Fuoriluogo. Significa riprendere la strada segnata dalla Costituzione, non solo nella garanzia dei diritti fondamentali delle persone detenute, ma anche nella offerta di opportunità di reinserimento sociale dei condannati
Stefano Anastasia
Completata la squadra, il secondo governo Conte prende il largo. Di molte cose si è discusso nei giorni scorsi, riguardo alla «compatibilità» programmatica tra Pd e 5 Stelle, lambendo i temi di politica della giustizia più presenti nel dibattito pubblico, come la riforma del processo penale e quella del sistema elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura. Non altrettanta attenzione, come sempre, è stata invece prestata al mondo del carcere e dell’esecuzione penale, oggetto di specifici interventi solo grazie alla penna e all’intelligenza di Franco Corleone e Giovanni Fiandaca.
La preoccupazione diffusa è che l’assenza di impegni in materia celi una sostanziale continuità con i quattordici mesi passati.
Quattordici mesi in cui la popolazione detenuta è cresciuta insieme con i suicidi e gli atti di autolesionismo. Quattordici mesi in cui il clima di paura e di tensione alimentato all’esterno si è specchiato in una chiusura del sistema penitenziario e in una conflittualità sempre maggiore all’interno delle carceri. Insomma, gli infausti propositi di chi intendeva «buttare la chiave» per far «marcire in galera» i detenuti hanno segnato l’ambiente penitenziario, non solo accompagnando la crescita della popolazione detenuta, ma anche generando una significativa e preoccupante conflittualità tra detenuti e polizia penitenziaria.
Discontinuità, in carcere, significa riprendere la strada segnata dalla Costituzione, non solo nella garanzia dei diritti fondamentali delle persone detenute, ma anche nella offerta di opportunità di reinserimento sociale dei condannati.
Discontinuità significa riprendere il modello costituzionale della inclusione sociale e abbandonare quello della esclusione, fondato – appunto – sulla criminalizzazione della marginalità sociale, sull’uso populista del diritto e della giustizia penale, sulla centralità e la chiusura del carcere rispetto alle prospettive del reinserimento sociale dei condannati. Discontinuità è dare credito alle parole con cui papa Francesco ha voluto accogliere il personale di polizia penitenziaria sabato scorso: «garantire condizioni di vita decorose» e «mai privare del diritto di ricominciare», fino a riconoscere che «l’ergastolo non è la soluzione dei problemi, ma un problema da risolvere».
Non sappiamo se la nuova maggioranza sarà capace di produrre questa necessaria discontinuità, e immaginiamo quanto può essere gravoso farlo per chi anche ieri ha avuto la responsabilità dell’indirizzo politico di governo in materia. Ma le alternative restano queste: inclusione o esclusione sociale? Centralità del carcere o sua extrema ratio? Su questo aspettiamo alla prova dei fatti la nuova maggioranza e, in particolare, il Movimento 5 Stelle, da cui ci si attende l’abbandono degli slogan (la certezza della pena, il principio di legalità, e altri vieti slogan come se l’esecuzione penale esterna non sia anch’essa una forma di pena sancita dalla legge), e la fatale scoperta che la giustizia penale non produce giustizia sociale, ma – se va bene – il corrispettivo di specifiche prevaricazioni e violenze e magari un po’ di prevenzione. La giustizia sociale marcia per altre strade, e merita di essere offerta anche agli autori di reato, che spesso lo sono perché anch’esse vittime, appunto, dell’ingiustizia sociale.
Dei contenuti della discontinuità necessaria alle politiche penali e penitenziarie discuteremo i prossimi 4 e 5 ottobre a Milano, nell’assemblea della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, aperta alla partecipazione e al contributo di operatori e volontari interessati a un nuovo percorso di riforma del sistema penale e penitenziario. Speriamo che già da questa prossima occasione possa avviarsi un confronto nuovo con il nuovo Governo e con la nuova maggioranza.