Intervista. Il vescovo di Bologna Matteo Zuppi: la solidarietà è un principio costitutivo della Ue. È una scelta decisiva per la sua credibilità. Dobbiamo ricostruire con passione un mondo migliore e più giusto per tutti, perché è il contrario della pandemia che dobbiamo scegliere
Il cardinale Matteo Zuppi
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Vescovo di Bologna dal 2015 e recentemente creato cardinale, Matteo Zuppi si è fatto conoscere per la semplicità e l’acume della sua pastorale, da sempre molto attenta alle problematiche sociali.
Quattro anni fa ci siamo trovati insieme al centro sociale Tpo per commentare i discorsi tenuti da Bergoglio ai movimenti popolari, in occasione dei tre incontri mondiali che si sono svolti in Vaticano e in Bolivia dal 2014 al 2016.
La domenica di pasqua il papa è tornato a rivolgersi ai movimenti con una lettera di denuncia degli effetti della crisi pandemica sui settori più deboli della società: i migranti, i precari, i cartoneros, i lavoratori nell’economia informale. Nella sua analisi sociale della crisi il papa ha suggerito di mettere in campo una «forma di retribuzione universale di base». Una proposta che ha incontrato il sostegno dei movimenti, e che sembra modificare lo scetticismo che la Chiesa aveva manifestato in passato.
Cardinale, si può parlare di un aggiornamento della dottrina sul lavoro?
Nella sua lettera il papa ha in mente l’azione dei movimenti popolari e il problema dei lavoratori “informali”, senza garanzie, eppure fondamentali, soprattutto nel contesto latinoamericano. Il principio da cui muove il pontefice è che nessun lavoratore deve rimanere senza diritti. È chiaro che in questa prospettiva la quarantena, che è già insostenibile per chi vive in condizioni di precarietà e non ha tutele legali, diventa del tutto inaccettabile nella ricerca di una società più giusta.
Ecco allora che il salario universale può essere una soluzione. Chiaramente, bisogna valutare caso per caso la sua sostenibilità e questo è compito della politica. Certo, anche qui in Italia stiamo vivendo una fase emergenziale e sono davvero troppi i lavoratori senza un reddito, senza altri strumenti di sostegno e che sono in grandi difficoltà a causa della pandemia.
Dopo il messaggio molto forte del 27 marzo, quando ha affermato che «nessuno si salva da solo», nel tradizionale Urbi et Orbi pasquale, proclamato nella basilica di San Pietro vuota, il papa ha chiesto all’Unione europea di dare prova concreta di solidarietà. A suo giudizio, cosa è mancato fino ad oggi? E cosa sarebbe legittimo e opportuno attenderci?
A mancare è stata la prospettiva indicata dal papa, quella della solidarietà. Non c’è stato un meccanismo di reciproco aiuto, se non con interventi davvero troppo lenti. Il principio della solidarietà va considerato invece come costitutivo dell’Unione e la crisi pandemica ha colpito tutto il continente, anche se più duramente in alcuni paesi. È una scelta davvero decisiva per il futuro dell’Europa e della sua credibilità.
Seguendo il ragionamento per cui gli effetti della pandemia, dalla prevenzione sanitaria alle conseguenze economiche, non sono certo gli stessi per tutti, i migranti appaiono tra i soggetti più fragili in questo momento. Nella sua Roma, per esempio, sono tutt’ora in corso alcune gravi emergenze sociali: dal Selam Palace alla Romanina al Centro di accoglienza di Torre Maura. In questo contesto, nel segno della difesa della “salute pubblica”, il governo ha deciso di tornare a chiudere i porti. Come valuta questa decisione?
La vera sfida è affrontare la questione delle migrazioni nella sua complessità. Se non viene vissuta in tutti i suoi aspetti allora diventa un problema sociale per tutti.
Nessuno deve essere lasciato morire in mare e questo è tanto evidente quanto indiscutibile. Dal punto di vista pratico, si tratta di capire come garantire la sicurezza dei migranti, e di conseguenza anche quella di tutti, attraverso strumenti di quarantena idonei: una soluzione che mi sembra sia stata trovata. Inoltre, ci dobbiamo interrogare su come fare emergere il mondo dei profughi che già vive in Italia, e che difficilmente lascerà che lo teniamo nel limbo. Ma il limbo non dura a lungo e ha anche un prezzo.
È intelligente la proposta della regolarizzazione, perché guarda al futuro. Occorre parlarne con realismo e senza ideologie.
Veniamo alla Chiesa. Dopo il lockdown si è avuto l’impressione di una certa difficoltà dell’istituzione nel prendere una posizione su alcuni nodi che riguardano la libertà di culto a fronte del rischio per la salute pubblica. La Cei sta progettando per la “fase due” un «percorso meno condizionato all’accesso e alle celebrazioni liturgiche». Quale è la sua valutazione?
Stiamo affrontando il problema con discernimento e responsabilità. La priorità è coniugare il diritto al culto, cioè garantire il legittimo desiderio di partecipare alla vita liturgica, con la necessità di non disperdere i risultati di riduzione del contagio faticosamente acquisiti in questo mese.
Ci vogliono le opportune tutele per i credenti, come del resto per tutti i cittadini che si apprestano a uscire dalle loro case. Comunque la discussione è in corso e non sono state ancora presentate proposte al governo.
Sul manifesto abbiamo documentato alcune voci critiche nei confronti delle messe in streaming e, soprattutto, di un clero che sembra essere incapace di concepire una religiosità senza rito. Che ne pensa?
Gli strumenti di comunicazione hanno reso possibile che ci fossero una vicinanza e una condivisione altrimenti impossibili. Certo, una celebrazione senza popolo è un rito senza comunità, che può esistere solo in emergenza. Tuttavia queste forme di liturgia online hanno permesso la consolazione di un legame spirituale in una fase di digiuno eucaristico. Va registrata inoltre una certa creatività da parte di fedeli e pastori che hanno saputo vivere la loro spiritualità in forme diverse, valide, e che rappresentano il frutto di una Chiesa in comunione.
Torniamo ai movimenti popolari. L’incontro del 2016 si era concluso con il progetto di proseguire l’esperienza senza la cornice offerta dalla presenza del papa. Nel suo ultimo intervento Bergoglio suggerisce che per uscire dalla crisi è necessaria l’azione dal basso dei soggetti sociali. Quale futuro auspica e immagina per la rete mondiale?
Il papa non compie una scelta politica scrivendo ai movimenti, ma vede in essi un agente sociale che opera dal basso, un’altra forma di politica, fuori dagli schemi, che va nella direzione di una conversione umanistica ed ecologica alternativa al dominio del denaro.
Bergoglio riconosce che i movimenti sono in questo processo interlocutori indispensabili e li invita a proseguire esattamente in quello che già fanno.
Cardinale, anche lei, come Bergoglio, crede che il problema sia stato illuderci di «rimanere sani in un mondo malato»?
Certo. La pandemia ci fa passare dall’esistenza alla storia e dall’illusione alla speranza. Cioè da un occidente che presuntuosamente pensava di potere stare bene senza interessarsi del mondo intorno. Di aver risolto tutti i suoi problemi attraverso il benessere e invece si ritrova travolto da una pandemia, esattamente come il resto del mondo.
Spero che comprendiamo la drammaticità della fase che stiamo vivendo e che svela tanti problemi che avevamo ignorato fino ad oggi. Dobbiamo ricostruire con passione un mondo migliore e più giusto per tutti, perché è il contrario della pandemia che dobbiamo scegliere.