(Foto di Wall Street Italia) |
Le differenze fra ricchi e poveri sono diventate così scandalose in ogni parte del mondo, da indurre perfino un’istituzione come il Fondo Monetario Internazionale ad annoverare l’iniqua distribuzione della ricchezza fra le massime priorità da risolvere. E non tanto per senso morale, quanto per la stabilità del sistema. Una ricchezza mal distribuita oltre a provocare tensione sociale che si ripercuote negativamente sulle relazioni industriali, rallenta i consumi e di conseguenza l’intero sistema produttivo.
Per ammissione generale uno degli ambiti che negli ultimi decenni ha contribuito in maniera determinante ad aggravare le disuguaglianze è il sistema fiscale. Per dirne una, nei paesi OCSE l’aliquota sui redditi d’impresa è scesa da una media del 32,5% nel 2000 al 23,9% nel 2018. Così pure si è assistito ovunque a una riduzione delle aliquote sui redditi più alti delle persone fisiche. In Italia ad esempio gli scaglioni sono passati da trentadue, nel 1974, ai cinque odierni, con l’ultima aliquota al 43% oltre i 75.000 euro, mentre nel 1974 arrivava al 72% oltre i 258.000 euro. Allo stesso modo si è assistito ovunque ad un alleggerimento sulle tasse di successione, nonostante Picketty ritenga che la trasmissione della ricchezza per via ereditaria sia uno dei meccanismi portanti dell’allargarsi delle disuguaglianze. E per finire la demolizione della patrimoniale. Negli anni novanta del secolo scorso una dozzina di paesi europei disponeva di un sistema di tassazione complessiva della ricchezza delle famiglie. Oggi ce l’hanno solo in tre: Spagna, Norvegia, Svizzera.
L’Italia non compare fra i paesi dotati di una patrimoniale complessiva, eppure la CGIA di Mestre sostiene che le imposte sul patrimonio procurano allo stato un gettito di circa 45 miliardi di euro, pari al 5% del suo gettito tributario. In effetti in Italia esistono varie imposte, quali Imu, Tasi, bollo auto, imposta di bollo, che colpiscono la ricchezza delle famiglie detenuta sotto forma di case, autoveicoli, depositi bancari, pacchetti azionari. Ma si tratta di imposte spezzettate, spesso ad aliquota fissa, su voci trattate singolarmente. Ciò che manca è l’obbligo di dichiarazione cumulativa dei patrimoni con una tassazione sull’insieme della ricchezza netta posseduta, ossia depurata dai debiti. Unica via che consente di avere un panorama completo dello status economico di ogni individuo o famiglia e quindi di applicare una contribuzione progressiva come prevede la nostra Costituzione. Accortezza che invece hanno Norvegia, Svizzera e Spagna, benché adottino ciascuno metodi di tassazione diversificati. La Norvegia ad esempio applica un’aliquota fissa dello 0,85% sul patrimonio complessivo che oltrepassa i 150.000 euro, con lo 0,7% che va agli enti locali e lo 0,15 allo stato centrale. In Svizzera, invece, l’imposta patrimoniale è cantonale, con forme e aliquote differenziate da cantone a cantone. In Spagna l’imposta sul patrimonio è progressiva e va dallo 0,2% a partire da 167.000 euro fino al 2,5% oltre 10 milioni e mezzo di euro, con possibilità di modifiche da parte delle Autonomie regionali.
Ed è stata proprio una recente iniziativa del governo spagnolo a riaccendere il dibattito sulla patrimoniale in Italia. Prendendo spunto dalla decisione del governo Sanchez di innalzare di un punto percentuale l’aliquota oltre i 10 milioni di euro, alcuni parlamentari di Leu e del PD hanno deciso di forzare la mano per introdurre anche in Italia un’imposta complessiva sul patrimonio che assorba tutte le altre frammentate per singole voci. La via utilizzata è stata la presentazione di un emendamento alla prossima manovra finanziaria, tramite il quale si propone l’introduzione di quattro scaglioni d’imposta. Partendo da un’aliquota dello 0,2% su un patrimonio complessivo di 500mila euro, si sale allo 0,5% quando si raggiunge il milione di euro, per andare all’1% sopra i 5 milioni e finire al 2% oltre i 50 milioni. Una proposta piuttosto modesta rispetto a quella spagnola, ma sufficiente per gettare nel panico gran parte dello schieramento politico e del mondo economico. Ma ormai perfino la Banca Mondiale sostiene la necessità della patrimoniale, mentre i ricchi stessi chiedono di essere tassati. Il 13 luglio scorso 83 milionari di varie parti del mondo hanno scritto una lettera a Forbes in cui implorano i governi di tassarli. “L’impatto della pandemia durerà per decenni – essi scrivono. Potrebbe spingere mezzo miliardo di persone in povertà. Centinaia di milioni di persone perderanno il loro lavoro. Ormai c’è già un miliardo di bambini fuori dalla scuola, molti di loro senza possibilità di ripresa. (…) I problemi provocati dalla pandemia non possono essere risolti con la carità, non importa quanto generosa. I capi di governo devono assumersi la responsabilità di trovare i fondi che servono e usarli bene. (…) A differenza degli altri, noi non dobbiamo preoccuparci del nostro lavoro, delle nostre case, del sostentamento delle nostre famiglie. (…) Perciò per favore tassateci, tassateci, tassateci. E’ la scelta giusta. E’ la sola scelta possibile. L’umanità conta più del nostro denaro”.
Non ci resta che ascoltarli e attuare le loro suppliche.