venerdì 27 marzo 2020

"Quello che non voglio scordare, dopo il Coronavirus" e "Non chiamatela guerra"

dalla pagina https://www.corriere.it/cronache/20_marzo_20/virus-dopo-ecco-mia-lista-cose-che-non-voglio-scordare-d860d476-6ad9-11ea-b40a-2e7c2eee59c6.shtml

A un certo punto, «dopo» il Coronavirus, avrà inizio la ricostruzione. E dobbiamo osare riflettere, da ora, su ciò che non vorremmo ritornasse uguale

di Paolo Giordano

È sempre più frequente il ricorso alla parola «guerra». L’ha usata Macron nel suo discorso alla nazione, la ripetono i politici, i giornalisti e i commentatori, la scelgono i medici. «Siamo in guerra», «è come una guerra», «prepariamoci alla guerra». Ma non è così, non siamo in guerra. Siamo nel mezzo di un’emergenza sanitaria e presto anche economico-sociale, drammatica al pari di una guerra ma sostanzialmente diversa e che merita di essere considerata nella sua specificità.

Parlare di guerra è una scorciatoia lessicale, un modo in più per eludere la novità assoluta, almeno per noi, di quanto sta accadendo, riconducendola a qualcosa che ci sembra di conoscere meglio. Ma questo è stato il nostro errore fin dall’inizio, ripetuto ancora e ancora: rifiutare l’impensabile, costringerlo a forza dentro categorie abituali e meno spaventose. Come confondere un distress respiratorio acuto con un’influenza stagionale. Una scelta più accorta dei termini, perfino severa è essenziale in un’epidemia, perché le parole condizionano i comportamenti e quelle imprecise rischiano di distorcerli. E perché ogni parola porta con sé i suoi spettri: la guerra evoca autoritarismo, sospensione dei diritti e violenza — tutti demoni che adesso più che mai sarebbe meglio lasciar stare.


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Per favore, non chiamatela guerra

Di mestiere mi occupo per lo più di guerre, alcune ho avuto il privilegio di seguirle da vicino molte altre a distanza, ma con una certa assiduità, spesso le ho ricostruite grazie al racconto di profughi assiepati lungo qualche confine oppure rintanati in campi di fortuna. Se non vi fidate di quello che scrivo, dei miei reportage, dei miei libri (può essere), chiedete ai soldati italiani che hanno combattuto la “guerra di pace” in Afghanistan oppure agli anziani che hanno vissuto la Seconda Guerra Mondiale. E’ difficile che vi rispondano ma provateci. E’ difficile che vi rispondano perché – da qualunque parte tu sia, soldato o civile – la guerra si porta dietro traumi, dolori e orrori che ti spingono a tenerti tutto dentro. O almeno questo è quello che ho constatato in anni di chiacchierate sia con reduci che con sopravvissuti.

Chiedere cosa? Beh chiedetegli cosa significa davvero essere in guerra, trovarsi in una città alle cui porte si combatte o sotto assedio. Nell’attesa che poniate questa e altre domande simili, provo a descrivervelo io partendo da una frase che sento e leggo in giro: “E’ come in guerra”.
Lo ripetono le persone in fila al supermercato, ad un metro di distanza, in strade che fino a ieri straboccavano di auto e oggi sono deserte.
Lo leggo sui social o nei messaggi personali che ricevo, commentando l’attuale situazione italiana (che poi sta diventando mondiale).
Bene vorrei pregarvi di non usare questo parallelismo. In sintesi: no, non è come in guerra. Ecco perché.