giovedì 30 luglio 2020

Addio al permafrost

"Il permafrost è terreno, sia suolo che roccia, che rimane congelato per almeno 2 anni, presente su un quinto di tutte le terre emerse, di uno spessore che può variare da un metro a oltre un chilometro"

dalla pagina https://ilmanifesto.it/addio-al-permafrost/

L’esperto italiano Renato Colucci: «Se il terreno scongela, viene giù tutto, come in Alaska o sul Monviso. E si producono gas serra»



C’è un filo rosso che lega una delle peggiori catastrofi ecologiche avvenute in Siberia (lo sversamento di 20 mila tonnellate di gasolio in un fiume), la distruzione di siti archeologici in Alaska, probabilmente anche le frane che si stanno verificando sul Monviso e l’aumento delle emissioni di gas serra in atmosfera: sono tutti fenomeni legati allo scongelamento del permafrost. Il permafrost è terreno, sia suolo che roccia, che rimane congelato per almeno 2 anni, presente su un quinto di tutte le terre emerse, di uno spessore che può variare da un metro a oltre un chilometro. L’aumento delle temperature lo sta degradando, e le conseguenze sono estremamente serie, come ci spiega Renato R. Colucci, ricercatore del Cnr di Trieste, referente italiano dell’International Permafrost Association per conto del Comitato Glaciologico Italiano.
Dottor Colucci, cosa succede al permafrost?
Nelle regioni artiche da decenni registriamo temperature che aumentano molto più rapidamente rispetto al resto del globo. Il problema non sono i picchi di calore, come i 38°C registrati oltre il Circolo Polare artico qualche settimana fa, che fanno sicuramente notizia, ma essendo un singolo evento meteorologico, di durata limitata, non intaccano il permafrost. A determinare la degradazione del permafrost è la variazione della temperatura media, anche di pochi decimi di grado, in tempi lunghi. A questo si aggiunga che, a causa dell’aumento della temperatura globale, anche gli oceani sono più caldi. Tutto ciò aumenta la disponibilità di vapore acqueo in atmosfera, con il risultato che in Artico negli ultimi decenni sono aumentate le precipitazioni nevose. La neve fa da isolante: poiché contiene tanta aria, il manto nevoso impedisce la penetrazione del freddo nel terreno e porta alla degradazione del permafrost.
Cosa succede quando il permafrost scongela?
Il permafrost è terreno congelato, duro come il marmo. Nella regione polare fa da fondamenta alle costruzioni e alle infrastrutture. Se scongela, le fondamenta non reggono più, crolla tutto, come è successo alla cisterna di gasolio in Siberia e come sta succedendo in varie regioni artiche con effetti più o meno evidenti. Inoltre, là dove il permafrost contiene anche ghiaccio, se questo fonde porta alla formazione di voragini che determinano altri cedimenti del terreno. Nelle zone costiere il fenomeno si accentua perché il permafrost viene attaccato anche dall’azione del mare che può erodere chilometri di costa all’anno. Questo, se vogliamo, è solo l’aspetto ingegneristico del problema.
La degradazione del permafrost fa temere per le emissioni di gas ad effetto serra, perché?
La parte più superficiale del permafrost, quella più esposta allo scongelamento, è anche quella che contiene la maggior parte della materia organica presente nel terreno. Al suo interno troviamo metano in forma di bolle e materiale organico non ancora decomposto che comincia a degradarsi e a produrre altro metano e anidride carbonica. Quindi, assistiamo all’emissione in atmosfera di enormi quantità di gas ad effetto serra di origine naturale, ma indotto dall’azione antropica. È un fenomeno che si è già verificato nella storia del pianeta: dopo la grande glaciazione, 20 mila anni fa, sappiamo che lo scongelamento del permafrost ha fatto accelerare la concentrazione di gas serra in atmosfera e la risalita della temperatura è diventata più rapida. Questo però è successo nell’arco di migliaia di anni. Ora invece la temperatura sta aumentando a velocità mai vista, con gli effetti che stiamo sperimentando. Il problema è che il tema della decarbonizzazione dell’atmosfera non viene ancora messo in pratica seriamente, ma si continua ad agire cercando dei palliativi, come stendere teli bianchi sui ghiacciai per non farli scomparire o piantare alberi per rinfrescare le città, interventi che, francamente, non agiscono alla fonte del problema e servono a poco, per adattarsi, temporaneamente ad un clima che cambia stabilmente.
Ma c’è qualche vantaggio per le regioni artiche?
Per chi ragiona a breve termine e intende accumulare denaro a scapito di miliardi di persone che rischiano di non avere futuro… sì, qualche vantaggio ci potrebbe essere. Ci sono zone dell’Artico che stanno diventando più vivibili con l’aumento delle temperature. Il tema dello sfruttamento delle zone artiche è molto attuale, c’è molta attenzione da quando ci si è resi conto quante risorse minerarie contengono. I paesi scandinavi, per fare un esempio, sanno bene che il futuro è lì, non certo in molti paesi che si affacciano sul Mediterraneo dove tra 100 anni il mare si sarà verosimilmente innalzato di un metro, mentre gran parte delle coste artiche non subiranno gli effetti dell’innalzamento del livello del mare grazie al fenomeno del rimbalzo isostatico, l’innalzamento della crosta terrestre, che si verifica alla fine della glaciazione, che compensa l’innalzamento del livello del mare.
Sulle Alpi c’è del permafrost, cosa dobbiamo aspettarci?
Anche nell’arco alpino il permafrost si sta degradando, soprattutto dove la fusione del ghiaccio, che può essere presente nel permafrost, fa perdere coesione alla roccia e determina crolli di intere pareti montane. Non tutte le frane si verificano per questo motivo, ma si osservano sempre più crolli dovuti alla degradazione del permafrost, in particolare oltre i 3 mila metri, come quello del Monviso ai primi di luglio. Ci sono problemi per i rifugi di alta quota, ci sono vie alpinistiche che sono diventate inagibili per pericolo di crolli. Non è una novità.
Cosa ne pensa dello sviluppo del turismo nelle zone polari?
Sono contrario.
Cosa fare per salvare l’Artico?
Non invaderlo. E decarbonizzare l’atmosfera.

martedì 28 luglio 2020

Acqua, diritto umano

dalla pagina https://ilmanifesto.it/acqua-bisogna-ripubblicizzare-lo-stato/

Una lettera aperta per mobilitare l'opinione pubblica e i governi sulla questione sempre più urgente dell'acqua. Un diritto primario e di sopravvivenza che non può essere abbandonato alla gestione privata


Il 28 luglio di quest’anno “celebriamo” il 10° anniversario della risoluzione dell’ONU che riconosce il diritto umano (universale, indivisibile e imprescrittibile) all’acqua potabile e all’igiene. Purtroppo la situazione è tale che questo decennio è trascorso come se la decisione approvata dalla più alta organizzazione politica della comunità internazionale non avesse avuto luogo: 2,2 miliardi di persone non sanno che cos’è l’acqua potabile e 4,2 non hanno accesso ai servizi igienici; più di 9 milioni di bambini sotto i 5 anni muoiono ogni anno a causa di malattie causate, tra l’altro, dalla mancanza di acqua pulita. Il lavaggio delle mani è un atto impossibile per centinaia di milioni di esseri umani, con le conseguenze che conosciamo bene in questo periodo di pandemia (1)!

L’acqua idonea all’uso umano è diventata sempre più scarsa: molti dei più importanti fiumi, laghi e falde acquifere del mondo stanno morendo, prosciugati da prelievi d’acqua superiori alla loro naturale capacità di rinnovamento (in quantità e qualità), avvelenati dall’inquinamento e dalla contaminazione, soffocati dai rifiuti … Le siccità strutturali stanno colpendo un numero crescente di regioni del mondo (inclusa l’Amazzonia!). La terra si sta desertificando e la devastazione delle foreste ha ruolo decisivo al riguardo. Infine, numerose grandi città costiere del mondo (da New York a Nairobi, da Tokyo a Dacca…) sono seriamente minacciate dalle inondazioni dovute all’innalzamento del livello dell’acqua. Jakarta, per esempio, è già in corso di abbandono (2).

In questo contesto, parlare di diritto all’acqua è un eufemismo. Inoltre, “esperti”, leader politici e imprenditori, non fanno che parlare della scarsità d’acqua nel mondo. Con una evidente mistificazione, essi attribuiscono la colpa della carenza alla crescita della popolazione mondiale e al cambiamento climatico (il che è solo in minima parte corretto). Dimenticano dii menzionare il ruolo decisivo dell’economia mondiale dominante e dei, dei nostri sistemi sociali basati sulla sete di potere e di ricchezza privata grazie ad uno sviluppo tecnologico guerriero, violento, predatore dele risorse della Terra fino al loro esaurimento.

Di fronte ad una scarsità d’acqua data come inevitabile, i gruppi sociali dominanti indicano la via per la salvezza in una strategia detta della resilienza, cioé la capacità di resistere e di adattarsi agli shock provocati dalla penuria. Da qui gli slogans diventati dei ritornelli pubblicitari quali “le città resilienti”, “l’agricoltura resiliente”, l’Europa resiliente…. Nelle condizioni attuali, tuttavia, la resilienza è una grande mistificazione perché a dire dei dominanti essa è possibile soltanto per chi dispone di grandi capacità tecnologiche e finanziarie (3). Indovinate quali paesi e quali gruppi sociali saranno resilienti nei prossimi decenni?

Secondo le Nazioni Unite, il diritto all’acqua, all’acqua per la vita, si traduce concretamente nella disponibilità di 50 litri di acqua potabile al giorno a persona per uso domestico e di 1.800 m³ d’acqua all’anno a persona per tutti gli usi combinati. Ora è il concetto stesso di diritto umano all’acqua, uguale per tutti e giustiziabile, che è stato sostituito negli ultimi 30 anni dal concetto di accesso all’acqua equo e ad un prezzo abbordabile.

Con il concetto di “accesso equo e ad un prezzo abbordabile” non vi è più alcun obbligo in capo allo Stato. Si esce dal campo del diritto per entrare nel campo dei bisogni di acqua da soddisfare in funzione delle possibilità dei singoli consumatori (famiglie, imprese) di accedervi economicamente, politicamente e socialmente. Il prezzo “accessibile” dell’acqua è un potere discrezionale nelle mani dei gestori dei servizi idrici che fissano il prezzo dell’acqua in modo tale da garantirsi dei profitti (4). Che si tratti di privati oppure di “pubblici”, i gestori fanno soldi con l’acqua per la vita! L’acqua finanza l’acqua, come l’auto finanza l’auto.

Questo profondo cambiamento culturale e politico è stato possibile grazie alla combinazione di quattro trasformazioni strutturali: la mercificazione della vita (tutto è stato ridotto a merce: semi, acqua, trasporti pubblici, conoscenza, salute, abitazione, piante, animali, geni umani); la privatizzazione di tutti i beni e servizi (nulla è sfuggito a questo processo, compresa la moneta, che ha cessato di essere un simbolo per eccellenza della sovranità delle nazioni e degli Stati); la liberalizzazione e deregolamentazione di tutte le attività economiche in nome di una governance libera tra i detentori di interessi (i famosi “stakeholders”) e, infine, la finanziarizzazione dell’economia che ha sottoposto le principali decisioni sull’allocazione e l’utilizzo delle risorse disponibili alle logiche finanziarie di produttività ed efficienza a breve termine. Gli stessi esseri umani sono stati ridotti a “risorse umane” per essere così sfruttati al massimo della loro resa economica, nonostante e al di là dei diritti umani.

Di conseguenza, non esistono più dei beni comuni e dei servizi comuni reali e neppure dei veri e propri beni pubblici. Nel 1980, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha legalizzato la brevettabilità degli esseri viventi a scopo privato e di lucro. La brevettabilità degli algoritmi (Intelligenza Artificiale) è diventata una pratica comune negli anni ‘90. Il settore privato ha così ottenuto il riconoscimento di oltre 50.000 brevetti sulla vita. Idem nel campo dell’IA.

Nel 1992, in occasione della Conferenza internazionale sull’acqua di Dublino in preparazione del primo Vertice della Terra di Rio de Janeiro, la risoluzione finale ha affermato che l’acqua non deve più essere considerata un bene sociale, un bene comune, ma un bene economico privato, soggetto alle regole dell’economia di mercato. La sete di acqua per la vita umana ha lasciato il posto alla sete di acqua per le attività economiche per la competitività e il profitto.

Peggio ancora, nel 2002, in occasione del Secondo Vertice della Terra di Johannesburg, è stato dichiarato che alla natura dovrebbe essere dato un valore monetario calcolando i costi e i benefici dei servizi “ambientali” forniti dalla natura. La monetizzazione della natura (nature pricing, nature banking) e la brevettabilità degli esseri viventi hanno ucciso ogni forma di economia del bene comune, dei beni pubblici, dell’economia sociale e solidale al di fuori dei microprogetti.

Il governo delle condizioni di vita nell’interesse generale è scappato di mano alle autorità pubbliche. Le politiche agroalimentari, sanitarie, informative e di sviluppo tecnologico, così come le politiche di “sviluppo sostenibile” e di sicurezza idrica, non rientrano più nella sfera della sovranità dello Stato. Sono molto più dipendenti dagli interessi di grandi gruppi privati globali come Suez, Vivendi, Big Pharma, GAFAM, ma anche di oligopoli minerari e, non ultimi, di grandi gruppi finanziari (banche, assicurazioni). Una delle attività in crescita più redditizie nel settore idrico è il settore assicurativo.

Di fronte ai cambiamenti meteorologici (attività turistiche, agricoltura) e agli “incidenti climatici” (siccità, inondazioni), più le incertezze ridefiniscono l’acqua del Pianeta, più si alza il valore di mercato dell’acqua. Nella “logica” speculativa finanziaria dominante, è chiaro che quanto più si conferma la scarsità d’acqua, tanto più il valore economico dell’acqua aumenterà a scapito del suo valore per la comunità globale della vita sulla Terra.

Addio all’effettivo diritto universale all’acqua? Sì, se non vengono rovesciati i principi, le politiche e le pratiche collettive che abbiamo descritto. La società e lo Stato devono essere liberati dalla privatizzazione e dalla finanziarizzazione. È necessario costruire la società dei beni comuni e dei beni pubblici cooperativi mondiali. È urgente costruire il sistema politico pubblico globale basato sulla responsabilità collettiva condivisa e solidale per la salvaguardia, la cura e la promozione della vita e dei diritti alla vita, e quindi all’acqua per tutti. La ri-municipalizzazione dell’acqua è fondamentale per la costruzione di una politica pubblica globale, a condizione naturalmente che si tratti di una vera e propria municipalizzazione la cui gestione è finanziata attraverso la fiscalità generale e non dai ricavi generati dalla vendita dei servizi idrici, anche se a prezzi abbordabili.

In ogni caso, il futuro dell’acqua e del diritto alla vita non può essere realizzato attraverso l’acqua tecnologica (5). Il diritto all’acqua ed il diritto alla vita possono essere realizzati nell’uguaglianza, la giustizia e la fratellanza solo una nuova era di creatività ingegneristica collettiva e di una cultura politica e sociale guidata dalla volontà di vivere insieme nel rispetto della Terra Madre.

Note

(1). https://www.un.org/fr/observances/water-day
(2) Vedi “Oceano e cambiamenti climatici: le nuove sfide”,https://ocean-climate.org/wp-content/uploads/2019/09/fiches-DEF.pdf
(3) Cfr. Riccardo Petrella, Acqua e Resistenza. Le strategie dei dominanti in questione, https://wsimag.com/fr/economie-et-politique/61408-eau-et-resilience, e dallo stesso autore, Water security for all the inhabitants of the Earth, https://wsimag.com/fr/economie-et-politique/61870-la-securite-hydrique-pour-tous-les-habitants-de-la-terre
(4) Nel quadro dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 dell’ONU, l’acqua è l’Obiettivo 6, che recita: “6.1: Entro il 2030, garantire un accesso universale ed equo all’acqua potabile sicura ad un costo accessibile. https://www.agenda-2030.fr/odd/odd-6-garantir-lacces-de-tous-leau-et-lassainissement-et-assurer-une-gestion-durable-des Non si fa alcun riferimento al diritto all’acqua.
(5) con il termine “Acqua tecnologica” ci si riferisce all’acqua “prodotta” da esseri umani, come l’acqua desalinizzata, l’acqua derivante dal trattamento delle acque reflue, l’acqua derivata da iceberg “catturati”…..
Lista dei firmatari
Riccardo Petrella, Co-fondatore del Comitato Internazionale per il Contratto Mondiale del’Acqua (Italia)
Leonardo Boff, Teologo (Brasile)
Luis Infanti de la Mora, Vescovo, Diocesi di Aysen, « Patagonia sin represas » (Cile)
Federico Mayor, Ex- Direttore Generale dell’Unesco, Presidente Fondazione Cultura della Pace (Spagna)
Anibal Faccendini, Direttore “Catedra de l’Agua”, Università Nazionale di Rosario (Argentina)
Joao Caraça, Co-fondatore dell’Agorà degli Abitanti della Terra, Presidente Università di Coimbra (Portogallo)
Fondation Danielle Mitterrand (Jérémie Chomette, Marion Veber) (Francia)
Marcelo Barros, Monaco benedittino (Brasile)
Jean-Pierre Wauquier, Medico, presidente di H²O (Francia)
Roberto Savio, Co-fondatore dell’Agorà degli Abitanti della Terra, Fondatore di Other News (Italia)
Bernard Cassen, Giornalista, ex- Direttore Generale di Le monde diplomatique (Francia)
Sylvie Paquerot, Professore titolare, Università di Ottawa (Canada)
Roberto Colombo, Sindaco di Canegrate (Italia)
Marcos P. Arruda, Dir. PACS- Insituto Politicas Alternativas para o Cone Sur (Brasile)
Deborah Nunes, Urbanista, Professore Università dello Stato di Bahia (Brasile)
Lilia Ghanem, Antropologa, Redattrice capo di Badael (Francia/Libano)
Sergio et Clara Castioni, Librai, (Italia)
Bernard Tirtiaux, Maestro Vetraio, scrittore, scultore (Belgio)
Maria Palatine, Musicista, arpista (Germania)
Pietro Pizzuti, Autore e attore di teatro ((Belgio/Italia)
Margherita Romanelli, Spécialista in cooperazione internazionale per lo sviluppo sostenibile (Italia)
Andrey Grachev, Diplomatico, Consigliere politico di Mikhaïl  Gorbaciov  (Russia)
Alain Adriaens, Ecologista, «obiettore della crescita » (Belgio)
Issam Naaman, Ex-ministro (Libano)
Domenico Rizzuti, Sindicalista settore Università/Ricerca, Forum italo-tunisino (Italia)
Alain Dangoisse, Dir. « Maison du Développement Durable », UCL (Belgio)
Pierre Galand (B), Impegnato a capo di diverse associazioni, in particolare l’Associazione Belgo-Palestinese et il “Centre d’Action Laïque”, ex- senatore (Belgio)
Monastero del Bene Comune (Paola Libanti, Silvano Nicoletto) (Italia)
Roberto Louvin, Professore di diritto comparato , Università di Trieste (Italia)
Roberto Musacchio, Ex-eurodéputato, Associazione “Altramente” (Italia)
Jean-Claude Garot, Giornalista (Belgio)
Angelo Bonelli, Presidente dei Verdi (Italia)
Patrizia Sentinelli, Presidente di “Altramente”, ex-ministra alla cooperazione e allo sviluppo (Italia)
Jean-Claude Oliva, Presidente “Coordination Eau Ile de France” (Francia)
Cristiana Spinedi, Professore Insegnamento secondario (Svizzera)
Adriana Fernandes, Educatrice in pensione (Cile)

lunedì 27 luglio 2020

Per costruire insieme la società civile


Identità e Missione dell'Associazione Laudato Si'

Vogliamo, nello spirito di Gesù, coniugare “esperienze e conoscenze” e perseguire l’Alta Formazione nei settori della cultura e della comunicazione, delle religioni e della letteratura, delle arti e dei servizi alla persona, della politica e del diritto, dell’antropologia e della filosofia, dell’economia e della tecnica.
Intendiamo promuovere la migliore offerta culturale e professionale mediante iniziative e corsi specifici, pubblicazioni, seminari, ricerche, sperimentazioni, dibattiti e convegni e di ogni iniziativa utile alla divulgazione della Dottrina Sociale della Chiesa, nella consapevolezza che la questione antropologica sia da declinarsi in termini spirituali, sociali e ambientali, per la formulazione efficace di un nuovo concetto di "leadership di servizio" volto al bene comune di tutti gli uomini.

Ci proponiamo la circolazione delle idee e degli ideali espressi nella Lettera Enciclica di Papa Francesco “Laudato Si’”, per favorire il sano “competere” nella logica del servizio e non del potere. E pertanto, di valorizzare l’educazione alla pace, all’incontro, al dialogo alla fraternità, alla giustizia sociale, alla gratuità e alla sussidiarietà orizzontale e comunitaria, al rispetto e alla valorizzazione dell'ambiente con particolare riguardo all'istituto della famiglia.
Desideriamo valorizzare i talenti, i carismi, le competenze di cui i nostri giovani dispongono, incoraggiandoli a essere protagonisti di un nuovo umanesimo cristiano anche in chiave ecumenica e interreligiosa.
Offriremo la testimonianza di eminenti personalità accomunate dalla medesima “visione” e dalla stessa tensione progettuale, provenienti da diverse realtà (Movimenti, Comunità, Università, Mondo del lavoro, della Scienza, dell’Economia, del Diritto, della Comunicazione), che metteranno a disposizione il loro patrimonio di idee, di ideali e buone prassi stando in mezzo ai giovani, nelle varie località regionali dove i LAB.ORA saranno realizzati.
Valorizzeremo i progetti collegati all’attività formativa svolta in attuazione del modello del "sapere e saper fare", in un contesto di stretto collegamento e interazione tra formazione e mondo del lavoro, anche attraverso l’eventuale sostegno al lavoro, alle imprese e all’auto-imprenditorialità.


"Vi ho dato un esempio, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi" (Gv 13, 15)

Dall'umanesimo cristiano una nuova laicità

Desideriamo favorire una nuova generazione di leaders «costruttori dell’Italia», preparati culturalmente e disposti interiormente ad «immergersi nell’ampio dialogo sociale e politico», capaci di «vivere i problemi come sfide e non come ostacoli» (papa Francesco); giovani gioiosamente incarnati, pronti ad assumersi nuove responsabilità sociali e a rendere ragione della speranza che è in loro nelle professioni nelle quali la vita li vedrà impegnati.
Vogliamo, così, aiutare “i nostri figli” a «edificare una città costruita su rapporti in cui l’amore di Dio è il fondamento. L’amore come vincolo tra gli esseri umani, sia esso di natura interpersonale, intima, sociale, politica o intellettuale», certi che «il Signore è attivo e all’opera nel mondo» (papa Francesco).



venerdì 24 luglio 2020

Coltivare e custodire, non depredare: una agricUltura sostenibile

dalla pagina https://ilmanifesto.it/dallindustria-alla-filiera-umana/

Dall'industria alla filiera umana

L’ambiente è la casa comune non solo da preservare ma da rigenerare: la sua vivibilità riguarda tutti, ed è per questo che anche l’agricoltura ne è parte


Agricoltore in Etiopia © LaPresse



Il rapido sviluppo da dopo la seconda guerra mondiale delle tecniche agricole e dell’impiego della chimica di sintesi, insieme alla intensivizzazione degli allevamenti animali hanno permesso una grande crescita della produttività ma al costo di un impatto ambientale non sostenibile e di un consumo, in certi casi irrimediabile, delle risorse limitate del nostro pianeta.
Il consumo smodato e sempre solo estrattivo di risorse, la deforestazione e l’inquinamento di terra, compresa la sua fertilità, acqua ed aria, insieme alla forzatura biologica degli allevamenti intensivi, hanno contribuito ad un oggettivo squilibrio del pianeta. In una parola l’industrializzazione spinta dell’agricoltura, ovvero dei suoi processi biologici ed ecosistemici, ne ha modificato la natura e gli scopi.
La caratteristiche nutrizionali di molti prodotti alimentari sono cambiate provocando spesso intolleranze quando non vere patologie, la destinazione di intere aree continentali alla produzione di soia e mais destinate all’alimentazione animale dei paesi più ricchi (60% della s.a.u. del pianeta), la marginalizzazione del ruolo dei contadini sempre più impoveriti quando non assistiti oltre alla più totale sconsiderazione del e il lavoro bracciantile ridotto ovunque a schiavitù sono parte del prezzo pagato da questo approccio. al pianeta ed alle sue risorse, comprese quelle umane ed animali, di puro inesauribile sfruttamento.
Con le conseguenze ambientali e sociali sotto gli occhi di tutti.
Ma l’agricoltura è il modo in cui degli esseri umani di relazionarsi si relazionano alla natura: non per prenderne non il sopravvento ma il necessario per vivere. e fare vivere. E L’ambiente è la casa comune non solo da preservare ma da rigenerare: la sua vivibilità riguarda tutti ed è per questo che anche l’agricoltura, che ne è parte, riguarda tutti.
1) Ricontadinizziamo l’agricoltura.
Partendo dalle aree marginali ed in via di abbandono la presenza di una agricoltura di piccole e medie dimensioni è l’unica che può, se a tale scopo indirizzata (come lo è nelle nuove generazioni) unire produzioni di qualità e presidio del territorio. Ovvero produrre una buona qualità nutrizionale delle derrate agricole ed animali operando in senso agroecologico, includendo in modo mirato ed evoluto la manutenzione e salvaguardia del territorio e la dimensione paesaggistica. Riportare lavoro pulito e sano in modo nuovo e sostenibile, in rete, connessi non solo digitalmente – condizione ineludibile – con le comunità e le amministrazioni locali, operando nell’ecoturismo e fruendo di tecniche di precisione applicate al territorio ed all’agricoltura più che alle economie di scala, diviene condizione fondamentale per ristabilire non solo la vita e vivibilità ma per costituire il motore di una nuova economia basata non sulla competizione con le grandi commodity.
2) Per un reddito di contadinanza.
I nuovi contadini, che operano in un indirizzo agro- ecologico e di rigenerazione ambientale divengono a tutti gli effetti i guardiani dell’ambiente e del paesaggio, riferimento delle città metropolitane inclusive di una nuova relazione città-campagna. Per loro, per questa funzione operativa programmata e monitorata dalle comunità locali è fondamentale prevedere un reddito svincolato dalla produzione e vincolato alla rigenerazione territoriale e paesaggistica fondata sulla biodiversità. Tale funzione si rivolge con priorità alle aree interne e in via di spopolamento, ma riguarda tutta l’agricoltura.
3) Per una trasformazione dei prodotti diffusa sui territori. Fuori dalla concentrazione alimentare del nostro tempo.
Le moderne tecnologie informatiche consentono il trasferimento di know how molto veloce e ad oggi è possibile la sperimentazione di fabbriche diffuse sul territorio di trasformazione di prodotti alimentari. Aprire piccoli medi centri di lavorazione delle principali produzioni agricole come i mulini e lavorazioni del grano, del latte, di macelli è oggi possibile con un alto livello tecnologico – distribuito digitalmente – in grado di preservare e valorizzare le biodiversità e tipicità locali, le scelte nutrizionali volute, le qualità specifiche e delle persone che li abitano. Consentendo ai territori di non essere più centri di estrazione di valore ma di implementazione dello stesso.
4) Per una riforma agroambientale in Europa e nel pianeta.
La nostra critica verso la PAC di questi ultimi lustri è molto forte, poiché ha aumentato in modo molto forte l’agroindustria concentrandola in sempre meno mani e contribuito a sviluppare una schiacciante economia di scala che ha ridotto gli agricoltori ed allevatori a meri esecutori di una politica economica mirata al massimo ribasso di costi e massima produttività dei campi. Con un impegno immutato di chimica di sintesi che ha avvelenato acqua ed aria, oltre che compromesso molti cibi. Tale politica deve cambiare radicalmente, non serve più finanziare la grande industria alimentare ipertrofica, né continuare ad estrarre valore da territori ormai esausti: si è consumato un pianeta in questo modo. Come è tempo di prendere in modo diretto le distanze da una agricoltura assistita, bancaria e speculativa, tutta solo meccanizzata e privata di qualunque elemento umano e solo strumentale alla politica delle grandi corporation che detengono i monopoli di semi, varietà manipolate geneticamente, prodotti chimici di sintesi, antibiotici animali.
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sugli stessi temi, leggi anche: 
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Aspetteremo un’altra pandemia?

C’è voluto un virus che attraversa il pianeta come una tormenta, contagia milioni di persone, portandosene via centinaia di migliaia, per ricordarci l’enormità delle nostre debolezze e l’insignificanza delle nostre pretese di specie superpotente. Abbiamo la pretesa criminale di pensare che possiamo vivere contro la natura, la quale dovrebbe sottomettersi alla nostra “intelligenza” e alle nostre illimitate fantasie di dominio. Ci comportiamo come se fossimo invulnerabili e dotati di forze soprannaturali. Sfruttiamo, insaziabili, le risorse naturali, distruggiamo la biodiversità e l’ambiente, causiamo il riscaldamento globale, consumiamo fino all’obesità fisica e mentale, accumuliamo fortune inimmaginabili e disprezziamo i più deboli e i più fragili tra noi, senza pensare che un semplice terremoto può distruggere un intero paese in meno di un secondo. Il nostro egoismo individuale e collettivo dà più diritti all’accumulazione di denaro che alle generazioni future. Scegliamo di alimentare il capitalismo piuttosto che le centinaia di milioni di persone che soffrono di povertà, marginalità, denutrizione, malattie e stigmatizzazione. La pandemia ha mostrato chiaramente i rapporti stretti tra i modelli agricoli intensivi, la deforestazione, la distruzione dell’ambiente e della biodiversità, i cambiamenti climatici e la comparsa dei virus. C’è una concatenazione di cause ed effetti che si riprodurrà automaticamente finché l’agricoltura resterà produttivista e capitalista. La strada per l’apparizione di virus nuovi finora sconosciuti, perché naturalmente confinati in foreste inaccessibili, ma oggi liberati a causa della deforestazione, è aperta. Vogliamo aspettare nuove pandemie per deciderci a un cambiamento radicale di rotta e di sistema, della mentalità dei produttori, di chi decide e dei consumatori? Se lo domanda, in questa lunga intervista di grande interesse, Habib Ayeb, geografo tunisino che insegna all’Università di Parigi, tra i fondatori dell’Osservatorio sulla Sovranità Alimentare e l’Ambiente

foto tratta da Tunisia in Red
A margine di una conferenza on-line organizzata dall’Osservatorio Tunisino per l’Acqua (OTE) sul tema: “Quali strategie e approcci per promuovere un’agricoltura resiliente e sostenibile e una sovranità alimentare nel contesto post Covid-19?”, La Presse ha contattato  il professor Habib Ayeb, geografo, professore emerito all’Università di Parigi VIII a Saint Denis. I suoi lavori, le sue ricerche e pubblicazioni si basano essenzialmente sulle questioni rurali, agrarie, contadine, alimentari ed ecologiche, con la dimensione sociale come filo conduttore di riflessione e analisi che permette di comparare situazioni diverse e variegate.
Ayeb è membro fondatore dell’Osservatorio sulla Sovranità Alimentare e l’Ambiente (OSAE). OSAE è un’organizzazione associativa senza scopo di lucro che rivendica un’indipendenza totale da tutti i movimenti politici. La sua missione è produrre conoscenze attraverso progetti di ricerca accademici sulle questioni relative alla sovranità alimentare, l’ambiente, il clima, la giustizia sociale ed ecologica. In tal modo essa contribuisce a sviluppare delle solide istanze in favore delle realtà contadine, del diritto d’accesso alle risorse, della sovranità alimentare, delle sementi e delle varietà locali che si declinano a tutte le scale, dall’individuale al collettivo, dal locale al globale, senza dimenticare la grande tematica del cambiamento climatico e delle sue conseguenze.
Professor Ayeb, esiste una relazione tra i cambiamenti climatici e la pandemia di Covid-19?
Il cambiamento climatico non cade dal cielo. È un prodotto diretto delle nostre politiche economiche neo liberiste in generale, e in gran parte delle politiche agricole basate su un modello capitalista, intensivo, produttivista, orientato all’esportazione e che consuma grandi quantità di energia, di fertilizzanti chimici, di pesticidi, di antibiotici, di risorse naturali, dall’acqua alla terra. Noi sappiamo che il settore agricolo contribuisce a oltre il 22% dell’emissione globale di CO2, responsabile del riscaldamento climatico. Certo, il contributo della Tunisia al cambiamento climatico resta incomparabile con quello dei paesi industrializzati, ma la deregolamentazione climatica si produce a una scala globale e non prende in considerazione la parte di responsabilità di questo o quel paese. E lo stesso vale per altri fenomeni di distruzione della natura e della vita che colpiscono indistintamente tutte le regioni del mondo.
Alla stessa maniera, il Covid – 19, che è stato individuato per la prima volta in Cina nel dicembre 2019, ha coinvolto tutte le regioni del mondo in tempo record, giusto qualche settimana, con più di 8 milioni di contagi e oltre 300.000 morti (oltre 11 milioni e più di 500 mila morti al 5 luglio 20202, ndr). Mai, nella storia conosciuta, una pandemia ha colpito tanto rapidamente la totalità del pianeta. Molti biologi, tra cui Rob Wallace e altri, dimostrano che la deforestazione intensiva, di cui necessita l’allevamento intensivo, l’estensione delle monocolture industriali (ad esempio il mais che serve a produrre l’etanolo, il “petrolio verde”, o l’olio di palma ecc…) e lo sviluppo dell’industria del legno, hanno raggiunto zone quasi totalmente inaccessibili nel cuore delle grandi foreste. Queste pratiche produttiviste hanno così liberato molti germi sconosciuti, tra cui virus, e facilitato il loro spostamento attraverso il globo approfittando della mobilità umana e animale permessa dai vari mezzi di trasporto, sempre più rapidi e frequenti.
Per riassumere, è un processo complesso, indotto dal sistema economico capitalista e in particolare dall’agricoltura capitalista, che si traduce particolarmente nel riscaldamento accelerato del clima, nella distruzione massiva della biodiversità animale e vegetale, e nella comparsa di nuovi virus, per nascita, per mutazione e per sconfinamento forzato dalle proprie zone naturali originarie.
Quindi, la pandemia del Covid-19 lascia vedere chiaramente i rapporti stretti tra i modelli agricoli intensivi, la deforestazione, la distruzione dell’ambiente e della biodiversità, i cambiamenti climatici e la comparsa dei virus. C’è una concatenazione di cause ed effetti che si riprodurrà automaticamente finché l’agricoltura resterà produttivista e capitalista. La scomparsa massiva delle api, essenzialmente causata dall’uso di pesticidi, apre la strada all’apparizione di virus nuovi fino ad ora sconosciuti, perché naturalmente confinati dentro foreste isolate ed inaccessibili, ma oggi liberati a causa della deforestazione. La scelta è dunque tra due sole alternative possibili: la prima è di continuare a intraprendere e rinforzare le politiche agricole intensive e dunque a esporre l’intera umanità, a cominciare dai più fragili, vulnerabili e indigenti, a rischi estremamente gravi, per la sanità individuale e collettiva e allo stesso tempo per le libertà individuali e collettive. La seconda è cambiare radicalmente le politiche agricole e alimentari nel ri-orientamento verso un equilibrio indispensabile tra il nutrire gli umani, proteggere la biodiversità e il clima e rispettare i diritti delle generazioni future a un ambiente sano e vivibile. Un’agricoltura che esce dalla logica del profitto e dell’insicurezza alimentare per una alimentazione rispettosa della salute, della vita e della giustizia. Un’agricoltura contadina e frugale al cuore delle politiche e delle strategie, purificata e liberata dagli investimenti speculativi e da tutte le attività estrattive.
Quali sono i problemi riscontrati dai contadini e dalle contadine a reddito limitato?
I contadini e le contadine senza terra hanno particolarmente sofferto degli effetti della pandemia e del lock-down. Prima di tutto, bisogna ricordare che la maggior parte (circa il 70%) dei redditi dei contadini deriva dall’esterno delle loro aziende, a causa del loro accesso limitato alle risorse naturali, come l’acqua e la terra, ma anche alle risorse materiali, come il credito e le assicurazioni, che non permettono di garantire un reddito in grado di coprire l’insieme dei bisogno di base delle famiglie. La femminizzazione massiva del lavoro agricolo dentro e fuori dalle aziende è una conseguenza della competizione per le risorse tra l’agricoltura contadina e l’agro-business. Questa è soprattutto la prova dell’impoverimento generalizzato dei contadini. In situazione di pandemia e lockdown, molte centinaia di famiglie si sono trovate senza reddito e senza risorse, e fortemente esposte a rischi di sotto-nutrizione e/o di malnutrizione. Le loro sole alternative sono state: o trasgredire gli ordini di confinamento e rischiare di esporsi a sanzioni più o meno salate; oppure, rispettare gli ordini di confinamento ed esporsi all’insicurezza alimentare. Altre frange indigenti della società si sono trovate in situazioni analoghe. Le semi-rivolte per la farina o la semola in pieno lockdown non sono state altro che l’emblema dell’impossibilità di scegliere tra il rischio di prendere il virus e quello di soffrire la fame. Una situazione drammatica che molti abitanti delle città, più o meno ricchi, non riuscivano a cogliere. Inoltre, durante il lockdown molti contadini non hanno potuto fare i loro raccolti e soprattutto molti altri non hanno potuto acquistare le sementi o le piante che avevano l’abitudine di seminare o piantare tra marzo, aprile e maggio. In particolare è il caso di pomodori, cocomeri e altre cucurbitacee. Questo vuol dire che gli effetti economici indiretti della pandemia si prolungheranno fino alla fine dell’estate e certamente oltre. Quindi, se per qualcuno la riapertura significa semplicemente la fine del confinamento “fisico”, per altri la riapertura non è che una tappa della crisi che sono e saranno obbligati ad affrontare a tasche e mani vuote. E non voglio nemmeno parlare della situazione di disuguaglianza nella quale i contadini si trovano di fronte alla malattia, dal momento che la campagna tunisina corrisponde a un vero e proprio “deserto sanitario”, dove è estremamente difficile trovare una struttura medica a distanza accettabile e in misura da prendere in carico rapidamente malati in situazione d’urgenza.
Quali sono i rapporti tra i modelli agricoli intensivi e i regimi alimentari dominanti?
Le politiche agricole attuali sono, a parte qualche dettaglio, identiche a quelle introdotte dal potere coloniale sin dall’inizio dell’occupazione. Basate sul principio dei “vantaggi comparativi”, che si sviluppa al principio del XIX secolo, queste politiche agricole integrano due assi fondamentali: A) l’esportazione di prodotti che le condizioni climatiche e geografiche (come l’abbondanza di sole, le scarse risorse idriche, ecc) ma anche salariali (bassi salari, diritti del lavoro, sicurezza sociale ecc…) consentono di ottenere in quantità sufficienti e a basso costo; B) l’importazione di prodotti, come i cereali, che altri paesi producono in quantità più importanti.
In sostanza, noi esportiamo i dessert e gli antipasti, con l’olio d’oliva, e importiamo i piatti principali. Nonostante noi siamo in grado facilmente produrre abbastanza grano per coprire tutte le nostre esigenze se adottiamo politiche agricole orientate al mercato nazionale e locale, di fatto importiamo metà delle nostre esigenze di grano.
Non c’è alcun dubbio sul fatto che la Tunisia non conosce problemi di sicurezza alimentare nel senso di penuria prolungata di prodotti alimentari. Questo grazie alla sua posizione strategica sulla sponda Sud del Mediterraneo, che le permette di essere costantemente sotto la “sorveglianza” ravvicinata di molti altri paesi come la Francia e gli altri paesi europei, che sanno che eventuali problemi politici provocati da una situazione di insicurezza alimentare grave in Tunisia si potrebbero ripercuotere sui paesi del Nord sotto forma di ondate migratorie e violenze politiche che non mancherebbero di verificarsi in un modo o nell’altro. Ma si tratta di una questione di sicurezza alimentare a breve termine che non ci protegge in alcun modo dagli sconvolgimenti del mercato alimentare mondiale né dalle conseguenze di una possibile crisi geopolitica, sanitaria o militare, regionale o globale. D’altra parte, ricordiamo anche che gli embarghi decisi dalle potenze mondiali contro i loro alleati Saddam Houssein in Iraq e Gheddafi nella vicina Libia, mostrano chiaramente che i nostri amici “protettori” di oggi potrebbero trasformarsi in nemici feroci capaci di imporci sanzioni inumane se, per una ragione o per un’altra, lo stato tunisino operasse nuove scelte politiche che non convenissero più a loro. Infine, non soltanto le politiche agricole intensive, dette “di sicurezza alimentare” e orientate verso l’export, non sono in grado di garantire una sicurezza alimentare duratura e indipendente dai movimenti del mercato alimentare mondiale e dalle crisi geopolitiche regionali o globali. Esse partecipano anche fortemente al degrado dell’ambiente, delle risorse naturali e della biodiversità, e al processo di impoverimento generalizzato della società contadina. A livello politico, un paese agricolo che importa l’essenziale per la sua alimentazione è un paese politicamente dipendente e totalmente privato di una qualsivoglia sovranità politica o economica. È un paese che non può scegliere né i propri partner, né i propri modelli di alimentazione, e ancora meno può decidere la propria politica agricola e, più in generale, la propria economia. È un paese privato della dignità. La Tunisia è in questa situazione ed è più che urgente cambiare radicalmente le politiche agricole per avere più libertà, sicurezza, indipendenza, sovranità e dignità. Il covid-19 ci dovrà indurre a prendere questa direzione.
Come possiamo cambiare radicalmente la politica agricola e alimentare per proteggere la biodiversità e il clima?
La funzione e il posto dell’agricoltura nella società e nell’economia devono essere completamente ridefiniti. Per questo, non possiamo evitare un ampio dibattito attorno a questa domanda centrale: “A cosa deve servire l’agricoltura?”. Oggi l’agricoltura tunisina viene utilizzata sempre meno per nutrire la popolazione e sempre di più per accumulare i profitti di una piccola minoranza di investitori e soprattutto per soddisfare le esigenze essenziali o “esotiche” dei consumatori ricchi dei paesi del Nord. Io ricordo sempre lo scandalo assoluto rappresentato dal fatto che la Tunisia è allo stesso tempo uno dei più grandi produttori ed esportatori di olio d’oliva e uno dei primissimi importatori di oli vegetali. Uno scandalo che si eleva all’altezza di un crimine sanitario, ecologico e sociale. Questo non può durare a lungo perché i costi sociali, ecologici ed economici di questa agricoltura “per gli altri” sono sempre più elevati. Noi dobbiamo radicalmente cambiare il paradigma e passare a una politica agricola, sociale, ecologica equa e sostenibile, con la società agricola al cuore del sistema e la sovranità alimentare come esigenza immediata, con obiettivo a breve e medio termine. Dobbiamo categoricamente passare dai vantaggi comparativi ai bisogni imperativi, dalla sicurezza alla sovranità alimentare, dall’importazione alla produzione locale. Per questo, io propongo 5 riforme urgenti da adottare, come prima tappa di un progetto politico globale di sovranità alimentare con le sue dimensioni agricole, sociali, ambientali e climatiche:
1. Una riforma agraria radicale che fissi la dimensione minima a 5 ettari indivisibili (tranne all’interno delle vecchie oasi) e la dimensione massima a 100 ettari, con “stadi” intermedi inversamente proporzionali alla piovosità media: maggiore è la piovosità, minore è la superficie massima.
2. Una ridistribuzione dei terreni di proprietà statale in piccole aree comprese tra cinque e dieci ettari indivisibili (e non “rivendibili” per un periodo di 30 anni o più ai possibili eredi degli ex proprietari) in favore dei contadini senza terra o di quelli con meno di cinque ettari e dei giovani senza lavoro stabile a partire dai figli dei contadini.
3. L’istituzione di un sistema Bonus / Malus ecologico per l’assegnazione di sussidi, crediti e altri aiuti finanziari da parte dello Stato (ad esempio, meno pesticidi e antibiotici e più semi e varietà locali).
4. La sovrattassa o il divieto di esportazione di prodotti agricoli ottenuti attraverso l’irrigazione e sussidi di riserva e aiuti pubblici per la produzione di alimenti agricoli destinati al mercato locale.
5. L’uscita del settore agricolo da tutte le convenzioni internazionali, tra cui ALECA, gli accordi bilaterali e quelli del WTO, in un approccio proattivo alla rottura con il sistema alimentare mondiale e il mercato alimentare globale.
Al netto della (non) volontà politica, il Paese ha tutto ciò di cui abbiamo bisogno per attuare questa riforma vitale nelle migliori condizioni possibili. Allora perché aspettare che una nuova pandemia di grandezza maggiore di quella covid-19 o una grande crisi economica globale per muoverci?
Come rispettare i diritti delle generazioni future a un ambiente sano e vivibile?
È un cambiamento radicale della mentalità dei produttori, dei decisori e dei consumatori che si dovrà affermare per tentare di proteggere i diritti delle generazioni future. Abbiamo questa pretesa criminale di pensare che possiamo vivere contro la natura che avrebbe vocazione a sottomettersi alla nostra “intelligenza” e alle nostre illimitate fantasie di dominio. Ci comportiamo come se fossimo totalmente invulnerabili e dotati di forza soprannaturale. Sfruttiamo eccessivamente le risorse naturali, distruggiamo la biodiversità e l’ambiente, causiamo il riscaldamento globale, consumiamo fino all’obesità fisica e mentale, accumuliamo fortune inimmaginabili e disprezziamo i più deboli e i più fragili tra noi, senza pensare che un semplice terremoto può distruggere un intero paese in meno di una frazione di secondo … Il nostro egoismo individuale e collettivo dà più diritti al capitale che alle generazioni future. Alimentiamo volontariamente il capitalismo piuttosto che le centinaia di milioni di persone che soffrono di povertà, marginalità, denutrizione, malattie e stigmatizzazione… Ci è voluto un virus che ha attraversato il pianeta come una tempesta di pandemia, toccato milioni di soggetti e portato via alcune centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo per ricordarci dell’enormità delle nostre debolezze e dell’insignificanza delle nostre pretese e fantasie di superpotenza. Questa drammatica pandemia risveglierà abbastanza consapevolezza da far emergere una nuova, più modesta e realistica percezione e soprattutto più consapevole delle nostre debolezze collettive e della nostra “piccolezza” di fronte alla grandezza della natura? Lo spero con l’ottimismo della passione e dell’impegno e il pessimismo della ragione. In ogni caso, mi sembra che l’unico modo per proteggere i diritti essenziali delle generazioni future sia quello di porre fine al sistema capitalista che si nutre della miseria di uomini e donne e della distruzione di esseri viventi e natura. L’intangibilità dell’agricoltura e del cibo contro ogni forma di monopolizzazione, accumulazione, dominazione e distruzione massiccia della biodiversità e della vita è un primo passo essenziale e vitale per costruire un nuovo mondo più rispettoso dei diritti delle generazioni presenti e future. Alla scala del nostro paese, le alternative disponibili oggi per proteggere le generazioni future sono molto limitate. Abbiamo la scelta tra: continuare le attuali politiche che rafforzano la nostra dipendenza dall’esterno, impoverire i nostri contadini, distruggere le nostre risorse naturali e il nostro ambiente, partecipare al riscaldamento globale e ignorare i diritti dei nostri figli e nipoti; o adottarne una nuova più equa, più ecologica, più rispettosa della vita e più sovrana, quindi più libera. Questo è l’unico modo per proteggere il paese e il mondo dalla dipendenza, dalle pandemie e dalla distruzione dell’ambiente e della biodiversità.
L’agricoltura contadina e di sussistenza è in grado di nutrire la totalità del pianeta?
Quasi tutte le principali istituzioni internazionali, compresa la FAO, sostengono che l’agricoltura contadina alimenta già l’80% della popolazione, mentre le grandi aziende agroalimentari contribuiscono solo per il 20% all’approvvigionamento alimentare del mondo. Tuttavia, sappiamo che oltre la metà dei terreni agricoli è in mano a meno del 10% di tutti i produttori agricoli, mentre i produttori con meno di 10 ettari utilizzano solo circa un terzo dei terreni agricoli disponibili. È l’espressione più eloquente dell’ingiustizia fondiaria e alimentare. Dovremmo aspettare una crisi alimentare ancora più dura di quella del 2007-2008 o di una carestia, prima di degnarci di pensare a un cambiamento di paradigmi? Dovremmo vivere l’esperienza di un embargo ermetico e totale, come nel caso dell’Iraq di Saddam, per decidere finalmente di produrre tutti i nostri bisogni alimentari a livello locale? La Tunisia ha circa mezzo milione di famiglie contadine, che hanno un know-how straordinario e un livello ineguagliato di conoscenze accumulate di generazione in generazione, di cui non esiste un equivalente nelle scuole più prestigiose. Eppure le sue famiglie sono sempre più escluse e private delle loro risorse naturali e delle loro prime fonti di reddito dall’agroindustria che oppone loro una concorrenza ineguale rispetto alle risorse naturali e ai vari aiuti di stato diretti e indiretti. Se li reinstallassimo nel cuore della politica agricola con un accesso sufficiente e sicuro alle risorse naturali e materiali necessarie, sarebbero in grado di nutrire l’intera popolazione tunisina in condizioni eccellenti e per molti anni a venire. Per fare questo, dobbiamo iniziare ammettendo una cosa semplice: contrariamente a quanto affermano molti esperti e decisori, i contadini non sono vincoli e ostacoli allo sviluppo, ma un’opportunità straordinaria e un favoloso “potenziale” per, allo stesso tempo, costruire una vera politica di sovranità alimentare, sviluppare un’agricoltura destinata a nutrire gli esseri umani, proteggere la biodiversità e le risorse naturali e garantire l’accesso al cibo per tutti, oggi e domani. Non c’è e non può esserci sovranità alimentare e protezione della vita senza i contadini. Prendiamo l’esempio delle sementi locali che stanno scomparendo sempre più rapidamente a favore della nuova industria delle sementi che si suppone essere più redditizia e più in grado di garantire la sicurezza alimentare per la popolazione. In Tunisia c’erano oltre cinquanta diverse varietà di grano che tracciavano una mappa ecologica dei cereali … Oggi nel paese vengono coltivate meno di una dozzina di varietà diverse, principalmente varietà industriali, dette “migliorate”. Che cosa è successo negli ultimi sei o sette decenni? Una vera espropriazione dei contadini, che producevano i propri semi dalle loro colture, e che si sono trovati dipendenti dai mercati delle sementi industriali che richiedono un rinnovamento molto frequente e l’uso di grandi dosi di fertilizzanti e pesticidi … Nel fare questo, i contadini sono passati da uno stato di indipendenza cerealicola alla dipendenza quasi totale. Dunque, i contadini tunisini sono in grado di garantire la sovranità alimentare da soli, a condizione che si trovi una sorta di contratto politico che li riconosca come garanti della sovranità alimentare, della protezione delle risorse naturali, della biodiversità e delle piante e degli animali e contro i cambiamenti climatici, in cambio di uno status sociale ed economico che li protegga da catastrofi naturali e crisi economiche.
Habib Ayeb è stato intervistato da una giornalista del quotidiano tunisino francofono ”La Presse” con la promessa che l’intervista sarebbe stata pubblicata senza alcun taglio. La promessa non è stata mantenuta, il testo è stato tagliato circa del 35% e pubblicato sul quotidiano La Presse . Habib Ayeb ha spiegato anche che è stata amputata della parte più importante, quella che riguarda le riforme che aveva propostoCosì la versione integrale, quella che avete letto qui, è stata ripresa in francese dai nostri amici di Tunisia in Red, che ci hanno cortesemente proposto di pubblicarla anche su Comune con la traduzione e l’adattamento dal francese curato da Bernardo Severgnini.

martedì 21 luglio 2020

Economia NON osservata nei conti nazionali

dalla pagina https://www.istat.it/it/archivio/234323

Nel 2017 il valore aggiunto generato dall’economia non osservata, ovvero dalla somma di economia sommersa e attività illegali, si è attestato a poco meno di 211 miliardi di euro (erano 207,7 nel 2016), con un aumento dell’1,5% rispetto all’anno precedente, segnando una dinamica più lenta rispetto al complesso del valore aggiunto, cresciuto del 2,3%.
L’incidenza dell’economia non osservata sul Pil si è perciò lievemente ridotta portandosi al 12,1% dal 12,2% nel 2016, e confermando la tendenza in atto dal 2014, anno in cui si era raggiunto un picco del 13%. La diminuzione rispetto al 2016 è interamente dovuta alla riduzione del peso della componente riferibile al sommerso economico (dal 11,2% al 11,1%), mentre l’incidenza dell’economia illegale resta stabile (1,1%).
La composizione dell’economia non osservata, ovvero il peso percentuale che ciascuna componente ha sul totale dell’economia non osservata, registra modeste variazioni nell’arco dei quattro anni analizzati. La correzione della sotto-dichiarazione del valore aggiunto risulta essere la componente più rilevante in termini percentuali: nel 2017 pesa il 46,1% (+0,3 punti percentuali rispetto all’anno precedente).
L’insieme delle componenti dell’economia sommersa vale nel 2017 circa 192 miliardi di euro, il 12,3% del valore aggiunto prodotto dal sistema economico: la sotto-dichiarazione vale 97 miliardi, l’impiego di lavoro irregolare 79 miliardi e le componenti residuali 16 miliardi.
Il 41,7% del sommerso economico si concentra nel settore del Commercio all’ingrosso e al dettaglio, trasporti e magazzinaggio, attività di alloggio e ristorazione, dove si genera il 21,4% del valore aggiunto totale.
Nel 2017 sono 3 milioni e 700 mila le unità di lavoro a tempo pieno (ULA) in condizione di non regolarità, occupate in prevalenza come dipendenti (2 milioni e 696 mila unità). L’aumento della componente non regolare (+0,7% rispetto al 2016) segna la ripresa di un fenomeno che nel 2016 si era invece attenuato (-0,7% rispetto al 2015).

lunedì 20 luglio 2020

I dati ufficiali sul gioco d'azzardo in Italia

in attesa dei dati ufficiali completi relativi al 2019 ...

dalla pagina https://www.avvisopubblico.it/home/home/cosa-facciamo/informare/documenti-tematici/gioco-dazzardo/i-primi-dati-sul-gioco-dazzardo-in-italia-nel-2019/

"Il volume di denaro giocato in Italia nel 2019 è aumentato del 3,5%, attestandosi sul valore di 110,5 miliardi di euro. La Raccolta pro-capite (calcolata sulla popolazione maggiorenne residente in Italia) è pari a 2.180 euro"

dalla pagina https://www.avvisopubblico.it/home/home/cosa-facciamo/informare/documenti-tematici/gioco-dazzardo/i-dati-ufficiali-sul-gioco-dazzardo-in-italia-nel-2018/

L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ha reso disponibile nel mese di agosto 2019 il Libro Blu per il 2018 (clicca qui per il documento completo), pubblicazione annuale che riporta i dati principali – Raccolta, Spesa, vincite, incassi erariali – sul mercato del gioco d’azzardo legale in Italia (clicca qui per i dati del 2017).
Glossario
Per “Raccolta” si intende l’ammontare complessivo delle puntate effettuate dalla collettività dei giocatori.  La “Spesa” corrisponde alle perdite dei giocatori ed è data dalla differenza tra “Raccolta” e “Vincite”. Corrisponde inoltre al “Ricavo” della filiera (al lordo delle somme destinate all’Erario). L’“Erario” costituisce l’ammontare totale dell’imposizione fiscale e del differenziale residuale tra Raccolta, Aggi e Vincite dei giochi che entra nelle casse pubbliche.
RACCOLTA, SPESA ED ERARIO – DATI NAZIONALI
Il volume di denaro giocato dagli italiani nel 2018 è aumentato del 5%, attestandosi sul valore di 106,8 miliardi di euro. Stabile la Spesa e in leggera crescita gli incassi erariali. Di seguito la tabella con il confronto degli anni tra il 2015 e il 2018:

RACCOLTA E SPESA SUDDIVISE PER REGIONE
Di seguito la tabella dei volumi di Raccolta e Spesa suddivise per regione. Va sottolineato che il dato si riferisce alla sola rete fisica, escludendo il comparto del gioco online. Come si evince dalla tabella la Raccolta su rete fisica è cresciuta nel 2018 dello 0,8%, mentre la Spesa fa registrare un calo del 1,4%.

GIOCO ONLINE: IL 29.4% DELLA RACCOLTA TOTALE
Prosegue la crescita della Raccolta online (gioco a distanza), aumentata del 47% in appena due anni. La Raccolta online nel 2018 è stata pari a 31,4 miliardi di euro, il 29,4% del giocato complessivo in Italia.

LA RACCOLTA SUDDIVISA PER TIPOLOGIA DI GIOCO
Il 45.5% del giocato si divide fra slot machine o AWP (nella tabella indicate come “Apparecchi”) e VLT (VideoLottery).  Il trend delle due tipologie di gioco è opposto: continua a calare la Raccolta delle slot – anche per effetto della riduzione del numero di apparecchi sul territorio nazionale – mentre cresce il giocato delle VLT, che per la prima volta supera quello delle AWP. Torna a crescere il Lotto, pressoché stabili le Lotterie  – che comprende la tipologia dei cd. “Gratta e Vinci”- . Continua ad aumentare la Raccolta per i giochi a base sportiva.

DISTRIBUZIONE TERRITORIALE DI SLOT MACHINE E VIDEOLOTTERY
(al 31 dicembre 2018)
263.322 le slot machine presenti sul territorio nazionale alla fine dello scorso anno. Nel giugno 2018 l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli aveva annunciato in una nota di aver completato la prevista riduzione del 35%, per un totale di 259.130 slot presenti sul territorio nazionale. Pertanto in sei mesi il numero di slot è aumentato dell’1,5%.
56.967 le VLT presenti in Italia al 31 dicembre 2018, in aumento del 2% rispetto all’anno precedente.

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