mercoledì 6 settembre 2017

Una speranza c’è

dalla pagina http://www.azionenonviolenta.it/una-speranza-ce/

Difesa, Nonviolenza, Pace - 4 settembre 2017

In Italia vigili del fuoco incendiano e poi spengono. Fare cose apparentemente inconciliabili è prassi diffusa. In Libia fedelissimi del nostro “amico” presidente Serraj vendono immigranti ai contrabbandieri. 

I responsabili della sicurezza dei pozzi petroliferi danno il carburante agli scafisti, ai quali consegnano migranti dopo i lavori forzati nel pozzi. Almeno un comandante della Guardia costiera copre questi traffici, sparando, se occorre, alle navi delle Ong. I migranti, soccorsi e recuperati dalla guardia costiera, tornano in centri di detenzione per essere rivenduti ad altri scafisti. Così risulta da un primo dossier (299 pagine) dell’Onu, che rivela nomi e incarichi del business. Andrà meglio la collaborazione con il generale Haftar, che comanda Tobruk e dintorni, mentre Serraj governa da Tripoli? Pare che il nostro governo ci conti. Ha ripreso, forse principalmente per questo, le relazioni diplomatiche con l’Egitto, sostenitore di Haftar, dopo una sospensione per l’efferato assassinio del giovane Regeni.

Ci sono di quelli, invece, che fanno con coerenza e sacrificio le cose per le quali sono pubblicamente impegnati. Questa assenza di doppiezza e di duttilità li rende sospetti. È il caso delle Ong, che si sono adoperate, in collaborazione con la Guardia costiera italiana, nel salvare vite in mare. Li si spinge in ogni modo a desistere dalla loro azione e i risultati non mancano. Così il ministro dell’interno/esterno può dire che non siamo fuori dal tunnel, ma si comincia a vedere la luce. La responsabilità di politiche adeguate alla situazione, che più direttamente ci riguarda, è certo principalmente dell’Unione Europea. Si preoccupa della libertà di circolazione di merci e capitali, non del diritto delle persone a fare altrettanto. In assenza di interventi a livello almeno europeo gli Stati si rinchiudono nel loro “sacro egoismo”. L’Italia è, in fondo, l’ultima a farlo. Certo potrebbe richiedere alla Libia di sottoscrivere almeno, un primo passo per osservarla poi, la Convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati del 1951. Potrebbe l’Italia dotarsi, in attesa di un risveglio europeo, di una legge migliore sull’immigrazione. Ma chi tocca il tema muore! Si è persino fermata una legge sacrosanta, che solo riconosce come cittadini italiani chi, nei fatti, lo è già. Non c’entra niente con il tema dei rifugiati, ma si tratta pur sempre di immigrati…

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Daniele Lugli (Suzzara, 1941), amico e collaboratore di Aldo Capitini, dal 1962 lo affianca nella costituzione del Movimento Nonviolento di cui sarà presidente nazionale dal 1996 al 2010, e con Pietro Pinna è nel Gruppo di Azione Nonviolenta per la prima legge sull’obiezione di coscienza. La passione per la politica lo ha guidato in molteplici esperienze: funzionario pubblico, Assessore alla Pubblica Istruzione a Codigoro e a Ferrara, docente di Sociologia dell’Educazione all’Università, sindacalista, insegnante e consulente su materie giuridiche, sociali, sanitarie, ambientali - argomenti sui quali è intervenuto in diverse pubblicazioni - e molto altro ancora fino all’incarico più recente, come Difensore civico della Regione Emilia-Romagna dal 2008 al 2013. È attivo da sempre nel Terzo settore per promuovere una società civile degna dell’aggettivo ed è e un riferimento per le persone e i gruppi che si occupano di pace e nonviolenza, diritti umani, integrazione sociale e culturale, difesa dell’ambiente. Nel 2017 pubblica con CSA Editore il suo studio su Silvano Balboni, giovane antifascista e nonviolento di Ferrara, collaboratore fidato di Aldo Capitini, scomparso prematuramente a 26 anni nel 1948.



dalla pagina http://www.democratica.com/interviste/ecco-cosa-succede-davvero-in-libia-parla-carlotta-sami/

Ecco cosa succede (davvero) in Libia. Parla Carlotta Sami


Intervista alla portavoce in Sud Europa dell’agenzia Onu per i rifugiati

Una storia dietro ogni numero. C’è questo poster all’ingresso della sede romana dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Palazzina anni cinquanta nel cuore dei Parioli, quattro piani e persone diversissime tra loro, per età e nazionalità, lavorano all’Unhcr. In effetti, un porto di mare. All’ultimo c’è l’ufficio di Carlotta Sami, 46 anni, milanese cresciuta tra Genova e Trieste, cittadina del mondo dopo averlo girato per vent’anni, prima con la Cooperazione Italiana e Save The Children, e poi con Amnesty International.
Era il 3 ottobre 2013 quando la Sami raccolse il testimone di Laura Boldrini, divenendo la portavoce dell’organismo dell’Onu. Non un giorno a caso: una di quelle date che cambiano il mondo e che cambiarono l’Italia. La più grande sciagura umana nel canale di Sicilia, si diceva, 368 morti accertati, di lì a poco sarebbe partita l’operazione Mare Nostrum, voluta dal premier Enrico Letta. Ma poi Mare Nostrum finì, nel novembre 2014 e arrivò la soluzione europea di Frontex. Il 18 aprile 2015 la tragedia di due anni prima venne doppiata: 700 persone persero la vita in un naufragio al largo della costa libica. L’Italia ancora una volta alzò la testa: Matteo Renzi andò a Bruxelles con in mano un piano che si chiamava Migration Compact. Per eterna testimonianza di ciò che solo tra decine di anni saremo in grado di capire, il presidente del Consiglio italiano volle far riemergere dal mare quel peschereccio. Seppellire i morti, l’atto di pietas più sensato che si potesse fare. In anni in cui l’imperativo è fare la differenza, segnare il nuovo passo, accompagnando il cammino dei popoli che coinvolge 65 milioni di persone al mondo, di cui l’86 per cento vive nei Paesi più poveri e che più stanno accogliendo: il Niger, il Ciad, i paesi del corno d’Africa.
“Quello che viviamo qui è solo un riflesso” dice Carlotta Sami nel suo ufficio semplice, di una viaggiatrice. Sua figlia Matilde, nove anni, l’aspetta seduta nella scrivania accanto, è buona, attenta, le scuole non sono ricominciate ancora, le mamme che lavorano hanno tutte le stesse dinamiche. Ascolta Matilde, quello che sua madre racconta dei rifugiati. Una storia dietro ogni numero, chissà quante ne sa.
“L’ultima è quella di Augusta, i trafficanti le hanno lanciato benzina addosso perché non aveva i soldi per pagarli, E’ stata visitata dopo cinque mesi”, racconta Sami che fa subito un Tweet. Il mondo deve sapere cosa succede in Libia, con i campi che sono prigioni dove le persone vengono obbligate ai lavori forzati per guadagnarsi un posto in paradiso, in un’imbarcazione di fortuna, con un delinquente senza scrupoli al timone, ma comunque: direzione Europa.
Con l’accordo di Parigi sarete più presenti in Libia?
Vorrei chiarire una cosa: noi in Libia ci siamo dal 1991. Nel 2014 abbiamo dovuto far evacuare il personale internazionale per ragioni di sicurezza ma abbiamo continuato a lavorare con il personale locale. Adesso abbiamo ripreso, e anzi, potenziato e rafforzato relazioni con i partners del luogo.
Che situazione avete trovato? Cosa non arriva qui?
Il 21 maggio scorso il nostro Alto Commissario è entrato nei campi e ha trovato una situazione scioccante: il fatto è che questo sistema non è nuovo, la Libia utilizza da sempre la detenzione di massa. Quello che manca, da noi, è la consapevolezza che i migranti siano tenuti in condizioni disumane in campi di detenzione: sono prigionieri che non hanno colpa se non quella di sfuggire da guerre o miseria. E questo vale solo per le prigioni di cui si ha conoscenza e dove possiamo entrare ma ce ne sono altre dove accade di tutto: stupri, ogni tipo di violenza, promiscuità. I racconti che ci arrivano da chi riesce ad approdare in Italia sono incredibili: alcune persone sono state rapite, derubate, costrette a lavorare come schiavi e poi sbattuti in una barca. Molti erano andati in Libia nella speranza di trovare un lavoro lì, di venire in Italia non ci pensavano proprio.
La priorità è la lotta ai trafficanti.
Senza dubbio. Ma poi bisogna fare in modo che chi ha diritto a rifugiarsi abbia la possibilità di farlo, quindi occorre rafforzare le vie legali, i cosiddetti corridoi umanitari, e poi sostenere praticamente le economie dei paesi africani, che si sobbarcano la stragrande maggioranza dell’accoglienza. Si figuri che l’Uganda ha accolto da sola un milione di persone, quando in Europa hanno trovato asilo un milione e mezzo di profughi.
Insomma, aiutiamoli a casa loro è giusto.
Certo, il problema è che su questi delicatissimi temi, su cui giocano demagoghi e aizzatori di paure, gli slogan non vanno bene. E’ un attimo scivolare nel razzismo. Però il concetto è giusto, i bisogni locali sono importantissimi. Valutiamo che in Libia ci siano 226 mila sfollati, oltre a 42 mila rifugiati registrati con noi, di cui la metà sono siriani. Ma sono moltissimi quelli che non sono registrati e decine di migliaia i migranti e i rifugiati nei centri di detenzione oppure sequestrati da milizie e trafficanti.
Noi siamo presenti nei centri di detenzione ufficiali, cercando di portare assistenza: il nostro obiettivo di medio periodo è aprire queste prigioni. Negli ultimi diciotto mesi abbiamo liberato più di mille persone.
La soddisfa l’accordo siglato a Parigi?
Il nostro commento è stato immediato e positivo, per varie ragioni. Prima di tutto non si tratta di una bilaterale ma di un intervento su più livelli che coinvolge vari Paesi, europei ed africani. Poi è molto importante il principio che è alla base di questo accordo: l’intenzione non è solo quella di fermare i flussi ma di gestirli, di governare il fenomeno. Finalmente dopo anni di approssimazione ci sembra che ci sia una volontà univoca di farsi carico della questione Mediterraneo con un impegno importante sul piano dei diritti umani. L’Europa ha capito che deve darsi una strategia e che per fermare il traffico di esseri umani deve contribuire a creare anzitutto condizioni di sviluppo per i paesi africani. Ci sono realtà chiave come il Ciad i il Niger che vanno supportate: da soli accolgono centinaia di migliaia di rifugiati e migranti. E’ molto importante nell’accordo di Parigi il riferimento ai canali legali alternativi: riteniamo che l’ Europa debba accogliere come minimo 40 mila persone in più , provenienti dal Corno d’Africa , dalla west Africa, dalla Libia e dall’Egitto. Si tratta delle persone più fragili, che vanno messe in sicurezza subito, donne e bambini, anziani, disabili e malati.
La risposta alla relocation però sono stati i muri.
Occorre una capacità di visione politica dei singoli stati, infatti: non c’è nessun Paese al mondo che possa pensarsi estraneo al cammino dei popoli. E’ la storia, quando non il buon senso, che dovrebbe insegnarci quanto sia necessario dotarsi di una strategia di lungo periodo per affrontare le migrazioni.