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L’uso dei droni in ambito militare con funzioni d’attacco cresce smisuratamente.
Con quanti e quali investimenti? Con quali rischi per i civili?
Maurizio Simoncelli
Con quanti e quali investimenti? Con quali rischi per i civili?
Maurizio Simoncelli
Cosa sono i droni e a cosa servono? Con
il termine drone si indica generalmente un velivolo di diverse
dimensioni comandato a distanza, tanto che si usa anche la sigla APR che
sta per aeromobili a pilotaggio remoto (UAV Unmanned Aerial Vehicle
in inglese). Possono essere utilizzati in ambito civile (rilevamento
ambientale, urbanistico, fotografico ecc.) e in ambito militare. In
quest’ultimo settore possono avere funzioni ISTAR (Intelligence, Surveillance, Target Acquisition, Reconnaissance) o anche di attacco armato UCAV (Unmanned Combat Aerial Vehicle).
Nel quadro di una crescente instabilità mondiale, i droni militari
ISTAR o da attacco sono diventati sempre più importanti nel corso degli
anni in relazione alle nuove tipologie di guerre in atto, che per lo più
non vedono contrapposti due eserciti di due Stati avversari, ma spesso
lo scontro tra forze armate di un Paese indebolito contro gruppi armati
irregolari (spesso con attività terroristiche) con la partecipazione di
truppe straniere (esemplare è il caso afghano). La difficoltà di operare
su teatri lontani, tra popolazioni straniere per cultura, linguaggio,
tradizioni, ha portato alcuni Paesi a utilizzare in modo sempre più
massiccio i droni allo scopo principale di ridurre i costi in vite umane
delle proprie truppe e arrivare a praticare la teoria delle “perdite
zero”. Così si evita di operare direttamente su terreni pericolosi
intervenendo da remoto, data la riluttanza sociale soprattutto in
Occidente a interventi armati rischiosi per la vita dei propri uomini in
conflitti presso aree lontane come l’Afghanistan, il Pakistan, la
Somalia, lo Yemen ecc.
Ecco, dunque, l’avvio di un utilizzo
crescente dei droni militari che, durante l’amministrazione Obama,
conosce un vero e proprio boom. Va ricordato, però, che non sono
solo gli USA a utilizzarli, ma sono ormai una cinquantina (tra cui Regno
Unito, Australia, Germania, Russia, Turchia, Cina, India, Iran, Italia,
Francia) i Paesi dotati di tali sistemi sia ISTAR sia armati. Per avere un’idea del mercato,
si pensi che il bilancio fiscale USA 2016 includeva 2,9 miliardi $ per
la ricerca, lo sviluppo e l’acquisto di droni, che il costo di un’ora di
volo di Predator e Reaper è tra i 2.500 e i 3.500 dollari. Il costo di un’ora di volo dei droni militari più grandi Global Hawk
(lungo 14 m, con apertura alare di 40m e con autonomia di volo di 36
ore) è maggiore di circa 10 volte: circa 30.000 dollari per ora di volo.
Il prezzo di un Global Hawk è di 131 milioni di dollari (222,7
con i costi di sviluppo). Si stima che il mercato (civile e militare)
nel prossimo quadriennio si aggiri intorno a un miliardo di dollari, di
cui due terzi destinati al settore della Difesa. Anche l’Unione Europea
ha finanziato la ricerca in questo settore già dal 2001 – nell’ambito di
programmi come FP7, Horizon 2020, COSME – dato che i droni sono
prodotti duali, cioè con un possibile uso sia civile (ad esempio, nel
controllo dei confini/sorveglianza marittima e nella sicurezza interna)
sia militare. In particolare, sono stati concessi finanziamenti per 350 milioni €, mentre dal dicembre 2016 per la prima volta l’UE ha stabilito un Piano d’azione europeo in materia di difesa sovvenzionando con 3,5 miliardi di euro per
il periodo 2021-2027 un programma europeo di ricerca in ambito militare
generico, all’interno del quale potranno rientrare anche i droni.
Peraltro, in ambito OCCAR (l’organizzazione europea per la cooperazione
in materia di armamenti) nel settembre 2016 si è già avviato
ufficialmente il progetto del Drone Europeo assegnato a
Leonardo-Finmeccanica, Airbus e Dassault Aviation, a cui partecipano Italia, Francia, Germania e Spagna.
L’Italia, oltre a partecipare industrialmente al progetto del Drone
Europeo che avrà compiti ISTAR, ha già in dotazione l’MQ-1c Predator A+ e
l’MQ-9 Predator B (Reaper), velivoli fabbricati dalla statunitense General Atomics.
Sono stati già utilizzati – sempre con compiti ISTAR – in Iraq,
Afghanistan, Libia, Gibuti e Somalia, Kosovo, Siria-Iraq, Mediterraneo
centrale. Entro breve, però, saranno armati, dato che l’Italia ha
chiesto da tempo e ottenuto nel 2016 da Washington il permesso in tal
senso.
Danni collaterali
Si pongono, però, alcuni problemi
giuridici circa un adeguato bilanciamento tra i diritti umani che gli
Stati devono effettuare prima di utilizzare i droni (ad esempio, nel
rapporto tra la vita e la sicurezza oppure tra la privacy e la
sicurezza). Con un drone possiamo agevolmente ottenere informazioni
sulla vita di una persona: basti pensare al collocamento di un mini
drone nei pressi delle finestre dell’abitazione di una persona, con
riprese audio video. Inoltre, nell’ambito della cosiddetta dottrina
della “legittima difesa preventiva” (dottrina Bush) possono essere
usati? Possono essere usati anche nelle esecuzioni extragiudiziali, cioè
nell’eliminazione fisica di persone al di fuori di azioni di
combattimento e senza che ci sia stata una sentenza di tribunale? È
sempre possibile individuare esattamente l’avversario, spesso non in
divisa (e magari identificato solo attraverso l’uso del cellulare)? È
sempre possibile eliminare “chirurgicamente” il terrorista senza colpire
civili innocenti, come spesso viene affermato? Quanti civili rimangono
vittime di tali attacchi? Molte domande, poche risposte. Bisogna
riconoscere che vi è un’estrema difficoltà nell’accertamento delle
vittime. Basti pensare che il governo USA, nel luglio 2016, dietro la
pressione dell’opinione pubblica, ha dichiarato di aver effettuato, tra
il gennaio 2009 e il 31 dicembre 2015, 473 attacchi in Afghanistan, Iraq
e Siria, con un numero di vittime compreso tra le 2.436 (di cui 64
civili, 3%) e le 2.697 (di cui 116 civili, 4%). Insomma, sembra che
neppure il Pentagono sappia quante persone e quali abbia ucciso. Il Bureau of Investigative Journalism BIJ
(un’organizzazione privata di giornalismo investigativo) afferma che il
totale stimato delle vittime tra il 2002 e il 2016 in Afghanistan,
Pakistan, Yemen e Somalia oscillerebbe a oggi tra le 6.000 e le 8.000
unità: le vittime civili sarebbero tra l’11 e il 15%. Secondo
altre stime, in alcuni casi, le percentuali sarebbero maggiori, in altri
si sarebbe addirittura sbagliato obiettivo scambiando reporter per
terroristi o una festa nuziale per un gruppo armato sovversivo: 100%
civili! In realtà non è facile, con la pur avanzata tecnologia a
disposizione, avere un quadro esatto dell’eventuale teatro d’attacco e
la certezza del non coinvolgimento di vittime innocenti. È certo che
tutti i parenti di queste vittime innocenti diventeranno quanto meno
ostili nei confronti della potenza autrice dell’attacco con i droni:
magari qualcuno andrà a ingrossare le fila dei nemici che si voleva
annientare, ottenendo quindi l’effetto opposto.
Nubi sul futuro
Nubi sul futuro
Un fatto comunque è certo: il futuro
dell’aviazione (civile e militare) è sempre più nei droni. A Dubai si
sta progettando un drone-taxi che dovrebbe essere pronto per l’estate
prossima. In ambito militare la convenienza è ancor più evidente: non si
rischia la vita dei propri piloti, ma al massimo quella della macchina e
quella dei “danni collaterali”, cioè di cittadini innocenti di altri
Paesi. I governi, quindi, tenderanno sempre più a dotarsene, ma
rimangono aperte numerose questioni giuridiche di diritto nazionale e
internazionale, data anche la mancanza di chiarezza nell’ambito della
dottrina giuridica. Ancor più evidente è l’assenza, in particolare in
Italia, di un dibattito politico pubblico, di cui si è avuta traccia
solo nel momento in cui un cooperante italiano, Giovanni Lo Porto,
rapito da Al Qaeda nel gennaio 2012 in Pakistan, fu ucciso nel 2015 con
un drone durante un’operazione dell’antiterrorismo statunitense, in cui
morì anche un altro prigioniero statunitense, Warren Weinstein.
Ora anche l’Italia si sta dotando di
tali armi e sarebbe il caso che si aprisse quantomeno un dibattito
pubblico, tenendo sempre a mente poi che tali armi non solo non
rimarranno in possesso di pochi stati, ma arriveranno anche nelle mani
della delinquenza organizzata e dei gruppi terroristici, con scenari
ancor più preoccupanti.
Per approfondire
È possibile leggere e/o scaricare il rapporto di Archivio Disarmo su “Droni militari: proliferazione o controllo?” in:
www.archiviodisarmo.it/index.php/it/2013-05-08-17-44-50/sistema-informativo-a-schede-sis/435-droni-militari-proliferazione-o-controllo
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