venerdì 28 luglio 2017

Italia devi disarmare Economia e Politica

Su Famiglia Cristiana, n. 31 - 2017, p. 3, l'editoriale di d. Renato Sacco - coordinatore nazionale di Pax Christi.

... occasione per non dimenticare il monito, di 100 anni fa, di Benedetto XV,  1 agosto 2017: "questa guerra, un'inutile strage". 


"Vendiamo bombe all'Arabia Saudita che bombarda e uccide nello Yemen, costruiamo un'altra portaelicotteri, le nostre esportazioni belliche aumentano. Vangelo e Costituzione, però, dico ben altro...
[...] Dobbiamo rompere il muro dell'indifferenza e chiedere che l'Italia smetta di vendere armi a regimi e Paesi in guerra; che il nostro Paese aderisca, anche se in ritardo, al Trattato per la messa al bando delle armi nucleari... 
[...] Ce lo chiedono le vittime delle guerre. Ce lo chiede il Vangelo. Ce lo chiede papa Francesco, che - dobbiamo ammetterlo - rischia [anche] su questi temi di essere sempre più isolato. [...]" 


giovedì 27 luglio 2017

Il contadino africano che ha fatto fiorire il deserto

Nel n. 30 di Famiglia Cristiana, (23 luglio 2017), pp. 54-56 la storia di:

 
Yacouba Savadogo, del Burkina Faso.
"Muretti di pietra, buche e termiti: rivisitando queste tecniche tradizionali è riuscito a trasformare le terre aride in boschi e campi".
 
Su YouTube molti video su di lui, in varie lingue...

dalla pagina https://it.wikipedia.org/wiki/Yacouba_Sawadogo

Yacouba Sawadogo (1946?) è un agricoltore burkinabè.
Originario del Burkina Faso (zona centro-occidentale dell'Africa, nota un tempo come "Alto Volta"), ha riproposto e perfezionato con buon esito alcune tecniche di agricoltura tradizionale tipiche della regione, conseguendo il recupero di suoli anche gravemente danneggiati dalla siccità, abbandonati totalmente perché considerati aree desertificate. Nel settembre 2016 ha dichiarato di avere 70 anni, ma la datazione non è certa perché il computo degli anni avviene sulla base dei raccolti agricoli. [...]

Assieme a Mathieu Ouédraogo, un altro innovatore locale dei metodi agricoli, negli anni ottanta, Yacouba Sawadogo inizia a sperimentare tecniche per riabilitare il suolo danneggiato. Si affidava a semplici approcci tradizionali della regione: piccoli muretti composti da pietre ("cordon pierreux") e le fosse zaï. Sia Sawadogo che Ouédraogo si sono impegnati per estendere le loro tecniche a tutta la regione.

I "cordons pierreux" sono sottili e basse linee di pietre delle dimensioni di un pugno disposte lungo la stessa quota altimetrica nei campi, con lo scopo formare un sistema per la cattura dell'acqua piovana che precipita in modo torrenziale in alcune stagioni. Quando cade la pioggia spinge in basso fango e detriti per i terreni, che poi si accumula nei cordoni formando delle micro-dighe. Rallentando il flusso dell'acqua permette un migliore assorbimento da parte del terreno sottostante. I punti di accumulo dei detriti forniscono anche dei punti comparativamente più fertili e più morbidi che permettono a qualsiasi pianta locale di germogliare. Allora le piante, spesso erbacee, rallenteranno ancora di più le prossime piogge, ed infine le loro radici romperanno il suolo compattato, permettendo così ulteriore infiltrazioni d'acqua.

Le fosse, oppure buchi zaï, catturano l'acqua in maniera semplice, sono buche scavate spaccando il terreno argilloso, parzialmente impermeabile, reso duro dalla cottura continua da parte del cocente sole sub-tropicale. Scavando queste fosse, zappando la coltre di terreno duro e asciutto, si sostituisce il contenuto con una miscela di foglie morte, legnetti, sassi, spazzatura, terra e sabbia, pratica usata tradizionalmente in modo limitato per rigenerare la terra. Yacouba Sawadogo introdusse alcune modifiche, come le maggiori dimensioni e profondità delle fosse, l'aggiunta di grandi quantità di escrementi animali assieme a maggiori quantità di spazzatura biodegradabile, che costituivano una robusta dose di nutrienti tale da consentire la crescita di piante di buone dimensioni, abbastanza robuste. Specialmente gli escrementi animali attraggono termiti, che costruendo piccoli condotti aiutano a frammentare ulteriormente il suolo. Le fosse zaï sono state utilizzate per coltivare alberi di vari tipi, e graminacee adatte ai climi secchi, come il miglio e il sorgo.

Diffusione delle tecniche.
Per promuovere questi metodi, particolarmente le buche zaï, Yacouba Sawadogo organizza biennalmente i "Giorni di Mercato" nella sua campagna nei pressi del villaggio di Gourga. Spesso arrivano agricoltori da più di cento villaggi della regione, che condividono campioni di semi, si scambiano consigli e trucchi e imparano reciprocamente. 

Conflitto con il governo del Burkina Faso.
In un periodo che supera le due decadi, il lavoro di Yacouba Sawadogo con le fosse zaï permise di creare un'area forestale di circa 50 acri. In seguito quest'area è stata annessa dalla vicina città di Ouahigouya, sotto gli auspici di un programma governativo per aumentare le risorse della città. Da quel che prevede il programma, Yacouba Sawadogo e i suoi famigliari più prossimi hanno il diritto a ricevere fino a un decimo di 4.000 m², e non riceveranno alcun'altra compensazione.
Sawadogo sta cercando di raccogliere 20.000 dollari statunitensi per acquistare quelle terre.
[...]


mercoledì 26 luglio 2017

Sul CETA un compromesso che sacrifica la nostra agricoltura

dalla pagina http://www.dirittiglobali.it/2017/07/sul-ceta-un-compromesso-sacrifica-la-nostra-agricoltura/

Attenzione a sottovalutare la portata politica e le conseguenze dell’approvazione del trattato commerciale tra Canada e Unione Europea, il cosiddetto Ceta, in votazione nei prossimi giorni al Senato 

Edoardo Zanchini, vicepresidente Legambiente
23/7/2017

Attenzione a sottovalutare la portata politica e le conseguenze dell’approvazione del trattato commerciale tra Canada e Unione Europea, il cosiddetto Ceta, in votazione nei prossimi giorni al Senato.
Lo dimostra, ad esempio, il modo in cui il Pd sta organizzando il voto dei suoi parlamentari, per evitare sorprese, dopo che diversi presidenti regionali, a partire da Zingaretti, Emiliano e Zaia hanno scelto di esprimere pubblicamente il loro dissenso.
Ma lo si può leggere anche dal modo con cui il Ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, sta rispondendo alle critiche e provando a rilanciare un dibattito sul tema della globalizzazione e contro l’isolamento e il protezionismo. Secondo il Ministro quanto raggiunto rappresenterebbe un enorme passo avanti in termini di riduzione dei dazi sulle merci scambiate e, in ogni caso, l’essenza di un negoziato sta nel raggiungimento di un compromesso.
Il non detto è però che il compromesso è stato trovato sacrificando sul tavolo negoziale l’agricoltura italiana.
Come per il Ttip – il trattato commerciale «gemello» con gli Stati Uniti, che aveva avuto prima uno stop da parte di Francia e Germania e poi uno definitivo con l’elezione di Trump – per i negoziatori nord americani due condizioni erano pregiudiziali: l’apertura dei mercati europei ai prodotti agricoli nordamericani e la garanzia sugli investimenti delle imprese attraverso arbitrati extragiudiziali. Ha un bel dire Calenda che bisogna fidarsi della controparte, in particolare quando ha il viso rassicurante di Justin Trudeau, e di chi fa la trattativa. Perché è proprio qui l’errore, nell’idea che si possa scambiare l’azzeramento dei dazi di cui beneficeranno le Pmi italiane, di per se positivo, con l’invasione di grano che ha avuto trattamenti intensivi con glifosate, vietato in Italia, di formaggi e salumi dai nomi fintamente italiani, di carni sottoposte a trattamenti con ormoni per l’accrescimento vietati da noi.
Proprio per queste ragioni si può essere contro questo accordo. I prodotti italiani sono infatti apprezzati dal Canada alla Cina per una qualità che ha dietro la forza di un modello economico e di biodiversità, fatto da migliaia di piccole imprese dell’agroalimentare che tutelano le proprie produzioni tipiche e si stanno sempre più riconvertendo al biologico. Non capire questo e rivendicare che 41 Dop italiane (su 289) saranno garantite, è davvero miope.
Anche perché questo trattato crea un precedente in termini di dumping ambientale e indirettamente sociale, oltre che di giurisdizioni speciali per le imprese che potrà essere copiato in tutti i futuri accordi con altri Paesi.
Invece di militarizzare i propri parlamentari, per evitare sorprese nel voto, il Pd dovrebbe riconoscere il grave errore politico che ha commesso nel lasciare la trattativa in mano a Calenda. Il quale, va riconosciuto, ha svolto anche in questo caso benissimo il ruolo di avvocato di Confindustria.
Ma per dirla con le parole di Michael J. Sandel, non tutto è in vendita, ha un prezzo o può essere oggetto di trattativa. Se i nostri amici Canadesi non sono disponibili a rivedere i trattati commerciali per aumentare gli scambi con l’Europa, se non a fronte di concessioni inderogabili, chi fa politica deve saper dire dei no. Ed è anche dallo stop a trattati di questo tipo che può nascere un confronto che guardi al mondo di domani, alle regole per il movimento delle merci ma anche ai diritti delle persone, evitando di dare spago a chi soffia su venti razzisti e isolazionisti.

martedì 25 luglio 2017

P. Czerny: integrare i migranti e garantire sviluppo in patria

dalla pagina http://www.news.va/it/news/p-czerny-integrare-i-migranti-e-garantire-sviluppo

2017-07-24 Radio Vaticana

Ci sono profondi legami fra migrazione e sviluppo, che si possono vedere nella rottura di molti pilastri dello sviluppo sostenibile che hanno costretto milioni di persone a spostarsi, e cioè nella povertà endemica, nella fame, nella violenza, nell'insufficienza di lavoro, nell'ambiente, nelle istituzioni deboli e corrotte e così in tante altre aree che vengono trattate congiuntamente nell'Agenda per lo sviluppo sostenibile del 2030. Lo mette in evidenza padre Michael Czerny, sottosegretario della Sezione per i Migranti e i Rifugiati del Dicastero per la Promozione dello Sviluppo Umano Integrale, alla Sessione tematica dedicata allo sviluppo del Global Compact on Migration. L’incontro si tiene oggi e domani nella sede dell’Onu a New York sul tema: “I contributi dei migranti e della diaspora a tutte gli aspetti dello sviluppo sostenibile, comprese le rimesse e trasferibilità dei guadagni”.
Il punto di partenza della riflessione di padre Czerny è “il diritto di rimanere nella propria patria in dignità, pace e sicurezza”. “Nessuno - afferma -  dovrebbe mai essere costretto a lasciare la propria casa per mancanza di sviluppo o di pace”. Pertanto la comunità internazionale è chiamata a “garantire lo sviluppo umano sostenibile e integrale di tutte le persone nel loro luogo di origine e a consentire loro di diventare agenti attivi del proprio sviluppo”. In questo senso è di aiuto riconoscere anche i “costi” sociali ed economici che la migrazione significa per un Paese. “È assicurando le condizioni per l'esercizio del diritto di rimanere, quindi, che si rende la migrazione una scelta, non una necessità”, sottolinea padre Czerny.
Sono la povertà e la mancanza di prospettive che spingono spesso così tante persone a migrare e spesso sono i giovani, i talenti. Rischiano la vita attraversando il Mediterraneo e molti mari del mondo alla ricerca di una vita migliore o almeno di condizioni minime. Sembra essere certamente un momento di perdita netta per i loro Paesi. Se diventi un guadagno per loro, dipende dalla misura in cui sono accolti e integrati, sottolinea padre Czerny richiamandosi a Papa Francesco. Dipende, prosegue, dal fatto che siano aiutati a passare da oggetti di cure urgenti a soggetti dignitosi del proprio sviluppo. Quindi, i migranti devono essere ricevuti come esseri umani con pieno rispetto dei loro diritti, protetti da ogni forma di sfruttamento e le comunità che li ricevono devono ricevere un'adeguata assistenza per integrarli, in modo che non si lascino indietro i poveri locali. Un modo per farlo, spiega padre Czerny, è l'adozione di politiche di sviluppo e donazione che mettono da parte una percentuale dell'assistenza diretta fornita ai migranti per le infrastrutture locali e per le comunità locali che presentano svantaggi economici. “Ciò contribuirà a fornire le condizioni necessarie per una reale sostenibilità”. Allo stesso modo, “i migranti hanno la responsabilità di rispettare i valori, le tradizioni e le leggi della comunità che li accompagna”, evidenzia. 
In conclusione, padre Czerny si richiama ancora a Papa Francesco che ha sottolineato il collegamento tra migrazione e sviluppo, il mese scorso, quando ha dichiarato che la presenza di tanti fratelli e sorelle che sperimentano la tragedia dell'immigrazione è un'occasione per la crescita umana, l'incontro e il dialogo tra le culture in vista della promozione della pace tra i popoli. Tale fraternità e solidarietà portano a società pacifiche e inclusive che promuovono lo sviluppo sostenibile per il quale la comunità internazionale si impegna decisamente. (D.D.)

venerdì 21 luglio 2017

Migranti al doposcuola organizzato dal Circolo Noi nella unità pastorale Riviera

da La Voce dei Berici, Domenica 23 luglio 2017, p. 10

Non si fa solo rafforzamento della lingua, ma anche incontro con cultura, usi e abitudini del nostro Paese

Noi donne e uomini, cittadini, ma soprattutto da cristiani, che cosa possiamo fare di fronte al crescente fenomeno delle migrazioni? È questa la domanda che ha interpellato negli ultimi mesi l’unità pastorale Riviera di Vicenza e in particolare il suo Circolo Noi.

Come in molte parti della nostra diocesi, anche a Longara e a S. Croce Bigolina (che insieme a Campedello, Debba e San Pietro Intrigogna formano l’u.p. Riviera) sono presenti rispettivamente una decina e una cinquantina di richiedenti asilo. [Proprio in queste ultimi giorni, a Longara sono arrivate altre quaranta persone richiedenti asilo: famiglie, donne e bambini di diversi Paesi, portando il totale a un centinaio].

Per loro, per le famiglie di migranti arrivati di recente o da qualche tempo, quindi, la comunità cristiana ha scelto di darsi da fare: a fine 2016, ha avviato una riflessione sul tema dell’accoglienza, aiutata anche dall’allora direttore della Caritas Giovanni Sandonà, per imparare a riconoscere quel Dio che troviamo in chi “straniero è stato accolto”, perché, come ci ricorda papa Francesco, siamo chiamati ad essere uomini e donne nuovi secondo lo Spirito anche e soprattutto con “gesti di solidarietà e accoglienza”.

Mossi quindi dal desiderio di cercare di imitare lo sguardo che Gesù aveva su ogni persona, la comunità cristiana ha deciso di continuare sulla strada di un percorso già iniziato nel 2013 dal circolo Noi, che già aveva attivato corsi di italiano per stranieri, in particolare frequentati da donne africane.

Insieme alle cooperative presenti sul territorio, [...] affiancato al corso di italiano di sei ore la settimana tenuto dalle cooperative stesse, è stato avviato il doposcuola, a Longara e S. Croce Bigolina. Un doposcuola che non è solo rafforzamento della lingua, ma anche scambio e introduzione alla cultura, agli usi e alle abitudini del nostro Paese, un doposcuola che vuole costruire ponti e non muri.

L’Istituto Comprensivo Scamozzi, sollecitato da questi passi condivisi, ha voluto mettere a disposizione delle aule per i corsi, in modo che si potesse usufruire di un ambiente più funzionale e accogliente.
Accanto all’apprendimento della lingua e all’accompagnamento nello studio, per favorire l’integrazione sono state proposte, poi, diverse attività pratiche e concrete, come per esempio tagliare l’erba o ridipingere le inferriate della scuola materna. Si è anche tenuto un torneo di calcio, gestito dalla cooperativa sociale “Alinsieme” e dal circolo Noi.

Questo progetto certamente richiede uno sforzo culturale, ma è soprattutto occasione di incontro e strumento per conoscersi meglio e imparare a guardare l’altro oltre la paura, stringendo legami che facciano crescere insieme.


Altre foto dalla u.p. Riviera:

Taglio dell'erba del campetto dietro la chiesa
Torneo di calcio a Setteca'
Attvità di 'raccolta ferro'



giovedì 20 luglio 2017

Cos’è il turismo responsabile

dalla pagina http://www.aitr.org/turismo-responsabile/cose-il-turismo-responsabile/

DEFINIZIONE DI TURISMO RESPONSABILE
Adottata dall’assemblea di AITR in data 9 ottobre 2005 a Cervia

Il turismo responsabile è il turismo attuato secondo principi di giustizia sociale ed economica e nel pieno rispetto dell’ambiente e delle culture. Il turismo responsabile riconosce la centralità della comunità locale ospitante e il suo diritto ad essere protagonista nello sviluppo turistico sostenibile e socialmente responsabile del proprio territorio. Opera favorendo la positiva interazione tra industria del turismo, comunità locali e viaggiatori.

aitr.org
Nella pratica, questa affermazione si traduce nella tendenza degli operatori turistici sensibili ai temi della responsabilità sociale d’impresa, della sostenibilità ambientale, della equità di genere e alle buone pratiche in generale,  a fare molta attenzione a che il turismo responsabile sia ideato, realizzato e complessivamente gestito in maniera tale da non generare dei fenomeni di iniquità sociale ed economica, soprattutto a danno delle popolazioni delle regioni ospitanti il turismo stesso.

Questo significa che tutti gli “attori” di una esperienza di Turismo Responsabile, e quindi “il turista”, l’”organizzatore” e la comunità locale ospitante devono essere consapevoli (e qualora non lo siano tutti noi dovremo operare affinché lo diventino) di essere ognuno, per ciò che lo riguarda, coinvolto in un rapporto che non deve essere “focalizzato” sulle esigenze solamente dell’uno o dell’altro, o nel quale le esigenze dell’uno prevalgono su quello dell’altro…bensì in una dinamica complessa in cui tutti devono rispettare, preservare (ed a volte ideare ex novo) gli equilibri funzionali ad una sana, sostenibile e redditizia sopravvivenza degli altri protagonisti dell’esperienza turistica.

E’ oramai chiaro a tutti gli operatori di settore che non esiste una sola definizione di Turismo Responsabile, e che è non possibile (o meglio, non sarebbe ragionevole) dare una spiegazione accettabile di questa pratica identificandola (o peggio sovrapponendola), di volta in volta, con altre pratiche che, invece, ne sono solo accezioni o specificazioni, ovvero: “turismo consapevole”, “ecoturismo”, “turismo culturale”, “turismo comunitario”, “turismo sostenibile”, “turismo equo-solidale”.

Il Turismo Responsabile, in realtà, può essere attuato attraverso la “somma” di queste pratiche, o attraverso la scelta di realizzare viaggi che si ispirino anche solo ad una di esse, che però sia correttamente esercitata e non entri in conflitto con le altre.

Ad ognuna di queste pratiche, infatti, si deve riconoscere la dignità di specificazione del “turismo responsabile”, ma al tempo stesso nessuna di esse, se vuole tradursi in un esempio autentico di turismo responsabile, può pretendere di non avere riguardo e rispetto delle implicazioni che sono sottese e che discendono dalle conseguenze altre.

In pratica…è sicuramente una buona pratica quella dell’Ecoturismo attuato nel rispetto dell’ecosistema all’interno del quale si svolge il viaggio, ma se questa si riducesse solo al rispetto dell’ambiente e non contenesse in se stessa anche gli elementi basilari del rispetto dell’elemento umano e sociale che compartecipa alla sua attuazione (ad esempio quindi trascurasse di verificare e pretendere il rispetto dei diritti dei lavoratori coinvolti nella realizzazione del pacchetto eco-turistico), non sarebbe un autentico esempio di turismo responsabile….ma piuttosto rischierebbe di divenire una pratica ingannevole che “nasconde” i propri vizi celebrando solo “alcune” sue virtù.



sabato 15 luglio 2017

La guerra dei droni

dalla pagina http://www.mosaicodipace.it/mosaico/a/44521.html

L’uso dei droni in ambito militare con funzioni d’attacco cresce smisuratamente.
Con quanti e quali investimenti? Con quali rischi per i civili?
 

Maurizio Simoncelli

Cosa sono i droni e a cosa servono? Con il termine drone si indica generalmente un velivolo di diverse dimensioni comandato a distanza, tanto che si usa anche la sigla APR che sta per aeromobili a pilotaggio remoto (UAV Unmanned Aerial Vehicle in inglese). Possono essere utilizzati in ambito civile (rilevamento ambientale, urbanistico, fotografico ecc.) e in ambito militare. In quest’ultimo settore possono avere funzioni ISTAR (Intelligence, Surveillance, Target Acquisition, Reconnaissance) o anche di attacco armato UCAV (Unmanned Combat Aerial Vehicle). Nel quadro di una crescente instabilità mondiale, i droni militari ISTAR o da attacco sono diventati sempre più importanti nel corso degli anni in relazione alle nuove tipologie di guerre in atto, che per lo più non vedono contrapposti due eserciti di due Stati avversari, ma spesso lo scontro tra forze armate di un Paese indebolito contro gruppi armati irregolari (spesso con attività terroristiche) con la partecipazione di truppe straniere (esemplare è il caso afghano). La difficoltà di operare su teatri lontani, tra popolazioni straniere per cultura, linguaggio, tradizioni, ha portato alcuni Paesi a utilizzare in modo sempre più massiccio i droni allo scopo principale di ridurre i costi in vite umane delle proprie truppe e arrivare a praticare la teoria delle “perdite zero”. Così si evita di operare direttamente su terreni pericolosi intervenendo da remoto, data la riluttanza sociale soprattutto in Occidente a interventi armati rischiosi per la vita dei propri uomini in conflitti presso aree lontane come l’Afghanistan, il Pakistan, la Somalia, lo Yemen ecc. 

Il boom dei droni

Ecco, dunque, l’avvio di un utilizzo crescente dei droni militari che, durante l’amministrazione Obama, conosce un vero e proprio boom. Va ricordato, però, che non sono solo gli USA a utilizzarli, ma sono ormai una cinquantina (tra cui Regno Unito, Australia, Germania, Russia, Turchia, Cina, India, Iran, Italia, Francia) i Paesi dotati di tali sistemi sia ISTAR sia armati. Per avere un’idea del mercato, si pensi che il bilancio fiscale USA 2016 includeva 2,9 miliardi $ per la ricerca, lo sviluppo e l’acquisto di droni, che il costo di un’ora di volo di Predator e Reaper è tra i 2.500 e i 3.500 dollari. Il costo di un’ora di volo dei droni militari più grandi Global Hawk (lungo 14 m, con apertura alare di 40m e con autonomia di volo di 36 ore) è maggiore di circa 10 volte: circa 30.000 dollari per ora di volo. Il prezzo di un Global Hawk è di 131 milioni di dollari (222,7 con i costi di sviluppo). Si stima che il mercato (civile e militare) nel prossimo quadriennio si aggiri intorno a un miliardo di dollari, di cui due terzi destinati al settore della Difesa. Anche l’Unione Europea ha finanziato la ricerca in questo settore già dal 2001 – nell’ambito di programmi come FP7, Horizon 2020, COSME – dato che i droni sono prodotti duali, cioè con un possibile uso sia civile (ad esempio, nel controllo dei confini/sorveglianza marittima e nella sicurezza interna) sia militare. In particolare, sono stati concessi finanziamenti per 350 milioni €, mentre dal dicembre 2016 per la prima volta l’UE ha stabilito un Piano d’azione europeo in materia di difesa sovvenzionando con 3,5 miliardi di euro per il periodo 2021-2027 un programma europeo di ricerca in ambito militare generico, all’interno del quale potranno rientrare anche i droni. Peraltro, in ambito OCCAR (l’organizzazione europea per la cooperazione in materia di armamenti) nel settembre 2016 si è già avviato ufficialmente il progetto del Drone Europeo assegnato a Leonardo-Finmeccanica, Airbus e Dassault Aviation, a cui partecipano Italia, Francia, Germania e Spagna.  
L’Italia, oltre a partecipare industrialmente al progetto del Drone Europeo che avrà compiti ISTAR, ha già in dotazione l’MQ-1c Predator A+ e l’MQ-9 Predator B (Reaper), velivoli fabbricati dalla statunitense General Atomics. Sono stati già utilizzati – sempre con compiti ISTAR – in Iraq,  Afghanistan, Libia, Gibuti e Somalia, Kosovo, Siria-Iraq, Mediterraneo centrale. Entro breve, però, saranno armati, dato che l’Italia ha chiesto da tempo e ottenuto nel 2016 da Washington il permesso in tal senso.

Danni collaterali

Si pongono, però, alcuni problemi giuridici circa un adeguato bilanciamento tra i diritti umani che gli Stati devono effettuare prima di utilizzare i droni (ad esempio, nel rapporto tra la vita e la sicurezza oppure tra la privacy e la sicurezza). Con un drone possiamo agevolmente ottenere informazioni sulla vita di una persona: basti pensare al collocamento di un mini drone nei pressi delle finestre dell’abitazione di una persona, con riprese audio video. Inoltre, nell’ambito della cosiddetta dottrina della “legittima difesa preventiva” (dottrina Bush) possono essere usati? Possono essere usati anche nelle esecuzioni extragiudiziali, cioè nell’eliminazione fisica di persone al di fuori di azioni di combattimento e senza che ci sia stata una sentenza di tribunale? È sempre possibile individuare esattamente l’avversario, spesso non in divisa (e magari identificato solo attraverso l’uso del cellulare)? È sempre possibile eliminare “chirurgicamente” il terrorista senza colpire civili innocenti, come spesso viene affermato? Quanti civili rimangono vittime di tali attacchi? Molte domande, poche risposte. Bisogna riconoscere che vi è un’estrema difficoltà nell’accertamento delle vittime. Basti pensare che il governo USA, nel luglio 2016, dietro la pressione dell’opinione pubblica, ha dichiarato di aver effettuato, tra il gennaio 2009 e il 31 dicembre 2015, 473 attacchi in Afghanistan, Iraq e Siria, con un numero di vittime compreso tra le 2.436 (di cui 64 civili, 3%) e le 2.697 (di cui 116 civili, 4%). Insomma, sembra che neppure il Pentagono sappia quante persone e quali abbia ucciso. Il Bureau of Investigative Journalism BIJ (un’organizzazione privata di giornalismo investigativo) afferma che il totale stimato delle vittime tra il 2002 e il 2016 in Afghanistan, Pakistan, Yemen e Somalia oscillerebbe a oggi tra le 6.000 e le 8.000 unità: le vittime civili sarebbero tra l’11 e il 15%. Secondo altre stime, in alcuni casi, le percentuali sarebbero maggiori, in altri si sarebbe addirittura sbagliato obiettivo scambiando reporter per terroristi o una festa nuziale per un gruppo armato sovversivo: 100% civili! In realtà non è facile, con la pur avanzata tecnologia a disposizione, avere un quadro esatto dell’eventuale teatro d’attacco e la certezza del non coinvolgimento di vittime innocenti. È certo che tutti i parenti di queste vittime innocenti diventeranno quanto meno ostili nei confronti della potenza autrice dell’attacco con i droni: magari qualcuno andrà a ingrossare le fila dei nemici che si voleva annientare, ottenendo quindi l’effetto opposto.

Nubi sul futuro

Un fatto comunque è certo: il futuro dell’aviazione (civile e militare) è sempre più nei droni. A Dubai si sta progettando un drone-taxi che dovrebbe essere pronto per l’estate prossima. In ambito militare la convenienza è ancor più evidente: non si rischia la vita dei propri piloti, ma al massimo quella della macchina e quella dei “danni collaterali”, cioè di cittadini innocenti di altri Paesi. I governi, quindi, tenderanno sempre più a dotarsene, ma rimangono aperte numerose questioni giuridiche di diritto nazionale e internazionale, data anche la mancanza di chiarezza nell’ambito della dottrina giuridica. Ancor più evidente è l’assenza, in particolare in Italia, di un dibattito politico pubblico, di cui si è avuta traccia solo nel momento in cui un cooperante italiano, Giovanni Lo Porto, rapito da Al Qaeda nel gennaio 2012 in Pakistan, fu ucciso nel 2015 con un drone durante un’operazione dell’antiterrorismo statunitense, in cui morì anche un altro prigioniero statunitense, Warren Weinstein. 

Ora anche l’Italia si sta dotando di tali armi e sarebbe il caso che si aprisse quantomeno un dibattito pubblico, tenendo sempre a mente poi che tali armi non solo non rimarranno in possesso di pochi stati, ma arriveranno anche nelle mani della delinquenza organizzata e dei gruppi terroristici, con scenari ancor più preoccupanti.



Per approfondire
È possibile leggere e/o scaricare il rapporto di Archivio Disarmo su “Droni militari: proliferazione o controllo?” in: www.archiviodisarmo.it/index.php/it/2013-05-08-17-44-50/sistema-informativo-a-schede-sis/435-droni-militari-proliferazione-o-controllo



Sullo stesso argomento:

giovedì 13 luglio 2017

Lo sviluppo dei popoli è il nuovo nome della pace

da La Voce dei Berici, Domenica 9 luglio 2017, p. 2


50 ANNI DALLA POPULORUM PROGRESSIO

Quello che rischia di mancare oggi è la profetica visione di Paolo VI: mettiamoci in questione!

Pochi giorni fa abbiamo visto un fatto significativo: papa Francesco, in un solo giorno, ha reso onore alla memoria di due preti italiani, preti “difficili” nel loro tempo. Don Lorenzo Milani e don Primo Mazzolari. Li ha onorati visitando le loro parrocchie e portando un fiore sulla loro tomba.

Cinquant’anni fa, il 26 marzo 1967, usciva una enciclica tra le più “scomode”, alla quale possiamo rendere onore, una memoria rovesciata rispetto a quella di papa Francesco, perché si tratta di ricordare un papa e non un semplice prete, e un papa che scrisse una enciclica, un documento ufficiale, un testo offerto a tutta la chiesa alla fine degli anni Sessanta. Molti cristiani non l’hanno nemmeno letta, al punto che papa Benedetto nel 2009 volle tirarla fuori dal cassetto, e vi dedicò un’altra enciclica, la Caritas in veritate.

Sono passati giusto 50 anni dalla Populorum progressio, una delle poche encicliche sociali che Paolo VI fa concludere così: «Vi invitiamo a rispondere al nostro grido angosciato, nel nome del Signore». È raro, unico, trovare un papa che grida, e il suo grido viene definito angosciato. E cosa gridava papa Montini 50 anni fa? Che lo sviluppo dei popoli è il nuovo nome della pace.

La Populorum progressio è anzitutto una enciclica sullo sviluppo. Questo è il significato della parola progressio che fa da titolo a tutto il testo. Alla fine degli anni ’60 del Novecento non c’era bisogno che un papa parlasse dello sviluppo. Il progresso non aveva bisogno di benedizioni speciali. Tutto il mondo ricco dell’Occidente, il Nord del mondo, era quasi “ubriaco” di progresso.

E il papa segnalava che «ogni crescita è ambivalente» (n. 19). Il progresso è necessario, perché permette all’uomo di essere più uomo, ma nello stesso tempo diventa «come una prigione » se diventa lo scopo ultimo che impedisce di guardare oltre. Paolo VI non condannava il progresso, ma nemmeno lo consacrava. Il papa che aveva venduto la sua tiara (la triplice corona d’oro che incoronava i papi), segnalava l’ambiguità dei processi. E questo atteggiamento resta tutto da onorare, anche 50 anni dopo. Infatti non manca oggi chi condanna ogni progresso, getta sulle spalle del mondo ogni colpa, si straccia le vesti per qualsiasi passo in avanti. E dall’altra parte si moltiplicano i difensori “a tutti i costi” della divinizzazione dei più alti standards di vita, crescono gli avvocati del profitto per qualsiasi scorciatoia, siamo pieni di difensori della velocità che si mangia tutto (veloce l’amore, veloce la rottura dell’amore, veloce la reazione di odio …). Quello che rischia di mancare oggi è la profetica visione di Paolo VI: mettiamoci in questione! Coltiviamo di più qualche domanda sul nostro stile, usciamo più liberi da queste “dittature” del tutto male e tutto bene. Paolo VI parlava in modo paradossale di «sottosviluppo morale» (n. 19), che dipende dal non metterci mai in questione.

La Populorum progressio è una enciclica sui popoli. La vera attenzione di Paolo VI non era sullo sviluppo in se stesso, ma su quello dei popoli. Di tutti i popoli. Il papa usò molte volte nell’enciclica un termine che sta tornando con papa Francesco, ed è la parola «integrale». Noi usiamo questa parola soprattutto per il cibo, per dire di un alimento a cui non è stato tolto troppo, che conserva tutte le sue qualità, che non è stato troppo manipolato o alterato. Proprio questo era il modo “integrale” di leggere il mondo di Paolo VI: fare attenzione ai popoli ai quali è stato tolto troppo, al fatto che a molti uomini e donne dei popoli ricchi viene tolta giorno per giorno “l’anima”, che è il sussulto di umanità da conservare, la qualità che ci rende grandi proprio perché riconosciamo la comune umanità di tutti. Integrale deve essere il passo dello sviluppo: devono esserci tutti i popoli e deve esserci tutto l’uomo.

Ma bisogna leggersi con calma tutta l’enciclica per entrare dentro a questa logica intelligente e urgente.

Infine la Populorum progressio è una enciclica sulla pace. Il tema della pace in Paolo VI stava tutto sullo sfondo. Era come il risultato in sospeso, che dipendeva dalla strada presa a partire dal grido angosciato del papa. Prenderemo la strada – si domandava Paolo VI – che sbocca sulla rivoluzione, sullo scontro, sul conflitto “integrale”, oppure capiremo che c’è anche una via che si chiama “riforma”, cambiamento di stile, promozione di una giustizia più generale e più radicale? Il papa vedeva la pace in sospeso rispetto alla produzione e commercio di armi; una pace che stava in bilico tra la difesa dell’opulenza di pochi e la disumana tolleranza della miseria di molti; una pace che si giocava tra la scelta di programmi per difendere l’autonomia di chi sta bene e la progettazione di un «umanesimo plenario» (n. 42). Non si tratta di portare fiori sulla tomba di Paolo VI, beatificato nel 2014, né di celebrare l’anniversario di una enciclica. Populorum progressio è ancora una sfida per chi vuole pensare, agire, cominciare … Un papa e una enciclica possono diventare “grandi” anche cinquant’anni dopo. Se diventiamo “grandi” un po’ tutti.

Matteo Pasinato
Direttore Ufficio Pastorale sociale

mercoledì 12 luglio 2017

LUCI E OMBRE DEL TRATTATO ONU SULLE ARMI NUCLEARI

dalla pagina https://www.change.org/p/la-campagna-per-l-uscita-dell-italia-dalla-nato-per-un-italia-neutrale/u/20778982

10 lug 2017 — Manlio Dinucci Il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari, adottato a grande maggioranza dalle Nazioni Unite il 7 luglio, costituisce una pietra miliare nella presa di coscienza che una guerra nucleare avrebbe conseguenze catastrofiche per l’intera umanità.

In base a tale consapevolezza, i 122 stati che l’hanno votato si impegnano a non produrre né possedere armi nucleari, a non usarle né a minacciare di usarle, a non trasferirle né a riceverle direttamente o indirettamente. Questo è il fondamentale punto di forza del Trattato che mira a creare «uno strumento giuridicamente vincolante per la proibizione delle armi nucleari, che porti verso la loro totale eliminazione».

Ferma restando la grande validità del Trattato – che entrerà in vigore quando, a partire dal 20 settembre, sarà stato firmato e ratificato da 50 stati – si deve prendere atto dei suoi limiti.

Il Trattato, giuridicamente vincolante solo per gli stati che vi aderiscono, non proibisce loro di far parte di alleanze militari con stati in possesso di armi nucleari.

Inoltre, ciascuno degli stati aderenti «ha il diritto di ritirarsi dal Trattato se decide che straordinari eventi relativi alla materia del Trattato abbiano messo in pericolo i supremi interessi del proprio paese». Formula vaga che permette in qualsiasi momento a ciascuno stato aderente di stracciare l’accordo, dotandosi di armi nucleari.

Il limite maggiore consiste nel fatto che non aderisce al Trattato nessuno degli stati in possesso di armi nucleari: gli Stati uniti e le altre due potenze nucleari della NATO, Francia e Gran Bretagna, che possiedono complessivamente circa 8000 testate nucleari; la Russia che ne possiede altrettante; Cina, Israele, India, Pakistan e Nord Corea, con arsenali minori ma non per questo trascurabili.

Non aderiscono al Trattato neppure gli altri membri della NATO, in particolare Italia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia che ospitano bombe nucleari statunitensi. L’Olanda, dopo aver partecipato ai negoziati, ha espresso parere contrario al momento del voto.

Non aderiscono al Trattato complessivamente 73 stati membri delle Nazioni Unite, tra cui emergono i principali partner USA / NATO: Ucraina, Giappone e Australia.

Il Trattato non è dunque in grado, allo stato attuale, di rallentare la corsa agli armamenti nucleari, che diviene sempre più pericolosa soprattutto sotto l’aspetto qualitativo.

In testa sono gli Stati uniti che hanno avviato, con rivoluzionarie tecnologie, la modernizzazione delle loro forze nucleari: come documenta Hans Kristensen della Federazione degli scienziati americani, essa «triplica la potenza distruttiva degli esistenti missili balistici USA», come se si stesse pianificando di avere «la capacità di combattere e vincere una guerra nucleare disarmando i nemici con un first strike di sorpresa». Capacità che comprende anche lo «scudo anti-missili» per neutralizzare la rappresaglia nemica, tipo quello schierato dagli USA in Europa contro la Russia e in Corea del Sud contro la Cina.

La Russia e la Cina sono anch’esse impegnete nella modernizzazione dei propri arsenali nucleari. Nel 2018 la Russia schiererà un nuovo missile balistico intercontinentale, il Sarmat, con raggio fino a 18000 km, capace di trasportare 10-15 testate nucleari che, rientrando nell’atmosfera a velocità ipersonica (oltre 10 volte quella del suono), manovrano per sfuggire ai missili intercettori forando lo «scudo».

Tra i paesi che non aderiscono al Trattato, sulla scia degli Stati uniti, c’è l’Italia. La ragione è chiara: aderendo al Trattato, l’Italia dovrebbe disfarsi delle bombe nucleari USA schierate sul suo territorio.

Il governo Gentiloni, definendo il Trattato «un elemento fortemente divisivo», dice però di essere impegnato per la «piena applicazione del Trattato di non-proliferazione (Tnp), pilastro del disarmo». Trattato in realtà violato dall’Italia, che l’ha ratificato nel 1975, poiché impegna gli Stati militarmente non-nucleari a «non ricevere da chicchessia armi nucleari, né il controllo su tali armi, direttamente o indirettamente».

L’Italia ha invece messo a disposizione degli Stati uniti il proprio territorio per l’installazione di almeno 50 bombe nucleari B-61 ad Aviano e 20 a Ghedi-Torre, al cui uso vengono addestrati anche piloti italiani. Dal 2020 sarà schierata in Italia la B61-12: una nuova arma USA da first strike nucleare. In tal modo l’Italia, formalmente paese non-nucleare, verrà trasformata in prima linea di un ancora più pericoloso confronto nucleare tra USA / NATO e Russia.

Perché il Trattato adottato dalle Nazioni Unite (ma ignorato dall’Italia) non resti sulla carta, si deve pretendere che l’Italia osservi il Tnp, definito dal governo «pilastro del disarmo», ossia pretendere la completa denuclearizzazione del nostro territorio nazionale.

venerdì 7 luglio 2017

Papa Francesco: i migranti sono un'opportunità di crescita, incontro e dialogo

dalla pagina http://www.news.va/it/news/papa-i-migranti-sono-unopportunita-di-crescita-inc

2017-07-04 Radio Vaticana

“La presenza di tanti fratelli e sorelle che vivono la tragedia dell'immigrazione è un'opportunità di crescita umana, di incontro e di dialogo tra le culture, in vista della promozione della pace e della fraternità tra i popoli”. Così il Papa in un messaggio, inviato nei giorni scorsi, al nuovo portale Infomigrants.net, realizzato dall’agenzia italiana Ansa con i partner europei France Media Monde e Deutsche Welle. Francesco si dice “vicino” e incoraggia, “istituzioni, realtà associative e singoli” che “si aprono saggiamente al complesso fenomeno migratorio”.
Valori umani e cristiani alla base della civiltà europea
Sottolinea che ogni intervento di sostegno in questo ambito testimonia “quei valori umani e cristiani che stanno alla base della civiltà europea”. Il Papa esprime con entusiasmo “apprezzamento per l'importante iniziativa” del portale ed auspica che questa “favorisca l'integrazione”, con "un doveroso rispetto" da parte dei migranti delle leggi dei Paesi che li accolgono, e "susciti nella società un rinnovato impegno per una autentica cultura dell'accoglienza e della solidarietà”.
Terrorismo, carestia, regimi oppressivi
Francesco infine assicura la sua “preghiera, invocando la protezione di Dio, padre di tutti affinché si faccia compagno di strada di quanti sono costretti a lasciare la propria terra a causa di conflitti armati, di attacchi terroristici, di carestie, di regimi oppressivi”. “Possano questi migranti - conclude - incontrare dei fratelli e delle sorelle sotto ogni cielo, che condividano con essi il pane e la speranza nel comune cammino”.
Di Massimiliano Menichetti

giovedì 6 luglio 2017

Tortura, Amnesty e Antigone: meglio questa legge che nulla

dalla pagina http://it.radiovaticana.va/news/2017/07/06/tortura,_amnesty_e_antigone_meglio_questa_legge_che_nulla/1323564

Non è un successo, tuttavia si è fatto un passo avanti. E’ l’amaro commento delle organizzazioni e associazioni impegnate nella difesa dei diritti umani all’approvazione ieri sera alla Camera del reato di tortura in Italia. Le pene vanno dai 4 ai 10 anni, fino a un massimo di 12 se a commettere il reato è un pubblico ufficiale. Francesca Sabatinelli:

Non è una buona legge, ma almeno ora c’è:  è la sintesi che fanno associazioni e organizzazioni come Antigone e Amnesty International Italia, che dell'obiettivo dell'approvazione del reato di tortura avevano fatto una priorità, tenendo acceso un dibattito lungo 28 anni. Sia per Amnesty che per Antigone i punti critici sono: il riferimento alla verificabilità del trauma psichico, la previsione della pluralità delle condotte violente, così come i tempi di prescrizione ordinari. Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone, che da oltre vent'anni si occupa di carceri, diritti umani e tortura:
R. – E’ complicato dire se è meglio non avere per nulla una legge o è meglio avere una legge che sia frutto di un compromesso. Dovremo aspettare, vedere il lavoro nelle Corti e quello che accadrà nei tribunali. Però, posso dire una cosa. Non è che nei Paesi dove esiste la legge perfetta – per esempio in Spagna, dove esiste la legge perfettamente coincidente con il testo Onu – poi i giudici si siano affannati ad applicarla, c’è stato un solo caso di una condanna, poi successivamente revisionata. Quindi, noi abbiamo fortemente criticato questa legge perché non si può fare il compromesso su un crimine contro l’umanità, ma quando noi avremo dei casi che per noi sono configurabili come tortura, lavoreremo nelle Corti con i nostri avvocati, affinché tale sia definita anche dai giudici. Per cui adesso la palla spetta a chi, come noi, lavora su questo terreno dei diritti umani, delle carceri e della giustizia, e spetta anche ai giudici, dimostrare che con l’interpretazione si può far fare un passo in avanti a una legislazione molto, ma molto timorosa.
 
D. – Questo testo – è la denuncia di Antigone e di molti altri – non è fedele al testo dell’Onu (Convenzione dell’Onu ratificata dall’Italia nel 1984). Quali sono i punti critici?
R. – I punti critici più significativi sono due, a cui vanno aggiunti altri due non secondari, ma di fondo. Quali sono i due punti significativi? Fra le ipotesi per cui dovrebbe esserci o potrebbe esserci tortura, vi è quella delle violenze e si specifica che esse richiedono pluralità di condotta. Ecco: questa se la potevano evitare, visto che la definizione dell’Onu parla di violenza al singolare e visto che la storia della tortura ci rimanda anche un episodio unico di violenza estrema, pensiamo al waterboarding, pensiamo a un unico atto di violenza brutale che possa configurare l’ipotesi di tortura. La seconda nostra critica riguarda l’aggettivo “verificabile”, messo davanti al trauma psichico: perché ci sia tortura di tipo psichico è necessario che il trauma sia verificabile. Questo è ciò che dice il nostro legislatore, ma non c’è traccia di questo nella definizione Onu. Perché l’abbiano inserito è evidente: il tentativo è quello di ridurre l’area della possibile applicabilità. Spero che i giudici non la interpretino come la interpreterei io, tutto dev’essere verificato, in giudizio. E’ ovvio. Quindi, niente di diverso e niente di straordinario rispetto al fatto che ogni reato vada verificato. I punti più generali di fondo che noi abbiamo contestato, e alla fine vedremo quello che riusciremo a ottenere nelle sedi giudiziarie, sono i seguenti: il delitto è configurato come un delitto generico, cioè un delitto non tipico dei pubblici ufficiali, ma che può essere commesso da chiunque, mentre nel diritto internazionale e nella storia della tortura, la tortura è una questione che riguarda i funzionari dello Stato, quindi non riguarda le famiglie, le mafie e così via. Il secondo punto più generale è l’assenza di norme straordinarie sulla prescrizione. La tortura in moltissimi casi è difficile da dimostrare, ma soprattutto le denunce arrivano quando è finita la situazione di incarcerazione, di custodia oppure, se si tratta della tortura che avviene in Paesi dove ci sono le dittature, ovviamente si inizia la persecuzione dei torturatori a dittatura chiusa. E quindi i tempi di prescrizione non possono che essere particolarmente lunghi, più lunghi rispetto a quelli di altro reato. Detto questo, noi da domani saremo al lavoro per applicarla.
 
D. – Questa legge è una criminalizzazione delle forze dell’ordine?
R. – Assolutamente no. E’ una valorizzazione di quella grande parte di poliziotti, carabinieri, finanzieri e poliziotti penitenziari che si comportano a modo, cioè nel solco della legalità. Siccome sono una grandissima parte, non si devono preoccupare.
 
La definizione del reato di tortura in questa legge resta confusa e restrittiva, spiega Antonio Marchesi presidente di Amnesty Italia, ma permette di superare una situazione di grave inadempimento per cui i giudici italiani erano costretti a mascherare una delle più gravi violazioni dei diritti umani:
R. – In assenza di un reato specifico di tortura, si doveva provvedere utilizzando una serie di reati generici, quasi camuffando la tortura vuoi da “abuso di ufficio”, da “lesione”, ma questi sono reati non molto gravi, puniti con pene molto lievi e quindi l’obbligo di punire severamente non veniva rispettato. In molti casi non veniva rispettato l’obbligo di punire tout-court e basta, perché per effetto della prescrizione le persone poi la sanzione non la subivano affatto. Questa è l’ipotesi di gran lunga più frequente negli ultimi 30 anni, senza un reato di tortura. Diciamo che il fatto che la tortura sia menzionata nel Codice penale, che non sia più qualcosa che viene rimosso attraverso il silenzio delle leggi, quasi che quel silenzio possa comportare l’inesistenza nei fatti del fenomeno, il fatto di introdurre il reato di tortura supera questa forma di negazionismo che secondo noi era molto dannosa. E devo dire che questo reato aveva comunque tantissimi nemici, il che fa pensare che in realtà possa avere un impatto reale, perché altrimenti coloro che sono contrari a un reato di tortura senza “se” né “ma”, comunque definito, non si sarebbero preoccupati tanto di manifestare con molta veemenza la loro posizione: quindi vuol dire che il reato nuovo in qualche misura si pensa che possa incidere.
 
Ciò al quale si lavorerà molto sarà anche l’applicazione delle parti della legge che riguardano la non espulsione di tutti quegli immigrati che rischiano la tortura nel paese di provenienza.

dalla pagina http://www.associazioneantigone.it/news/antigone-news/3064-approvata-la-legge-sulla-tortura-lontana-da-cio-che-volevamo-da-domani-al-lavoro-per-farla-applicare-nei-tribunali-e-migliorarla

Approvata la legge sulla tortura. Lontana da ciò che volevamo. Da domani al lavoro per farla applicare nei tribunali e migliorarla

In Italia da oggi c’è il reato di tortura nel codice penale. Un dibattito parlamentare lungo ben ventotto anni.
Un dibattito molto spesso di retroguardia culturale. Un dibattito che ha prodotto una legge da noi profondamente criticata per almeno tre punti: la previsione della pluralità delle condotte violente, il riferimento alla verificabilità del trauma psichico e i tempi di prescrizione ordinari.

Era il dicembre del 1998 quando Antigone elaborò la sua prima proposta di legge, fedele al testo previsto nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984. Non abbiamo mai abbandonato la nostra attività di pressione istituzionale su questo tema. Siamo andati davanti a giudici nazionali, europei, organismi internazionali a segnalare questa lacuna gravissima nel nostro ordinamento giuridico.  

La legge approvata che incrimina la tortura non è la nostra legge e non è una legge conforme al testo Onu. Per noi la tortura è e resta un delitto proprio, ossia un delitto che nella storia del diritto internazionale, è un delitto tipico dei pubblici ufficiali.  Tuttavia da oggi c'è un reato che si chiama tortura.  

Da domani il nostro lavoro sarà quello di sempre: nel caso di segnalazioni di casi che per noi sono ‘tortura’ ci impegneremo affinché la legge sia applicata. Non demordiamo. E’ il nostro ruolo.  

Inoltre lavoreremo per dare applicazione alle parti della legge che riguardano la non espulsione di persone che rischiano la tortura nel paese di provenienza e l’estradizione di persone straniere accusate di tortura e residente nel nostro paese.  

Ci impegneremo anche in sede politica e giurisdizionale, interna e internazionale, per migliorare la legge e renderla il più possibile coerente con la definizione delle Nazioni Unite.