da SHALOM, Periodico della Comunità Betania di Parma, N. 4 – dicembre 2012
Card. Martini
Convegno
"Integrazione e integralismi.
La via del dialogo è possibile?"
(Cesano Maderno 19-01-2001)
I
DATI DELLA BIBBIA SULLA FIGURA DELLO STRANIERO
A modo di premessa
va ricordato che Israele, il popolo ebraico vive in Palestina, a partire circa
dal 1200 a.C., in un ambito geografico e geopolitico caratterizzato da molti
spostamenti di popoli, da esodi e da migrazioni frequenti. La Palestina,
infatti, è luogo di passaggio, come un corridoio tra l'Egitto e i grandi regni
attorno all'Eufrate (Babilonia e Assiria), percorso continuamente da carovane
ed eserciti stranieri. È quindi un luogo dove l'esperienza dello straniero è un
fatto quotidiano; ciò spiega la rilevanza del nostro tema in particolare nella
Bibbia ebraica, nel Primo Testamento. Del resto Israele stesso è un popolo che
ha vissuto una lunga e dolorosa esperienza di migrazione e di esilio. Ha
abitato da straniero in Egitto per 400 anni. Dopo la caduta di Gerusalemme (586
a.C.), molti israeliti furono deportati in Babilonia. Per tutti questi motivi
Israele ha sviluppato una concezione varia e articolata del fenomeno dello
straniero, espressa anche dal vocabolario.
Sono almeno tre i
termini fondamentali della Bibbia ebraica per indicare lo "straniero" o "forestiero". Tre termini nei quali
si può leggere qualcosa dell'esperienza sofferta e dinamica di Israele e del
cammino della rivelazione nel cuore di questo popolo (suggeriscono perciò, in
qualche modo, anche a noi una dinamica, un cammino): lo straniero lontano -zar-, lo straniero di passaggio -nokri-, lo straniero residente o
integrato -gher o toshav-.
1. La parola
ebraica zar sta a significare lo
straniero che abita fuori dei confini di Israele, colui che è del tutto
estraneo al popolo. Verso questa figura si verifica un senso di timore, di
estraneità, di paura e di inimicizia. La paura dello straniero ha quindi delle
radici molto profonde nel cuore umano, e viene documentata dalla Scrittura. C'è
anzi un gioco di parole nell'ebraico, che permette di confondere zar (straniero) con sar (il nemico da cui ci si deve difendere). Un gioco di parole che
fa comprendere come Israele si sentisse un popolo piccolo e debole, circondato
da popoli potenti che ne insidiano la sovranità. Da qui la paura e il senso di
estraneità verso i popoli vicini aggressivi e prepotenti. Tra i tanti possibili
testi, cito Isaia, là dove compiange le sofferenze della sua gente: "Il vostro paese è devastato, le vostre città
arse dal fuoco. La vostra campagna, sotto i vostri occhi, la divorano gli
stranieri" (1,7). È chiaro che "stranieri" vuoi dire
"nemici" temibili.
Questa
considerazione praticamente negativa dei popoli stranieri si evolve verso toni
più positivi specialmente dal momento dell'esilio in Babilonia (circa VI secolo
a.C.), quando affiora la percezione che l'esilio non ha segnato la disfatta del
Dio d'Israele, quasi fosse stato sconfitto da idoli, da dèi più potenti di cui
si vantavano gli altri popoli. Al contrario l'esilio fa prendere maggiormente
coscienza della elezione dei figli d'Israele, fa emergere quanto Dio ami il suo
popolo e gli affidi una missione in mezzo alle genti straniere. Paradossalmente
la sconfitta aiuta a percepire la missione verso gli stranieri.
Richiamo un brano
di Isaia, che si riferisce al popolo in esilio: "Io ti ho formato e stabilito come luce delle nazioni, perché tu apra
gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri" (42,6).
E, in 49,6: "Io ti renderò luce
delle nazioni perché porti la salvezza fino all'estremità della terra".
Lo straniero allora non è più solo un nemico da temere, ma un popolo da
illuminare, e la paura nei suoi confronti si riduce per fare posto a un senso
di missione. Notiamo che una simile coscienza risuona anche nel Nuovo
Testamento, per esempio nelle parole di Zaccaria al tempio: Gesù bambino è
chiamato "luce per illuminare le
genti e gloria del suo popolo Israele". Sono parole che riprendono
verbalmente Isaia e segnano il superamento della paura dello straniero verso la
coscienza di una missione nei suoi riguardi.
2. Il secondo
termine, nokri, è usato per lo
straniero di passaggio, l'avventizio, colui che si trova momentaneamente in
mezzo al popolo per motivi di viaggio, di commercio (una sorta di
"pendolare"). Verso il nokri
ci sono alcune distinzioni che denotano ancora una lontananza, ma non più una
paura. Un passo del Deuteronomio fa un elenco di animali puri e impuri, con le
distinzioni legali, e dice tra l'altro: "Non mangerete alcuna bestia che sia morta di morte naturale; la darete
al forestiero che risiede nelle tue città perché la mangi, o la venderai a
qualche straniero, perché tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio"
(14,21). Si mantiene una certa distanza verso gli avventizi e insieme si fanno
delle concessioni. Comunque la regola di base è l'ospitalità, tipica della
tradizione dell'Oriente, ospitalità che comporta rispetto e buona accoglienza.
Chi di noi ha avuto occasione di andare presso le tende dei beduini, ai margini
del deserto, conosce questa ospitalità, questa accoglienza gioiosa. Cito in
proposito l'esempio di Abramo, che accoglie tre angeli, a lui stranieri, non
membri del suo popolo, si mette alloro servizio e prepara un lauto pasto:
"Abramo sedeva all'ingresso della
tenda, nell'ora più calda del giorno", quando si ha voglia di dormire,
di abbandonarsi al sonno. "Alzò gli
occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide,
corse loro incontro dall'ingresso della tenda e si prostrò fino a terra,
dicendo: Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre
senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po' d'acqua, lavatevi i
piedi e accomodatevi sotto l'albero" (Gen 18,1-4). Fa quindi preparare
focacce e un vitello tenero e buono. È una bella descrizione dell'accoglienza
riservata agli stranieri di passaggio, agli ospiti.
3. Il terzo
vocabolo è gher o toshav e viene impiegato per lo
straniero residente, colui che essendo di origine straniera e non appartenendo
perciò al popolo ebraico per nascita, risiede più a lungo o stabilmente in
Israele. Questa figura gode di una vera protezione giuridica, come appare fin
dai testi legislativi più antichi: "Non
molesterai il forestiero né l'opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel
paese di Egitto" (Es 22,20). È un testo da cui emerge una radice più
profonda dell'accoglienza allo straniero: la ragione, il motivo del rispetto
sta anche nell'esperienza di migrante vissuta e sofferta dal popolo eletto: il
popolo è invitato a ricordarsi delle sofferenze passate. Proprio perché tu sei
stato forestiero in terra altrui e hai visto quanto sia dura tale condizione,
cerca di avere comprensione e misericordia verso coloro che fanno questa
esperienza nel tuo paese. Nel corso dei secoli, con la maturazione religiosa
avvenuta nell'esilio -cioè nella purificazione e nella sofferenza- e anche con
la evoluzione delle leggi e dei costumi, il gher
sarà sempre più inserito nella comunità religiosa, come leggiamo in Dt
10,18-19: "Il Signore rende
giustizia all'orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito.
Amate dunque il forestiero". L'amore per il forestiero è visto quale
imitazione di Dio stesso. Emerge un parallelo tra la concezione che il popolo
ha di Dio e la concezione dello straniero. Se Dio ama i deboli, l'orfano, la
vedova, lo straniero, noi pure dobbiamo amarli.
I
PRINCIPI TEOLOGICI DELL'ACCOGLIENZA DELLO STRANIERO NEL NUOVO TESTAMENTO
Il Nuovo Testamento
segna un passo ulteriore e decisivo nel rapporto con lo straniero. Il discorso
sarebbe molto lungo e volendo riassumere in breve le motivazioni che nel Nuovo
Testamento fondano il comportamento cristiano verso il forestiero, le esprimo
così: una motivazione cristologica, una carismatica e una escatologica.
1. Il motivo
cristologico è ricordato in Matteo 25, nella scena del giudizio finale, là dove
Gesù proclama che chi accoglie il forestiero accoglie lui stesso: "ero forestiero e mi avete ospitato ... Ogni
volta che avete fatto queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli,
l'avete fatto a me". Si dice dunque molto di più del testo del
Deuteronomio (Dio ama il forestiero e tu devi imitarlo). L'accoglienza dello
straniero non è una semplice opera buona, che verrà ripagata da Dio, bensì
l'occasione per vivere un rapporto personale con Gesù.
2. Il secondo
motivo, che chiamo carismatico, sta nel primato della carità. "Aspirate ai carismi più grandi",
insegna san Paolo in 1Cor 12, 31 e, nel capitolo 13 dice che il carisma più
grande è la carità. L'accoglienza dello straniero è una delle attuazioni
dell'amore, amore che è la legge fondamentale del cristiano. "Ama il prossimo tuo come te stesso",
risponde Gesù a chi gli chiede qual è il primo dei comandamenti (cf Mc 12,31);
e in Mt 7,12 Gesù riassume la Legge e i Profeti nella cosiddetta regola d'oro:
"Tutto quanto volete che gli uomini
facciano a voi, anche voi fatelo a loro". La carità, dono superiore a
ogni altro, si esercita verso tutti, quindi pure verso lo straniero, come
sottolinea la parabola del buon samaritano. Costui, considerato straniero dal
popolo ebraico, non ha esitato a soccorrere un ebreo ferito che si trovava sul
ciglio della strada; ha superato le barriere razziali e religiose, "si è
fatto prossimo" (cf Lc 10,36), ha vissuto il carisma della carità.
3. Il terzo motivo
che emerge da alcuni passi del Nuovo Testamento è di carattere escatologico,
concerne le cose ultime, la destinazione dell'uomo alla vita eterna. In tale
visuale, tutti i credenti in Cristo sono pellegrini e stranieri in questo
mondo: "Non abbiamo quaggiù una
città stabile, ma cerchiamo quella futura"(Eb 13,14; cf Eb 11,10-16).
Dunque, come il ricordo di essere stati migranti e forestieri in Egitto,
costituiva per gli Israeliti un invito all'ospitalità verso gli stranieri, ad
avere compassione e solidarietà per coloro che partecipavano alla medesima
sorte, così i cristiani, sentendosi pellegrini in questa terra, sono invitati a
comprendere le sofferenze e i bisogni di quanti sono stranieri e pellegrini
rispetto alla patria terrena. Un cristiano dei primi secoli descriveva lo stato
di "pellegrino" proprio del cristiano in un modo molto bello: "I cristiani abitano la propria patria,
partecipano a tutto come dei cittadini, e però tutto sopportano come stranieri.
Ogni terra straniera è la loro patria e ogni patria è terra straniera"
(Lettera a Diogneto). E non perché i cristiani si disinteressano della città
terrena, bensì perché sanno di essere in cammino verso quella città che Dio
stesso ci sta preparando.
Davvero la Bibbia
ci pone davanti a un grande messaggio che sentiamo tanto lontano dai nostri
comportamenti, dalle nostre capacità. Ci fa comprendere che la morte di Gesù in
croce abbatte ogni frontiera e ci fa membri di un'umanità che trova la sua
unità in Cristo. E lo Spirito del Risorto suscita in ogni credente il carisma
della accoglienza. Dobbiamo sentire che, sospinti da questa forza, noi possiamo
aprirci alla scoperta di Cristo nello straniero che bussa alla nostra porta.
Abbiamo tanti motivi, umani e civili, per accogliere lo straniero, motivi a cui
forse pensiamo poco e che sono certamente molto esigenti e radicali.
LE
DIFFICOLTÀ E LA GRADUALITÀ DI UN CAMMINO DI INTEGRAZIONE
Vogliamo allora
chiederci: in quale contesto ci raggiunge il messaggio biblico? quali reazioni
e quali resistenze suscita in noi? A me sembra infatti che la questione degli
stranieri oggi -in Italia e in Europa - non sia soltanto delicata e difficile,
ma pure un segno dei tempi e anche un segno di contraddizione. L'atteggiamento
più o meno ospitale degli europei, in particolare dei cristiani, nei confronti
degli stranieri acquista, per le scelte globali che implica, una rilevanza
speciale e costituisce probabilmente un tornante decisivo per la nostra cultura
e la nostra storia.
Riguardo alla
situazione, la presenza degli stranieri tra noi, pur con tutti i progressi
compiuti, non è ancora ben assimilata e nemmeno ben tollerata. Vi sono delle
reazioni negative comprensibili, dovute a momenti particolarmente drammatici:
per esempio, quando gli stranieri commettono dei reati. In questi casi l'orrore
e il rifiuto sono giustificabili, come pure la domanda di legalità e di difesa
dell'ordine pubblico è più che legittima.
Ma, al di là di
tali circostanze, permane nella gente un timore e una diffidenza verso gli
stranieri.
Riguardo allo
scenario di fondo, siamo di fronte a un nuovo, grande processo di
rimescolamento delle genti, per una serie di fattori che conosciamo. L'Europa e
il Nord America vivono un'epoca di benessere e di democrazia tra i più alti
della storia. Di conseguenza, il sud del mondo, povero e spesso
sottosviluppato, preme verso il nord del mondo. L'ideale sarebbe lo sviluppo di
questi paesi nelle loro terre, in modo che ogni persona trovi cibo, lavoro e
libertà a casa propria. A livello internazionale occorre certamente puntare
sullo sviluppo e la promozione del sud. Non è però una soluzione attuabile a
breve termine, per motivi sia politici sia socio-economici, motivi che in
questa sede non è possibile approfondire.
Quali sono dunque
gli sviluppi prevedibili della situazione attuale, in particolare per gli
stranieri extracomunitari che fanno più fatica a essere integrati? In proposito
si è parlato molto negli ultimi mesi dell' Islam e delle probabilità maggiori o
minori che ha di integrarsi con la nostra cultura e le nostre tradizioni. A mio
avviso siamo di fronte a tre ipotesi possibili: secolarizzazione, integralismo,
integrazione.
• C'è l'ipotesi di
una secolarizzazione o omogenizzazione dei nuovi venuti che accettano la
modernità europea, con il suo scetticismo, il suo individualismo, il suo
indifferentismo, e abbandonano a poco a poco le tradizioni d'origine
mescolandosi con l'ambiente circostante.
• L'ipotesi
contraria è quella del costituirsi di ghetti, di luoghi di chiusura e di
resistenza, in cui si conservino rigidamente le tradizioni e la coscienza della
propria estraneità, magari con la prospettiva "medicale", di una
conquista graduale del territorio, grazie soprattutto alla crescita della
natalità.
• Una terza ipotesi
possibile è quella di una integrazione graduale e progressiva, nel rispetto
dell'identità e nel quadro della legalità e della cultura del paese ospitante.
Non sappiamo quale
di queste prospettive si realizzerà, e molto dipende anche da noi. Mi pare
tuttavia che la terza ipotesi -integrazione graduale e progressiva, nel
rispetto dell'identità e nel quadro della legalità e della cultura del paese
ospitante- sia l'unica accettabile. È una prospettiva ardua, per la quale
occorre operare non solo nel quadro del superamento delle paure, non solo nel
quadro della legalità, ma con una pedagogia che insista specialmente sui
bambini e sui ragazzi, figli degli immigrati, dal momento che sono più
facilmente adattabili alle situazioni nelle quali vivono. Per loro è un bene
potersi integrare con serenità nell'ambiente dove imparano ogni giorno a
vivere. Non chiediamo, naturalmente, che rinuncino ai tratti civili e morali
che li caratterizzano, purché siano rispettosi della cultura del paese
ospitante. Chiediamo dunque, anzi esigiamo il rispetto delle leggi proprie del
paese.
LA
DOMANDA PIÙ SPECIFICAMENTE RELIGIOSA
Rimane la domanda
più specificamente religiosa che è stata posta all'inizio del nostro incontro,
la domanda sul mandato di Gesù: "Andate
e predicate il Vangelo". Nel confronto che siamo tenuti ad avere con
le altre religioni e culture, quanto c'è ancora della forza evangelizzatrice
che avevano i primi cristiani?
La risposta va
articolata. Vi sono, infatti, gli immigrati cristiani (circa la metà), in parte
cattolici e in parte ortodossi, che stanno già portando un'iniezione di
vitalità e di generosità nelle nostre parrocchie e nei loro luoghi di culto;
basta partecipare ad alcune delle loro feste per rendersene conto.
La domanda
sull'evangelizzazione non riguarda quindi lo straniero in genere, bensì i non
cristiani, in maniera speciale l'Islam. E al riguardo rispondo ricordando
anzitutto la parola di san Paolo: "Guai
a me se non evangelizzo" (1 Cor 9,16). Il cristiano è sempre tenuto a
testimoniare la sua fede ovunque e a chiunque, tenendo ovviamente conto della diversità
delle situazioni e della molteplicità degli approcci. Bisogna per questo
evangelizzare col Vangelo della carità, dell' accoglienza e anche col Vangelo
della pazienza. È la prima testimonianza che rende presente il Dio che amiamo.
C'è poi l'evangelizzazione
fatta col Vangelo della vita, vivendo l'onestà, la sincerità, la trasparenza
nei rapporti di lavoro, l'accoglienza e la mutua fiducia.
Infine, il Vangelo
della parola, che può essere particolarmente arduo da annunciare in certe
circostanze. Sarà necessario cominciare togliendo i pregiudizi, chiarendo le
idee sbagliate, crescendo nella conoscenza reciproca. Non dobbiamo però mai
tralasciare di proporre la verità, in cui crediamo e che amiamo, nella maniera
più adeguata alle singole situazioni, cioè nei tempi e nei modi opportuni.
CONCLUSIONE
Concludo
riferendomi al racconto di Luca dei dieci lebbrosi guariti da Gesù, di cui
soltanto uno, lo straniero, ritorna a ringraziarlo; e Gesù, stupito e
amareggiato, domanda: "Non sono
forse stati guariti tutti e dieci? Dove sono gli altri nove? Non si è trovato
chi tornasse a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?"
(17, 17-18). Noi ci troviamo più volte tra i nove che non sanno ringraziare,
non sanno apprezzare il dono della fede perché lo ritengono quasi ovvio e
scontato, e che hanno dunque perso qualcosa della forza evangelizzatrice dei
primi cristiani. La presenza crescente di stranieri nel nostro paese è davvero
un'occasione provvidenziale per noi di ritornare indietro da Gesù, di guardare
alla nostra origine, al nostro battesimo, al dono della fede. Se ci lasceremo
invadere dalla gratitudine per tanto dono e lo vedremo bello ed entusiasmante
per noi stessi, sarà più facile farlo comprendere e trasmetterlo ad altri.