Un’ecologia politica che mette in discussione il capitalismo
Scaffale. «La natura è un campo di battaglia» di Razmig Keucheyan per Ombre corte. L'analisi del sociologo francese si snoda lungo tre grandi direttive: il razzismo ambientale, la finaziarizzazione della natura e la militarizzazione dell’ecologia
Ormai è impossibile negarlo: siamo immersi in una crisi ecologica di proporzioni inaudite. Ciò che invece è ancora poco compreso – anche dalla stragrande maggioranza, più bianca che verde, dei movimenti ambientalisti – è che sull’orlo del baratro non ci ha portato quell’universale astratto che risponde al nome di «umanità», ma quell’universale concreto che si chiama capitalismo.
QUESTA È LA TESI che innerva La natura è un campo di battaglia di Razmig Keucheyan appena tradotto per i tipi di Ombre corte (pp. 168, euro 15). La natura, infatti, «non sfugge ai rapporti di forza sociali», anzi «è la più politica tra le entità» non fosse altro perché il capitalismo non potrebbe pensarsi senza l’appropriazione del lavoro della natura e di chi naturalizza (schiavi, donne e animali). A partire da questa prospettiva, l’ecologia politica del sociologo francese si snoda lungo tre grandi direttive: il razzismo ambientale, la finaziarizzazione della natura e la militarizzazione dell’ecologia.
Razzismo ambientale è un modo per esprimere con chiarezza che le conseguenze della crisi ecologica non colpiscono – e, almeno per un bel po’, non colpiranno – uniformemente tutti gli appartenenti alla specie Homo sapiens – per non parlare degli altri viventi animali -, ma certe classi più di altre, come testimoniano, ad esempio, la localizzazione delle discariche di rifiuti tossici nei pressi della aree urbane più povere e marginalizzate o la prevalenza dei neri tra le vittime dell’uragano Katrina. Preso atto che la natura costituisce un ulteriore asse di distribuzione dei rapporti di forza e che le disuguaglianze ambientali non potranno che aumentare nel prossimo futuro, Keucheyan, invece di unirsi agli appelli fuorvianti secondo cui potremmo gestire il cambiamento climatico superando le divisioni di classe, genere e razza, passa ad analizzare i meccanismi che il capitalismo mette in atto per governare la crisi ecologica a proprio vantaggio.
Il primo di questi meccanismi è la finanziarizzazione della natura che è cresciuta esponenzialmente con l’aumentare del degrado ambientale. Come può l’impresa capitalista assicurare i propri beni e le proprie merci nel momento in cui il cambiamento climatico può causare danni enormi, correlati e difficilmente prevedibili nel tempo e nello spazio? Semplice: realizzando un sistema globalizzato di distribuzione dei rischi – con l’invenzione, tra gli altri, dei «derivati climatici» e delle «obbligazioni catastrofe» -, sistema che coinvolge anche gli Stati con la consueta funzione di collettivizzare i costi e di sorvegliare che la privatizzazione dei profitti prosegua indisturbata. La finanziarizzazione della natura è il più fulgido esempio contemporaneo della plasticità auto-rigenerativa del capitalismo di fronte alle sue stesse contraddizioni, in quanto «protegge l’investimento dalle conseguenze del cambiamento climatico e consente nel contempo di trarne profitto».
IL SECONDO MECCANISMO analizzato da Keucheyan è quello della militarizzazione dell’ecologia. «Nei ragionamenti dei militari» il cambiamento climatico non può che essere interpretato come «moltiplicatore di minacce» che, pertanto, necessita dell’intervento sempre più massiccio di «specialisti del caos». Al pari del precedente, anche questo meccanismo opera a livello transnazionale mobilitando, esattamente come nel caso del terrorismo, la retorica della sicurezza collettiva e la violenza materiale dell’apparato militar-industriale dell’Occidente. Con il crescere del disastro ambientale, la cornice capitalista non può che prevedere una sorta di guerra verde permanente per poter difendere i privilegi delle élite di fronte a moltitudini sterminate a cui manca o mancherà, letteralmente, la terra sotto ai piedi.
Ecco spiegato perché, per parafrasare Mark Fisher, ci è più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo: «il capitalismo non morirà di morte naturale» in quanto «non solo è capace di adattarsi alla crisi ambientale, ma anche di trarne vantaggio». Certo, forse non per sempre. Ma, piuttosto che affidare le sorti nostre e del mondo a una qualche forma di destinalità religiosa, non sarebbe ora di «politicizzare la crisi», di sottrarre il nostro destino alle mani del capitale?