Dall'industria alla filiera umana
L’ambiente è la casa comune non solo da preservare ma da rigenerare: la sua vivibilità riguarda tutti, ed è per questo che anche l’agricoltura ne è parte
Agricoltore in Etiopia © LaPresse
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Il rapido sviluppo da dopo la seconda guerra mondiale delle tecniche agricole e dell’impiego della chimica di sintesi, insieme alla intensivizzazione degli allevamenti animali hanno permesso una grande crescita della produttività ma al costo di un impatto ambientale non sostenibile e di un consumo, in certi casi irrimediabile, delle risorse limitate del nostro pianeta.
Il consumo smodato e sempre solo estrattivo di risorse, la deforestazione e l’inquinamento di terra, compresa la sua fertilità, acqua ed aria, insieme alla forzatura biologica degli allevamenti intensivi, hanno contribuito ad un oggettivo squilibrio del pianeta. In una parola l’industrializzazione spinta dell’agricoltura, ovvero dei suoi processi biologici ed ecosistemici, ne ha modificato la natura e gli scopi.
La caratteristiche nutrizionali di molti prodotti alimentari sono cambiate provocando spesso intolleranze quando non vere patologie, la destinazione di intere aree continentali alla produzione di soia e mais destinate all’alimentazione animale dei paesi più ricchi (60% della s.a.u. del pianeta), la marginalizzazione del ruolo dei contadini sempre più impoveriti quando non assistiti oltre alla più totale sconsiderazione del e il lavoro bracciantile ridotto ovunque a schiavitù sono parte del prezzo pagato da questo approccio. al pianeta ed alle sue risorse, comprese quelle umane ed animali, di puro inesauribile sfruttamento.
Con le conseguenze ambientali e sociali sotto gli occhi di tutti.
Ma l’agricoltura è il modo in cui degli esseri umani di relazionarsi si relazionano alla natura: non per prenderne non il sopravvento ma il necessario per vivere. e fare vivere. E L’ambiente è la casa comune non solo da preservare ma da rigenerare: la sua vivibilità riguarda tutti ed è per questo che anche l’agricoltura, che ne è parte, riguarda tutti.
1) Ricontadinizziamo l’agricoltura.
Partendo dalle aree marginali ed in via di abbandono la presenza di una agricoltura di piccole e medie dimensioni è l’unica che può, se a tale scopo indirizzata (come lo è nelle nuove generazioni) unire produzioni di qualità e presidio del territorio. Ovvero produrre una buona qualità nutrizionale delle derrate agricole ed animali operando in senso agroecologico, includendo in modo mirato ed evoluto la manutenzione e salvaguardia del territorio e la dimensione paesaggistica. Riportare lavoro pulito e sano in modo nuovo e sostenibile, in rete, connessi non solo digitalmente – condizione ineludibile – con le comunità e le amministrazioni locali, operando nell’ecoturismo e fruendo di tecniche di precisione applicate al territorio ed all’agricoltura più che alle economie di scala, diviene condizione fondamentale per ristabilire non solo la vita e vivibilità ma per costituire il motore di una nuova economia basata non sulla competizione con le grandi commodity.
2) Per un reddito di contadinanza.
I nuovi contadini, che operano in un indirizzo agro- ecologico e di rigenerazione ambientale divengono a tutti gli effetti i guardiani dell’ambiente e del paesaggio, riferimento delle città metropolitane inclusive di una nuova relazione città-campagna. Per loro, per questa funzione operativa programmata e monitorata dalle comunità locali è fondamentale prevedere un reddito svincolato dalla produzione e vincolato alla rigenerazione territoriale e paesaggistica fondata sulla biodiversità. Tale funzione si rivolge con priorità alle aree interne e in via di spopolamento, ma riguarda tutta l’agricoltura.
3) Per una trasformazione dei prodotti diffusa sui territori. Fuori dalla concentrazione alimentare del nostro tempo.
Le moderne tecnologie informatiche consentono il trasferimento di know how molto veloce e ad oggi è possibile la sperimentazione di fabbriche diffuse sul territorio di trasformazione di prodotti alimentari. Aprire piccoli medi centri di lavorazione delle principali produzioni agricole come i mulini e lavorazioni del grano, del latte, di macelli è oggi possibile con un alto livello tecnologico – distribuito digitalmente – in grado di preservare e valorizzare le biodiversità e tipicità locali, le scelte nutrizionali volute, le qualità specifiche e delle persone che li abitano. Consentendo ai territori di non essere più centri di estrazione di valore ma di implementazione dello stesso.
4) Per una riforma agroambientale in Europa e nel pianeta.
La nostra critica verso la PAC di questi ultimi lustri è molto forte, poiché ha aumentato in modo molto forte l’agroindustria concentrandola in sempre meno mani e contribuito a sviluppare una schiacciante economia di scala che ha ridotto gli agricoltori ed allevatori a meri esecutori di una politica economica mirata al massimo ribasso di costi e massima produttività dei campi. Con un impegno immutato di chimica di sintesi che ha avvelenato acqua ed aria, oltre che compromesso molti cibi. Tale politica deve cambiare radicalmente, non serve più finanziare la grande industria alimentare ipertrofica, né continuare ad estrarre valore da territori ormai esausti: si è consumato un pianeta in questo modo. Come è tempo di prendere in modo diretto le distanze da una agricoltura assistita, bancaria e speculativa, tutta solo meccanizzata e privata di qualunque elemento umano e solo strumentale alla politica delle grandi corporation che detengono i monopoli di semi, varietà manipolate geneticamente, prodotti chimici di sintesi, antibiotici animali.
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sugli stessi temi, leggi anche:
- Per una seconda riforma agraria, questa volta ambientale
- I guardiani del territorio dissipato dalla «modernità»
- Le buone ragioni dell’agricoltura
- Tornare alla terra è l’alternativa
- La terra e il sapere
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C’è voluto un virus che attraversa il pianeta come una tormenta, contagia milioni di persone, portandosene via centinaia di migliaia, per ricordarci l’enormità delle nostre debolezze e l’insignificanza delle nostre pretese di specie superpotente. Abbiamo la pretesa criminale di pensare che possiamo vivere contro la natura, la quale dovrebbe sottomettersi alla nostra “intelligenza” e alle nostre illimitate fantasie di dominio. Ci comportiamo come se fossimo invulnerabili e dotati di forze soprannaturali. Sfruttiamo, insaziabili, le risorse naturali, distruggiamo la biodiversità e l’ambiente, causiamo il riscaldamento globale, consumiamo fino all’obesità fisica e mentale, accumuliamo fortune inimmaginabili e disprezziamo i più deboli e i più fragili tra noi, senza pensare che un semplice terremoto può distruggere un intero paese in meno di un secondo. Il nostro egoismo individuale e collettivo dà più diritti all’accumulazione di denaro che alle generazioni future. Scegliamo di alimentare il capitalismo piuttosto che le centinaia di milioni di persone che soffrono di povertà, marginalità, denutrizione, malattie e stigmatizzazione. La pandemia ha mostrato chiaramente i rapporti stretti tra i modelli agricoli intensivi, la deforestazione, la distruzione dell’ambiente e della biodiversità, i cambiamenti climatici e la comparsa dei virus. C’è una concatenazione di cause ed effetti che si riprodurrà automaticamente finché l’agricoltura resterà produttivista e capitalista. La strada per l’apparizione di virus nuovi finora sconosciuti, perché naturalmente confinati in foreste inaccessibili, ma oggi liberati a causa della deforestazione, è aperta. Vogliamo aspettare nuove pandemie per deciderci a un cambiamento radicale di rotta e di sistema, della mentalità dei produttori, di chi decide e dei consumatori? Se lo domanda, in questa lunga intervista di grande interesse, Habib Ayeb, geografo tunisino che insegna all’Università di Parigi, tra i fondatori dell’Osservatorio sulla Sovranità Alimentare e l’Ambiente
foto tratta da Tunisia in Red |
A margine di una conferenza on-line organizzata dall’Osservatorio Tunisino per l’Acqua (OTE) sul tema: “Quali strategie e approcci per promuovere un’agricoltura resiliente e sostenibile e una sovranità alimentare nel contesto post Covid-19?”, La Presse ha contattato il professor Habib Ayeb, geografo, professore emerito all’Università di Parigi VIII a Saint Denis. I suoi lavori, le sue ricerche e pubblicazioni si basano essenzialmente sulle questioni rurali, agrarie, contadine, alimentari ed ecologiche, con la dimensione sociale come filo conduttore di riflessione e analisi che permette di comparare situazioni diverse e variegate.
Ayeb è membro fondatore dell’Osservatorio sulla Sovranità Alimentare e l’Ambiente (OSAE). OSAE è un’organizzazione associativa senza scopo di lucro che rivendica un’indipendenza totale da tutti i movimenti politici. La sua missione è produrre conoscenze attraverso progetti di ricerca accademici sulle questioni relative alla sovranità alimentare, l’ambiente, il clima, la giustizia sociale ed ecologica. In tal modo essa contribuisce a sviluppare delle solide istanze in favore delle realtà contadine, del diritto d’accesso alle risorse, della sovranità alimentare, delle sementi e delle varietà locali che si declinano a tutte le scale, dall’individuale al collettivo, dal locale al globale, senza dimenticare la grande tematica del cambiamento climatico e delle sue conseguenze.
Professor Ayeb, esiste una relazione tra i cambiamenti climatici e la pandemia di Covid-19?
Il cambiamento climatico non cade dal cielo. È un prodotto diretto delle nostre politiche economiche neo liberiste in generale, e in gran parte delle politiche agricole basate su un modello capitalista, intensivo, produttivista, orientato all’esportazione e che consuma grandi quantità di energia, di fertilizzanti chimici, di pesticidi, di antibiotici, di risorse naturali, dall’acqua alla terra. Noi sappiamo che il settore agricolo contribuisce a oltre il 22% dell’emissione globale di CO2, responsabile del riscaldamento climatico. Certo, il contributo della Tunisia al cambiamento climatico resta incomparabile con quello dei paesi industrializzati, ma la deregolamentazione climatica si produce a una scala globale e non prende in considerazione la parte di responsabilità di questo o quel paese. E lo stesso vale per altri fenomeni di distruzione della natura e della vita che colpiscono indistintamente tutte le regioni del mondo.
Alla stessa maniera, il Covid – 19, che è stato individuato per la prima volta in Cina nel dicembre 2019, ha coinvolto tutte le regioni del mondo in tempo record, giusto qualche settimana, con più di 8 milioni di contagi e oltre 300.000 morti (oltre 11 milioni e più di 500 mila morti al 5 luglio 20202, ndr). Mai, nella storia conosciuta, una pandemia ha colpito tanto rapidamente la totalità del pianeta. Molti biologi, tra cui Rob Wallace e altri, dimostrano che la deforestazione intensiva, di cui necessita l’allevamento intensivo, l’estensione delle monocolture industriali (ad esempio il mais che serve a produrre l’etanolo, il “petrolio verde”, o l’olio di palma ecc…) e lo sviluppo dell’industria del legno, hanno raggiunto zone quasi totalmente inaccessibili nel cuore delle grandi foreste. Queste pratiche produttiviste hanno così liberato molti germi sconosciuti, tra cui virus, e facilitato il loro spostamento attraverso il globo approfittando della mobilità umana e animale permessa dai vari mezzi di trasporto, sempre più rapidi e frequenti.
Per riassumere, è un processo complesso, indotto dal sistema economico capitalista e in particolare dall’agricoltura capitalista, che si traduce particolarmente nel riscaldamento accelerato del clima, nella distruzione massiva della biodiversità animale e vegetale, e nella comparsa di nuovi virus, per nascita, per mutazione e per sconfinamento forzato dalle proprie zone naturali originarie.
Quindi, la pandemia del Covid-19 lascia vedere chiaramente i rapporti stretti tra i modelli agricoli intensivi, la deforestazione, la distruzione dell’ambiente e della biodiversità, i cambiamenti climatici e la comparsa dei virus. C’è una concatenazione di cause ed effetti che si riprodurrà automaticamente finché l’agricoltura resterà produttivista e capitalista. La scomparsa massiva delle api, essenzialmente causata dall’uso di pesticidi, apre la strada all’apparizione di virus nuovi fino ad ora sconosciuti, perché naturalmente confinati dentro foreste isolate ed inaccessibili, ma oggi liberati a causa della deforestazione. La scelta è dunque tra due sole alternative possibili: la prima è di continuare a intraprendere e rinforzare le politiche agricole intensive e dunque a esporre l’intera umanità, a cominciare dai più fragili, vulnerabili e indigenti, a rischi estremamente gravi, per la sanità individuale e collettiva e allo stesso tempo per le libertà individuali e collettive. La seconda è cambiare radicalmente le politiche agricole e alimentari nel ri-orientamento verso un equilibrio indispensabile tra il nutrire gli umani, proteggere la biodiversità e il clima e rispettare i diritti delle generazioni future a un ambiente sano e vivibile. Un’agricoltura che esce dalla logica del profitto e dell’insicurezza alimentare per una alimentazione rispettosa della salute, della vita e della giustizia. Un’agricoltura contadina e frugale al cuore delle politiche e delle strategie, purificata e liberata dagli investimenti speculativi e da tutte le attività estrattive.
Quali sono i problemi riscontrati dai contadini e dalle contadine a reddito limitato?
I contadini e le contadine senza terra hanno particolarmente sofferto degli effetti della pandemia e del lock-down. Prima di tutto, bisogna ricordare che la maggior parte (circa il 70%) dei redditi dei contadini deriva dall’esterno delle loro aziende, a causa del loro accesso limitato alle risorse naturali, come l’acqua e la terra, ma anche alle risorse materiali, come il credito e le assicurazioni, che non permettono di garantire un reddito in grado di coprire l’insieme dei bisogno di base delle famiglie. La femminizzazione massiva del lavoro agricolo dentro e fuori dalle aziende è una conseguenza della competizione per le risorse tra l’agricoltura contadina e l’agro-business. Questa è soprattutto la prova dell’impoverimento generalizzato dei contadini. In situazione di pandemia e lockdown, molte centinaia di famiglie si sono trovate senza reddito e senza risorse, e fortemente esposte a rischi di sotto-nutrizione e/o di malnutrizione. Le loro sole alternative sono state: o trasgredire gli ordini di confinamento e rischiare di esporsi a sanzioni più o meno salate; oppure, rispettare gli ordini di confinamento ed esporsi all’insicurezza alimentare. Altre frange indigenti della società si sono trovate in situazioni analoghe. Le semi-rivolte per la farina o la semola in pieno lockdown non sono state altro che l’emblema dell’impossibilità di scegliere tra il rischio di prendere il virus e quello di soffrire la fame. Una situazione drammatica che molti abitanti delle città, più o meno ricchi, non riuscivano a cogliere. Inoltre, durante il lockdown molti contadini non hanno potuto fare i loro raccolti e soprattutto molti altri non hanno potuto acquistare le sementi o le piante che avevano l’abitudine di seminare o piantare tra marzo, aprile e maggio. In particolare è il caso di pomodori, cocomeri e altre cucurbitacee. Questo vuol dire che gli effetti economici indiretti della pandemia si prolungheranno fino alla fine dell’estate e certamente oltre. Quindi, se per qualcuno la riapertura significa semplicemente la fine del confinamento “fisico”, per altri la riapertura non è che una tappa della crisi che sono e saranno obbligati ad affrontare a tasche e mani vuote. E non voglio nemmeno parlare della situazione di disuguaglianza nella quale i contadini si trovano di fronte alla malattia, dal momento che la campagna tunisina corrisponde a un vero e proprio “deserto sanitario”, dove è estremamente difficile trovare una struttura medica a distanza accettabile e in misura da prendere in carico rapidamente malati in situazione d’urgenza.
Quali sono i rapporti tra i modelli agricoli intensivi e i regimi alimentari dominanti?
Le politiche agricole attuali sono, a parte qualche dettaglio, identiche a quelle introdotte dal potere coloniale sin dall’inizio dell’occupazione. Basate sul principio dei “vantaggi comparativi”, che si sviluppa al principio del XIX secolo, queste politiche agricole integrano due assi fondamentali: A) l’esportazione di prodotti che le condizioni climatiche e geografiche (come l’abbondanza di sole, le scarse risorse idriche, ecc) ma anche salariali (bassi salari, diritti del lavoro, sicurezza sociale ecc…) consentono di ottenere in quantità sufficienti e a basso costo; B) l’importazione di prodotti, come i cereali, che altri paesi producono in quantità più importanti.
In sostanza, noi esportiamo i dessert e gli antipasti, con l’olio d’oliva, e importiamo i piatti principali. Nonostante noi siamo in grado facilmente produrre abbastanza grano per coprire tutte le nostre esigenze se adottiamo politiche agricole orientate al mercato nazionale e locale, di fatto importiamo metà delle nostre esigenze di grano.
Non c’è alcun dubbio sul fatto che la Tunisia non conosce problemi di sicurezza alimentare nel senso di penuria prolungata di prodotti alimentari. Questo grazie alla sua posizione strategica sulla sponda Sud del Mediterraneo, che le permette di essere costantemente sotto la “sorveglianza” ravvicinata di molti altri paesi come la Francia e gli altri paesi europei, che sanno che eventuali problemi politici provocati da una situazione di insicurezza alimentare grave in Tunisia si potrebbero ripercuotere sui paesi del Nord sotto forma di ondate migratorie e violenze politiche che non mancherebbero di verificarsi in un modo o nell’altro. Ma si tratta di una questione di sicurezza alimentare a breve termine che non ci protegge in alcun modo dagli sconvolgimenti del mercato alimentare mondiale né dalle conseguenze di una possibile crisi geopolitica, sanitaria o militare, regionale o globale. D’altra parte, ricordiamo anche che gli embarghi decisi dalle potenze mondiali contro i loro alleati Saddam Houssein in Iraq e Gheddafi nella vicina Libia, mostrano chiaramente che i nostri amici “protettori” di oggi potrebbero trasformarsi in nemici feroci capaci di imporci sanzioni inumane se, per una ragione o per un’altra, lo stato tunisino operasse nuove scelte politiche che non convenissero più a loro. Infine, non soltanto le politiche agricole intensive, dette “di sicurezza alimentare” e orientate verso l’export, non sono in grado di garantire una sicurezza alimentare duratura e indipendente dai movimenti del mercato alimentare mondiale e dalle crisi geopolitiche regionali o globali. Esse partecipano anche fortemente al degrado dell’ambiente, delle risorse naturali e della biodiversità, e al processo di impoverimento generalizzato della società contadina. A livello politico, un paese agricolo che importa l’essenziale per la sua alimentazione è un paese politicamente dipendente e totalmente privato di una qualsivoglia sovranità politica o economica. È un paese che non può scegliere né i propri partner, né i propri modelli di alimentazione, e ancora meno può decidere la propria politica agricola e, più in generale, la propria economia. È un paese privato della dignità. La Tunisia è in questa situazione ed è più che urgente cambiare radicalmente le politiche agricole per avere più libertà, sicurezza, indipendenza, sovranità e dignità. Il covid-19 ci dovrà indurre a prendere questa direzione.
Come possiamo cambiare radicalmente la politica agricola e alimentare per proteggere la biodiversità e il clima?
La funzione e il posto dell’agricoltura nella società e nell’economia devono essere completamente ridefiniti. Per questo, non possiamo evitare un ampio dibattito attorno a questa domanda centrale: “A cosa deve servire l’agricoltura?”. Oggi l’agricoltura tunisina viene utilizzata sempre meno per nutrire la popolazione e sempre di più per accumulare i profitti di una piccola minoranza di investitori e soprattutto per soddisfare le esigenze essenziali o “esotiche” dei consumatori ricchi dei paesi del Nord. Io ricordo sempre lo scandalo assoluto rappresentato dal fatto che la Tunisia è allo stesso tempo uno dei più grandi produttori ed esportatori di olio d’oliva e uno dei primissimi importatori di oli vegetali. Uno scandalo che si eleva all’altezza di un crimine sanitario, ecologico e sociale. Questo non può durare a lungo perché i costi sociali, ecologici ed economici di questa agricoltura “per gli altri” sono sempre più elevati. Noi dobbiamo radicalmente cambiare il paradigma e passare a una politica agricola, sociale, ecologica equa e sostenibile, con la società agricola al cuore del sistema e la sovranità alimentare come esigenza immediata, con obiettivo a breve e medio termine. Dobbiamo categoricamente passare dai vantaggi comparativi ai bisogni imperativi, dalla sicurezza alla sovranità alimentare, dall’importazione alla produzione locale. Per questo, io propongo 5 riforme urgenti da adottare, come prima tappa di un progetto politico globale di sovranità alimentare con le sue dimensioni agricole, sociali, ambientali e climatiche:
1. Una riforma agraria radicale che fissi la dimensione minima a 5 ettari indivisibili (tranne all’interno delle vecchie oasi) e la dimensione massima a 100 ettari, con “stadi” intermedi inversamente proporzionali alla piovosità media: maggiore è la piovosità, minore è la superficie massima.
2. Una ridistribuzione dei terreni di proprietà statale in piccole aree comprese tra cinque e dieci ettari indivisibili (e non “rivendibili” per un periodo di 30 anni o più ai possibili eredi degli ex proprietari) in favore dei contadini senza terra o di quelli con meno di cinque ettari e dei giovani senza lavoro stabile a partire dai figli dei contadini.
3. L’istituzione di un sistema Bonus / Malus ecologico per l’assegnazione di sussidi, crediti e altri aiuti finanziari da parte dello Stato (ad esempio, meno pesticidi e antibiotici e più semi e varietà locali).
4. La sovrattassa o il divieto di esportazione di prodotti agricoli ottenuti attraverso l’irrigazione e sussidi di riserva e aiuti pubblici per la produzione di alimenti agricoli destinati al mercato locale.
5. L’uscita del settore agricolo da tutte le convenzioni internazionali, tra cui ALECA, gli accordi bilaterali e quelli del WTO, in un approccio proattivo alla rottura con il sistema alimentare mondiale e il mercato alimentare globale.
Al netto della (non) volontà politica, il Paese ha tutto ciò di cui abbiamo bisogno per attuare questa riforma vitale nelle migliori condizioni possibili. Allora perché aspettare che una nuova pandemia di grandezza maggiore di quella covid-19 o una grande crisi economica globale per muoverci?
Come rispettare i diritti delle generazioni future a un ambiente sano e vivibile?
È un cambiamento radicale della mentalità dei produttori, dei decisori e dei consumatori che si dovrà affermare per tentare di proteggere i diritti delle generazioni future. Abbiamo questa pretesa criminale di pensare che possiamo vivere contro la natura che avrebbe vocazione a sottomettersi alla nostra “intelligenza” e alle nostre illimitate fantasie di dominio. Ci comportiamo come se fossimo totalmente invulnerabili e dotati di forza soprannaturale. Sfruttiamo eccessivamente le risorse naturali, distruggiamo la biodiversità e l’ambiente, causiamo il riscaldamento globale, consumiamo fino all’obesità fisica e mentale, accumuliamo fortune inimmaginabili e disprezziamo i più deboli e i più fragili tra noi, senza pensare che un semplice terremoto può distruggere un intero paese in meno di una frazione di secondo … Il nostro egoismo individuale e collettivo dà più diritti al capitale che alle generazioni future. Alimentiamo volontariamente il capitalismo piuttosto che le centinaia di milioni di persone che soffrono di povertà, marginalità, denutrizione, malattie e stigmatizzazione… Ci è voluto un virus che ha attraversato il pianeta come una tempesta di pandemia, toccato milioni di soggetti e portato via alcune centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo per ricordarci dell’enormità delle nostre debolezze e dell’insignificanza delle nostre pretese e fantasie di superpotenza. Questa drammatica pandemia risveglierà abbastanza consapevolezza da far emergere una nuova, più modesta e realistica percezione e soprattutto più consapevole delle nostre debolezze collettive e della nostra “piccolezza” di fronte alla grandezza della natura? Lo spero con l’ottimismo della passione e dell’impegno e il pessimismo della ragione. In ogni caso, mi sembra che l’unico modo per proteggere i diritti essenziali delle generazioni future sia quello di porre fine al sistema capitalista che si nutre della miseria di uomini e donne e della distruzione di esseri viventi e natura. L’intangibilità dell’agricoltura e del cibo contro ogni forma di monopolizzazione, accumulazione, dominazione e distruzione massiccia della biodiversità e della vita è un primo passo essenziale e vitale per costruire un nuovo mondo più rispettoso dei diritti delle generazioni presenti e future. Alla scala del nostro paese, le alternative disponibili oggi per proteggere le generazioni future sono molto limitate. Abbiamo la scelta tra: continuare le attuali politiche che rafforzano la nostra dipendenza dall’esterno, impoverire i nostri contadini, distruggere le nostre risorse naturali e il nostro ambiente, partecipare al riscaldamento globale e ignorare i diritti dei nostri figli e nipoti; o adottarne una nuova più equa, più ecologica, più rispettosa della vita e più sovrana, quindi più libera. Questo è l’unico modo per proteggere il paese e il mondo dalla dipendenza, dalle pandemie e dalla distruzione dell’ambiente e della biodiversità.
L’agricoltura contadina e di sussistenza è in grado di nutrire la totalità del pianeta?
Quasi tutte le principali istituzioni internazionali, compresa la FAO, sostengono che l’agricoltura contadina alimenta già l’80% della popolazione, mentre le grandi aziende agroalimentari contribuiscono solo per il 20% all’approvvigionamento alimentare del mondo. Tuttavia, sappiamo che oltre la metà dei terreni agricoli è in mano a meno del 10% di tutti i produttori agricoli, mentre i produttori con meno di 10 ettari utilizzano solo circa un terzo dei terreni agricoli disponibili. È l’espressione più eloquente dell’ingiustizia fondiaria e alimentare. Dovremmo aspettare una crisi alimentare ancora più dura di quella del 2007-2008 o di una carestia, prima di degnarci di pensare a un cambiamento di paradigmi? Dovremmo vivere l’esperienza di un embargo ermetico e totale, come nel caso dell’Iraq di Saddam, per decidere finalmente di produrre tutti i nostri bisogni alimentari a livello locale? La Tunisia ha circa mezzo milione di famiglie contadine, che hanno un know-how straordinario e un livello ineguagliato di conoscenze accumulate di generazione in generazione, di cui non esiste un equivalente nelle scuole più prestigiose. Eppure le sue famiglie sono sempre più escluse e private delle loro risorse naturali e delle loro prime fonti di reddito dall’agroindustria che oppone loro una concorrenza ineguale rispetto alle risorse naturali e ai vari aiuti di stato diretti e indiretti. Se li reinstallassimo nel cuore della politica agricola con un accesso sufficiente e sicuro alle risorse naturali e materiali necessarie, sarebbero in grado di nutrire l’intera popolazione tunisina in condizioni eccellenti e per molti anni a venire. Per fare questo, dobbiamo iniziare ammettendo una cosa semplice: contrariamente a quanto affermano molti esperti e decisori, i contadini non sono vincoli e ostacoli allo sviluppo, ma un’opportunità straordinaria e un favoloso “potenziale” per, allo stesso tempo, costruire una vera politica di sovranità alimentare, sviluppare un’agricoltura destinata a nutrire gli esseri umani, proteggere la biodiversità e le risorse naturali e garantire l’accesso al cibo per tutti, oggi e domani. Non c’è e non può esserci sovranità alimentare e protezione della vita senza i contadini. Prendiamo l’esempio delle sementi locali che stanno scomparendo sempre più rapidamente a favore della nuova industria delle sementi che si suppone essere più redditizia e più in grado di garantire la sicurezza alimentare per la popolazione. In Tunisia c’erano oltre cinquanta diverse varietà di grano che tracciavano una mappa ecologica dei cereali … Oggi nel paese vengono coltivate meno di una dozzina di varietà diverse, principalmente varietà industriali, dette “migliorate”. Che cosa è successo negli ultimi sei o sette decenni? Una vera espropriazione dei contadini, che producevano i propri semi dalle loro colture, e che si sono trovati dipendenti dai mercati delle sementi industriali che richiedono un rinnovamento molto frequente e l’uso di grandi dosi di fertilizzanti e pesticidi … Nel fare questo, i contadini sono passati da uno stato di indipendenza cerealicola alla dipendenza quasi totale. Dunque, i contadini tunisini sono in grado di garantire la sovranità alimentare da soli, a condizione che si trovi una sorta di contratto politico che li riconosca come garanti della sovranità alimentare, della protezione delle risorse naturali, della biodiversità e delle piante e degli animali e contro i cambiamenti climatici, in cambio di uno status sociale ed economico che li protegga da catastrofi naturali e crisi economiche.
Habib Ayeb è stato intervistato da una giornalista del quotidiano tunisino francofono ”La Presse” con la promessa che l’intervista sarebbe stata pubblicata senza alcun taglio. La promessa non è stata mantenuta, il testo è stato tagliato circa del 35% e pubblicato sul quotidiano La Presse . Habib Ayeb ha spiegato anche che è stata amputata della parte più importante, quella che riguarda le riforme che aveva proposto. Così la versione integrale, quella che avete letto qui, è stata ripresa in francese dai nostri amici di Tunisia in Red, che ci hanno cortesemente proposto di pubblicarla anche su Comune con la traduzione e l’adattamento dal francese curato da Bernardo Severgnini.