giovedì 13 luglio 2017

Lo sviluppo dei popoli è il nuovo nome della pace

da La Voce dei Berici, Domenica 9 luglio 2017, p. 2


50 ANNI DALLA POPULORUM PROGRESSIO

Quello che rischia di mancare oggi è la profetica visione di Paolo VI: mettiamoci in questione!

Pochi giorni fa abbiamo visto un fatto significativo: papa Francesco, in un solo giorno, ha reso onore alla memoria di due preti italiani, preti “difficili” nel loro tempo. Don Lorenzo Milani e don Primo Mazzolari. Li ha onorati visitando le loro parrocchie e portando un fiore sulla loro tomba.

Cinquant’anni fa, il 26 marzo 1967, usciva una enciclica tra le più “scomode”, alla quale possiamo rendere onore, una memoria rovesciata rispetto a quella di papa Francesco, perché si tratta di ricordare un papa e non un semplice prete, e un papa che scrisse una enciclica, un documento ufficiale, un testo offerto a tutta la chiesa alla fine degli anni Sessanta. Molti cristiani non l’hanno nemmeno letta, al punto che papa Benedetto nel 2009 volle tirarla fuori dal cassetto, e vi dedicò un’altra enciclica, la Caritas in veritate.

Sono passati giusto 50 anni dalla Populorum progressio, una delle poche encicliche sociali che Paolo VI fa concludere così: «Vi invitiamo a rispondere al nostro grido angosciato, nel nome del Signore». È raro, unico, trovare un papa che grida, e il suo grido viene definito angosciato. E cosa gridava papa Montini 50 anni fa? Che lo sviluppo dei popoli è il nuovo nome della pace.

La Populorum progressio è anzitutto una enciclica sullo sviluppo. Questo è il significato della parola progressio che fa da titolo a tutto il testo. Alla fine degli anni ’60 del Novecento non c’era bisogno che un papa parlasse dello sviluppo. Il progresso non aveva bisogno di benedizioni speciali. Tutto il mondo ricco dell’Occidente, il Nord del mondo, era quasi “ubriaco” di progresso.

E il papa segnalava che «ogni crescita è ambivalente» (n. 19). Il progresso è necessario, perché permette all’uomo di essere più uomo, ma nello stesso tempo diventa «come una prigione » se diventa lo scopo ultimo che impedisce di guardare oltre. Paolo VI non condannava il progresso, ma nemmeno lo consacrava. Il papa che aveva venduto la sua tiara (la triplice corona d’oro che incoronava i papi), segnalava l’ambiguità dei processi. E questo atteggiamento resta tutto da onorare, anche 50 anni dopo. Infatti non manca oggi chi condanna ogni progresso, getta sulle spalle del mondo ogni colpa, si straccia le vesti per qualsiasi passo in avanti. E dall’altra parte si moltiplicano i difensori “a tutti i costi” della divinizzazione dei più alti standards di vita, crescono gli avvocati del profitto per qualsiasi scorciatoia, siamo pieni di difensori della velocità che si mangia tutto (veloce l’amore, veloce la rottura dell’amore, veloce la reazione di odio …). Quello che rischia di mancare oggi è la profetica visione di Paolo VI: mettiamoci in questione! Coltiviamo di più qualche domanda sul nostro stile, usciamo più liberi da queste “dittature” del tutto male e tutto bene. Paolo VI parlava in modo paradossale di «sottosviluppo morale» (n. 19), che dipende dal non metterci mai in questione.

La Populorum progressio è una enciclica sui popoli. La vera attenzione di Paolo VI non era sullo sviluppo in se stesso, ma su quello dei popoli. Di tutti i popoli. Il papa usò molte volte nell’enciclica un termine che sta tornando con papa Francesco, ed è la parola «integrale». Noi usiamo questa parola soprattutto per il cibo, per dire di un alimento a cui non è stato tolto troppo, che conserva tutte le sue qualità, che non è stato troppo manipolato o alterato. Proprio questo era il modo “integrale” di leggere il mondo di Paolo VI: fare attenzione ai popoli ai quali è stato tolto troppo, al fatto che a molti uomini e donne dei popoli ricchi viene tolta giorno per giorno “l’anima”, che è il sussulto di umanità da conservare, la qualità che ci rende grandi proprio perché riconosciamo la comune umanità di tutti. Integrale deve essere il passo dello sviluppo: devono esserci tutti i popoli e deve esserci tutto l’uomo.

Ma bisogna leggersi con calma tutta l’enciclica per entrare dentro a questa logica intelligente e urgente.

Infine la Populorum progressio è una enciclica sulla pace. Il tema della pace in Paolo VI stava tutto sullo sfondo. Era come il risultato in sospeso, che dipendeva dalla strada presa a partire dal grido angosciato del papa. Prenderemo la strada – si domandava Paolo VI – che sbocca sulla rivoluzione, sullo scontro, sul conflitto “integrale”, oppure capiremo che c’è anche una via che si chiama “riforma”, cambiamento di stile, promozione di una giustizia più generale e più radicale? Il papa vedeva la pace in sospeso rispetto alla produzione e commercio di armi; una pace che stava in bilico tra la difesa dell’opulenza di pochi e la disumana tolleranza della miseria di molti; una pace che si giocava tra la scelta di programmi per difendere l’autonomia di chi sta bene e la progettazione di un «umanesimo plenario» (n. 42). Non si tratta di portare fiori sulla tomba di Paolo VI, beatificato nel 2014, né di celebrare l’anniversario di una enciclica. Populorum progressio è ancora una sfida per chi vuole pensare, agire, cominciare … Un papa e una enciclica possono diventare “grandi” anche cinquant’anni dopo. Se diventiamo “grandi” un po’ tutti.

Matteo Pasinato
Direttore Ufficio Pastorale sociale