dalle pagine
http://www.famigliacristiana.it/articolo/corrotti-e-mafiosi-il-vaticano-pensa-alla-scomunica.aspx
http://www.gruppoabele.org/mafiosi-e-corrotti-si-alla-scomunica/
http://www.libera.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/13407
"La scomunica sancisce in modo non più equivocabile l'incompatibilità
tra il Vangelo e le mafie"
scrive don Luigi Ciotti sulle pagine del
periodico cattolico Famiglia Cristiana, spiegando quanto sia importante
per la Chiesa ribadire la propria responsabilità sociale e l'interesse
per il bene comune.
Leggi l'articolo di don Ciotti
giovedì 29 giugno 2017
lunedì 26 giugno 2017
sabato 24 giugno 2017
“Siamo un Paese ricco d’acqua, ma povero di infrastrutture”. Parla Erasmo D’Angelis

“Il piano di investimento c’è, va applicato il prima possibile superando burocrazie e ritardi”, spiega il coordinatore di #italiasicura
L’aumento delle temperature, la diminuzione delle piogge ed è subito allarme idrico. Non solo in Emilia Romagna, dove il governo ha decretato lo stato di emergenza,
ma anche in altre regioni del Paese, sia nelle campagne che nelle
città. Nei Comuni più a rischio, tra cui la Capitale, le amministrazioni
hanno diramato un’ordinanza per limitare l’uso dell’acqua potabile ed
evitare sprechi. “In realtà noi siamo tra i Paesi più ricchi d’acqua”,
spiega a Unità.tv Erasmo D’Angelis, coordinatore di
#italiasicura, la struttura di missione contro il dissesto idrogeologico
e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche di Palazzo Chigi.
“I dati più recenti, resi noti durante la seconda conferenza nazionale
delle acque, elaborati dall’Istat e dall’Ispra ci danno una media di 302
miliardi di metri cubi di pioggia ogni anno. Una cifra superiore
addirittura alla Gran Bretagna e alla Germania”. Siamo ricchi di piogge,
ma anche di fiumi, torrenti, specchi d’acqua alpini, laghi naturali e
artificiali. Di questa grande quantità di acqua noi usiamo solo un 11%.
Quindi qual è il problema in Italia?
Il punto è che l’acqua è dipendente dalle infrastrutture. Per fare un esempio, fino agli anni ’90 tutta la Toscana centrale in una situazione del genere non avrebbe nemmeno visto scorrere l’Arno. Oggi con la costruzione della diga di Bilancino che è stata consegnata agli inizi del 2000 non c’è più alcun problema per l’acqua potabile e la diga è piena. Laddove non ci sono infrastrutture c’è periodicamente un problema enorme, soprattutto in annate siccitose come questa.
Che tipo di infrastrutture servono?
È fondamentale aumentare gli invasi per l’irrigazione. Abbiamo un piano di 7 miliardi che è stato consegnato dai consorzi di bonifica in tutta Italia che prevede tanti piccoli e medi invasi che vanno assolutamente realizzati per catturare l’acqua quando piove e conservarla per periodi come questi. Serve un grande piano di infrastrutture idriche sia per l’irriguo che per l’agricoltura: soprattutto al sud la situazione è impressionante con situazioni di sciatteria e di bieca speculazione. Servono impianti di dissalazione lungo le coste per prelevarla e produrre acqua potabile; si tratta di impianti che vanno a energia fotovoltaica, non c’è nemmeno consumo di energia. Poi bisogna puntare sulla lotta alla dispersione idrica, cambiando e riparando chilometri di tubazioni. Impianti come questi ci difendono dalla mutazione climatica che è in corso.
Dov’è il rischio maggiore?
Noi abbiamo già oggi 17 mila chilometri di zone in desertificazione, cioè aree con inaridimento e riduzione della produttività agricola. E queste aree si concentrano soprattutto al Sud, dalla Puglia alla Sicilia.
Che bisogna fare quindi per evitare ulteriori interventi per tamponare le emergenze?
Questo è il paradosso italiano: spendere di più per gestire le emergenze che per realizzare le opere. Ora il piano c’è: si tratta di ritagliare il piano finanziario e anche le aziende idriche devono rivedere i loro piani sulla base di queste emergenze. Bisogna raggiungere questo obiettivo il prima possibile, superando burocrazie e ritardi, perché rispetto al passato abbiamo un rischio clima che ci deve far accelerare su questi investimenti.
Quindi qual è il problema in Italia?
Il punto è che l’acqua è dipendente dalle infrastrutture. Per fare un esempio, fino agli anni ’90 tutta la Toscana centrale in una situazione del genere non avrebbe nemmeno visto scorrere l’Arno. Oggi con la costruzione della diga di Bilancino che è stata consegnata agli inizi del 2000 non c’è più alcun problema per l’acqua potabile e la diga è piena. Laddove non ci sono infrastrutture c’è periodicamente un problema enorme, soprattutto in annate siccitose come questa.
Che tipo di infrastrutture servono?
È fondamentale aumentare gli invasi per l’irrigazione. Abbiamo un piano di 7 miliardi che è stato consegnato dai consorzi di bonifica in tutta Italia che prevede tanti piccoli e medi invasi che vanno assolutamente realizzati per catturare l’acqua quando piove e conservarla per periodi come questi. Serve un grande piano di infrastrutture idriche sia per l’irriguo che per l’agricoltura: soprattutto al sud la situazione è impressionante con situazioni di sciatteria e di bieca speculazione. Servono impianti di dissalazione lungo le coste per prelevarla e produrre acqua potabile; si tratta di impianti che vanno a energia fotovoltaica, non c’è nemmeno consumo di energia. Poi bisogna puntare sulla lotta alla dispersione idrica, cambiando e riparando chilometri di tubazioni. Impianti come questi ci difendono dalla mutazione climatica che è in corso.
Dov’è il rischio maggiore?
Noi abbiamo già oggi 17 mila chilometri di zone in desertificazione, cioè aree con inaridimento e riduzione della produttività agricola. E queste aree si concentrano soprattutto al Sud, dalla Puglia alla Sicilia.
Che bisogna fare quindi per evitare ulteriori interventi per tamponare le emergenze?
Questo è il paradosso italiano: spendere di più per gestire le emergenze che per realizzare le opere. Ora il piano c’è: si tratta di ritagliare il piano finanziario e anche le aziende idriche devono rivedere i loro piani sulla base di queste emergenze. Bisogna raggiungere questo obiettivo il prima possibile, superando burocrazie e ritardi, perché rispetto al passato abbiamo un rischio clima che ci deve far accelerare su questi investimenti.
venerdì 23 giugno 2017
Salva il mare dalla plastica!
dalla pagina www.greenpeace.org/italy/it/Cosa-puoi-fare-tu/partecipa/no-plastica/
Produciamo sempre più plastica usa e getta, molta più del necessario e
riciclarla non basta. L'80% dell'inquinamento marino è fatto di
plastica. Quest'invasione sta rapidamente trasformando i nostri mari
nella più grande discarica del mondo.
Il mare sta soffocando: in media 8 milioni di tonnellate di plastica finiscono ogni anno nei mari di tutto il mondo.
Questo disastro può essere fermato. L'UE sta rivedendo le Direttive sui rifiuti: è una occasione da non perdere! Chiedi al Ministro di difendere il mare! Le tartarughe, le balene, i pesci, gli uccelli marini... ti ringrazieranno!
Produciamo sempre più plastica usa e getta, molta più del necessario e
riciclarla non basta. L'80% dell'inquinamento marino è fatto di
plastica. Quest'invasione sta rapidamente trasformando i nostri mari
nella più grande discarica del mondo.
Non lasciare che tutta questa plastica soffochi i nostri mari: uccide la
fauna marina, contamina la catena alimentare e persiste nell'ambiente
per centinaia di anni.
Nel Mediterraneo, residui di plastica sono stati trovati nello stomaco
di pesci, uccelli marini, tartarughe e cetacei. Bisogna cambiare rotta e
il momento per farlo è adesso.
L'UE sta rivedendo le Direttive sui rifiuti: è una occasione da non perdere. Chiediamo al Ministro Galletti di schierarsi contro l'invasione della plastica, eliminando gli imballaggi usa-e-getta e adottando misure che risolvano il problema della plastica alla fonte! Non abbiamo molto tempo: il momento di cambiare è ora!
mercoledì 21 giugno 2017
Neonazismo in Europa
dalla pagina https://www.change.org/p/la-campagna-per-l-uscita-dell-italia-dalla-nato-per-un-italia-neutrale/u/20545499
14 giu 2017 — E' NATO IL NEONAZISMO IN EUROPA
di Manlio Dinucci
L’Ucraina, di fatto già nella Nato, vuole ora entrarvi ufficialmente. Il parlamento di Kiev, l’8 giugno, ha votato a maggioranza (276 contro 25) un emendamento legislativo che rende prioritario tale obiettivo.
La sua ammissione nella Nato non sarebbe solo un atto formale. La Russia viene accusata dalla Nato di aver annesso illegalmente la Crimea e di condurre azioni militari contro l’Ucraina. Di conseguenza, se l’Ucraina entrasse ufficialmente nella Nato, gli altri 29 membri della Alleanza, in base all’Articolo 5, dovrebbero «assistere la parte attaccata intraprendendo l’azione giudicata necessaria, compreso l’uso della forza armata». In altre parole, dovrebbero andare in guerra contro la Russia.
Il merito di aver introdotto nella legislazione ucraina l’obiettivo di entrare nella Nato va al presidente del parlamento Andriy Parubiy. Cofondatore nel 1991 del Partito nazionalsociale ucraino, sul modello del Partito nazionalsocialista di Adolf Hitler; capo delle formazioni paramilitari neonaziste, usate nel 2014 nel putsch di Piazza Maidan, sotto regia Usa/Nato, e nel massacro di Odessa; capo del Consiglio di difesa e sicurezza nazionale che, con il Battaglione Azov e altre unità neonaziste, attacca i civili ucraini di nazionalità russa nella parte orientale del paese ed effettua con apposite squadracce feroci pestaggi di militanti del Partito comunista, devastando le sue sedi e facendo roghi di libri in perfetto stile nazista, mentre lo stesso Partito sta per essere messo ufficialmente fuorilegge.
Questo è Andriy Parubiy che, in veste di presidente del parlamento ucraino (carica conferitagli per i suoi meriti democratici nell’aprile 2016), è stato ricevuto il 5 giugno a Montecitorio dalla presidente della Camera, Laura Boldrini. «L'Italia - ha sottolineato la presidente Boldrini - ha sempre condannato l'azione illegale avvenuta ai danni di una parte del territorio ucraino». Ha così avallato la versione Nato secondo cui sarebbe stata la Russia ad annettersi illegalmente la Crimea, ignorando il fatto che la scelta dei russi di Crimea di staccarsi dall’Ucraina e rientrare nella Russia è stata presa per impedire di essere attaccati, come i russi del Donbass, dai battaglioni neonazisti e le altre forze di Kiev.
Il cordiale colloquio si è concluso con la firma di un memorandum d'intesa che «rafforza ulteriormente la cooperazione parlamentare tra le due assemblee, sia sul piano politico che su quello amministrativo». Si rafforza così la cooperazione tra la Repubblica italiana, nata dalla Resistenza contro il nazi-fascismo, e un regime che ha creato in Ucraina una situazione analoga a quella che portò all’avvento del fascismo negli anni Venti e del nazismo negli anni Trenta.
Il battaglione Azov, la cui impronta nazista è rappresentata dall’emblema ricalcato da quello delle SS Das Reich, è stato incorporato nella Guardia nazionale, trasformato in unità militare regolare e promosso allo status di reggimento operazioni speciali. È stato quindi dotato di mezzi corazzati e pezzi d’artiglieria.
Con altre formazioni neonaziste, trasformate in unità regolari, viene addestrato da istruttori Usa della 173a divisione aviotrasportata, trasferiti da Vicenza in Ucraina, affiancati da altri della Nato.
L’Ucraina di Kiev è così divenuta il «vivaio» del rinascente nazismo nel cuore dell’Europa. A Kiev confluiscono neonazisti da tutta Europa, Italia compresa. Dopo essere stati addestrati e messi alla prova in azioni militari contro i russi di Ucraina nel Donbass, vengono fatti rientrare nei loro paesi.
Ormai la Nato deve ringiovanire i ranghi di Gladio.
Leggi anche: Breve storia della NATO dal 1991 ad oggi (Parte 10)
14 giu 2017 — E' NATO IL NEONAZISMO IN EUROPA
di Manlio Dinucci
L’Ucraina, di fatto già nella Nato, vuole ora entrarvi ufficialmente. Il parlamento di Kiev, l’8 giugno, ha votato a maggioranza (276 contro 25) un emendamento legislativo che rende prioritario tale obiettivo.
La sua ammissione nella Nato non sarebbe solo un atto formale. La Russia viene accusata dalla Nato di aver annesso illegalmente la Crimea e di condurre azioni militari contro l’Ucraina. Di conseguenza, se l’Ucraina entrasse ufficialmente nella Nato, gli altri 29 membri della Alleanza, in base all’Articolo 5, dovrebbero «assistere la parte attaccata intraprendendo l’azione giudicata necessaria, compreso l’uso della forza armata». In altre parole, dovrebbero andare in guerra contro la Russia.
Il merito di aver introdotto nella legislazione ucraina l’obiettivo di entrare nella Nato va al presidente del parlamento Andriy Parubiy. Cofondatore nel 1991 del Partito nazionalsociale ucraino, sul modello del Partito nazionalsocialista di Adolf Hitler; capo delle formazioni paramilitari neonaziste, usate nel 2014 nel putsch di Piazza Maidan, sotto regia Usa/Nato, e nel massacro di Odessa; capo del Consiglio di difesa e sicurezza nazionale che, con il Battaglione Azov e altre unità neonaziste, attacca i civili ucraini di nazionalità russa nella parte orientale del paese ed effettua con apposite squadracce feroci pestaggi di militanti del Partito comunista, devastando le sue sedi e facendo roghi di libri in perfetto stile nazista, mentre lo stesso Partito sta per essere messo ufficialmente fuorilegge.
Questo è Andriy Parubiy che, in veste di presidente del parlamento ucraino (carica conferitagli per i suoi meriti democratici nell’aprile 2016), è stato ricevuto il 5 giugno a Montecitorio dalla presidente della Camera, Laura Boldrini. «L'Italia - ha sottolineato la presidente Boldrini - ha sempre condannato l'azione illegale avvenuta ai danni di una parte del territorio ucraino». Ha così avallato la versione Nato secondo cui sarebbe stata la Russia ad annettersi illegalmente la Crimea, ignorando il fatto che la scelta dei russi di Crimea di staccarsi dall’Ucraina e rientrare nella Russia è stata presa per impedire di essere attaccati, come i russi del Donbass, dai battaglioni neonazisti e le altre forze di Kiev.
Il cordiale colloquio si è concluso con la firma di un memorandum d'intesa che «rafforza ulteriormente la cooperazione parlamentare tra le due assemblee, sia sul piano politico che su quello amministrativo». Si rafforza così la cooperazione tra la Repubblica italiana, nata dalla Resistenza contro il nazi-fascismo, e un regime che ha creato in Ucraina una situazione analoga a quella che portò all’avvento del fascismo negli anni Venti e del nazismo negli anni Trenta.
Il battaglione Azov, la cui impronta nazista è rappresentata dall’emblema ricalcato da quello delle SS Das Reich, è stato incorporato nella Guardia nazionale, trasformato in unità militare regolare e promosso allo status di reggimento operazioni speciali. È stato quindi dotato di mezzi corazzati e pezzi d’artiglieria.
Con altre formazioni neonaziste, trasformate in unità regolari, viene addestrato da istruttori Usa della 173a divisione aviotrasportata, trasferiti da Vicenza in Ucraina, affiancati da altri della Nato.
L’Ucraina di Kiev è così divenuta il «vivaio» del rinascente nazismo nel cuore dell’Europa. A Kiev confluiscono neonazisti da tutta Europa, Italia compresa. Dopo essere stati addestrati e messi alla prova in azioni militari contro i russi di Ucraina nel Donbass, vengono fatti rientrare nei loro paesi.
Ormai la Nato deve ringiovanire i ranghi di Gladio.
Leggi anche: Breve storia della NATO dal 1991 ad oggi (Parte 10)
martedì 20 giugno 2017
Papa Francesco a Bozzolo e Barbiana sulle tombe di don Mazzolari e don Milani
dalla pagina http://www.news.va/it/news/papa-francesco-a-bozzolo-e-barbiana-sulle-tombe-di
Papa Francesco è arrivato a Bozzolo dove è stato accolto dal vescovo
di Cremona, mons. Antonio Napolioni, che ha annunciato l'avvio del
processo di beatificazione di don Mazzolari il prossimo 18 settembre,
dal sindaco della cittadina, e dal calore dei fedeli. Poi, nella
parrocchia di San Pietro la preghiera sulla tomba di don Primo Mazzolari
e un discorso. Poi si sposterà a Barbiana. Alle 11.15 è previsto
l’atterraggio. Qui sarà accolto dal cardinale Giuseppe Betori,
arcivescovo di Firenze e dal sindaco. Visiterà la tomba di don Lorenzo
Milani. Poi si sposterà nella chiesa e sul prato adiacente terrà un
discorso. Alle 13,15 è previsto l’atterraggio nell’eliporto del
Vaticano. Questo il programma del pellegrinaggio di Francesco a Bossolo e Barbiana
Il nostro inviato, Alessandro Gisotti, ci racconta
che c’è un clima di grande gioia, di grande felicità. Ci sono tantissimi
giovani nella piazza davanti alla Chiesa, che sono qui addirittura
dalle 5.30-6.00 di mattina.
Il nostro inviato a Barbiana, Luca Collodi, ci
racconta che il Papa atterrerà in un campo, praticamente sotto alla
chiesa di Barbiana e andrà subito in visita privata a pregare nel
cimitero dove si trova la tomba di don Lorenzo Milani, a 50 anni dalla
morte; poi, nella chiesa, incontrerà i discepoli di don Milani, gli
studenti oggi anziani ma che sono gli eterni ragazzi di don Milani.E poi
il Papa proprio accanto alla canonica, anche qui, in un prato terrà un
discorso commemorativo, saranno presenti circa 200 persone. E’ un luogo
di pace questo di Barbiana, dove le persone che arrivano hanno veramente
un contatto con quello che lo Spirito ha fatto in tutti questi anni.
(Da Radio Vaticana)dalla pagina https://www.internazionale.it/opinione/franco-lorenzoni-2/2017/06/19/don-milani-barbiana
Cinque ragioni per tornare a don Milani
Franco Lorenzoni, insegnante
19
giugno 2017
10.03
“Io ero nella stanza accanto a fare scuola. Arrivò un ragazzino con
una paginetta che diceva ‘Cara professoressa, lei è una poco di buono’ o
cose simili. Io mi alzai e andai da don Lorenzo e gli dissi: ‘È una
porcheria! È il foglio di un ragazzo arrabbiato!’. Il priore mi domandò:
‘La vuoi più bella? E noi la faremo più bella!’. Parlava sorridendo
come uno a cui è venuta un’idea geniale; l’idea lo divertiva”. Così
Adele Corradi racconta la scintilla che diede vita alla lettera più famosa della storia della pedagogia,
scaturita dalla rabbia di un ragazzo che il suo maestro colse al volo,
trasformandola nel cuore pulsante del suo laboratorio educativo per nove
mesi, nel suo ultimo anno di vita.
Verso la fine di Lettera a una professoressa troviamo scritto: “Così abbiamo capito cos’è un’opera d’arte. È voler male a qualcuno o a qualcosa. Ripensarci sopra a lungo. Farsi aiutare dagli amici in un paziente lavoro di squadra. Pian piano viene fuori quello che di vero c’è sotto l’odio. Nasce l’opera d’arte: una mano tesa al nemico perché cambi”. Per Pier Paolo Pasolini è “una delle più straordinarie definizioni di quello che deve essere la poesia”.
[continua]
Verso la fine di Lettera a una professoressa troviamo scritto: “Così abbiamo capito cos’è un’opera d’arte. È voler male a qualcuno o a qualcosa. Ripensarci sopra a lungo. Farsi aiutare dagli amici in un paziente lavoro di squadra. Pian piano viene fuori quello che di vero c’è sotto l’odio. Nasce l’opera d’arte: una mano tesa al nemico perché cambi”. Per Pier Paolo Pasolini è “una delle più straordinarie definizioni di quello che deve essere la poesia”.
[continua]
domenica 18 giugno 2017
20 giugno 2017 - Giornata mondiale del Rifugiato e del Richiedente Asilo
Io sono in Italia: racconto la mia
storia
Il 20 giugno si celebra in tutto
il mondo la Giornata Mondiale del Rifugiato, appuntamento annuale
voluto dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. L’obiettivo è
sensibilizzare l’opinione pubblica sulla condizione di milioni di rifugiati e
richiedenti asilo. Saranno essi stessi a raccontarci le loro storie di vita.
JAAM AFRICA (Africa per la Pace)
Cooperativa EDECO
con la collaborazione della CASA PER LA PACE
invitano a
partecipare
presso il Cinema Patronato Leone XIII
via Vittorio Veneto 1 - Vicenza
Programma delle proiezioni
ore 16.00
proiezione del film.:
14 kilometri (durata 96 minuti)
Spagna. 2010. Regista: G. Olivares
Spagna. 2010. Regista: G. Olivares
ore 20.00
proiezione del
documentario Wallah. Te lo giuro (63
minuti)
Niger, Senegal, Italia 2016. Regista M. Merletto
Niger, Senegal, Italia 2016. Regista M. Merletto
INGRESSO LIBERO
Info: casaperlapace@gmail.com tel. 0444
327395- cell. 348 5811970 (Masseye)
Giornata mondiale del rifugiato e del richiedente asilo
Rifugiati: l’umanità non si arresta
Due appuntamenti il 20 e 22 giugno per la Giornata mondiale del rifugiato
In occasione della
Giornata mondiale del rifugiato si terranno due importanti
incontri, legati dal titolo "Rifugiati: l'umanità non si arresta", volti
a ricordare coloro che hanno perso la vita cercando di raggiungere
l'Europa.
Martedì 20 giugno alle ore 20.30, presso la Chiesa di S. Maria Bertilla in via Ozanam 1 (Vicenza), sarà celebrata la veglia ecumenica di preghiera "Morire di speranza" in memoria delle vittime.

L'incontro del 22 giugno sarà anche l'occasione per un gesto di solidarietà concreta tramite la raccolta di scarpe da destinare ai rifugiati ospitati a Lampedusa. Qui sotto e nel depliant allegato potete trovare ogni informazione utile. Gli appuntamenti nascono dalla collaborazione di Associazione Presenza Donna, Chiesa evangelica metodista, Centro Astalli, Migrantes e Caritas diocesana vicentina e Voce dei Berici.
Dall'inizio del 2017, più di un bambino al giorno muore nel Mediterraneo: per adesso, sono almeno 200 i bimbi che hanno perso la vita in quella tratta della morte, su un totale di 1.530 vittime.
Associazione Presenza Donna
Centro Documentazione e Studi
venerdì 16 giugno 2017
UE: non investire nelle armi
dalla pagina https://act.wemove.eu/campaigns/ue-non-investire-nelle-armi
Ma la Commissione europea, sotto la forte pressione dell’industria bellica, sta ora progettando di stanziare migliaia di milioni di euro di denaro pubblico per sviluppare una tecnologia militare avanzata per la prima volta da quando esiste l’Unione [1].
Anche se viene presentata come una misura di "difesa", la verità è che lo scopo di questi sussidi è di preservare la competitività dell’industria bellica e la sua capacità di esportare all’estero, anche in paesi che contribuiscono all’instabilità e che prendono parte a conflitti letali, come l’Arabia Saudita [2].
L'anno scorso i nostri governi ed europarlamentari hanno votato uno stanziamento di 90 milioni di euro su 3 anni per finanziare la ricerca militare e questo è solo l’inizio.
La Commissione Ue sta spingendo sui finanziamenti alle “strategie di difesa” usando fondi già esistenti, a discapito di programmi regionali e strutturali di aiuto allo sviluppo e, persino, del programma Erasmus per l'istruzione, la formazione, la gioventù e lo sport, che dovrebbero d’ora in poi contribuire a "competenze di difesa"! [3]
Lo scorso 7 giugno la Commissione ha presentato ufficialmente Piano d'azione europeo in materia di difesa [4] insieme alla proposta di una dotazione annua stimata di 500 milioni di euro dal budget Ue per la ricerca e lo sviluppo nel settore bellico e degli armamenti nel 2019-2020 [5]. Si prevede che nel 2021 questo stanziamento cresca e raggiunga i 1,5 miliardi all’anno. La situazione è molto più grave di quella in cui ci trovavamo nel novembre 2016 [6].
Il Fondo comprende, inoltre 4 miliardi di contributi nazionali annuali per finanziare l’ultima fase del processo: l’acquisizione di equipaggiamenti militari e lo sviluppo congiunto da parte degli Stati membri. La Commissione ha proposto che i contributi nazionali da destinare al Fondo siano esclusi dalla soglia di disavanzo del 3% del PIL che gli Stati membri sono tenuti a rispettare. Un privilegio che non è accordato a settori come l’educazione, la sanità pubblica o gli investimenti per la tutela dell’ambiente.
Questi provvedimenti significheranno tagli drastici a scapito di altre priorità di spesa sia a livello europeo sia a livello nazionale. L'UE insiste sul fatto che tale finanziamento dovrebbe essere aggiunto alle spese militari nazionali, e non essere un loro sostituto.
È ormai chiaro che dopo anni di manovre dietro le quinte, l’industria bellica si è riuscita ad ottenere il supporto di alcuni paesi europei e di alti funzionari, riuscendo a far passare le spese belliche sotto forma di “ricerca”, e più in generale a sbarazzarsi delle norme che limitano i finanziamenti dell'UE a impieghi civili.
Ma abbiamo ancora una possibilità per evitare che i soldi dei contribuenti europei vengano usati per finanziare le guerre. Diciamo ai membri del Parlamento europeo che vogliamo che lavorino per la pace, non per sovvenzionare le armi.
Ai Membri europei del Parlamento e del Consiglio europeo
Petizione
Impedisci l’inclusione della ricerca per l’industria bellica nel nuovo budget dell’UE. Nessuna sovvenzione europea dovrebbe andare alla tecnologia militare. I finanziamenti per la ricerca dovrebbero essere destinati a progetti che sviluppano modi non violenti per prevenire e risolvere i conflitti ed in particolare per affrontare le cause alla radice dell’instabilità.Perché è importante?
Vogliamo tutti vivere in un mondo pacifico ed è per questo che è stata creata l’Unione europea.Ma la Commissione europea, sotto la forte pressione dell’industria bellica, sta ora progettando di stanziare migliaia di milioni di euro di denaro pubblico per sviluppare una tecnologia militare avanzata per la prima volta da quando esiste l’Unione [1].
Anche se viene presentata come una misura di "difesa", la verità è che lo scopo di questi sussidi è di preservare la competitività dell’industria bellica e la sua capacità di esportare all’estero, anche in paesi che contribuiscono all’instabilità e che prendono parte a conflitti letali, come l’Arabia Saudita [2].
L'anno scorso i nostri governi ed europarlamentari hanno votato uno stanziamento di 90 milioni di euro su 3 anni per finanziare la ricerca militare e questo è solo l’inizio.
La Commissione Ue sta spingendo sui finanziamenti alle “strategie di difesa” usando fondi già esistenti, a discapito di programmi regionali e strutturali di aiuto allo sviluppo e, persino, del programma Erasmus per l'istruzione, la formazione, la gioventù e lo sport, che dovrebbero d’ora in poi contribuire a "competenze di difesa"! [3]
Lo scorso 7 giugno la Commissione ha presentato ufficialmente Piano d'azione europeo in materia di difesa [4] insieme alla proposta di una dotazione annua stimata di 500 milioni di euro dal budget Ue per la ricerca e lo sviluppo nel settore bellico e degli armamenti nel 2019-2020 [5]. Si prevede che nel 2021 questo stanziamento cresca e raggiunga i 1,5 miliardi all’anno. La situazione è molto più grave di quella in cui ci trovavamo nel novembre 2016 [6].
Il Fondo comprende, inoltre 4 miliardi di contributi nazionali annuali per finanziare l’ultima fase del processo: l’acquisizione di equipaggiamenti militari e lo sviluppo congiunto da parte degli Stati membri. La Commissione ha proposto che i contributi nazionali da destinare al Fondo siano esclusi dalla soglia di disavanzo del 3% del PIL che gli Stati membri sono tenuti a rispettare. Un privilegio che non è accordato a settori come l’educazione, la sanità pubblica o gli investimenti per la tutela dell’ambiente.
Questi provvedimenti significheranno tagli drastici a scapito di altre priorità di spesa sia a livello europeo sia a livello nazionale. L'UE insiste sul fatto che tale finanziamento dovrebbe essere aggiunto alle spese militari nazionali, e non essere un loro sostituto.
È ormai chiaro che dopo anni di manovre dietro le quinte, l’industria bellica si è riuscita ad ottenere il supporto di alcuni paesi europei e di alti funzionari, riuscendo a far passare le spese belliche sotto forma di “ricerca”, e più in generale a sbarazzarsi delle norme che limitano i finanziamenti dell'UE a impieghi civili.
Ma abbiamo ancora una possibilità per evitare che i soldi dei contribuenti europei vengano usati per finanziare le guerre. Diciamo ai membri del Parlamento europeo che vogliamo che lavorino per la pace, non per sovvenzionare le armi.
In partenariato con la Rete europea contro il commercio delle armi (ENAAT)
mercoledì 14 giugno 2017
Lavoro: Il nuovo fordismo individualizzato
dalla pagina http://sbilanciamoci.info/dal-fordismo-concentrato-al-fordismo-individualizzato/
Davvero siamo felicemente usciti dal fordismo del 900? Oppure siamo semplicemente dentro a una nuova fase della Grande Narrazione tecnica e capitalista?
Davvero siamo felicemente usciti dal fordismo del 900? Oppure siamo semplicemente dentro a una nuova fase della Grande Narrazione tecnica e capitalista?
Davvero il lavoro è cambiato, oggi, in tempi di terza (o già di
quarta, con la digitalizzazione) rivoluzione industriale, rispetto alla
prima di fine Settecento? Davvero siamo felicemente (e finalmente!)
usciti dal fordismo greve e pesante del ‘900 per approdare al
post-fordismo leggero, flessibile e virtuoso, alla produzione snella,
all’economia della conoscenza e all’era dell’accesso, alla new
economy degli anni ’90 e ora alla sharing economy e agli smart jobs – e
qualcuno (Paul Mason) immagina persino un favoloso post-capitalismo?
Oppure siamo semplicemente (e drammaticamente) dentro a una nuova fase
della Grande Narrazione tecnica e capitalista?
Se carattere tipico e definitorio del fordismo era la produzione industriale di massa basata sull’impiego di lavoro ripetitivo e generalmente senza particolari qualifiche e specializzazioni («Io» – diceva Henry Ford – «non riuscirei mai a fare la stessa cosa tutti i giorni, ma per altri le operazioni ripetitive non sono un motivo di orrore. L’operaio medio desidera un lavoro nel quale non debba erogare molta energia fisica, ma soprattutto desidera un lavoro nel quale non debba pensare»), il post-fordismo si caratterizzerebbe invece per l’adozione di tecnologie e criteri organizzativi che pongono una particolare enfasi sulla specializzazione e sulla qualificazione del lavoro e delle competenze nonché sulla flessibilità dei lavoratori. Ma da qui a immaginare il passaggio – grazie anche alle nuove tecnologie – da un lavoro prettamente materiale (il fordismo, appunto, legato alla manifattura) a un lavoro soprattutto intellettuale e immateriale (erano le retoriche dell’economia della conoscenza e del capitalismo cognitivo di pochi anni fa), il passo è stato breve ma anche troppo frettoloso. Come breve e altrettanto frettoloso è stato il passaggio dalle retoriche della wikinomics a quelle sulla sharing economy, così come dalla precarizzazione del lavoro alla enfatizzazione della sua virtuosa uberizzazione. Economisti e soprattutto noi sociologi abbiamo (non tutte, ma) molte colpe nell’avere favorito questa rivoluzione linguistica. Che si basava e ancora si basa – è la tesi che qui nuovamente si sostiene e si prova ad approfondire – su un drammatico errore di valutazione delle trasformazioni avvenute e ancora in atto appunto nell’organizzazione del lavoro tecnica e capitalista. Un errore. Intellettuale e di analisi.
Perché in verità – una verità che dovrebbe essere ormai evidente, se foucaultianamente si scavasse sotto le apparenze, se si facesse archeologia ma soprattutto si analizzasse la genealogia dei saperi e dei poteri che governano la rete & il capitalismo (il tecno-capitalismo) – a non essere cambiate sono le forme e le norme di organizzazione e di funzionamento del sistema. Basate sempre – dalla prima rivoluzione industriale alla rete e oggi alla digitalizzazione – prima sulla suddivisione e l’individualizzazione del lavoro e poi sulla sua ricomposizione/totalizzazione (ancora Foucault) in qualcosa che deve essere sempre maggiore della semplice somma delle parti prima suddivise e separate. Forme e norme di organizzazione che appunto non sono sostanzialmente mutate da quando il capitalismo ha sposato l’industria (un matrimonio d’interesse ma più stabile e prolifico di un matrimonio d’amore), semmai si affinano ogni volta al sorgere e al diffondersi delle diverse tecnologie dominanti: i telai, la macchina a vapore, la fabbrica di spilli di Adam Smith e soprattutto l’orologio (secondo Lewis Mumford, la vera macchina che ha permesso l’industrializzazione) e la divisione del tempo e il suo utilizzo sempre più esaustivo – nella prima rivoluzione industriale; la catena di montaggio e l’organizzazione scientifica del lavoro e ancor di più l’orologio e il controllo e l’intensificazione del tempo di lavoro mediante la sua suddivisione accresciuta – con la seconda rivoluzione industriale; e ora con la rete e ancora l’orologio (il tempo reale) e domani con la fabbrica 4.0.
Il mutamento che – sbagliando – abbiamo chiamato post-fordismo e ora sharing economy e fabbrica 4.0 è avvenuto allora non nelle forme e nelle norme di organizzazione (suddivisione e totalizzazione: del lavoro di produzione, del lavoro di consumo, nella fruizione dei prodotti dell’industria culturale) ma nella qualità e nella quantità di questa individualizzazione. Se ieri, nel fordismo era necessario concentrare migliaia di lavoratori all’interno di luoghi chiusi come appunto le grandi fabbriche perché il mezzo di connessione/totalizzazione delle parti suddivise del lavoro era necessariamente fisico e presupponeva uno spazio concentrato e concentrante (questo permetteva l’efficienza produttiva di allora), oggi il mezzo di connessione, ovvero la rete, permette di scomporre e di individualizzare n volte di più la forma e la norma di organizzazione e di farla esplodere in lavori (e in lavoratori) disconnessi da un luogo fisico (la fabbrica) ma connessi in un luogo virtuale come appunto la rete. Dal fordismo concentrato di ieri siamo cioè passati non al post-fordismo ma a un fordismo individualizzato. Passando per il fordismo territoriale e di distretto, per il piccolo è bello, per il capitalismo personale e il lavoro free-lance. Nessun post-fordismo; semmai la socializzazione dell’ordoliberalismo (la società in forma di mercato e secondo la norma del mercato, la vita come impresa, la competizione come imperativo esistenziale).
Grazie alla rete – sempre più mezzo di connessione e sempre meno mezzo di comunicazione e di conoscenza; sempre più capitalista e sempre meno libera e anarchica come alle origini – ogni lavoratore prima fisicamente e contrattualmente subordinato può (deve) oggi diventare un lavoratore autonomo, un imprenditore di se stesso, un maker che produce innovazione, un lavoratore individualizzato; con il suo posto di lavoro e i suoi tempi di esecuzione della prestazione, ma esterni ad ogni fisicità concentrata. Apparentemente (ma anche contrattualmente) è davvero un lavoratore autonomo, è davvero un imprenditore di se stesso; concretamente è invece un falso imprenditore di se stesso (così come è un falso individuo) perché sub-ordinato a un nuovo padrone. È sì esterno alla struttura dell’impresa ma è ancora più integrato-connesso ad essa. E’ un processo analogo e parallelo a quello che ha interessato la società di massa novecentesca. Prima si trattava di masse prevalentemente concentrate, poi si è passati (è la lezione di Günther Anders) a una massa individualizzata, in cui ciascuno ha comportamenti di massa (nei consumi, nell’industria culturale, nei comportamenti collettivi, nel conformismo, nell’edonismo, nella nuova società dello spettacolo e oggi della spettacolarizzazione di sé) ma li pratica individualmente, illudendosi di essere libero. Qualcosa di analogo si è verificato appunto nell’organizzazione del lavoro. Tutti siamo integrati nel sistema capitalista & nella rete, ma da singoli, separati fisicamente dagli altri ma virtualmente ancor più integrati con gli altri e con il tecno-capitalismo di quanto non si fosse ai tempi del fordismo.
È il lavoro in forma di folla – il crowd-work – che è una folla (meglio: una massa) di individui e soprattutto è una massa di individui connessi perché il concetto di folla/massa è incompatibile con quello di libertà e di autonomia individuale e il lavoro in forma di massa è un lavoro che, come accade nella folla-massa, annulla l’individualità facendola piuttosto sciogliere nella folla (il mercato, la rete); ma allo stesso tempo dando all’individuo nella folla-massa una sensazione di grande forza collettiva, di potenza, di capacità di cambiare il mondo (il post-capitalismo?) – facendo dimenticare che anche questo lavoro è finalizzato al profitto di qualcuno. Individui, allora, ma che si muovono come un sol uomo, sia pure individualmente. Che si credono imprenditori di se stessi, ma sono ancor più subordinati alle forme e alle norme di funzionamento dell’apparato che li ha trasformati in massa (la socializzazione del capitalismo), massa come forma classica di organizzazione dove ciascuno è solo ma insieme agli altri, ma questo essere insieme agli altri e connesso con gli altri impedisce (ed è un grande vantaggio per il potere che organizza la massa) la formazione di ogni possibile coscienza collettiva o di classe, perché essere in una folla-massa individualizzata esclude ogni coscienza di classe come ogni autonomia individuale e ogni discorso sui fini). Apparato tecno-capitalista che dunque è riuscito a sciogliere il suo avversario di classe (la sua organizzazione antagonista, la sua struttura organizzativa, la sua coscienza) appunto individualizzandolo mediante suddivisione crescente del lavoro e personalizzazione dei consumi; apparato che precarizza il lavoro e individualizza ma crea allo stesso tempo la retorica (lo storytelling) della condivisione. Che aliena più che nel passato, ma offre l’illusione a ciascuno di essere padrone dei propri mezzi di produzione (il personal computer, il dispositivo personale mobile), oltre che dei beni che produce, magari grazie a una stampante 3D. È il trionfo del capitalismo di piattaforma, che non è qualcosa di virtuoso che permette una cooperazione libera tra soggetti anch’essi liberi, appunto mediante una piattaforma tecnologica (un mezzo), ciascuno potendo godere del lavoro condiviso con altri. Ma è un capitalismo di piattaforma perché i profitti (il fine) sono di chi possiede la piattaforma (come nel caso di Uber o di Airbnb), non di chi la usa. E la stessa sharing economy è sì condivisione ma deve produrre business per la piattaforma; o altrimenti, è meglio definibile come economia della sopravvivenza in tempi di impoverimento di massa.
Il lavoro di oggi non è dunque diverso da quello di ieri. Si è ancora più individualizzato, ma si è fatto anche più integrato (e questa è l’essenza di funzionamento di ogni organizzazione industriale e moderna del lavoro: suddividere e individualizzare sempre di più, ma conseguentemente integrare sempre di più grazie al mezzo di connessione dominante; far prevalere gli interessi dell’organizzazione-sistema su quelli individuali). Accrescendo la quantità di prestazione richiesta a ciascuno, estraendo da ciascuno una quantità sempre maggiore di valore e di profitto, ma facendogli credere di essere libero. Si è prodotta una autentica mutazione antropologica e culturale. Che può essere ben rappresentata con questa esemplificazione.
In questi giorni, su alcuni treni ad alta velocità italiani, nei video sistemati al soffitto delle vetture, passa un video promozionale dove si vede un macchinista al posto di comando del suo treno. Sguardo intenso, grande attenzione, grande partecipazione al compito assegnato. Immagini del treno dall’alto, bello e velocissimo. Poi l’immagine si divide a metà, a sinistra ancora il macchinista, a destra una donna in casa che mette fiori nei vasi e si prende cura del suo bambino. Quindi, sempre a sinistra, il treno arriva in stazione, il macchinista scende dalla motrice e attraversando la linea che divide in due metà lo schermo entra in casa senza più la divisa da macchinista e saluta sorridente la moglie e il bambino. A quel punto la donna bacia il suo/loro bambino, attraversa a sua volta, ma in senso contrario a quello dell’uomo la linea a metà dello schermo e diventa anche lei macchinista, sale sulla motrice e fa partire il treno ad alta velocità.
Uno spot che richiama dalla memoria un racconto del 1958 di Italo Calvino, dal titolo: L’avventura di due sposi. Anche in Calvino ci sono un lui e una lei. Lui, l’operaio Arturo Massolari fa il turno di notte, quello che finisce alle sei. Rientra a casa più a meno all’ora in cui suona la sveglia della moglie, Elide, che lavora invece di giorno. Un breve incontro tra loro, qualche carezza, poi lei esce di casa per andare a lavorare e lui si infila nel letto dalla sua parte, ma subito muovendosi verso dove aveva dormito Elide, per cercare il suo calore e il suo profumo. Tutto molto simile allo spot descritto sopra. Oggi come allora la famiglia, la coppia, l’amore fanno i conti con il lavoro. Nulla è cambiato da allora. Tuttavia c’è una differenza: allora, Calvino descriveva, con il suo stile leggero una realtà amara fatta di fatica e di separazione forzata tra lui e lei, implicitamente criticava quel modo di organizzare il lavoro e (conseguentemente) la vita delle persone. Oggi la stessa condizione umana è vissuta e offerta come positiva e come virtuosa forma di emancipazione, di parità di genere, di liberazione della donna, soprattutto di modernità. Cambia la casa: operaia e povera quella di Calvino, spaziosa e con una grande cucina quella di oggi. Le disuguaglianze di allora – e l’alienazione – sono le stesse di oggi. Ma vengono offerte appunto come modernità e innovazione, non come un passato che non cambia. La mutazione antropologica avvenuta è anche in questo rovesciamento.
E allora, Uber e i processi di uberizzazione del lavoro. Qualcuno li porta ad esempio di massima auto-imprenditorialità, ma cosa sono i falsi tassisti di Uber se non dei lavoratori folla o meglio ancora dei lavoratori fordisti individualizzati dentro al capitalismo delle piattaforme? Credono di possedere i mezzi di produzione (l’auto, lo smartphone), ma il vero mezzo di produzione è la piattaforma, che non è loro, loro sono alle sue dipendenze, sono subordinati alla piattaforma, quindi sono assolutamente alienati (nel senso di Marx), ma non credono di esserlo.
Di più: l’uberizzazione delle imprese come nuovo momento trasformativo epocale e ovviamente virtuoso e positivo e quindi (secondo Max Bergami, della Bologna Business School, su Il Sole 24 Ore del 3 aprile scorso) «come difficilmente contrastabile, perché la diffusione dell’innovazione è maggiore di qualunque reazione». Ovvero, l’uberizzazione è un processo positivo comunque perché innovativo e l’innovazione è sempre positiva e chiunque cerchi di contrastarla è irrazionale e antimoderno – ragionando come Taylor cento anni fa quando criticava il sindacato nel caso avesse voluto contestare la sua organizzazione scientifica del lavoro che, essendo per autodefinizione (per autoreferenzialità) scientifica era quindi anche razionale, mentre irrazionale diventava ipso facto qualsiasi contestazione/opposizione. L’uberizzazione del lavoro consentirà di comprare lavoro e competenze in caso di bisogno, scomporrà le organizzazioni d’impresa, flessibilizzerà ancora di più il mercato del lavoro ma produrrà migliaia di falsi imprenditori di se stessi – ma questo non è davvero niente di nuovo, se non l’estremizzazione del vecchio just in time applicato alle risorse umane. Ed è lavoro quasi-servile, quindi peggio che fordista. Riverniciato di modernità e di ineluttabilità.
E allora e ancora la parola magica (non del post-capitalismo, ma) dell’ultra-capitalismo: condivisione. Anche qui assistiamo allo stravolgimento del dizionario, cioè alla produzione industriale di una neolingua conforme al tecno-capitalismo, perché in realtà dobbiamo condividere solo ciò che permette al capitalismo di estrarre profitto per sé (i nostri dati, i nostri profili, i nostri selfie), ma poi possiamo e anzi dobbiamo essere egoisti nella realtà (verso i migranti-profughi, ad esempio; ma anche verso gli altri individui, non più individui che compongono una società, ma nostri incessanti competitori). Anche il concetto e le pratiche di condivisione sono state dunque stravolte e piegate al profitto dei capitalisti e dei signori della Silicon Valley. In realtà la condivisione e l’aiuto sono pratiche antiche e non il prodotto virtuoso della rete. La rivoluzione francese era nata per realizzare un principio di fraternità e di solidarietà, cioè di condivisione. L’Enciclopedia, era condivisione di conoscenza. Il welfare pubblico post-1945 era basato anch’esso sulla condivisione (la redistribuzione della ricchezza dall’alto verso il basso della società, la creazione di uguali punti di partenza per tutti, le assicurazioni sociali come forma di partecipazione e di condivisione sociale dei rischi), oltre che sulla fraternità/solidarietà inter-generazionale. Ma tutto questo è stato progressivamente rimosso, cancellato. Come il fatto che il lavoro era un diritto. Ed è diventato una merce. Chiamando però tutto questo modernità e innovazione.
Se carattere tipico e definitorio del fordismo era la produzione industriale di massa basata sull’impiego di lavoro ripetitivo e generalmente senza particolari qualifiche e specializzazioni («Io» – diceva Henry Ford – «non riuscirei mai a fare la stessa cosa tutti i giorni, ma per altri le operazioni ripetitive non sono un motivo di orrore. L’operaio medio desidera un lavoro nel quale non debba erogare molta energia fisica, ma soprattutto desidera un lavoro nel quale non debba pensare»), il post-fordismo si caratterizzerebbe invece per l’adozione di tecnologie e criteri organizzativi che pongono una particolare enfasi sulla specializzazione e sulla qualificazione del lavoro e delle competenze nonché sulla flessibilità dei lavoratori. Ma da qui a immaginare il passaggio – grazie anche alle nuove tecnologie – da un lavoro prettamente materiale (il fordismo, appunto, legato alla manifattura) a un lavoro soprattutto intellettuale e immateriale (erano le retoriche dell’economia della conoscenza e del capitalismo cognitivo di pochi anni fa), il passo è stato breve ma anche troppo frettoloso. Come breve e altrettanto frettoloso è stato il passaggio dalle retoriche della wikinomics a quelle sulla sharing economy, così come dalla precarizzazione del lavoro alla enfatizzazione della sua virtuosa uberizzazione. Economisti e soprattutto noi sociologi abbiamo (non tutte, ma) molte colpe nell’avere favorito questa rivoluzione linguistica. Che si basava e ancora si basa – è la tesi che qui nuovamente si sostiene e si prova ad approfondire – su un drammatico errore di valutazione delle trasformazioni avvenute e ancora in atto appunto nell’organizzazione del lavoro tecnica e capitalista. Un errore. Intellettuale e di analisi.
Perché in verità – una verità che dovrebbe essere ormai evidente, se foucaultianamente si scavasse sotto le apparenze, se si facesse archeologia ma soprattutto si analizzasse la genealogia dei saperi e dei poteri che governano la rete & il capitalismo (il tecno-capitalismo) – a non essere cambiate sono le forme e le norme di organizzazione e di funzionamento del sistema. Basate sempre – dalla prima rivoluzione industriale alla rete e oggi alla digitalizzazione – prima sulla suddivisione e l’individualizzazione del lavoro e poi sulla sua ricomposizione/totalizzazione (ancora Foucault) in qualcosa che deve essere sempre maggiore della semplice somma delle parti prima suddivise e separate. Forme e norme di organizzazione che appunto non sono sostanzialmente mutate da quando il capitalismo ha sposato l’industria (un matrimonio d’interesse ma più stabile e prolifico di un matrimonio d’amore), semmai si affinano ogni volta al sorgere e al diffondersi delle diverse tecnologie dominanti: i telai, la macchina a vapore, la fabbrica di spilli di Adam Smith e soprattutto l’orologio (secondo Lewis Mumford, la vera macchina che ha permesso l’industrializzazione) e la divisione del tempo e il suo utilizzo sempre più esaustivo – nella prima rivoluzione industriale; la catena di montaggio e l’organizzazione scientifica del lavoro e ancor di più l’orologio e il controllo e l’intensificazione del tempo di lavoro mediante la sua suddivisione accresciuta – con la seconda rivoluzione industriale; e ora con la rete e ancora l’orologio (il tempo reale) e domani con la fabbrica 4.0.
Il mutamento che – sbagliando – abbiamo chiamato post-fordismo e ora sharing economy e fabbrica 4.0 è avvenuto allora non nelle forme e nelle norme di organizzazione (suddivisione e totalizzazione: del lavoro di produzione, del lavoro di consumo, nella fruizione dei prodotti dell’industria culturale) ma nella qualità e nella quantità di questa individualizzazione. Se ieri, nel fordismo era necessario concentrare migliaia di lavoratori all’interno di luoghi chiusi come appunto le grandi fabbriche perché il mezzo di connessione/totalizzazione delle parti suddivise del lavoro era necessariamente fisico e presupponeva uno spazio concentrato e concentrante (questo permetteva l’efficienza produttiva di allora), oggi il mezzo di connessione, ovvero la rete, permette di scomporre e di individualizzare n volte di più la forma e la norma di organizzazione e di farla esplodere in lavori (e in lavoratori) disconnessi da un luogo fisico (la fabbrica) ma connessi in un luogo virtuale come appunto la rete. Dal fordismo concentrato di ieri siamo cioè passati non al post-fordismo ma a un fordismo individualizzato. Passando per il fordismo territoriale e di distretto, per il piccolo è bello, per il capitalismo personale e il lavoro free-lance. Nessun post-fordismo; semmai la socializzazione dell’ordoliberalismo (la società in forma di mercato e secondo la norma del mercato, la vita come impresa, la competizione come imperativo esistenziale).
Grazie alla rete – sempre più mezzo di connessione e sempre meno mezzo di comunicazione e di conoscenza; sempre più capitalista e sempre meno libera e anarchica come alle origini – ogni lavoratore prima fisicamente e contrattualmente subordinato può (deve) oggi diventare un lavoratore autonomo, un imprenditore di se stesso, un maker che produce innovazione, un lavoratore individualizzato; con il suo posto di lavoro e i suoi tempi di esecuzione della prestazione, ma esterni ad ogni fisicità concentrata. Apparentemente (ma anche contrattualmente) è davvero un lavoratore autonomo, è davvero un imprenditore di se stesso; concretamente è invece un falso imprenditore di se stesso (così come è un falso individuo) perché sub-ordinato a un nuovo padrone. È sì esterno alla struttura dell’impresa ma è ancora più integrato-connesso ad essa. E’ un processo analogo e parallelo a quello che ha interessato la società di massa novecentesca. Prima si trattava di masse prevalentemente concentrate, poi si è passati (è la lezione di Günther Anders) a una massa individualizzata, in cui ciascuno ha comportamenti di massa (nei consumi, nell’industria culturale, nei comportamenti collettivi, nel conformismo, nell’edonismo, nella nuova società dello spettacolo e oggi della spettacolarizzazione di sé) ma li pratica individualmente, illudendosi di essere libero. Qualcosa di analogo si è verificato appunto nell’organizzazione del lavoro. Tutti siamo integrati nel sistema capitalista & nella rete, ma da singoli, separati fisicamente dagli altri ma virtualmente ancor più integrati con gli altri e con il tecno-capitalismo di quanto non si fosse ai tempi del fordismo.
È il lavoro in forma di folla – il crowd-work – che è una folla (meglio: una massa) di individui e soprattutto è una massa di individui connessi perché il concetto di folla/massa è incompatibile con quello di libertà e di autonomia individuale e il lavoro in forma di massa è un lavoro che, come accade nella folla-massa, annulla l’individualità facendola piuttosto sciogliere nella folla (il mercato, la rete); ma allo stesso tempo dando all’individuo nella folla-massa una sensazione di grande forza collettiva, di potenza, di capacità di cambiare il mondo (il post-capitalismo?) – facendo dimenticare che anche questo lavoro è finalizzato al profitto di qualcuno. Individui, allora, ma che si muovono come un sol uomo, sia pure individualmente. Che si credono imprenditori di se stessi, ma sono ancor più subordinati alle forme e alle norme di funzionamento dell’apparato che li ha trasformati in massa (la socializzazione del capitalismo), massa come forma classica di organizzazione dove ciascuno è solo ma insieme agli altri, ma questo essere insieme agli altri e connesso con gli altri impedisce (ed è un grande vantaggio per il potere che organizza la massa) la formazione di ogni possibile coscienza collettiva o di classe, perché essere in una folla-massa individualizzata esclude ogni coscienza di classe come ogni autonomia individuale e ogni discorso sui fini). Apparato tecno-capitalista che dunque è riuscito a sciogliere il suo avversario di classe (la sua organizzazione antagonista, la sua struttura organizzativa, la sua coscienza) appunto individualizzandolo mediante suddivisione crescente del lavoro e personalizzazione dei consumi; apparato che precarizza il lavoro e individualizza ma crea allo stesso tempo la retorica (lo storytelling) della condivisione. Che aliena più che nel passato, ma offre l’illusione a ciascuno di essere padrone dei propri mezzi di produzione (il personal computer, il dispositivo personale mobile), oltre che dei beni che produce, magari grazie a una stampante 3D. È il trionfo del capitalismo di piattaforma, che non è qualcosa di virtuoso che permette una cooperazione libera tra soggetti anch’essi liberi, appunto mediante una piattaforma tecnologica (un mezzo), ciascuno potendo godere del lavoro condiviso con altri. Ma è un capitalismo di piattaforma perché i profitti (il fine) sono di chi possiede la piattaforma (come nel caso di Uber o di Airbnb), non di chi la usa. E la stessa sharing economy è sì condivisione ma deve produrre business per la piattaforma; o altrimenti, è meglio definibile come economia della sopravvivenza in tempi di impoverimento di massa.
Il lavoro di oggi non è dunque diverso da quello di ieri. Si è ancora più individualizzato, ma si è fatto anche più integrato (e questa è l’essenza di funzionamento di ogni organizzazione industriale e moderna del lavoro: suddividere e individualizzare sempre di più, ma conseguentemente integrare sempre di più grazie al mezzo di connessione dominante; far prevalere gli interessi dell’organizzazione-sistema su quelli individuali). Accrescendo la quantità di prestazione richiesta a ciascuno, estraendo da ciascuno una quantità sempre maggiore di valore e di profitto, ma facendogli credere di essere libero. Si è prodotta una autentica mutazione antropologica e culturale. Che può essere ben rappresentata con questa esemplificazione.
In questi giorni, su alcuni treni ad alta velocità italiani, nei video sistemati al soffitto delle vetture, passa un video promozionale dove si vede un macchinista al posto di comando del suo treno. Sguardo intenso, grande attenzione, grande partecipazione al compito assegnato. Immagini del treno dall’alto, bello e velocissimo. Poi l’immagine si divide a metà, a sinistra ancora il macchinista, a destra una donna in casa che mette fiori nei vasi e si prende cura del suo bambino. Quindi, sempre a sinistra, il treno arriva in stazione, il macchinista scende dalla motrice e attraversando la linea che divide in due metà lo schermo entra in casa senza più la divisa da macchinista e saluta sorridente la moglie e il bambino. A quel punto la donna bacia il suo/loro bambino, attraversa a sua volta, ma in senso contrario a quello dell’uomo la linea a metà dello schermo e diventa anche lei macchinista, sale sulla motrice e fa partire il treno ad alta velocità.
Uno spot che richiama dalla memoria un racconto del 1958 di Italo Calvino, dal titolo: L’avventura di due sposi. Anche in Calvino ci sono un lui e una lei. Lui, l’operaio Arturo Massolari fa il turno di notte, quello che finisce alle sei. Rientra a casa più a meno all’ora in cui suona la sveglia della moglie, Elide, che lavora invece di giorno. Un breve incontro tra loro, qualche carezza, poi lei esce di casa per andare a lavorare e lui si infila nel letto dalla sua parte, ma subito muovendosi verso dove aveva dormito Elide, per cercare il suo calore e il suo profumo. Tutto molto simile allo spot descritto sopra. Oggi come allora la famiglia, la coppia, l’amore fanno i conti con il lavoro. Nulla è cambiato da allora. Tuttavia c’è una differenza: allora, Calvino descriveva, con il suo stile leggero una realtà amara fatta di fatica e di separazione forzata tra lui e lei, implicitamente criticava quel modo di organizzare il lavoro e (conseguentemente) la vita delle persone. Oggi la stessa condizione umana è vissuta e offerta come positiva e come virtuosa forma di emancipazione, di parità di genere, di liberazione della donna, soprattutto di modernità. Cambia la casa: operaia e povera quella di Calvino, spaziosa e con una grande cucina quella di oggi. Le disuguaglianze di allora – e l’alienazione – sono le stesse di oggi. Ma vengono offerte appunto come modernità e innovazione, non come un passato che non cambia. La mutazione antropologica avvenuta è anche in questo rovesciamento.
E allora, Uber e i processi di uberizzazione del lavoro. Qualcuno li porta ad esempio di massima auto-imprenditorialità, ma cosa sono i falsi tassisti di Uber se non dei lavoratori folla o meglio ancora dei lavoratori fordisti individualizzati dentro al capitalismo delle piattaforme? Credono di possedere i mezzi di produzione (l’auto, lo smartphone), ma il vero mezzo di produzione è la piattaforma, che non è loro, loro sono alle sue dipendenze, sono subordinati alla piattaforma, quindi sono assolutamente alienati (nel senso di Marx), ma non credono di esserlo.
Di più: l’uberizzazione delle imprese come nuovo momento trasformativo epocale e ovviamente virtuoso e positivo e quindi (secondo Max Bergami, della Bologna Business School, su Il Sole 24 Ore del 3 aprile scorso) «come difficilmente contrastabile, perché la diffusione dell’innovazione è maggiore di qualunque reazione». Ovvero, l’uberizzazione è un processo positivo comunque perché innovativo e l’innovazione è sempre positiva e chiunque cerchi di contrastarla è irrazionale e antimoderno – ragionando come Taylor cento anni fa quando criticava il sindacato nel caso avesse voluto contestare la sua organizzazione scientifica del lavoro che, essendo per autodefinizione (per autoreferenzialità) scientifica era quindi anche razionale, mentre irrazionale diventava ipso facto qualsiasi contestazione/opposizione. L’uberizzazione del lavoro consentirà di comprare lavoro e competenze in caso di bisogno, scomporrà le organizzazioni d’impresa, flessibilizzerà ancora di più il mercato del lavoro ma produrrà migliaia di falsi imprenditori di se stessi – ma questo non è davvero niente di nuovo, se non l’estremizzazione del vecchio just in time applicato alle risorse umane. Ed è lavoro quasi-servile, quindi peggio che fordista. Riverniciato di modernità e di ineluttabilità.
E allora e ancora la parola magica (non del post-capitalismo, ma) dell’ultra-capitalismo: condivisione. Anche qui assistiamo allo stravolgimento del dizionario, cioè alla produzione industriale di una neolingua conforme al tecno-capitalismo, perché in realtà dobbiamo condividere solo ciò che permette al capitalismo di estrarre profitto per sé (i nostri dati, i nostri profili, i nostri selfie), ma poi possiamo e anzi dobbiamo essere egoisti nella realtà (verso i migranti-profughi, ad esempio; ma anche verso gli altri individui, non più individui che compongono una società, ma nostri incessanti competitori). Anche il concetto e le pratiche di condivisione sono state dunque stravolte e piegate al profitto dei capitalisti e dei signori della Silicon Valley. In realtà la condivisione e l’aiuto sono pratiche antiche e non il prodotto virtuoso della rete. La rivoluzione francese era nata per realizzare un principio di fraternità e di solidarietà, cioè di condivisione. L’Enciclopedia, era condivisione di conoscenza. Il welfare pubblico post-1945 era basato anch’esso sulla condivisione (la redistribuzione della ricchezza dall’alto verso il basso della società, la creazione di uguali punti di partenza per tutti, le assicurazioni sociali come forma di partecipazione e di condivisione sociale dei rischi), oltre che sulla fraternità/solidarietà inter-generazionale. Ma tutto questo è stato progressivamente rimosso, cancellato. Come il fatto che il lavoro era un diritto. Ed è diventato una merce. Chiamando però tutto questo modernità e innovazione.
domenica 11 giugno 2017
Card. Turkson: urgente accordo su protezione oceani
2017-06-08 Radio Vaticana

Occorre un accordo globale per la protezione degli oceani
Il presidente del Pontificio Consiglio per il servizio dello sviluppo umano integrale rimarca come ad oggi non esista alcun accordo globale o tantomeno un ente istituzionale che affronti nello specifico la cura e la protezione delle risorse degli oceani. Mancano adeguati quadri giuridici e spesso le leggi esistenti non vengono attuate. Eppure, è la considerazione del porporato, un tale accordo si fa sempre più urgente guardando al massiccio utilizzo di tali risorse.
Il presidente del Pontificio Consiglio per il servizio dello sviluppo umano integrale rimarca come ad oggi non esista alcun accordo globale o tantomeno un ente istituzionale che affronti nello specifico la cura e la protezione delle risorse degli oceani. Mancano adeguati quadri giuridici e spesso le leggi esistenti non vengono attuate. Eppure, è la considerazione del porporato, un tale accordo si fa sempre più urgente guardando al massiccio utilizzo di tali risorse.
Valore insostituibile degli oceani
Il valore degli oceani infatti va ben oltre quello della pesca e della navigazione: essi - evidenzia il cardinale Turkson - sono una grande fonte di energia rinnovabile e una ricchezza a livello biologico e minerale: forniscono cibo e materie prime, offrono insostituibili benefici all’ambiente come la purificazione dell’aria ed hanno un ruolo significativo nella stabilità climatica, nel ciclo dei rifiuti e nel mantenimento di habitat critici per la vita sulla terra.
Il valore degli oceani infatti va ben oltre quello della pesca e della navigazione: essi - evidenzia il cardinale Turkson - sono una grande fonte di energia rinnovabile e una ricchezza a livello biologico e minerale: forniscono cibo e materie prime, offrono insostituibili benefici all’ambiente come la purificazione dell’aria ed hanno un ruolo significativo nella stabilità climatica, nel ciclo dei rifiuti e nel mantenimento di habitat critici per la vita sulla terra.
Appello ad una conversione ecologica: pensare alle generazioni future
L’approccio dunque non può essere egoistico: il capo delegazione della Santa Sede esorta a pensare alle generazioni future che riceveranno in eredità i frutti del nostro comportamento: “in molte tradizioni religiose - osserva - l’acqua è simbolo di pulizia, rinascita e rinnovamento”. L’invito è quindi ad una conversione ecologica come auspicato da Papa Francesco: “la cura per la nostra casa comune è e sarà sempre un imperativo morale”.
L’approccio dunque non può essere egoistico: il capo delegazione della Santa Sede esorta a pensare alle generazioni future che riceveranno in eredità i frutti del nostro comportamento: “in molte tradizioni religiose - osserva - l’acqua è simbolo di pulizia, rinascita e rinnovamento”. L’invito è quindi ad una conversione ecologica come auspicato da Papa Francesco: “la cura per la nostra casa comune è e sarà sempre un imperativo morale”.
Impegno della Santa Sede per sviluppo sostenibile
A riguardo è fermo l’impegno della Santa Sede a favorire il raggiungimento di uno sviluppo sostenibile nell’interesse di tutti, “perché la gravità delle questioni che affrontano i nostri oceani coinvolge l'esistenza stessa dell'umanità”. Il card. Turkson quindi rinnova l’invito di Francesco nell’Enciclica Laudato Si’ a modificare stili di vita dannosi per la tutela del Creato. L’uso sconsiderato delle risorse del pianeta infatti deve essere affrontato a tutti i livelli: dal comportamento individuale alle politiche nazionali, fino agli accordi internazionali multilaterali.
A riguardo è fermo l’impegno della Santa Sede a favorire il raggiungimento di uno sviluppo sostenibile nell’interesse di tutti, “perché la gravità delle questioni che affrontano i nostri oceani coinvolge l'esistenza stessa dell'umanità”. Il card. Turkson quindi rinnova l’invito di Francesco nell’Enciclica Laudato Si’ a modificare stili di vita dannosi per la tutela del Creato. L’uso sconsiderato delle risorse del pianeta infatti deve essere affrontato a tutti i livelli: dal comportamento individuale alle politiche nazionali, fino agli accordi internazionali multilaterali.
Preoccuparsi dell’ambiente vuol dire proteggere i più vulnerabili
Deterioramento ambientale e degrado etico ed umano - spiega il porporato - sono strettamente legati, l’ambiente non può essere considerato come separato da noi stessi o semplicemente come lo spazio in cui viviamo. L’approccio deve dunque essere etico e non esclusivamente fondato su una logica di profitto, ma integrare tutela del creato e lotta alla povertà e all’esclusione sociale: solo così potrà esserci un godimento collettivo del bene comune e una solidarietà intergenerazionale. “Preoccuparsi dell’ambiente vuol dire proteggere i più vulnerabili”. (A cura di Paolo Ondarza)
Deterioramento ambientale e degrado etico ed umano - spiega il porporato - sono strettamente legati, l’ambiente non può essere considerato come separato da noi stessi o semplicemente come lo spazio in cui viviamo. L’approccio deve dunque essere etico e non esclusivamente fondato su una logica di profitto, ma integrare tutela del creato e lotta alla povertà e all’esclusione sociale: solo così potrà esserci un godimento collettivo del bene comune e una solidarietà intergenerazionale. “Preoccuparsi dell’ambiente vuol dire proteggere i più vulnerabili”. (A cura di Paolo Ondarza)
giovedì 8 giugno 2017
Quattro piste pastorali per nuovi stili di vita in un nuovo umanesimo
dalla pagina https://reteinterdiocesana.wordpress.com/2016/03/19/le-quattro-piste-pastorali-per-nuovi-stili-di-vita-in-un-nuovo-umanesimo/
Ecco gli strumenti che sono stati preparati per la diffusione delle 4 piste pastorali:
Ecco gli strumenti che sono stati preparati per la diffusione delle 4 piste pastorali:
- un depliant che contiene tutto il documento (PDF a colori, PDF in bianco e nero, Immagine Fonte e Retro)
- un video spot (scaricabile da qui in bassa risoluzione 94 MB, e visualizzabile su youtube a risoluzione più alta)
- un powerpoint (visualizzabile sia con Office che OpenOffice)
- un comunicato stampa
- una serie di tweet
martedì 6 giugno 2017
Italia: sestuplicato l’export di armamenti...
dalla pagina http://www.unimondo.org/Notizie/Il-vero-record-di-Renzi-sestuplicato-l-export-di-armamenti-166511
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Grafico di G. Beretta |
Il vero record di Renzi: sestuplicato l’export di armamenti
Lo sa, ma non lo dice in pubblico. E la notizia non compare né sul suo sito personale, né sul portale “Passo dopo passo” e nemmeno tra “I risultati che contano” messi in bella mostra con tanto di infografiche da “Italia in cammino”. Eppure è stata la miglior performance
del suo governo. Nei 1024 giorni di permanenza a Palazzo Chigi, Matteo
Renzi ha raggiunto un primato storico di cui però, stranamente, non
parla: ha sestuplicato le autorizzazioni per esportazioni di armamenti.
Dal giorno del giuramento (22 febbraio 2014) alla consegna del
campanellino al successore (12 dicembre 2016), l’esecutivo Renzi ha
infatti portato le licenze per esportazioni di sistemi militari da poco
più di 2,1 miliardi ad oltre 14,6 miliardi di euro: l’incremento è del 581%
che significa, in parole semplici, che l’ammontare è più che
sestuplicato. Una vera manna per l’industria militare nazionale,
capeggiata dai colossi a controllo statale Finmeccanica-Leonardo e
Fincantieri. E’ tutto da verificare, invece, se le autorizzazioni
rilasciate siano conformi ai dettami della legge n. 185 del 1990 e,
soprattutto, se davvero servano alla sicurezza internazionale e del
nostro paese.
Renzi e il motto di Baden Powell
Un
fatto è certo: è un record storico dai tempi della nascita della
Repubblica. Ma, visto il totale silenzio, il primato sembra imbarazzare
non poco il capo scout di Rignano sull’Arno che ama presentarsi ricordando il motto di Baden Powell: “Lasciare il mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato”.
L’imbarazzo è comprensibile: la stragrande maggioranza degli armamenti
non è stata destinata ai paesi amici e alleati dell’UE e della Nato (nel
2016 a questi paesi ne sono stati inviati solo per 5,4 miliardi di euro
pari al 36,9%), bensì ai paesi nelle aree di maggior tensione del
mondo, il Nord Africa e il Medio Oriente. E’ in questa zona – che
pullula di dittatori, regimi autoritari, monarchi assoluti sostenitori
diretti o indiretti del jihadismo oltre che di tiranni di ogni specie e
risma – che nel 2016 il governo Renzi ha autorizzato forniture militari
per oltre 8,6 miliardi di euro, pari al 58,8% del totale. Anche questo è un altro record, ma pochi se ne sono accorti.
Il basso profilo della sottosegretaria Boschi
Eppure non sono cifre segrete. Sono tutte scritte, nero su bianco e con tanto di grafici a colori, nella “Relazione
sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo
dell'esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento
per l’anno 2016” inviata alle Camere lo scorso 18 aprile. L’ha trasmessa l’ex ministra delle Riforme e attuale Sottosegretaria di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Maria Elena Boschi. Nella relazione di sua competenza l’ex catechista e Papa girl si è premurata di segnalare che “sul
valore delle esportazioni e sulla posizione del Kuwait come primo
partner, incide una licenza di 7,3 miliardi di euro per la fornitura di
28 aerei da difesa multiruolo di nuova generazione Eurofighter Typhoon
realizzati in Italia”. Al resto – cioè ai sistemi militari invitati
in 82 paesi del mondo tra cui soprattutto quelli spediti in Medio
Oriente – la Sottosegretaria ha riservato solo un laconico commento: “Si è pertanto
ulteriormente consolidata la ripresa del settore della Difesa a livello
internazionale, già iniziata nel 2014, dopo la fase di contrazione del
triennio 2011-2013”. La legge n. 185 del 1990, che regolamenta la
materia, stabilisce che l’esportazione e i trasferimenti di materiale di
armamento “devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell'Italia”: autorizzare
l’esportazione di sistemi militari a paesi al di fuori delle principali
alleanze politiche e militari dell’Italia meriterebbe pertanto qualche
spiegazione in più da parte di chi, durante il governo Renzi e oggi col
governo Gentiloni, ha avuto la delega al programma di governo.
I meriti della ministra Pinotti
Non c’è dubbio, però, che gran parte del merito per il boom di esportazioni sia della ministra della Difesa, Roberta Pinotti. E’ alla “sorella scout”,
titolare di Palazzo Baracchini, che va attribuito il pregio di aver
consolidato i rapporti con i ministeri della Difesa, soprattutto dei
paesi mediorientali. La relazione del governo non glielo riconosce
apertamente, ma la principale azienda del settore,
Finmeccanica-Leonardo, non ha mancato di sottolinearne il ruolo
decisivo. Soprattutto nella commessa dei già citati 28 caccia multiruolo
Eurofighter Typhoon: “Si tratta del più grande traguardo commerciale mai raggiunto da Finmeccanica” – commentava l’allora Amministratore Delegato e Direttore Generale di Finmeccanica, Mauro Moretti. “Il
contratto con il Kuwait si inserisce in un’ampia e consolidata
partnership tra i Ministeri della Difesa italiano e del Paese del Golfo”
– aggiungeva il comunicato ufficiale di Finmeccanica-Leonardo. Alla firma non poteva quindi mancare la ministra, nonostante i slittamenti della data dovuti – secondo fonti ben informate – alle richieste di chiarimenti circa i costi relativi “a supporto tecnico, addestramento, pezzi di ricambio e la realizzazione di infrastrutture”.
Anche il Ministero della Difesa ha posto grande enfasi sui “rapporti consolidati” tra Italia e Kuwait: rapporti – spiegava il comunicato della Difesa – “che
potranno essere ulteriormente rafforzati, anche alla luce dell’impegno
comune a tutela della stabilità e della sicurezza nell’area
mediorientale, dove il Kuwait occupa un ruolo centrale”. Nessuna parola, invece, sul ruolo del Kuwait nel conflitto in Yemen, in cui è attivamente impegnato con 15 caccia,
insieme alla coalizione a guida saudita che nel marzo del 2015 è
intervenuta militarmente in Yemen senza alcun mandato internazionale. I
meriti della ministra Pinotti nel sostegno all’export di sistemi
militari non si limitano ai caccia al Kuwait: va ricordato anche
l’accordo di cooperazione militare con Qatar per la fornitura da parte di Fincantieri di sette unità navali
dotate di missili MBDA per un valore totale di 5 miliardi di euro, che
però non compare nella Relazione governativa. Ma, soprattutto, non va
dimenticata la visita della ministra Pinotti in Arabia Saudita per
promuovere “affari navali”: ne ho parlato qualche mese fa e rimando in proposito ai miei precedenti articoli.
Le dichiarazioni dell’ex ministro Gentiloni
Una menzione particolare spetta all’ex ministro degli Esteri e attuale presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni. E’ lui, ex catechista ed ex sostenitore della sinistra extraparlamentare,
che più di tutti si è speso in difesa delle esportazioni di sistemi
militari. Lo ha fatto nella sede istituzionale preposta: alla Camera in
riposta a due “Question Time”. Il primo risale al 26 novembre 2015, in riposta ad un’interrogazione del M5S, durante la quale il titolare della Farnesina, dopo aver ricordato che “…
abbiamo delle Forze armate, abbiamo un’industria della Difesa moderna
che ha rapporti di scambio e esportazioni con molti paesi del mondo…” ha voluto evidenziare che “è
importante ribadire che l’Italia comunque rispetta, ovviamente, le
leggi del nostro paese, le regole dell’Unione europea e quelle
internazionali (pausa) sia per quanto riguarda gli embargo che i sistemi
d’arma vietati”. Già, ma la legge 185/1990 e le “regole Ue e
internazionali” non si limitano agli embarghi, anzi pongono una serie di
specifici divieti sui quali Gentiloni ha bellamente sorvolato.
Nel secondo, del 26 ottobre 2016,
in risposta ad un’interrogazione del M5S che riguardava nello specifico
le esportazioni di bombe e materiali bellici all’Arabia Saudita e il
loro impiego nel conflitto in Yemen, Gentiloni ha sostenuto che “l’Arabia
Saudita non è oggetto di alcuna forma di embargo, sanzione o
restrizione internazionale nel settore delle vendite di armamenti”. Tacendo però sulla Risoluzione del Parlamento europeo,
votata ad ampia maggioranza già nel febbraio del 2016, che ha invitato
l’Alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di
sicurezza e Vicepresidente della Commissione, Federica Mogherini, ad “avviare un’iniziativa finalizzata all’imposizione da parte dell’UE di un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita”,
in considerazione delle gravi accuse di violazione del diritto
umanitario internazionale perpetrate dall’Arabia Saudita nello Yemen.
Questa risoluzione, finora, è rimasta inattuata anche per la mancanza di
sostegno da parte del Governo italiano.
Ventimila bombe da sganciare in Yemen
Rispondendo alla suddetta interrogazione, Gentiloni ha però dovuto riconoscere le “la
ditta RWM Italia, facente parte di un gruppo tedesco, ha esportato in
Arabia Saudita in forza di licenze rilasciate in base alla normativa
vigente”. Un’assunzione, seppur indiretta, di responsabilità da parte del ministro. Il quale, nonostante i vari organismi delle Nazioni Unite e lo stesso Ban Ki-moon abbiano a più riprese condannato i bombardamenti della coalizione saudita sulle aree abitate da civili in Yemen (sono più di 10mila i morti tra i civili),
ha continuato ad autorizzare le forniture belliche a Riad. E non vi è
notizia che le abbia sospese, nemmeno dopo che uno specifico rapporto trasmesso al Consiglio di Sicurezza
dell’Onu non solo ha dimostrato l’utilizzo anche delle bombe della RWM
Italia sulle aree civili in Yemen, ma ha affermato che questi
bombardamenti “may amount to war crimes” (“possono costituire crimini di guerra”).
Nella
Relazione inviata al Parlamento spiccano le autorizzazioni all’Arabia
Saudita per un valore complessivo di oltre 427 milioni di euro. Tra
queste figurano “bombe, razzi, esplosivi e apparecchi per la direzione del tiro”
e altro materiale bellico. La relazione non indica, invece, il paese
destinatario delle autorizzazioni rilasciate alle aziende, ma l’incrocio
dei dati forniti nelle varie tabelle ministeriali, permette di
affermare che una licenza da 411 milioni di euro alla RWM Italia è destinata proprio all’Arabia Saudita: si tratta, nello specifico, dell’autorizzazione all’esportazione di 19.675 bombe Mk 82, Mk 83 e Mk 84.
Una conferma in questo senso è contenuta nella Relazione Finanziaria
della Rheinmetall (l’azienda tedesca di cui fa parte RWM Italia) che per
l’anno 2016 segnala un ordine “molto significativo” di “munizioni” per
411 milioni di euro da un “cliente della regione MENA” (Medio-Oriente e
Nord Africa).
La legge n. 185/1990 vieta espressamente l’esportazione di sistemi militari “verso Paesi in conflitto armato e la cui politica contrasti con i princìpi dell'articolo 11 della Costituzione”,
ma – su questo punto – nessun commento nella Relazione. E nemmeno da
Renzi. Men che meno da Gentiloni. Che l’attuale capo del governo si sia
dato come obiettivo quello di migliorare la performance di Renzi nell’esportazione di sistemi militari?
Giorgio Beretta
giorgio.beretta@unimondo.org
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