lunedì 29 marzo 2021

Dal lavoro alla cura

dalla pagina https://comune-info.net/dal-lavoro-alla-cura/ 

Guido Viale


Il concetto di cura, riscoperto da alcuni in questo tempo di pandemia e cambiamenti climatici, viene spesso contrapposto, giustamente, a quello di profitto. In realtà andrebbe approfondito per riaprire una discussione intorno al concetto di lavoro. A chi serve il lavoro? Produrre che cosa? Chi tutelare, il lavoro o gli uomini e le donne che lavorano? E ancora: le attività di infermieri, contadini, insegnanti…, sono importanti come le produzioni manifatturiere, considerate strategiche per sostenere il Pil e mai bloccate negli ultimi mesi, comprese le fabbriche di armi? «La pretesa di attribuire comunque un valore e una “dignità” al lavoro, indipendentemente dalle condizioni nelle quali si svolge e dai risultati che produce – scrive Guido Viale in Dal lavoro alla cura – Risanare la Terra per guarire insieme (ed. Interno4) -, è proprio ciò che allontana da un’autentica pratica della cura…». Un estratto del nuovo libro di Viale

Le foto di questa pagina sono di Ferdinando Kaiser


Sulla cura della casa comune
 è il sottotitolo dell’enciclica Laudato si’ (2015) di papa Francesco, un documento straordinario di carattere politico, sociale, ambientale, culturale e, ovviamente, anche religioso, al quale, già pochi mesi dopo la sua pubblicazione, aveva fatto riferimento un folto gruppo di attivisti e attiviste, religiosi, intellettuali, operatori e operatrici sociali, laici e credenti, dando vita all’associazione Laudato si’: la prima, ma certo non l’unica, a qualificare i suoi intenti e la sua ispirazione con quel nome.

Dopo un inizio fertile, ma difficile, questa associazione si è data una struttura e nel corso di un processo di confronto e dialogo tra più di cento aderenti, collaboratori e simpatizzanti che ne condividevano le finalità, ha sintetizzato la prima tappa di una laboriosa riconsiderazione dei contenuti di base di quell’enciclica nel libro Niente di questo mondo ci risulta indifferente, a cura di Daniela Padoan, edizioni Interno4, 2020: un libro a cui questo pamphlet fa spesso riferimento, a volte anche testuale.

La contrapposizione tra cura e lavoro mi è stata sollecitata dalla crescente importanza che il concetto di cura sta assumendo nei tanti ambiti in cui si cerca di inquadrare, entro un orizzonte comune, ancorché ampiamente differenziato, la prospettiva di un rovesciamento radicale di quell’approccio al mondo e a gran parte delle sue manifestazioni che ci è stato imposto dalla globalizzazione e dalla cultura mainstream, cioè dal “pensiero unico” dominante. L’invito al cambiamento in un mondo che cambia continuamente e rapidamente rischia però di dissolversi nel nulla, se non riusciamo a riunire in un quadro coerente tutte o la maggior parte delle cose dalle quali vogliamo prendere le distanze, stabilendo tra loro anche una gerarchia e un ordine di priorità.

Il concetto di cura, intesa come finalità e senso dell’agire umano in campo economico, ma anche, e soprattutto, in quelli sociale, culturale e ambientale, è stato giustamente contrapposto a quello di profitto (“società della cura” contro “società del profitto”) e anche a diversi concetti a esso correlati come competizione, economia di mercato, crescita e sviluppo economici.


Quello che non si è avuto finora la volontà – o non si è sentita la necessità – di mettere in discussione, di disvelare nella sua sostanziale ambiguità, è il concetto che sta alla base e costituisce la giustificazione ultima di tutte le scelte, i comportamenti, gli atteggiamenti e le remore che si frappongono e si sono finora frapposte al pieno dispiegamento di un rapporto tra gli esseri umani e il loro mondo – sociale e ambientale – che sia effettivamente fondato sulla cura: cioè l’occupazione; l’occupazione fine a se stessa; a cui corrisponde quella realtà corposa e ambivalente che è il lavoro, e la sua sacralizzazione, e dietro cui si nasconde da tempo gran parte delle malefatte del dominio economico.

LEGGI ANCHE Quella sveglia puntata alle sei del mattino Marco Calabria e Gianluca Carmosino, Cosa vuoi fare da grande? Michael Zezima, Quel lavoro che non è un lavoro Lea Melandri, Ridurre l’orario di lavoro Marco Craviolatti, L’uso politico dei parassiti Massimo De Angeslis

La pretesa di attribuire comunque un valore e una “dignità” al lavoro, indipendentemente dalle condizioni nelle quali si svolge e dai risultati che produce, è proprio ciò che allontana da un’autentica pratica della cura. Nella cura, come in molti dei cosiddetti “lavori di cura”, c’è quasi sempre, esplicita o latente, una componente affettiva verso l’”altro” – persona o mondo – che al lavoro in quanto tale per lo più manca; e che quando c’è, sotto forma di “orgoglio” del mestiere o della professione, è per lo più autoreferenziale; oppure promosso o imposto dall’esterno; ma, molto più spesso, nei confronti del lavoro troviamo piuttosto insofferenza, fastidio, rigetto.

Tutto ciò che caratterizza l’attuale sistema economico globalizzato – e che ha segnato nel corso del tempo gran parte dell’evoluzione del capitalismo e della società industriale – e ciò che fa da base alla legittimazione di tutte le sue pretese, di tutte le sue imposizioni e persino dei suoi crimini, ci riporta sempre, direttamente o in ultima analisi, all’occupazione; alla necessità di creare o di “salvare” dei posti di lavoro, e con essi non tanto il reddito (poco) al quale danno accesso, ma il lavoro come risorsa; il lavoro come realizzazione dell’uomo, il lavoro in quanto tale: concetto in cui si compendia ogni attività svolta per costrizione.

Le mie considerazioni su questo tema, forse banali, sicuramente discutibili, ma secondo me necessarie, sono un tentativo di portare un contributo alla promozione di quella svolta radicale in tutti i campi che le crisi sanitaria, climatica, ambientale, culturale e sociale, tutte in corsa verso il precipizio, ci impongono con la massima urgenza.

Lavoro, lavori, lavoratori

1.1 A chi serve il lavoro?

La pandemia di Covid-19, che ha investito tutto il pianeta e costretto metà dei suoi abitanti – quelli che una casa ce l’hanno – a rinchiudersi nelle proprie abitazioni, ha reso evidente la faglia che separa le attività nelle quali sono impegnati i lavoratori.


Da un lato ci sono attività al servizio del benessere o del miglioramento dell’umana convivenza: innanzitutto la filiera medico-sanitaria, dai medici agli infermieri ai produttori di presidi medici; quella del cibo, dall’agricoltore al cuoco, dal fornaio alla cassiera; la logistica, per portare a destinazione beni, semilavorati e persone; l’educazione a tutti i livelli e in tutte le forme; l’informazione; e poi tutte le attività di manutenzione, e tante altre.

Dall’altro ci sono i tanti lavori finalizzati esclusivamente o prevalentemente alla produzione di profitti in attesa di una sempre più improbabile riapertura dei precedenti “sbocchi” delle merci prodotte; e ai quali sono stati comandati, a rischio della loro vita e di quella delle loro famiglie, milioni di lavoratori che avrebbero fatto volentieri a meno di produrre, soprattutto in quelle condizioni, se solo fosse stato garantito loro di che vivere.

Le regole con le quali autorità di vario genere e livello hanno imposto la sospensione di tutte le attività culturali, relegato l’educazione nella didattica a distanza, mascherato con “l’emergenza” l’insufficienza cronica del sistema sanitario e del trasporto pubblico, decretando l’essenzialità di produzioni manifatturiere, considerate “strategiche” per sostenere il Pil – comprese le scandalose fabbriche di armi di ogni genere – non sono riuscite a nascondere quella differenza sostanziale, per quanto sfumata possa apparire in molti casi.

Ci sono attività utili e indispensabili, per quanto gravose e anche rischiose possano essere state rese per chi le svolge, e lavori giustificati solo dalla necessità di mandare avanti comunque la fabbrica dei consumi superflui, la devastazione del pianeta e la produzione di profitti.

Si è aperto, nel foro interiore di molti, anche se ben poco sugli organi di stampa e sui media che ne avrebbero dovuto promuovere e diffondere i risultati, un interrogativo sul senso del lavoro proprio e altrui. Un interrogativo che, se il contagio si fosse risolto in breve tempo, sarebbe stato forse lascito cadere; ma che, nella misura in cui la pandemia si prolunga nel tempo e si intreccia sempre più con la crisi climatica e ambientale che ne è sia causa principale che contesto dello sviluppo futuro, tornerà a riproporsi in forme sempre nuove e con sempre maggior forza: a chi serve il lavoro?

1.2 Una condanna biblica

Per millenni il lavoro, a partire dalla condanna biblica pronunciata da Yahweh (Dio) nei confronti di Adamo (“mangerai il frutto della terra con fatica tutti i giorni della tua vita”) è stato considerato una condanna, associata a una condizione servile, o comunque sotto costrizione, o di vera e propria schiavitù, solo metaforicamente sublimata in alcune sue versioni bucoliche o agresti come l’Arcadia.

Lavoro e fatica sono da sempre equivalenti e persino sinonimi, mentre il dolore del parto, detto anche travaglio, assegnato come condanna, sempre da Yahweh, a Eva, lo accosta al lavoro: travaglio è anch’esso un termine con cui viene nominato il lavoro. Entrambi, poi, Adamo ed Eva, sono stati puniti – bisogna ricordarlo – per aver voluto “conoscere”: se stessi e il mondo.

La vita “vera” è stata comunque da sempre quella che dal lavoro era esentata: o perché dedicata al culto (dai sacerdoti) o alle armi (dai guerrieri), o perché incentrata sul proprio perfezionamento attraverso studio e cultura: una condizione che la lingua greca designava con il termine scholé (da cui il nostro scuola) e il latino con il termine otium, il cui opposto – negotium – non conteneva alcun riferimento alla fatica o alla sofferenza di ciò che noi chiamiamo lavoro, ma solo a traffici e affari di ordine sia politico che commerciale. Oppure, in epoca moderna, la vita vera è stata relegata nel cosiddetto “tempo libero” come un tempo lo era nelle giornate di festa.

D’altronde, in molti dialetti italiani lavorare si dice faticare perché questa è comunque la connotazione principale che da sempre accompagna questa attività. Fatica e faticare vengono dal verbo latino fatisci, rompersi, e dal sostantivo fatis, crepa, frattura. E nella radice del termine francese travail, presente in varie versioni in molti idiomi neolatini e in alcuni dialetti italiani, c’è un riferimento a uno strumento di tortura caro all’Inquisizione (tri-palium: tre pali), cioè a una grave sofferenza; siamo sempre lì.

Il cristianesimo dei primi secoli aveva rivalutato la persona di molti degli addetti al lavoro – gli strati più umili della società, oggetto di un tradizionale disprezzo da parte delle classi colte – ma non la loro attività; ma con la conquista del potere temporale da parte della chiesa e, poi, con l’affermazione del feudalesimo, il contadino era stato definitivamente incatenato, anche dal cristianesimo, alla terra e alle sue corvée come “servo della gleba”. E San Benedetto aveva inserito il labor (la fatica) nella sua regola – ora et labora: prega e lavora – come servizio per la gloria di Dio. Ma vi aveva aggiunto anche: et lege, leggi: l’ingiunzione di acculturarsi, rivolta però solo ai monaci.

1.3 Mestiere e professionalità

L’orgoglio per le proprie abilità che si riflettono nel prodotto del proprio lavoro ha probabilmente accompagnato fin dai primordi l’attività degli artigiani impegnati nella produzione di manufatti, anche nelle società nelle quali quel lavoro li relegava al fondo della piramide sociale della vita urbana, soprattutto se lavoravano a contatto con il fuoco. D’altronde anche Vulcano, il dio-fabbro della mitologia greco-romana, era brutto, storpio e sporco; e tradito in continuazione dalla sua sposa.


Nel medioevo “l’aria della città” che “rende liberi” dai vincoli dei poteri feudali aveva permesso di associare le abilità connesse al proprio mestiere a questa nuova condizione, attribuendo loro valore e dignità; prerogative che investivano però solo chi stava al vertice delle botteghe e dei laboratori dove si svolgeva l’attività degli artigiani – i “maestri” – e, tra loro, soprattutto quelli impegnati nelle produzioni di maggior prestigio; mentre alla base operava una manodopera con ben poche prospettive di poter risalire la piramide della considerazione sociale.

Con la transizione dalla produzione artigianale a quella industriale quell’orgoglio per le proprie competenze si è riversato su una parte della manodopera impegnata nel sistema di fabbrica, fino a quando, in un settore dopo l’altro, la riorganizzazione seriale del lavoro ha permesso di sostituire gran parte degli operai di mestiere con una manodopera dequalificata, per lo più importata dalle campagne o da altre regioni e Paesi.

Una sempre più complessa divisione del lavoro aveva d’altronde accompagnato questo passaggio, allontanando la mansione specifica di ogni singolo lavoratore dalla visione, o anche solo dalla comprensione, del prodotto finale della sua attività.

Alle abilità proprie dei mestieri tradizionali si è così andata a sostituire – limitatamente a una fascia specifica e ridotta di addetti – una concezione premiale, e spesso una esaltazione acritica, della “professionalità”: un concetto che riguarda esclusivamente il modo in cui ciascuno adempie alla propria funzione, all’incarico specifico che ha ricevuto, senza alcun riferimento misurabile al risultato finale di un ciclo produttivo sempre più complesso ed evanescente; cioè, ai suoi effetti sul mondo.

1.4 Lavoro salariato e capitale

Quello che noi oggi chiamiamo lavoro è nato in gran parte con il capitalismo industriale e non è che l’oggetto di una compravendita tra imprenditori capitalisti e prestatori d’opera proletari, formalmente liberi di vendere le proprie capacità (la “forza-lavoro” della quale parla Marx), non avendo nient’altro con cui procacciarsi da vivere.

Lavoro è così diventata una “risorsa produttiva”, una categoria generale, come capitale e terra, tutte e tre volte a individuare e definire le classi fondamentali in cui si articolava il nuovo assetto sociale – lavoratori, imprenditori e proprietari terrieri – e i relativi redditi – salario, profitto e rendita – tra i quali si ripartiva il valore monetario del prodotto nazionale: il futuro Pil.

Mentre però il carattere astratto e macchinico del capitale nascondeva il volto reale dei capitalisti, la presenza personale del lavoro operaio non poteva prescindere dalla figura e dalla vicenda umana di ogni lavoratore e di ogni lavoratrice in carne e ossa. Inoltre, la progressiva finanziarizzazione dell’economia avrebbe finito per dissolvere la proprietà terriera storica nell’amalgama del capitale. Su quelle categorie, comunque, ma soprattutto su capitale e lavoro, si è andata poi concentrando la contrapposizione tra le polarità che hanno dominato buona parte della conflittualità sociale nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo.

Inoltre, con l’avvento del capitalismo e l’eradicazione degli addetti al lavoro dal loro contesto di vita, per trasferirli nell’ambiente artificiale della fabbrica (ciò che ha comportato, non solo nelle campagne, ma anche nelle città, la separazione della dimora dalle sedi della produzione), il lavoro è stato progressivamente associato all’aumento della produttività generato da questo nuovo ambiente dominato dalle macchine: in una parola, allo “sviluppo delle forze produttive”.

IL SENSO DEL LAVORO

1.5 Lo sviluppo delle forze produttive

È in questo quadro, sia Marx e le diverse versioni politiche e culturali che da lui hanno preso le mosse, sia – in un secondo tempo – la tradizione del cattolicesimo sociale a partire dall’enciclica Rerum Novarum, e persino la cultura liberal-liberista, hanno sostanzialmente, seppure in forme diverse, affidato al lavoro l’emancipazione dallo sfruttamento, o la conquista della propria dignità, o la realizzazione di una piena cittadinanza.

Anche l’articolo 1 della Costituzione italiana è il risultato dell’incontro di quelle culture, di quelle tradizioni e delle relative strutture organizzative, cattolica, socialista e liberale: non con un termine escludente – Repubblica “dei lavoratori”, cioè, solo “loro” – come negli Stati dell’”area socialista”, e come avrebbe voluto una parte della sinistra costituente; ma “fondata sul lavoro”, termine assai più indeterminato, ma comunque radice del valore di tutto l’edificio statuale.

D’altronde, con lo sviluppo delle lotte e delle forme di resistenza con cui le organizzazioni del movimento operaio si impegnavano a strappare al padronato potere contrattuale e rispetto per i lavoratori e le lavoratrici, si è prodotto uno slittamento semantico che ha finito per trasferire la dignità rivendicata dai loro protagonisti dalle persone all’attività che li vedeva coinvolti, cioè dai lavoratori al lavoro in quanto tale.

Si era con ciò volutamente equiparato, o volutamente confuso, il lavoro con le lotte per i diritti e il miglioramento delle condizioni lavorative e delle retribuzioni dei lavoratori, ma anche con le tante iniziative per il loro riscatto sviluppate anche al di fuori dell’ambiente di fabbrica, come l’auto-istruzione, le scuole popolari e il mutuo soccorso che hanno accompagnato gli inizi del movimento operaio; attribuendo tout-court al primo il senso e la “dignità” che spettano alle seconde. Ma non per caso, né per sbaglio: la potenza del lavoro industrializzato, cioè lo sviluppo delle forze produttive, è stato a lungo, ed è tuttora considerato da molti, condizione ineludibile non solo della emancipazione dei lavoratori, ma anche del miglioramento della società tutta.

1.6 Produrre che cosa?

Che cosa il lavoro produca o contribuisca a produrre passa così in secondo piano rispetto al suo vero o presunto potenziale emancipatorio. Ma oggi, non solo alla luce della pandemia di Covid-19, ma soprattutto di fronte alla crisi ambientale che la precede, che in gran parte l’ha provocata – e che è destinata a protrarsi ben al di là della sua auspicabile eradicazione – un atteggiamento “agnostico” nei confronti dei prodotti lavoro non è più accettabile. Il “ritorno al lavoro” per coloro – e, certo, non tutti – che l’hanno dovuto interrompere, alla sua “normalità”, è il ritorno a un assetto dei processi produttivi che porta l’umanità, e non solo essa, all’estinzione.

La “dignità” dell’homo faber (l’uomo che fabbrica) non può più essere riconosciuta alla mera capacità della specie umana di trasformare il mondo con il lavoro, e alla potenza con cui, grazie alla scienza e alle macchine, lo può fare; diventa indispensabile collegarla alle conseguenze di quello che fabbrica, alla misura in cui quello che fabbrica contribuisce alla cura della Terra e dei suoi abitanti piuttosto che alla loro rovina. D’altronde c’è persino chi cerca di far passare la prostituzione – stupro a pagamento e quintessenza della negazione della dignità umana, sia per chi ne usufruisce che per chi lo subisce – per “lavoro sessuale”.

Non si può più attribuire una “dignità del lavoro” – spesso invocata, peraltro, da chi ne è a vario titolo esentato, o spaccia per lavoro i suoi traffici – se non a quelle attività che contribuiscono alla tutela della persona o alla rigenerazione dell’ambiente e della salute, o alla lotta per la conversione ecologica delle produzioni nocive. Il lavoro ha una sua dignità solo quando concorre alla cura della casa comune.

1.7 Avere un lavoro

Certamente “avere un lavoro” è stato ed è per molti lavoratori, e soprattutto per molte lavoratrici e tanti giovani, un fattore di emancipazione e di liberazione. Significa, anche nella peggiore delle condizioni, reddito, indipendenza economica, riconsiderazione del proprio ruolo in famiglia; e poi, nuove relazioni al di fuori di essa, con i compagni e le compagne di lavoro ed eventualmente di lotta, e costruzione di una comunità che una famiglia non più allargata non è in grado di fornire.

Ma i lavoratori e le lavoratrici quel lavoro in realtà non lo “hanno” e non lo hanno mai avuto; non è “loro”; è sempre stato del “datore” di lavoro: che lo “dà” perché è lui a detenerlo; è “roba sua”, del padrone, del capitalista, del capitale. Che se lo può riprendere, cioè ritirare, quando vuole; e che può usare quel potere per ricattare sia i lavoratori che i governi, per costringerli a fare quello che vuole lui e per farsi assegnare sussidi o altre condizioni di vantaggio.

Ciò vale anche per tanti lavoratori “indipendenti”, non legati a un singolo padrone, ma in contatto diretto con “il mercato”: altro volto anonimo del capitale in un territorio dove la comunità, anche quando c’è, ha ben poca voce in capitolo sul destino dei suoi membri.

La possibilità e la paura di perdere il lavoro, e con esso la posizione e il ruolo a cui dà accesso – compresa la propria sussistenza e quella della propria famiglia – contraddistingue da sempre la condizione del proletariato in regime capitalistico, così come in altre epoche quella stessa precarietà poteva dipendere dai capricci del tempo, dal passaggio di un’armata, dall’arrivo di una pestilenza, dalla prepotenza di un “signore”.

Ma negli ultimi tempi, con il progressivo affermarsi del cosiddetto neoliberismo, la paura connessa alla precarietà del lavoro – e di tutto ciò che a esso è connesso -– è diventata un dato costitutivo della vita quotidiana e della stessa condizione umana per tutti coloro che non sono collocati nelle alte sfere della gerarchia capitalistica. Anche per questo si moltiplicano le misure che pretendono di garantire ai cittadini “sicurezza” nei confronti di ladri, criminali, migranti, clochard, pedofili, droga; perché quello che in realtà si vuole coprire è il crescente venir meno della sicurezza di poter conservare il proprio lavoro.


sabato 27 marzo 2021

Perché l’industria degli armamenti non conviene al Paese

dalla pagina https://ilmanifesto.it/perche-lindustria-degli-armamenti-non-conviene-al-paese/

Governo. Produrre armi non è utile a nessuno, neanche dal punto di vista economico

Fabbrica di armi in Sardegna

, Rete italiana Pace e Disarmo

Lo scrivevamo proprio un anno fa dalle pagine de il manifesto: mentre l’Italia chiudeva per il Covid-19 le fabbriche di armamenti potevano decidere autonomamente se rimanere aperte grazie ad una concessione del governo che arrivava a definirle «apicali». Lo confermano gli elementi portati all’attenzione del grande pubblico dalla puntata di Presa Diretta di questo lunedì: la «dittatura delle armi» riesce a proteggere con qualsiasi governo gli affari militari. E sicuramente non è nei programmi dell’esecutivo di Mario Draghi e del confermato Lorenzo Guerini un cambio di rotta.

Il ministro è stato chiaro nelle sue linee programmatiche presentate al Parlamento: bisogna agire «valorizzando pienamente l’intero potenziale esprimibile dall’Industria della Difesa, di cui è essenziale assicurare lo sviluppo ed il posizionamento sul mercato europeo ed internazionale»,. L’obiettivo sarebbe «impiegare le risorse della Difesa per sviluppare pienamente l’intero potenziale esprimibile dall’Industria di settore, attraverso una rinnovata sinergia», anche e soprattutto in questa fase delicata ritenendo «fondamentale investire nel pieno rilancio dell’industria della Difesa, non solo quale settore trainante dell’economia ma (…) in quanto presidio di sovranità, libertà, sicurezza e prosperità per il futuro del Paese». Tralasciando l’immagine di armi viste come presidio di «libertà e sicurezza» è importante anche domandarsi se sia così vero anche il collegamento con la «prosperità» dato sempre troppo facilmente per scontato. E troppo spesso utilizzato come scusante per giustificare scelte distruttive.

Partiamo dal fatturato. Secondo uno studio del 2018 realizzato da Ambrosetti in collaborazione con Leonardo il comparto italiano di Aerospazio, Difesa e Sicurezza varrebbe nel complesso 13,5 miliardi di euro all’anno. Secondo Aiad (la Confindustria «militare»,) il totale delle aziende di questo settore svilupperebbe un fatturato di 15,5 miliardi. Altre stime arrivano ad una quota di 16,2 miliardi. Dunque, approssimando per eccesso (e non tutte le aziende del comparto si possono considerare esclusivamente militari), si può considerare una produzione totale di 17 miliardi tutta stimata pre-Covid. Se la confrontiamo con il Pil del 2020 (già fortemente impattato dalla pandemia) si arriva di poco a superare la misera quota dell’1%, che in realtà è più verosimilmente uno 0,9% in condizioni normali. Davvero stiamo parlando di un’industria «fondamentale e insostituibile» su cui puntare con investimenti pubblici robusti e per la quale chiudere un occhio (o forse due) dal punto di vista etico e delle norme da rispettare? Lo stesso si può dire per l’export, da sempre magnificato come elemento di valore da parte dell’industria militare ma che alla prova dei dati non è così significativo. Infatti non tutto l’export delle aziende con capitale tricolore è davvero «italiano»: soprattutto le più grandi hanno una parte preponderante della produzione fuori dai confini nazionali (ad esempio Leonardo dice che solo il 16% dei propri ricavi è basato in Italia).

Limitandoci a quello militare abbiamo un dato fissato dai circa 3 miliardi certificati dalla Relazione al Parlamento della legge 185/90, che possiamo arrotondare a 3,5 valutando che non tutte le vendite di armamenti passano per quella strada (e possibili slittamenti temporali, tanto è vero che sempre Leonardo ha dichiarato di aver esportato da sola 2,9 miliardi di prodotti militari nel 2019). Anche in questo caso stiamo parlando di cifre residuali rispetto al totale di circa 480 miliardi di euro di «made in Italy», uscito dalla Penisola: poco più dello 0,7%. Infine i dati sull’occupazione principale forma di «ricatto», – soprattutto in alcune aree del Paese – per costringere la politica ad assecondare l’economia armata. Le varie stime (sempre di fonte industriale) convergono più o meno su 50.000 occupati diretti e 200-230.000 se consideriamo un non meglio precisato «indotto» (sicuramente peraltro non solo militare). Stiamo parlando di «ben» lo 0,21% (o 1% nel caso dell’indotto) di tutta la forza lavoro italiana a fine 2020. Non certo la parte preponderante degli occupati in Italia, che ad esempio per la sola piccola e media impresa ammontano a qualche milione.

E allora perché continuare ad ostinarsi a trovare una «giustificazione economica» per il sostegno incondizionato all’industria delle armi, quando risulta evidente che soprattutto valutando il medio periodo la spesa militare è infruttuosa anche da quel punto di vista? Lo dimostrano studi condotti negli Usa (dove il moltiplicatore è vantaggioso per il militare, visti i budget mostruosi del Pentagono) per cui ogni milione di dollari speso nella difesa porta a meno di 7 occupati, mentre la stessa cifra nell’energia pulita ne produrrebbe poco meno di 10, nell’educazione di base oltre 19, nell’educazione superiore più di 11 e nella cura sanitaria oltre 14. Dunque, a chi giovano gli investimenti armati? Al Paese nel suo complesso sicuramente no.

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guarda anche la puntata di PresaDiretta del 22/03/2021: 

La dittatura delle armi

A PresaDiretta un'inchiesta dedicata all'industria militare e al suo peso negli equilibri geopolitici, tra inchieste della magistratura, scenari di guerra, testimonianze esclusive e traffici illegali. Pensavamo che il nostro paese non avesse più a che fare con alcuna guerra? Non è così.

 

venerdì 26 marzo 2021

Studio delle Nazioni Unite sull'educazione al disarmo e alla non proliferazione nucleare

dalla pagina https://www.peacelink.it/pace/a/48377.html

Lo studio A/57/124 è stato richiesto con risoluzione 55/33 dell'Assemblea Generale ONU 20/11/2000

Questo studio è stato presentato al primo comitato dell'Assemblea generale dell'ONU nella sua 57a sessione il 9 ottobre 2002. Nello studio si prevede che l'educazione al disarmo proietti a tutti i livelli i valori della pace, della tolleranza, della nonviolenza e del dialogo fra i popoli.

Tradotto da Martina Di Carlo e Irene Barbera per PeaceLink

In questo studio ONU A/57/124 si sottolinea l'importanza dell'istruzione in materia di disarmo e non proliferazione, in particolare per quanto riguarda le armi di distruzione di massa e il settore delle armi di piccolo calibro e del terrorismo internazionale. L'istruzione è fondamentale in tutte le scuole di ogni ordine e grado: primarie, secondarie e soprattutto all'università.

All'interno dello studio è presente anche una guida che specifica raccomandazioni pratiche per la promozione dell'educazione al disarmo e alla non proliferazione sfruttando in modo particolare gli strumenti tecnologici e la tecnologia di comunicazione. Ciò vuol dire che oltre ai computer, l'apprendimento lo si sviluppa anche tramite video, film, danza, musica, teatro e via discorrendo.

L'obiettivo generale dell'educazione e formazione al disarmo e alla non proliferazione è impartire conoscenze e capacità ai singoli per incoraggiarli a dare il loro contributo sia come cittadini nazionali che come cittadini del mondo, alla realizzazione di misure concrete di disarmo e di non proliferazione.

Nello studio si prevede che l'educazione al disarmo e alla non proliferazione proietti a tutti i livelli i valori della pace, della tolleranza, della nonviolenza e del dialogo fra i popoli.

Note: La risoluzione 55/33 (lettera E) dell'Assemblea generale dell'ONU del 20 novembre 2000 (https://undocs.org/A/RES/55/33) era intitolata UNITED NATIONS STUDY ON DISARMAMENT AND NON-PROLIFERATION EDUCATION e prevedeva che il Segretariato delle Nazioni Unite preparasse, con l'assistenza di un gruppo di esperti qualificati, uno studio sul disarmo e la non proliferazione che avesse l'obiettivo di definire una educazione e un addestramento tenendo conto del bisogno della promozione di una cultura della nonviolenza e della pace.
Tale studio (allegato a questa pagina web) è stato presentato al primo comitato dell'Assemblea generale dell'ONU nella sua 57a sessione il 9 ottobre 2002.

Per altre informazioni https://unrcpd.org/peace-and-disarmament-education/

Nostra annotazione: si richiederebbe un piccolo sforzo in più alle Nazioni Unite nelle traduzioni. Infatti la maggior parte del materiale in merito è in lingua inglese, dunque il primo passo da effettuare sarebbe quello di tradurlo almeno verso le lingue ufficiali per promuovere l'educazione al disarmo.


mercoledì 24 marzo 2021

Cosa significa essere “sostenibile”?

dalla pagina https://valori.it/investimenti-sostenibili-tassonomia-ue-2/

Cosa significa essere “sostenibile”? L’importanza di fare chiarezza e gli ostacoli per l’Ue

Nel mondo della finanza il termine "sostenibile" vale miliardi. L'Ue è al lavoro per stabilire regole precise e definizioni univoche. Con molti intoppi

La Commissione europea sta cercando di fare chiarezza tra le definizioni di economia e finanza sostenibile
© RomoloTavani/iStockPhoto


“Sostenibile”. Un termine alquanto inflazionato di questi tempi, di gran moda si potrebbe dire. Ormai non c’è azienda che non usi questo aggettivo sui propri canali informativi. Dichiarare di essere “sostenibili”, verso l’ambiente in particolare, sembra essere un must degli ultimi anni, dell’ultimo anno forse ancora di più. 

Ma che cosa significa esattamente essere “sostenibili”? Significa non inquinare? O inquinare poco? Ma quanto poco? O anche solo un po’ meno dell’anno scorso? Significa usare lampadine a led nei propri uffici? O forse pagare per piantare alberi dall’altro capo del mondo per compensare le emissioni inquinanti che si rilasciano in Italia? Significa anche rispettare i diritti umani delle popolazioni dove si produce o quelli dei lavoratori dell’azienda? E magari anche pagare le tasse nel proprio paese?

Difficile rispondere a queste domande. O diciamo che ognuno potrebbe rispondere a modo suo. E così è stato, almeno per ora. Perché, fino ad ora, non esiste una definizione ufficiale di sostenibilità. E ogni azienda può usare questo termine come le pare e piace. Creando ovviamente una gran confusione nel consumatore. Facendo promesse, spesso generiche (e non verificabili). Tutto, nella maggior parte dei casi, come ennesimo “stratagemma” di marketing. 

La confusione attorno agli investimenti sostenibili

Ma parliamo di un ambito specifico, la finanza. Perché qui, ancor più, il termine “sostenibile” ha un peso. E una responsabilità. Perché chi propone un investimento “sostenibile” sta facendo una promessa che vale miliardi. Nel 2020 in Europa i fondi di investimento sostenibile hanno raccolto 223 miliardi di euro, quasi il doppio rispetto al 2019.

Ma, anche in questo caso, il termine “sostenibile” non ha definizioni ufficiali. Fino ad oggi, infatti, non esisteva una definizione univoca di “investimento responsabile”. Ogni agenzia di rating Esg, ogni gestore finanziario, ogni fondo di investimento applicava i suoi criteri e la sua metodologia nella selezione del portafoglio di imprese sostenibili.

Dietro agli investimenti sostenibili c’era una gran “confusione”. Termine ideato dai ricercatori del celebre Mit, il Massachusetts Institute of Technology, in una ricerca pubblicata intitolata proprio “Aggregate Confusion: The Divergence of Esg Ratings”, ovvero “Confusione aggregata: la divergenza dei rating Esg”. E questa, per il Mit,  non è una buona cosa. È una situazione che, causa notevoli problemi: «L’ambiguità attorno ai rating Esg è un ostacolo a un processo decisionale prudente che contribuirebbe a un’economia sostenibile».

Commissione europea al lavoro

Ed ecco, quindi, perché la Commissione europea da oltre 4 anni sta lavorando per fare chiarezza in questo mercato. Nel marzo del 2018 ha lanciato un enorme piano per creare un corpo di regole attorno alla finanza sostenibile: l’Action plan on sustainable finance. Il motivo alla base di questo impegno lo aveva esplicitato chiaramente: per salvare il Pianeta l’economia deve ridurre il proprio impatto, deve avvenire una vera rivoluzione. Una trasformazione costosa: 180 miliardi di euro all’anno. Tanto costerà la transizione a un’economia low carbon, secondo Bruxelles. E i fondi pubblici non basteranno: è necessario il contributo dei capitali privati, che dovranno essere orientati verso la finanza etica e sostenibile, investiti in attività economiche sostenibili. Fondamentale quindi definire chiaramente quali attività possano “meritarsi” questo attributo. Così è nato il lavoro attorno alla “tassonomia delle attività economiche sostenibili”.

Il perno del lavoro della Commissione europea attorno alla finanza sostenibile è proprio la tassonomia, la classificazione delle attività economiche che possono essere definite, appunto, “sostenibili” per l’ambiente. «Una guida pratica – scrive la Commissione  – per politici, imprese e investitori su come investire in attività economiche che contribuiscano ad avere un’economia che non impatti sull’ambiente».

La strada tortuosa per il “vocabolario” degli investimenti sostenibili

Dopo 4 anni di lavoro, il regolamento sulla tassonomia c’è. Ed è entrato in vigore il 22 giugno 2020. Questo “vocabolario” della sostenibilità ambientale sarà un riferimento per il mondo della finanza responsabile, per indicare quanto sostenibile sia effettivamente un investimento; per i governi, per stabilire gli incentivi ad aziende green; per le aziende, per rendicontare il proprio impatto sull’ambiente. 

Il 31 dicembre 2021 il primo blocco di criteri tecnici di selezione delle attività da considerare sostenibili diventerà operativo. Da quel momento chi proporrà investimenti sostenibili e responsabili (SRI) dovrà indicare la percentuale di allineamento alla tassonomia del proprio portafoglio investito.

Ma in realtà mancano ancora alcuni (importanti) dettagli, cioè i criteri tecnici per stabilire a quali condizioni un’attività possa essere definita sostenibile. Avrebbero dovuto essere pubblicati a fine 2020 sotto forma di Atti delegati, ma non è stato possibile

Una prima bozza di questi atti delegati era stata redatta, dai 35 esperti del Tecnical expert Group (il Teg). Poi è arrivata la bozza definitiva scritta dalla Piattaforma per la finanza sostenibile, che si è insediata a settembre per iniziativa della Commissione europea. È stata sottoposta a una consultazione pubblica fino al 18 dicembre scorso. Ma è stata letteralmente sommersa da una valanga di commenti e critiche (oltre 46.000).  E una decina di Stati hanno poi chiesto e ottenuto il rinvio degli atti delegati. Per cui al momento non c’è una data precisa.

Dall’ambiente ai diritti, i tasselli mancanti

Uno dei punti che ha ricevuto più critiche riguarda il gas come fonte energetica: in base ai criteri tecnici contenuti nella bozza degli atti delegati, non potrebbe essere considerato un combustibile di “transizione”. E, senza l’etichetta verde dell’Ue, le centrali elettriche a gas potrebbero perdere miliardi di euro di finanziamenti privati. Un problema in particolare per i Paesi dell’Europa orientale, dove gli impianti a gas a ciclo combinato stanno favorendo la transizione dal carbone. 

Un altro dei punti dolenti  riguarda la bioenergia prodotta con la combustione di alberi, che, in base alla tassonomia, sarebbe “sostenibile”. Ma per gli ambientalisti no. Lo stesso vale per le centrali idroelettriche, incluse tra le categorie sostenibili, ma che per molte Ong dovrebbero esserne escluse a causa dei danni per la biodiversità. Un altro punto dolente riguarda la plastica, considerata sostenibile dalla Tassonomia se “completamente prodotta mediante riciclaggio meccanico dei rifiuti di plastica” o mediante processi di riciclaggio chimico se vengono rispettati gli standard minimi di emissione. 

Ma nel lungo lavoro della Commissione europea per definire la finanza sostenibile non c’è traccia (o quasi) di criteri sociali (uno dei 3 fattori chiave dell’ESG, environmental, social, governance). Viene solo specificato che dovranno essere rispettate soglie di salvaguardia minime in ambito sociale: l’allineamento alle linee giuda dell’Ocse per le multinazionali e ai Guiding Principles on Business and Human Rights delle Nazioni Unite.

E non vengono considerati neanche fattori la speculazione e l’evasione (o elusione) fiscale. «Il fattore sociale è fondamentale per un’economia sostenibile, quanto quello ambientale. Oggi questo è ancora più vero – aveva dichiarato a Valori Francesco Bicciato, presidente del Forum per la Finanza Sostenibile – Il coronavirus ha messo in luce l’importanza del fattore sociale anche per gli strumenti finanziari».

anche Banca Etica, si sta battendo per ottenere un riconoscimento dei fattori sociali, accanto a quelli ambientali. Perché non può esistere una finanza sostenibile che non consideri tutti e tre i pilastri della sostenibilità, quindi ambiente, sociale e governance aziendale.

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dalla pagina https://valori.it/gas-aerei-nucleare-idrogeno-tassonomia-investimenti-sostenibili/

Gas e aerei nella bozza di classificazione europea degli investimenti sostenibili
Trapelata una bozza degli atti delegati sulla tassonomia degli investimenti sostenibili. Ecco le novità per gas, riscaldamenti, aerei, idrogeno, nucleare

In una bozza di atti delegati sulla tassonomia europea degli investimenti sostenibili, il gas sembra considerato a pieno titolo un combustibile di transizione © Barbar Facemire/Pixy.org

Andrea Barolini

Le regole dall’Unione europea per la definizione degli attività economiche considerate “sostenibili” potrebbero presentare diverse “concessioni” alle industrie. Anche a quelle responsabili di importanti emissioni di gas ad effetto serra, che potrebbero così captare ingenti investimenti (quelli indirizzati al mercato della finanza sostenibile). È quanto emerge da una bozza degli atti delegati, ovvero dei testi sulla cui base si dovrà applicare concretamente la tassonomia delle attività “verdi”.

Tassonomia degli investimenti sostenibili: il nodo dell’energia

Il documento – inviato da Bruxelles ai rappresentanti dei Ventisette Stati membri – è stato ottenuto e pubblicato dal giornale online francese Contexte.  Va ricordato che il regolamento sulla tassonomia verdepubblicato sulla Gazzetta Ufficiale Europea nel giugno del 2020, ha posto sei obiettivi ambientali che occorre rispettare per poter essere compresi nella lista delle attività economiche che possono essere oggetto di investimenti sostenibili. Due riguardano l’energia: la capacità di attenuare i cambiamenti climatici e quella di favorire l’adattamento alle conseguenze del riscaldamento globale. I due obiettivi fanno parte di un unico atto delegato (e di due allegati) che, appunto, Contexte ha pubblicato. 

Nel novembre del 2020 una prima bozza di atti delegati aveva già sollevato ampie critiche da parte, in particolare, del mondo associativo. Quella rivelata ora è una seconda versione proposta ai governi europei. Come sottolineato dal giornale transalpino, «l’obiettivo dell’adattamento (secondo allegato) è poco dettagliato. L’attività economica deve aver adottato delle soluzioni per ridurre i rischi climatici. La Commissione chiede una valutazione della pertinenza di tali soluzioni. In questo caso, i testi pubblicati a novembre hanno subito pochi cambiamenti». Al contrario, per l’attenuazione (primo allegato) sono state effettuate numerose modifiche, in particolare per quanto riguarda il capitolo energia. 

Il gas potrebbe essere considerato un combustibile di transizione

Per il gas, in particolare, sono state create due nuove categorie di attività che potrebbero rientrare nella tassonomia. Da un lato, la sostituzione di sistemi di riscaldamento urbano alimentati da un combustibile fossile diverso dal gas. Dall’altro, la sostituzione di impianti di cogenerazione. Ciò sulla base di una serie di obiettivi che il nuovo sistema deve rispettare: avere almeno la stessa capacità del precedente impianto, essere installato entro il 2025, ridurre di almeno il 50% le emissioni di gas ad effetto serra per chilowattora prodotto. E, ancora, essere compatibile con il gas meno impattante, non superare in ogni caso i 270 grammi di CO2 equivalente per kWh, essere installato in mancanza di alternative praticabili ed economiche e basse emissioni.

Una nuova via di accesso, dunque, da parte delle industrie fossili a fondi pubblici e investimenti privati. Con il gas che diventerebbe, di fatto, un combustibile di transizione. In cambio, non sono state modificate le soglie proposte dal TEG, il gruppo tecnico di esperti che ha steso un rapporto ad hoc sulla tassonomia, per le centrali elettriche a gas. Ovvero, in particolare, 100 grammi di CO2 equivalente per kWh. 

Escluso dagli investimenti il nucleare, per ora. Criteri snelliti per l’idrogeno

Sembrerebbe escluso invece il nucleare (a differenza di quanto deciso invece, ad esempio, dalla Russia). Ciò in base alla regola secondo la quale ciascuna attività non soltanto deve giovare alle politiche di adattamento e attenuazione. Ma non deve neppure nuocere agli altri obiettivi (biodiversitàeconomia circolare, protezione degli oceani, limitazione dei tassi di inquinamento). Ciò sulla base del principio di innocuità (“do no significant harm principle”). Ma secondo Greenpeace «si è scelto di lasciare comunque una porta aperta all’atomo, poiché la Commissione si è riservata di rivedere il testo».

Inoltre, nella bozza figura anche l’aviazione tra le attività di transizione, «benché – prosegue l’associazione ambientalista – l’aereo sia il mezzo di trasporto a più alto impatto climatico». Briglie allentate anche per l’idrogeno: la soglia da rispettare per la produzione è stata alzata a 3 chilogrammi di CO2 equivalente per chilogrammo realizzato (nella prima versione erano 2,256). Anche in questo caso, si tratta di una richiesta giunta specificatamente dalle industrie. Più stringenti, invece, le regole per la fabbricazione delle batterie: esse devono considerare anche le possibilità di riciclo.

Greenpeace: «Del “rilancio verde” così rimarrà solo il nome»

Secondo Ariadna Rodrigo, di Greenpeace, «la bozza indica che la Commissione europea sta abbandonando ogni volontà di far avanzare il Green Deal attraverso le regole sulla finanza sostenibile. Anziché concentrarsi su soluzioni dall’efficacia provata come l’isolamento termico o le rinnovabili, vuole veicolare il denaro dei contribuenti e gli investimenti privati verso industrie distruttive. Così, del “rilancio verde” rimarrà solo il nome. Ci sembra che quello che si prospetta sia unicamente un esercizio di greenwashing». Un testo definitivo degli atti delegati è atteso per la metà di aprile.