50 ANNI DALLA POPULORUM PROGRESSIO
Quello che rischia di
mancare oggi è la profetica visione di Paolo VI: mettiamoci in
questione!
Pochi giorni fa abbiamo
visto un fatto significativo: papa Francesco, in un solo giorno, ha
reso onore alla memoria di due preti italiani, preti “difficili”
nel loro tempo. Don Lorenzo Milani e don Primo Mazzolari. Li ha
onorati visitando le loro parrocchie e portando un fiore sulla loro
tomba.
Cinquant’anni fa, il 26
marzo 1967, usciva una enciclica tra le più “scomode”, alla
quale possiamo rendere onore, una memoria rovesciata rispetto a
quella di papa Francesco, perché si tratta di ricordare un papa e
non un semplice prete, e un papa che scrisse una enciclica, un
documento ufficiale, un testo offerto a tutta la chiesa alla fine
degli anni Sessanta. Molti cristiani non l’hanno nemmeno letta, al
punto che papa Benedetto nel 2009 volle tirarla fuori dal cassetto, e
vi dedicò un’altra enciclica, la Caritas in veritate.
Sono passati giusto 50 anni
dalla Populorum progressio, una
delle poche encicliche sociali che Paolo VI fa concludere così: «Vi
invitiamo a rispondere al nostro grido angosciato, nel nome del
Signore». È raro, unico, trovare un papa che grida, e il suo grido
viene definito angosciato. E cosa gridava papa Montini 50 anni fa?
Che lo sviluppo dei popoli è il nuovo nome della pace.
La Populorum progressio è
anzitutto una enciclica sullo sviluppo. Questo è il significato
della parola progressio che fa da titolo a tutto il testo. Alla fine
degli anni ’60 del Novecento non c’era bisogno che un papa
parlasse dello sviluppo. Il progresso non aveva bisogno di
benedizioni speciali. Tutto il mondo ricco dell’Occidente, il Nord
del mondo, era quasi “ubriaco” di progresso.
E il papa segnalava che
«ogni crescita è ambivalente» (n. 19). Il progresso è necessario,
perché permette all’uomo di essere più uomo, ma nello stesso
tempo diventa «come una prigione » se diventa lo scopo ultimo che
impedisce di guardare oltre. Paolo VI non condannava il progresso, ma
nemmeno lo consacrava. Il papa che aveva venduto la sua tiara (la
triplice corona d’oro che incoronava i papi), segnalava l’ambiguità
dei processi. E questo atteggiamento resta tutto da onorare, anche 50
anni dopo. Infatti non manca oggi chi condanna ogni progresso, getta
sulle spalle del mondo ogni colpa, si straccia le vesti per qualsiasi
passo in avanti. E dall’altra parte si moltiplicano i difensori “a
tutti i costi” della divinizzazione dei più alti standards di
vita, crescono gli avvocati del profitto per qualsiasi scorciatoia,
siamo pieni di difensori della velocità che si mangia tutto (veloce
l’amore, veloce la rottura dell’amore, veloce la reazione di odio
…). Quello che rischia di mancare oggi è la profetica visione di
Paolo VI: mettiamoci in questione! Coltiviamo di più qualche domanda
sul nostro stile, usciamo più liberi da queste
“dittature” del tutto male e tutto bene. Paolo VI parlava in modo
paradossale di «sottosviluppo morale» (n. 19), che dipende dal non
metterci mai in questione.
La Populorum progressio è
una enciclica sui popoli. La vera attenzione di Paolo VI non era
sullo sviluppo in se stesso, ma su quello dei popoli. Di tutti i
popoli. Il papa usò molte volte nell’enciclica un termine che sta
tornando con papa Francesco, ed è la parola «integrale». Noi
usiamo questa parola soprattutto per il cibo, per dire di un alimento
a cui non è stato tolto troppo, che conserva tutte le sue qualità,
che non è stato troppo manipolato o alterato. Proprio questo era il
modo “integrale” di leggere il mondo di Paolo VI: fare attenzione
ai popoli ai quali è stato tolto troppo, al fatto che a molti uomini
e donne dei popoli ricchi viene tolta giorno per giorno “l’anima”,
che è il sussulto di umanità da conservare, la qualità che ci
rende grandi proprio perché riconosciamo la comune umanità di
tutti. Integrale deve essere il passo dello sviluppo: devono esserci
tutti i popoli e deve esserci tutto l’uomo.
Ma bisogna leggersi con
calma tutta l’enciclica per entrare dentro a questa logica
intelligente e urgente.
Infine la Populorum
progressio è una enciclica sulla pace. Il tema della pace in Paolo
VI stava tutto sullo sfondo. Era come il risultato in sospeso, che
dipendeva dalla strada presa a partire dal grido angosciato del papa.
Prenderemo la strada – si domandava Paolo VI – che sbocca sulla
rivoluzione, sullo scontro, sul conflitto “integrale”, oppure
capiremo che c’è anche una via che si chiama “riforma”,
cambiamento di stile, promozione di una giustizia più generale e più
radicale? Il papa vedeva la pace in sospeso rispetto alla produzione
e commercio di armi; una pace che stava in bilico tra la difesa
dell’opulenza di pochi e la disumana tolleranza della miseria di
molti; una pace che si giocava tra la scelta di programmi per
difendere l’autonomia di chi sta bene e la progettazione di un
«umanesimo plenario» (n. 42). Non si tratta di portare fiori sulla
tomba di Paolo VI, beatificato nel 2014, né di celebrare
l’anniversario di una enciclica. Populorum progressio è ancora una
sfida per chi vuole pensare, agire, cominciare … Un papa e una
enciclica possono diventare “grandi” anche cinquant’anni dopo.
Se diventiamo “grandi” un po’ tutti.
Matteo Pasinato
Direttore Ufficio Pastorale
sociale