navi dei ricchi nel porto di Fiumicino. A prevederlo è il secondo “decreto Giubileo” del pio e timorato Governo Meloni, che elenca le grandi opere necessarie all’anno santo che dovranno essere completate entro il 2024. E nonostante che questo hub del lusso non rientri di certo nelle prime, e probabilmente neanche potrà rientrare nelle seconde, eccolo elencato al punto 146: «Porto turistico-crocieristico di Fiumicino Isola Sacra». Dove quel toponimo (sacra) pare davvero l’unico aggancio con la salvezza delle anime purganti. Così recita la scheda: «Il Royal Caribbean Group, secondo gruppo crocieristico a livello mondiale, con base a Miami, ha identificato nel Porto della Concordia di Fiumicino – Isola Sacra l’opportunità di introdurre una funzione crocieristica nell’ambito dell’esistente Concessione novantennale come variante al progetto già approvato, mantenendo prevalente la funzione di Yacht Marina. Il Gruppo Royal Caribbean, ha quindi costituito la Fiumicino Waterfront S.r.l., una società di diritto italiano ad hoc partecipata al 100% da RCG, che sotto il profilo giuridico rappresenta il soggetto esecutore che, acquisita la concessione demaniale, realizzerà il Porto turistico di Fiumicino – Isola Sacra. […] L’ampia offerta di approdi per Mega Yachts risponde a una domanda che mostra segni di grande vitalità e presenta un alto grado di sinergia e compatibilità con la nuova funzione crocieristica».

Come ha notato l’economista dei trasporti Pietro Spirito, sul meritorio blog “Carte in regola”, «ancorché a finanziamento quasi totalmente privato (439 milioni di euro), la nuova stazione marittima beneficerà delle procedure autorizzative accelerate in modo da esser pronto per i pellegrini-crocieristi in arrivo nel 2025. Inutilmente il presidente dell’Autorità di Sistema portuale di Civitavecchia, Pino Musolino, qualche mese fa chiedeva (retoricamente) allo Stato di interrogarsi sull’opportunità di autorizzare un progetto privato in aperta concorrenza con i propri investimenti nel porto di Civitavecchia». Non basta: secondo l’ormai collaudato modello commissariale, il Giubileo serve a far saltare la trafila della pianificazione e dei controlli sulla sostenibilità ambientale a un’opera privata che comporterà lo sventramento dei fondali del porto, che dovranno passare dagli attuali 5-6 metri a 12,5 metri (il che significa 3 milioni di metri cubi di sabbia e argilla da rimuovere). E poi, a regime, Fiumicino sarà investita in pieno dall’‘effetto Venezia’: navi da oltre 5000 passeggeri dovranno tenere i motori accesi in porto per garantire i servizi alla città galleggiante che sono, mentre almeno 100 pullman al giorno aggiungeranno ulteriore inquinamento a quello giù prodotto dall’aeroporto internazionale.

Anche il paesaggio cambierà, perché accanto all’iconico vecchio faro di Fiumicino si vedranno navi lunghe 360 metri e alte oltre 70: grattacieli di 25 piani che nessun piano paesaggistico consentirebbe. E, va da sé, addio balneabilità delle acque di Isola Sacra, che tra titanici lavori di sbancamento dei fondali e continuo dragaggio indispensabile alla manutenzione, non saranno certo più accessibili ai corpi umani.

«Nel frattempo, i poteri economici continuano a giustificare l’attuale sistema mondiale, in cui prevalgono una speculazione e una ricerca della rendita finanziaria che tendono a ignorare ogni contesto e gli effetti sulla dignità umana e sull’ambiente. Così si manifesta che il degrado ambientale e il degrado umano ed etico sono intimamente connessi. Molti diranno che non sono consapevoli di compiere azioni immorali, perché la distrazione costante ci toglie il coraggio di accorgerci della realtà di un mondo limitato e finito. Per questo oggi qualunque cosa che sia fragile, come l’ambiente, rimane indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta». Sono parole profetiche e scardinanti della Laudato sii di papa Francesco: ma è davvero un terribile paradosso che proprio un giubileo di questo papa finisca con l’alimentare quel sistema, anziché contestarlo e smontarlo. Al punto che, per citare ancora il Belli, chi davvero ha a cuore l’ambiente e la giustizia sociale, «sto ggiubbileo nun ha da dillo un furto,/ Un’invenzion der diavolo, un fraggello?».

L’articolo è stato pubblicato anche su Il Fatto quotidiano

 

sabato 1 luglio 2023

Dieci, cento, mille missioni di pace

dalla pagina https://ilmanifesto.it/dieci-cento-mille-missioni-di-pace 

CRISI UCRAÌNA. Ogni tentativo in cui si accende la speranza di trovare la pace assume già un grande valore, pur se il cammino è più difficile da pensare e realizzare, perché presuppone assunzione di responsabilità e disponibilità a cedere potere e vantaggi


Francesco Vignarca, Coordinatore Campagne Rete Italiana Pace e Disarmo

La grande filosofa politica Hannah Arendt sottolineava come la violenza sia «per natura strumentale come tutti i mezzi, ha sempre bisogno di una guida e di una giustificazione per giungere al fine che persegue».

Ciò è ancora più evidente per la guerra, che è una forma strutturale di violenza e viene utilizzata come strumento per definire equilibri politici ed economici. Chi si avvantaggia dalla guerra (o anche chi non ha pensiero e coraggio per altre strade) deve dunque in qualche modo giustificarla.

Storicamente e culturalmente la strada è stata quella di renderla ineludibile, cancellando dal quadro delle possibilità (anche più flebili) qualsiasi cammino di costruzione di pace «positiva» (cioè definita come presenza articolata di diritti) realizzata con mezzi pacifici. Da qui la centralità della «vittoria» come raggiungimento di una pace «negativa» (mera assenza di guerra). Distogliendo lo sguardo dal prezzo di sangue e i traumi lasciati in eredità per raggiungerla. D’altronde sempre la Arendt scrivere: «La guerra non restaura diritti, ma ridefinisce poteri».

Sono proprio i rappresentanti di questi poteri che, in tale quadro, continuano ad attaccare strumentalmente qualsiasi pensiero di pace o di nonviolenza. L’ultimo esempio in ordine di tempo sono le missioni di Mons. Zuppi inviato da papa Francesco prima a Kiev e poi a Mosca: accolte prima con strali (qualcuno le ha definite ossessive e deliranti) e poi con scherno.

Come se fosse possibile riportare la pace con uno «schiocco di dita» dopo mesi di bombardamenti, crimini, uccisioni, devastazioni ambientali. E scelte armate. Come è possibile rallegrarsi di fronte ad un fallimento negoziale? Anche se quello dell’Arcivescovo di Bologna a mio parere non è certo un fallimento, ma un prezioso tentativo di tenere accesa la fiammella della pace, dandole ossigeno.

La pace ha bisogno di tempo, di fatica, di impegno… come diceva Martin Luther King «non si può scacciare il buio con altro buio». Ogni tentativo in cui si accende la speranza di trovare la pace assume già un grande valore, pur se il cammino è più difficile da pensare e realizzare, perché presuppone assunzione di responsabilità e disponibilità a cedere potere e vantaggi. Tutto è molto più semplice con la «banalità della guerra», che proprio per tale motivo «funziona bene» soprattutto in un mondo iper-competitivo come quello liberista.

La banalità della guerra sterilizza tutto, sia le scelte attuali per il futuro sia quanto è stato fatto nel passato, consentendo inopinatamente anche a chi ha alimentato con armi guerre e violazioni di diritti umani di brandire il Diritto Internazionale come giustificazione dell’ineluttabilità della guerra. Magari chiedendo, dopo decenni di scelte sbagliate (non pensiamo solo all’Ucraina ma anche al raddoppio in venti anni della spesa militare che ha portato a un mondo più in conflitto armato), una soluzione magica e immediata a chi avrebbe intrapreso altre strade e soprattutto è consapevole che un’inversione di rotta e una ricucitura di vera Pace sono impossibili in poco tempo quando si è immersi nella guerra.

Per gli intellettualmente disonesti che fino a ieri alimentavano il sistema di guerra e ora si scandalizzano delle sue drammatiche conseguenze qualsiasi idea che prefiguri un’alternativa di pace attraverso percorsi nonviolenti deve essere spazzata via. Perché renderebbe chiara l’inconsistenza della scelta armata e militare come «soluzione», rendendone evidente la reale inefficacia soprattutto di percorso.

C’è poi il tema delle fallaci logiche e posizioni incoerenti su cui poggia il castello di carte della guerra «obbligata». Anche per il conflitto in Ucraina. Come spiegare altrimenti una Russia che da un lato è fragile, e quindi si può battere continuando a sostenere con le armi Zelensky, ma contemporaneamente una minaccia così grande da «costringere» l’Occidente ad accelerare il proprio riarmo (nonostante in dieci anni la Nato abbia superato di 10.000 miliardi di dollari le spese militari di Mosca)? Oppure con la figura di Putin: da un lato pazzo sanguinario che ha iniziato un’invasione senza senso ed è indisponibile a qualsiasi ipotesi di negoziato perché incapace di ragionare. Ma dall’altro considerato del tutto «razionale» nella gestione dell’arma nucleare?

Per giustificare il ricorso alle armi e scrollarsi di dosso le proprie responsabilità è più semplice credere in un Putin a due facce. Aveva dunque ragione papa Giovanni XXIII sessanta anni fa quando scriveva nella “Pacem in terris” che, in particolare nell’era atomica, è fuori di testa (“alienum est a ratione”) pensare che «la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia». Che si può trovare solo con l’intelligenza della pace.