Davvero siamo felicemente usciti dal fordismo del 900? Oppure siamo semplicemente dentro a una nuova fase della Grande Narrazione tecnica e capitalista?
Davvero il lavoro è cambiato, oggi, in tempi di terza (o già di
quarta, con la digitalizzazione) rivoluzione industriale, rispetto alla
prima di fine Settecento? Davvero siamo felicemente (e finalmente!)
usciti dal fordismo greve e pesante del ‘900 per approdare al
post-fordismo leggero, flessibile e virtuoso, alla produzione snella,
all’economia della conoscenza e all’era dell’accesso, alla new
economy degli anni ’90 e ora alla sharing economy e agli smart jobs – e
qualcuno (Paul Mason) immagina persino un favoloso post-capitalismo?
Oppure siamo semplicemente (e drammaticamente) dentro a una nuova fase
della Grande Narrazione tecnica e capitalista?
Se carattere tipico e definitorio del fordismo era la produzione industriale di massa basata sull’impiego di lavoro ripetitivo e generalmente senza particolari qualifiche e specializzazioni («Io» – diceva Henry Ford – «non riuscirei mai a fare la stessa cosa tutti i giorni, ma per altri le operazioni ripetitive non sono un motivo di orrore. L’operaio medio desidera un lavoro nel quale non debba erogare molta energia fisica, ma soprattutto desidera un lavoro nel quale non debba pensare»), il post-fordismo si caratterizzerebbe invece per l’adozione di tecnologie e criteri organizzativi che pongono una particolare enfasi sulla specializzazione e sulla qualificazione del lavoro e delle competenze nonché sulla flessibilità dei lavoratori. Ma da qui a immaginare il passaggio – grazie anche alle nuove tecnologie – da un lavoro prettamente materiale (il fordismo, appunto, legato alla manifattura) a un lavoro soprattutto intellettuale e immateriale (erano le retoriche dell’economia della conoscenza e del capitalismo cognitivo di pochi anni fa), il passo è stato breve ma anche troppo frettoloso. Come breve e altrettanto frettoloso è stato il passaggio dalle retoriche della wikinomics a quelle sulla sharing economy, così come dalla precarizzazione del lavoro alla enfatizzazione della sua virtuosa uberizzazione. Economisti e soprattutto noi sociologi abbiamo (non tutte, ma) molte colpe nell’avere favorito questa rivoluzione linguistica. Che si basava e ancora si basa – è la tesi che qui nuovamente si sostiene e si prova ad approfondire – su un drammatico errore di valutazione delle trasformazioni avvenute e ancora in atto appunto nell’organizzazione del lavoro tecnica e capitalista. Un errore. Intellettuale e di analisi.
Perché in verità – una verità che dovrebbe essere ormai evidente, se foucaultianamente si scavasse sotto le apparenze, se si facesse archeologia ma soprattutto si analizzasse la genealogia dei saperi e dei poteri che governano la rete & il capitalismo (il tecno-capitalismo) – a non essere cambiate sono le forme e le norme di organizzazione e di funzionamento del sistema. Basate sempre – dalla prima rivoluzione industriale alla rete e oggi alla digitalizzazione – prima sulla suddivisione e l’individualizzazione del lavoro e poi sulla sua ricomposizione/totalizzazione (ancora Foucault) in qualcosa che deve essere sempre maggiore della semplice somma delle parti prima suddivise e separate. Forme e norme di organizzazione che appunto non sono sostanzialmente mutate da quando il capitalismo ha sposato l’industria (un matrimonio d’interesse ma più stabile e prolifico di un matrimonio d’amore), semmai si affinano ogni volta al sorgere e al diffondersi delle diverse tecnologie dominanti: i telai, la macchina a vapore, la fabbrica di spilli di Adam Smith e soprattutto l’orologio (secondo Lewis Mumford, la vera macchina che ha permesso l’industrializzazione) e la divisione del tempo e il suo utilizzo sempre più esaustivo – nella prima rivoluzione industriale; la catena di montaggio e l’organizzazione scientifica del lavoro e ancor di più l’orologio e il controllo e l’intensificazione del tempo di lavoro mediante la sua suddivisione accresciuta – con la seconda rivoluzione industriale; e ora con la rete e ancora l’orologio (il tempo reale) e domani con la fabbrica 4.0.
Il mutamento che – sbagliando – abbiamo chiamato post-fordismo e ora sharing economy e fabbrica 4.0 è avvenuto allora non nelle forme e nelle norme di organizzazione (suddivisione e totalizzazione: del lavoro di produzione, del lavoro di consumo, nella fruizione dei prodotti dell’industria culturale) ma nella qualità e nella quantità di questa individualizzazione. Se ieri, nel fordismo era necessario concentrare migliaia di lavoratori all’interno di luoghi chiusi come appunto le grandi fabbriche perché il mezzo di connessione/totalizzazione delle parti suddivise del lavoro era necessariamente fisico e presupponeva uno spazio concentrato e concentrante (questo permetteva l’efficienza produttiva di allora), oggi il mezzo di connessione, ovvero la rete, permette di scomporre e di individualizzare n volte di più la forma e la norma di organizzazione e di farla esplodere in lavori (e in lavoratori) disconnessi da un luogo fisico (la fabbrica) ma connessi in un luogo virtuale come appunto la rete. Dal fordismo concentrato di ieri siamo cioè passati non al post-fordismo ma a un fordismo individualizzato. Passando per il fordismo territoriale e di distretto, per il piccolo è bello, per il capitalismo personale e il lavoro free-lance. Nessun post-fordismo; semmai la socializzazione dell’ordoliberalismo (la società in forma di mercato e secondo la norma del mercato, la vita come impresa, la competizione come imperativo esistenziale).
Grazie alla rete – sempre più mezzo di connessione e sempre meno mezzo di comunicazione e di conoscenza; sempre più capitalista e sempre meno libera e anarchica come alle origini – ogni lavoratore prima fisicamente e contrattualmente subordinato può (deve) oggi diventare un lavoratore autonomo, un imprenditore di se stesso, un maker che produce innovazione, un lavoratore individualizzato; con il suo posto di lavoro e i suoi tempi di esecuzione della prestazione, ma esterni ad ogni fisicità concentrata. Apparentemente (ma anche contrattualmente) è davvero un lavoratore autonomo, è davvero un imprenditore di se stesso; concretamente è invece un falso imprenditore di se stesso (così come è un falso individuo) perché sub-ordinato a un nuovo padrone. È sì esterno alla struttura dell’impresa ma è ancora più integrato-connesso ad essa. E’ un processo analogo e parallelo a quello che ha interessato la società di massa novecentesca. Prima si trattava di masse prevalentemente concentrate, poi si è passati (è la lezione di Günther Anders) a una massa individualizzata, in cui ciascuno ha comportamenti di massa (nei consumi, nell’industria culturale, nei comportamenti collettivi, nel conformismo, nell’edonismo, nella nuova società dello spettacolo e oggi della spettacolarizzazione di sé) ma li pratica individualmente, illudendosi di essere libero. Qualcosa di analogo si è verificato appunto nell’organizzazione del lavoro. Tutti siamo integrati nel sistema capitalista & nella rete, ma da singoli, separati fisicamente dagli altri ma virtualmente ancor più integrati con gli altri e con il tecno-capitalismo di quanto non si fosse ai tempi del fordismo.
È il lavoro in forma di folla – il crowd-work – che è una folla (meglio: una massa) di individui e soprattutto è una massa di individui connessi perché il concetto di folla/massa è incompatibile con quello di libertà e di autonomia individuale e il lavoro in forma di massa è un lavoro che, come accade nella folla-massa, annulla l’individualità facendola piuttosto sciogliere nella folla (il mercato, la rete); ma allo stesso tempo dando all’individuo nella folla-massa una sensazione di grande forza collettiva, di potenza, di capacità di cambiare il mondo (il post-capitalismo?) – facendo dimenticare che anche questo lavoro è finalizzato al profitto di qualcuno. Individui, allora, ma che si muovono come un sol uomo, sia pure individualmente. Che si credono imprenditori di se stessi, ma sono ancor più subordinati alle forme e alle norme di funzionamento dell’apparato che li ha trasformati in massa (la socializzazione del capitalismo), massa come forma classica di organizzazione dove ciascuno è solo ma insieme agli altri, ma questo essere insieme agli altri e connesso con gli altri impedisce (ed è un grande vantaggio per il potere che organizza la massa) la formazione di ogni possibile coscienza collettiva o di classe, perché essere in una folla-massa individualizzata esclude ogni coscienza di classe come ogni autonomia individuale e ogni discorso sui fini). Apparato tecno-capitalista che dunque è riuscito a sciogliere il suo avversario di classe (la sua organizzazione antagonista, la sua struttura organizzativa, la sua coscienza) appunto individualizzandolo mediante suddivisione crescente del lavoro e personalizzazione dei consumi; apparato che precarizza il lavoro e individualizza ma crea allo stesso tempo la retorica (lo storytelling) della condivisione. Che aliena più che nel passato, ma offre l’illusione a ciascuno di essere padrone dei propri mezzi di produzione (il personal computer, il dispositivo personale mobile), oltre che dei beni che produce, magari grazie a una stampante 3D. È il trionfo del capitalismo di piattaforma, che non è qualcosa di virtuoso che permette una cooperazione libera tra soggetti anch’essi liberi, appunto mediante una piattaforma tecnologica (un mezzo), ciascuno potendo godere del lavoro condiviso con altri. Ma è un capitalismo di piattaforma perché i profitti (il fine) sono di chi possiede la piattaforma (come nel caso di Uber o di Airbnb), non di chi la usa. E la stessa sharing economy è sì condivisione ma deve produrre business per la piattaforma; o altrimenti, è meglio definibile come economia della sopravvivenza in tempi di impoverimento di massa.
Il lavoro di oggi non è dunque diverso da quello di ieri. Si è ancora più individualizzato, ma si è fatto anche più integrato (e questa è l’essenza di funzionamento di ogni organizzazione industriale e moderna del lavoro: suddividere e individualizzare sempre di più, ma conseguentemente integrare sempre di più grazie al mezzo di connessione dominante; far prevalere gli interessi dell’organizzazione-sistema su quelli individuali). Accrescendo la quantità di prestazione richiesta a ciascuno, estraendo da ciascuno una quantità sempre maggiore di valore e di profitto, ma facendogli credere di essere libero. Si è prodotta una autentica mutazione antropologica e culturale. Che può essere ben rappresentata con questa esemplificazione.
In questi giorni, su alcuni treni ad alta velocità italiani, nei video sistemati al soffitto delle vetture, passa un video promozionale dove si vede un macchinista al posto di comando del suo treno. Sguardo intenso, grande attenzione, grande partecipazione al compito assegnato. Immagini del treno dall’alto, bello e velocissimo. Poi l’immagine si divide a metà, a sinistra ancora il macchinista, a destra una donna in casa che mette fiori nei vasi e si prende cura del suo bambino. Quindi, sempre a sinistra, il treno arriva in stazione, il macchinista scende dalla motrice e attraversando la linea che divide in due metà lo schermo entra in casa senza più la divisa da macchinista e saluta sorridente la moglie e il bambino. A quel punto la donna bacia il suo/loro bambino, attraversa a sua volta, ma in senso contrario a quello dell’uomo la linea a metà dello schermo e diventa anche lei macchinista, sale sulla motrice e fa partire il treno ad alta velocità.
Uno spot che richiama dalla memoria un racconto del 1958 di Italo Calvino, dal titolo: L’avventura di due sposi. Anche in Calvino ci sono un lui e una lei. Lui, l’operaio Arturo Massolari fa il turno di notte, quello che finisce alle sei. Rientra a casa più a meno all’ora in cui suona la sveglia della moglie, Elide, che lavora invece di giorno. Un breve incontro tra loro, qualche carezza, poi lei esce di casa per andare a lavorare e lui si infila nel letto dalla sua parte, ma subito muovendosi verso dove aveva dormito Elide, per cercare il suo calore e il suo profumo. Tutto molto simile allo spot descritto sopra. Oggi come allora la famiglia, la coppia, l’amore fanno i conti con il lavoro. Nulla è cambiato da allora. Tuttavia c’è una differenza: allora, Calvino descriveva, con il suo stile leggero una realtà amara fatta di fatica e di separazione forzata tra lui e lei, implicitamente criticava quel modo di organizzare il lavoro e (conseguentemente) la vita delle persone. Oggi la stessa condizione umana è vissuta e offerta come positiva e come virtuosa forma di emancipazione, di parità di genere, di liberazione della donna, soprattutto di modernità. Cambia la casa: operaia e povera quella di Calvino, spaziosa e con una grande cucina quella di oggi. Le disuguaglianze di allora – e l’alienazione – sono le stesse di oggi. Ma vengono offerte appunto come modernità e innovazione, non come un passato che non cambia. La mutazione antropologica avvenuta è anche in questo rovesciamento.
E allora, Uber e i processi di uberizzazione del lavoro. Qualcuno li porta ad esempio di massima auto-imprenditorialità, ma cosa sono i falsi tassisti di Uber se non dei lavoratori folla o meglio ancora dei lavoratori fordisti individualizzati dentro al capitalismo delle piattaforme? Credono di possedere i mezzi di produzione (l’auto, lo smartphone), ma il vero mezzo di produzione è la piattaforma, che non è loro, loro sono alle sue dipendenze, sono subordinati alla piattaforma, quindi sono assolutamente alienati (nel senso di Marx), ma non credono di esserlo.
Di più: l’uberizzazione delle imprese come nuovo momento trasformativo epocale e ovviamente virtuoso e positivo e quindi (secondo Max Bergami, della Bologna Business School, su Il Sole 24 Ore del 3 aprile scorso) «come difficilmente contrastabile, perché la diffusione dell’innovazione è maggiore di qualunque reazione». Ovvero, l’uberizzazione è un processo positivo comunque perché innovativo e l’innovazione è sempre positiva e chiunque cerchi di contrastarla è irrazionale e antimoderno – ragionando come Taylor cento anni fa quando criticava il sindacato nel caso avesse voluto contestare la sua organizzazione scientifica del lavoro che, essendo per autodefinizione (per autoreferenzialità) scientifica era quindi anche razionale, mentre irrazionale diventava ipso facto qualsiasi contestazione/opposizione. L’uberizzazione del lavoro consentirà di comprare lavoro e competenze in caso di bisogno, scomporrà le organizzazioni d’impresa, flessibilizzerà ancora di più il mercato del lavoro ma produrrà migliaia di falsi imprenditori di se stessi – ma questo non è davvero niente di nuovo, se non l’estremizzazione del vecchio just in time applicato alle risorse umane. Ed è lavoro quasi-servile, quindi peggio che fordista. Riverniciato di modernità e di ineluttabilità.
E allora e ancora la parola magica (non del post-capitalismo, ma) dell’ultra-capitalismo: condivisione. Anche qui assistiamo allo stravolgimento del dizionario, cioè alla produzione industriale di una neolingua conforme al tecno-capitalismo, perché in realtà dobbiamo condividere solo ciò che permette al capitalismo di estrarre profitto per sé (i nostri dati, i nostri profili, i nostri selfie), ma poi possiamo e anzi dobbiamo essere egoisti nella realtà (verso i migranti-profughi, ad esempio; ma anche verso gli altri individui, non più individui che compongono una società, ma nostri incessanti competitori). Anche il concetto e le pratiche di condivisione sono state dunque stravolte e piegate al profitto dei capitalisti e dei signori della Silicon Valley. In realtà la condivisione e l’aiuto sono pratiche antiche e non il prodotto virtuoso della rete. La rivoluzione francese era nata per realizzare un principio di fraternità e di solidarietà, cioè di condivisione. L’Enciclopedia, era condivisione di conoscenza. Il welfare pubblico post-1945 era basato anch’esso sulla condivisione (la redistribuzione della ricchezza dall’alto verso il basso della società, la creazione di uguali punti di partenza per tutti, le assicurazioni sociali come forma di partecipazione e di condivisione sociale dei rischi), oltre che sulla fraternità/solidarietà inter-generazionale. Ma tutto questo è stato progressivamente rimosso, cancellato. Come il fatto che il lavoro era un diritto. Ed è diventato una merce. Chiamando però tutto questo modernità e innovazione.
Se carattere tipico e definitorio del fordismo era la produzione industriale di massa basata sull’impiego di lavoro ripetitivo e generalmente senza particolari qualifiche e specializzazioni («Io» – diceva Henry Ford – «non riuscirei mai a fare la stessa cosa tutti i giorni, ma per altri le operazioni ripetitive non sono un motivo di orrore. L’operaio medio desidera un lavoro nel quale non debba erogare molta energia fisica, ma soprattutto desidera un lavoro nel quale non debba pensare»), il post-fordismo si caratterizzerebbe invece per l’adozione di tecnologie e criteri organizzativi che pongono una particolare enfasi sulla specializzazione e sulla qualificazione del lavoro e delle competenze nonché sulla flessibilità dei lavoratori. Ma da qui a immaginare il passaggio – grazie anche alle nuove tecnologie – da un lavoro prettamente materiale (il fordismo, appunto, legato alla manifattura) a un lavoro soprattutto intellettuale e immateriale (erano le retoriche dell’economia della conoscenza e del capitalismo cognitivo di pochi anni fa), il passo è stato breve ma anche troppo frettoloso. Come breve e altrettanto frettoloso è stato il passaggio dalle retoriche della wikinomics a quelle sulla sharing economy, così come dalla precarizzazione del lavoro alla enfatizzazione della sua virtuosa uberizzazione. Economisti e soprattutto noi sociologi abbiamo (non tutte, ma) molte colpe nell’avere favorito questa rivoluzione linguistica. Che si basava e ancora si basa – è la tesi che qui nuovamente si sostiene e si prova ad approfondire – su un drammatico errore di valutazione delle trasformazioni avvenute e ancora in atto appunto nell’organizzazione del lavoro tecnica e capitalista. Un errore. Intellettuale e di analisi.
Perché in verità – una verità che dovrebbe essere ormai evidente, se foucaultianamente si scavasse sotto le apparenze, se si facesse archeologia ma soprattutto si analizzasse la genealogia dei saperi e dei poteri che governano la rete & il capitalismo (il tecno-capitalismo) – a non essere cambiate sono le forme e le norme di organizzazione e di funzionamento del sistema. Basate sempre – dalla prima rivoluzione industriale alla rete e oggi alla digitalizzazione – prima sulla suddivisione e l’individualizzazione del lavoro e poi sulla sua ricomposizione/totalizzazione (ancora Foucault) in qualcosa che deve essere sempre maggiore della semplice somma delle parti prima suddivise e separate. Forme e norme di organizzazione che appunto non sono sostanzialmente mutate da quando il capitalismo ha sposato l’industria (un matrimonio d’interesse ma più stabile e prolifico di un matrimonio d’amore), semmai si affinano ogni volta al sorgere e al diffondersi delle diverse tecnologie dominanti: i telai, la macchina a vapore, la fabbrica di spilli di Adam Smith e soprattutto l’orologio (secondo Lewis Mumford, la vera macchina che ha permesso l’industrializzazione) e la divisione del tempo e il suo utilizzo sempre più esaustivo – nella prima rivoluzione industriale; la catena di montaggio e l’organizzazione scientifica del lavoro e ancor di più l’orologio e il controllo e l’intensificazione del tempo di lavoro mediante la sua suddivisione accresciuta – con la seconda rivoluzione industriale; e ora con la rete e ancora l’orologio (il tempo reale) e domani con la fabbrica 4.0.
Il mutamento che – sbagliando – abbiamo chiamato post-fordismo e ora sharing economy e fabbrica 4.0 è avvenuto allora non nelle forme e nelle norme di organizzazione (suddivisione e totalizzazione: del lavoro di produzione, del lavoro di consumo, nella fruizione dei prodotti dell’industria culturale) ma nella qualità e nella quantità di questa individualizzazione. Se ieri, nel fordismo era necessario concentrare migliaia di lavoratori all’interno di luoghi chiusi come appunto le grandi fabbriche perché il mezzo di connessione/totalizzazione delle parti suddivise del lavoro era necessariamente fisico e presupponeva uno spazio concentrato e concentrante (questo permetteva l’efficienza produttiva di allora), oggi il mezzo di connessione, ovvero la rete, permette di scomporre e di individualizzare n volte di più la forma e la norma di organizzazione e di farla esplodere in lavori (e in lavoratori) disconnessi da un luogo fisico (la fabbrica) ma connessi in un luogo virtuale come appunto la rete. Dal fordismo concentrato di ieri siamo cioè passati non al post-fordismo ma a un fordismo individualizzato. Passando per il fordismo territoriale e di distretto, per il piccolo è bello, per il capitalismo personale e il lavoro free-lance. Nessun post-fordismo; semmai la socializzazione dell’ordoliberalismo (la società in forma di mercato e secondo la norma del mercato, la vita come impresa, la competizione come imperativo esistenziale).
Grazie alla rete – sempre più mezzo di connessione e sempre meno mezzo di comunicazione e di conoscenza; sempre più capitalista e sempre meno libera e anarchica come alle origini – ogni lavoratore prima fisicamente e contrattualmente subordinato può (deve) oggi diventare un lavoratore autonomo, un imprenditore di se stesso, un maker che produce innovazione, un lavoratore individualizzato; con il suo posto di lavoro e i suoi tempi di esecuzione della prestazione, ma esterni ad ogni fisicità concentrata. Apparentemente (ma anche contrattualmente) è davvero un lavoratore autonomo, è davvero un imprenditore di se stesso; concretamente è invece un falso imprenditore di se stesso (così come è un falso individuo) perché sub-ordinato a un nuovo padrone. È sì esterno alla struttura dell’impresa ma è ancora più integrato-connesso ad essa. E’ un processo analogo e parallelo a quello che ha interessato la società di massa novecentesca. Prima si trattava di masse prevalentemente concentrate, poi si è passati (è la lezione di Günther Anders) a una massa individualizzata, in cui ciascuno ha comportamenti di massa (nei consumi, nell’industria culturale, nei comportamenti collettivi, nel conformismo, nell’edonismo, nella nuova società dello spettacolo e oggi della spettacolarizzazione di sé) ma li pratica individualmente, illudendosi di essere libero. Qualcosa di analogo si è verificato appunto nell’organizzazione del lavoro. Tutti siamo integrati nel sistema capitalista & nella rete, ma da singoli, separati fisicamente dagli altri ma virtualmente ancor più integrati con gli altri e con il tecno-capitalismo di quanto non si fosse ai tempi del fordismo.
È il lavoro in forma di folla – il crowd-work – che è una folla (meglio: una massa) di individui e soprattutto è una massa di individui connessi perché il concetto di folla/massa è incompatibile con quello di libertà e di autonomia individuale e il lavoro in forma di massa è un lavoro che, come accade nella folla-massa, annulla l’individualità facendola piuttosto sciogliere nella folla (il mercato, la rete); ma allo stesso tempo dando all’individuo nella folla-massa una sensazione di grande forza collettiva, di potenza, di capacità di cambiare il mondo (il post-capitalismo?) – facendo dimenticare che anche questo lavoro è finalizzato al profitto di qualcuno. Individui, allora, ma che si muovono come un sol uomo, sia pure individualmente. Che si credono imprenditori di se stessi, ma sono ancor più subordinati alle forme e alle norme di funzionamento dell’apparato che li ha trasformati in massa (la socializzazione del capitalismo), massa come forma classica di organizzazione dove ciascuno è solo ma insieme agli altri, ma questo essere insieme agli altri e connesso con gli altri impedisce (ed è un grande vantaggio per il potere che organizza la massa) la formazione di ogni possibile coscienza collettiva o di classe, perché essere in una folla-massa individualizzata esclude ogni coscienza di classe come ogni autonomia individuale e ogni discorso sui fini). Apparato tecno-capitalista che dunque è riuscito a sciogliere il suo avversario di classe (la sua organizzazione antagonista, la sua struttura organizzativa, la sua coscienza) appunto individualizzandolo mediante suddivisione crescente del lavoro e personalizzazione dei consumi; apparato che precarizza il lavoro e individualizza ma crea allo stesso tempo la retorica (lo storytelling) della condivisione. Che aliena più che nel passato, ma offre l’illusione a ciascuno di essere padrone dei propri mezzi di produzione (il personal computer, il dispositivo personale mobile), oltre che dei beni che produce, magari grazie a una stampante 3D. È il trionfo del capitalismo di piattaforma, che non è qualcosa di virtuoso che permette una cooperazione libera tra soggetti anch’essi liberi, appunto mediante una piattaforma tecnologica (un mezzo), ciascuno potendo godere del lavoro condiviso con altri. Ma è un capitalismo di piattaforma perché i profitti (il fine) sono di chi possiede la piattaforma (come nel caso di Uber o di Airbnb), non di chi la usa. E la stessa sharing economy è sì condivisione ma deve produrre business per la piattaforma; o altrimenti, è meglio definibile come economia della sopravvivenza in tempi di impoverimento di massa.
Il lavoro di oggi non è dunque diverso da quello di ieri. Si è ancora più individualizzato, ma si è fatto anche più integrato (e questa è l’essenza di funzionamento di ogni organizzazione industriale e moderna del lavoro: suddividere e individualizzare sempre di più, ma conseguentemente integrare sempre di più grazie al mezzo di connessione dominante; far prevalere gli interessi dell’organizzazione-sistema su quelli individuali). Accrescendo la quantità di prestazione richiesta a ciascuno, estraendo da ciascuno una quantità sempre maggiore di valore e di profitto, ma facendogli credere di essere libero. Si è prodotta una autentica mutazione antropologica e culturale. Che può essere ben rappresentata con questa esemplificazione.
In questi giorni, su alcuni treni ad alta velocità italiani, nei video sistemati al soffitto delle vetture, passa un video promozionale dove si vede un macchinista al posto di comando del suo treno. Sguardo intenso, grande attenzione, grande partecipazione al compito assegnato. Immagini del treno dall’alto, bello e velocissimo. Poi l’immagine si divide a metà, a sinistra ancora il macchinista, a destra una donna in casa che mette fiori nei vasi e si prende cura del suo bambino. Quindi, sempre a sinistra, il treno arriva in stazione, il macchinista scende dalla motrice e attraversando la linea che divide in due metà lo schermo entra in casa senza più la divisa da macchinista e saluta sorridente la moglie e il bambino. A quel punto la donna bacia il suo/loro bambino, attraversa a sua volta, ma in senso contrario a quello dell’uomo la linea a metà dello schermo e diventa anche lei macchinista, sale sulla motrice e fa partire il treno ad alta velocità.
Uno spot che richiama dalla memoria un racconto del 1958 di Italo Calvino, dal titolo: L’avventura di due sposi. Anche in Calvino ci sono un lui e una lei. Lui, l’operaio Arturo Massolari fa il turno di notte, quello che finisce alle sei. Rientra a casa più a meno all’ora in cui suona la sveglia della moglie, Elide, che lavora invece di giorno. Un breve incontro tra loro, qualche carezza, poi lei esce di casa per andare a lavorare e lui si infila nel letto dalla sua parte, ma subito muovendosi verso dove aveva dormito Elide, per cercare il suo calore e il suo profumo. Tutto molto simile allo spot descritto sopra. Oggi come allora la famiglia, la coppia, l’amore fanno i conti con il lavoro. Nulla è cambiato da allora. Tuttavia c’è una differenza: allora, Calvino descriveva, con il suo stile leggero una realtà amara fatta di fatica e di separazione forzata tra lui e lei, implicitamente criticava quel modo di organizzare il lavoro e (conseguentemente) la vita delle persone. Oggi la stessa condizione umana è vissuta e offerta come positiva e come virtuosa forma di emancipazione, di parità di genere, di liberazione della donna, soprattutto di modernità. Cambia la casa: operaia e povera quella di Calvino, spaziosa e con una grande cucina quella di oggi. Le disuguaglianze di allora – e l’alienazione – sono le stesse di oggi. Ma vengono offerte appunto come modernità e innovazione, non come un passato che non cambia. La mutazione antropologica avvenuta è anche in questo rovesciamento.
E allora, Uber e i processi di uberizzazione del lavoro. Qualcuno li porta ad esempio di massima auto-imprenditorialità, ma cosa sono i falsi tassisti di Uber se non dei lavoratori folla o meglio ancora dei lavoratori fordisti individualizzati dentro al capitalismo delle piattaforme? Credono di possedere i mezzi di produzione (l’auto, lo smartphone), ma il vero mezzo di produzione è la piattaforma, che non è loro, loro sono alle sue dipendenze, sono subordinati alla piattaforma, quindi sono assolutamente alienati (nel senso di Marx), ma non credono di esserlo.
Di più: l’uberizzazione delle imprese come nuovo momento trasformativo epocale e ovviamente virtuoso e positivo e quindi (secondo Max Bergami, della Bologna Business School, su Il Sole 24 Ore del 3 aprile scorso) «come difficilmente contrastabile, perché la diffusione dell’innovazione è maggiore di qualunque reazione». Ovvero, l’uberizzazione è un processo positivo comunque perché innovativo e l’innovazione è sempre positiva e chiunque cerchi di contrastarla è irrazionale e antimoderno – ragionando come Taylor cento anni fa quando criticava il sindacato nel caso avesse voluto contestare la sua organizzazione scientifica del lavoro che, essendo per autodefinizione (per autoreferenzialità) scientifica era quindi anche razionale, mentre irrazionale diventava ipso facto qualsiasi contestazione/opposizione. L’uberizzazione del lavoro consentirà di comprare lavoro e competenze in caso di bisogno, scomporrà le organizzazioni d’impresa, flessibilizzerà ancora di più il mercato del lavoro ma produrrà migliaia di falsi imprenditori di se stessi – ma questo non è davvero niente di nuovo, se non l’estremizzazione del vecchio just in time applicato alle risorse umane. Ed è lavoro quasi-servile, quindi peggio che fordista. Riverniciato di modernità e di ineluttabilità.
E allora e ancora la parola magica (non del post-capitalismo, ma) dell’ultra-capitalismo: condivisione. Anche qui assistiamo allo stravolgimento del dizionario, cioè alla produzione industriale di una neolingua conforme al tecno-capitalismo, perché in realtà dobbiamo condividere solo ciò che permette al capitalismo di estrarre profitto per sé (i nostri dati, i nostri profili, i nostri selfie), ma poi possiamo e anzi dobbiamo essere egoisti nella realtà (verso i migranti-profughi, ad esempio; ma anche verso gli altri individui, non più individui che compongono una società, ma nostri incessanti competitori). Anche il concetto e le pratiche di condivisione sono state dunque stravolte e piegate al profitto dei capitalisti e dei signori della Silicon Valley. In realtà la condivisione e l’aiuto sono pratiche antiche e non il prodotto virtuoso della rete. La rivoluzione francese era nata per realizzare un principio di fraternità e di solidarietà, cioè di condivisione. L’Enciclopedia, era condivisione di conoscenza. Il welfare pubblico post-1945 era basato anch’esso sulla condivisione (la redistribuzione della ricchezza dall’alto verso il basso della società, la creazione di uguali punti di partenza per tutti, le assicurazioni sociali come forma di partecipazione e di condivisione sociale dei rischi), oltre che sulla fraternità/solidarietà inter-generazionale. Ma tutto questo è stato progressivamente rimosso, cancellato. Come il fatto che il lavoro era un diritto. Ed è diventato una merce. Chiamando però tutto questo modernità e innovazione.