giovedì 30 luglio 2020

Addio al permafrost

"Il permafrost è terreno, sia suolo che roccia, che rimane congelato per almeno 2 anni, presente su un quinto di tutte le terre emerse, di uno spessore che può variare da un metro a oltre un chilometro"

dalla pagina https://ilmanifesto.it/addio-al-permafrost/

L’esperto italiano Renato Colucci: «Se il terreno scongela, viene giù tutto, come in Alaska o sul Monviso. E si producono gas serra»



C’è un filo rosso che lega una delle peggiori catastrofi ecologiche avvenute in Siberia (lo sversamento di 20 mila tonnellate di gasolio in un fiume), la distruzione di siti archeologici in Alaska, probabilmente anche le frane che si stanno verificando sul Monviso e l’aumento delle emissioni di gas serra in atmosfera: sono tutti fenomeni legati allo scongelamento del permafrost. Il permafrost è terreno, sia suolo che roccia, che rimane congelato per almeno 2 anni, presente su un quinto di tutte le terre emerse, di uno spessore che può variare da un metro a oltre un chilometro. L’aumento delle temperature lo sta degradando, e le conseguenze sono estremamente serie, come ci spiega Renato R. Colucci, ricercatore del Cnr di Trieste, referente italiano dell’International Permafrost Association per conto del Comitato Glaciologico Italiano.
Dottor Colucci, cosa succede al permafrost?
Nelle regioni artiche da decenni registriamo temperature che aumentano molto più rapidamente rispetto al resto del globo. Il problema non sono i picchi di calore, come i 38°C registrati oltre il Circolo Polare artico qualche settimana fa, che fanno sicuramente notizia, ma essendo un singolo evento meteorologico, di durata limitata, non intaccano il permafrost. A determinare la degradazione del permafrost è la variazione della temperatura media, anche di pochi decimi di grado, in tempi lunghi. A questo si aggiunga che, a causa dell’aumento della temperatura globale, anche gli oceani sono più caldi. Tutto ciò aumenta la disponibilità di vapore acqueo in atmosfera, con il risultato che in Artico negli ultimi decenni sono aumentate le precipitazioni nevose. La neve fa da isolante: poiché contiene tanta aria, il manto nevoso impedisce la penetrazione del freddo nel terreno e porta alla degradazione del permafrost.
Cosa succede quando il permafrost scongela?
Il permafrost è terreno congelato, duro come il marmo. Nella regione polare fa da fondamenta alle costruzioni e alle infrastrutture. Se scongela, le fondamenta non reggono più, crolla tutto, come è successo alla cisterna di gasolio in Siberia e come sta succedendo in varie regioni artiche con effetti più o meno evidenti. Inoltre, là dove il permafrost contiene anche ghiaccio, se questo fonde porta alla formazione di voragini che determinano altri cedimenti del terreno. Nelle zone costiere il fenomeno si accentua perché il permafrost viene attaccato anche dall’azione del mare che può erodere chilometri di costa all’anno. Questo, se vogliamo, è solo l’aspetto ingegneristico del problema.
La degradazione del permafrost fa temere per le emissioni di gas ad effetto serra, perché?
La parte più superficiale del permafrost, quella più esposta allo scongelamento, è anche quella che contiene la maggior parte della materia organica presente nel terreno. Al suo interno troviamo metano in forma di bolle e materiale organico non ancora decomposto che comincia a degradarsi e a produrre altro metano e anidride carbonica. Quindi, assistiamo all’emissione in atmosfera di enormi quantità di gas ad effetto serra di origine naturale, ma indotto dall’azione antropica. È un fenomeno che si è già verificato nella storia del pianeta: dopo la grande glaciazione, 20 mila anni fa, sappiamo che lo scongelamento del permafrost ha fatto accelerare la concentrazione di gas serra in atmosfera e la risalita della temperatura è diventata più rapida. Questo però è successo nell’arco di migliaia di anni. Ora invece la temperatura sta aumentando a velocità mai vista, con gli effetti che stiamo sperimentando. Il problema è che il tema della decarbonizzazione dell’atmosfera non viene ancora messo in pratica seriamente, ma si continua ad agire cercando dei palliativi, come stendere teli bianchi sui ghiacciai per non farli scomparire o piantare alberi per rinfrescare le città, interventi che, francamente, non agiscono alla fonte del problema e servono a poco, per adattarsi, temporaneamente ad un clima che cambia stabilmente.
Ma c’è qualche vantaggio per le regioni artiche?
Per chi ragiona a breve termine e intende accumulare denaro a scapito di miliardi di persone che rischiano di non avere futuro… sì, qualche vantaggio ci potrebbe essere. Ci sono zone dell’Artico che stanno diventando più vivibili con l’aumento delle temperature. Il tema dello sfruttamento delle zone artiche è molto attuale, c’è molta attenzione da quando ci si è resi conto quante risorse minerarie contengono. I paesi scandinavi, per fare un esempio, sanno bene che il futuro è lì, non certo in molti paesi che si affacciano sul Mediterraneo dove tra 100 anni il mare si sarà verosimilmente innalzato di un metro, mentre gran parte delle coste artiche non subiranno gli effetti dell’innalzamento del livello del mare grazie al fenomeno del rimbalzo isostatico, l’innalzamento della crosta terrestre, che si verifica alla fine della glaciazione, che compensa l’innalzamento del livello del mare.
Sulle Alpi c’è del permafrost, cosa dobbiamo aspettarci?
Anche nell’arco alpino il permafrost si sta degradando, soprattutto dove la fusione del ghiaccio, che può essere presente nel permafrost, fa perdere coesione alla roccia e determina crolli di intere pareti montane. Non tutte le frane si verificano per questo motivo, ma si osservano sempre più crolli dovuti alla degradazione del permafrost, in particolare oltre i 3 mila metri, come quello del Monviso ai primi di luglio. Ci sono problemi per i rifugi di alta quota, ci sono vie alpinistiche che sono diventate inagibili per pericolo di crolli. Non è una novità.
Cosa ne pensa dello sviluppo del turismo nelle zone polari?
Sono contrario.
Cosa fare per salvare l’Artico?
Non invaderlo. E decarbonizzare l’atmosfera.