dalla pagina https://ilmanifesto.it/il-virus-e-la-malattia-del-pianeta-stressato/
Intervista. Per il professor Gianni Tamino, che indaga il rapporto tra ambiente e salute, l’alterazione dell’ecosistema favorisce le epidemie
Francesco Bilotta
Intorno alla pandemia causata dal nuovo coronavirus si sta sviluppando un intenso dibattito sugli aspetti sanitari. Anche nel campo delle scienze sociali, per l’impatto che il virus sta avendo sulle nostre abitudini e stili di vita, si stanno producendo riflessioni ed analisi.
Si è sviluppato solo parzialmente, invece, il dibattito sul rapporto che intercorre tra la condizione ambientale e l’insorgenza di una epidemia. Per contribuire a colmare questo vuoto ci siamo messi in contatto con il professor Gianni Tamino (docente di Biologia generale all’Università di Padova, dove attualmente svolge attività di ricerca nel campo dei rischi legati alle applicazioni biomolecolari), impegnato da molti anni a indagare il rapporto tra ambiente e salute.
Quale relazione esiste tra questa pandemia e le profonde trasformazioni che il pianeta sta subendo? Lei ha più volte fatto riferimento alla capacità di carico e al deficit ecologico che sta caratterizzando il pianeta.
Sulla base della capacità di carico si può misurare la capacità rigenerativa del pianeta. Nel caso della popolazione umana si parla di «impronta ecologica». L’Overshoot Day indica il giorno in cui il consumo delle risorse supera la produzione che la Terra mette a disposizione per quell’anno. Per il 2019, il giorno è stato il 29 luglio. Significa che in sette mesi abbiamo esaurito tutte le risorse che il pianeta rigenera in un anno. Bisogna risalire agli anni ’80 per trovare un equilibrio tra risorse consumate e risorse rigenerate dalla Terra. Si è determinato un deficit ecologico che comporta esaurimento delle risorse biologiche e, nello stesso tempo, produzione di rifiuti, effetto serra, alterazione della biodiversità, con squilibri che sono alla base dell’insorgenza di molte malattie. Quanto più si superano i limiti della disponibilità del territorio e si altera l’ambiente, tanto maggiore sarà la frequenza con cui si manifestano carestie, guerre, epidemie. Il rapporto del 1972 su I limiti dello sviluppo anticipava molte delle questioni attuali.
Le risorse naturali vengono consumate a un ritmo sempre più accelerato e cresce la produzione agricola, ma non si riescono a soddisfare le esigenze alimentari della popolazione. Il cibo prodotto sarebbe sufficiente per tutti, ma malattie e malnutrizione sono presenti in diverse aree del pianeta.
La Fao calcola che la produzione attuale di cibo sarebbe in grado di sfamare fino a nove miliardi di persone, ben al di sopra dell’attuale popolazione. Sta di fatto che un miliardo di persone soffre la fame a causa di forme di produzione non sostenibili e una iniqua distribuzione. La riduzione delle terre coltivabili, la perdita di fertilità dei suoli, l’estensione delle monocolture, l’inquinamento ambientale, sono alcuni dei fattori che incidono sulla disponibilità di cibo. Il 70% della superficie agricola è destinata alla produzione di mangimi per animali. La biomassa del miliardo e mezzo di bovini che viene allevato è molto di più della biomassa umana. Inoltre, lo spreco alimentare, pari al 30% di tutta la produzione che si verifica nel corso di tutto il processo produttivo e distributivo, aggrava la situazione.
I cambiamenti climatici e l’alterazione degli habitat creano le condizioni favorevoli all’insorgenza di malattie cronico degenerative e di epidemie. Quale è il legame tra un ambiente degradato e la diffusione di una epidemia?
Le enormi quantità di energia di origine fossile che abbiamo impiegato a partire dalla Rivoluzione Industriale hanno prodotto una situazione che rischia di diventare irreversibile. I cambiamenti climatici e l’inquinamento del pianeta rappresentano una seria minaccia per il mantenimento degli ecosistemi e della biodiversità. L’inquinamento ambientale sta producendo gravi conseguenze sulla salute umana ed è responsabile della morte prematura di almeno 10 milioni di persone ogni anno nel mondo. L’incremento di malattie cronico degenerative sta determinando un indebolimento di ampie fasce della popolazione, che risulta meno idonea a difendersi dalle malattie infettive e dalle nuove epidemie.
Il contatto sempre più ravvicinato con gli animali selvatici e i loro patogeni rendono più facile il salto di specie, ma anche gli allevamenti intensivi rappresentano una condizione potenzialmente pericolosa per la diffusione di epidemie.
Il salto di specie di un virus da un animale all’uomo è sempre un evento preoccupante, sia che si tratti del pipistrello (per il nuovo coronavirus) o dei polli e suini (per l’influenza aviaria e suina), perché la popolazione è priva di difese immunitarie specifiche e il virus non trova ostacoli. Per questo è necessario contenere la diffusione riducendo i contatti tra le persone. In questi mesi stiamo affrontando una pandemia virale, ma il futuro potrebbe riservarci pandemie causati da batteri resistenti ad ogni trattamento farmacologico. Negli allevamenti intensivi, a causa dell’elevata concentrazione di animali e del massiccio impiego di antibiotici, si creano le condizioni favorevoli allo sviluppo di ceppi batterici resistenti. Se una salmonella o un ceppo di Escherichia coli sviluppassero resistenza agli antibiotici, si determinerebbe una situazione drammatica perché non saremmo in grado di controllare il contagio.
Un rapporto dell’OCSE del 2018 afferma che nei prossimi 10 anni avremo più di 600 milioni di persone residenti in aree segnate da conflitti, in condizioni di povertà ed esposte a epidemie.
Si tratta dell’80% della popolazione più povera del mondo che si trova all’interno di stati fragili e che vive una condizione di emergenza a causa dei cambiamenti climatici. Le popolazioni fragili e indebolite di questi paesi sono «terreno fertile» per la diffusione di epidemie. La precaria condizione sanitaria non consente di affrontare le epidemie che dovessero insorgere e che le inevitabili migrazioni trasformerebbero in pandemie.
Recentemente ha affermato che questa pandemia può essere un «utile avvertimento» per evitarne di nuove e più gravi.
Il Covid-19 è una reazione allo stato di stress che abbiamo causato al pianeta. Questa pandemia non ha una letalità elevata, anche se è alta la contagiosità. Nella Pianura Padana, soprattutto in Lombardia, sta colpendo una popolazione anziana e indebolita da patologie pregresse. E l’inquinamento dell’ambiente svolge un ruolo fondamentale nell’insorgenza di queste patologie. Riusciamo a tenere in vita più a lungo le persone, ma non siamo in grado di garantire una vita sana. A fronte di una età media più elevata, la nostra «aspettativa di vita sana» si è ridotta. Per arginare le future epidemie dobbiamo modificare il nostro rapporto con l’ambiente, ma anche potenziare le strutture sanitarie pubbliche che vengono smantellate in tutti i paesi.