mercoledì 6 gennaio 2016

Storie di giovani migranti

da https://www3.ti.ch/DECS/sw/temi/scuoladecs/files/private/application/pdf/3865_Sconfiniamoci_Storie_Giovani_Migranti.pdf

“Una manciata di temi in classe scritti per partecipare a un concorso promosso dall’Assessorato alle Politiche Educative di Roma diventa un libro a tutto tondo per l’impegno e la volontà di molti, ma soprattutto per la sincerità e l’intensità dei racconti dovuti ai ragazzi giunti da lontano nelle nostre scuole o ai loro compagni italiani pronti a colmare con l’immaginazione ogni distanza.” 


"NON SAPEVO CHI FOSSE L'ITALIA"

La storia di Bogdan

Quel maledetto 21 dicembre 1989! Saranno in pochi a dimenticarlo e fra questi mio padre. Sembrava un giorno come tanti altri quando all'improvviso le piazze si riempirono di gente, in modo caotico, rumoroso.
Non era un giorno di festa e le persone non ridevano, ma gridavano scalmanate, un gruppo imprecava contro l'altro; era uno scontro fra manifestanti di opposte fazioni, a favore e contro il regime dittatoriale.
Tra i ribelli c'era anche mio padre al quale, fermato dalla polizia, fu ordinato di sparare sui suoi amici, gli stessi con i quali aveva combattuto per la libertà.
Egli ebbe la forza di rifiutare e per questo fu inseguito e arrestato; a causa di ciò perse il suo lavoro in fabbrica.
Non meno dura divenne la vita di mia madre che, giornalmente, andando in ufficio, rischiava di morire colpita da una pallottola vagante o dilaniata da una bomba. Sparare e tirare granate, infatti, era divenuta la normalità.
Quando avveniva tutto ciò io avevo solamente quattro anni. Un giorno, mentre stavo a casa da solo, per strada qualcuno sparò e la pallottola, attraverso la finestra, si conficcò nel muro. Io, come mia abitudine, mi trovavo in salotto per vedere la televisione e, senza accorgermene, mi trovai in guerra. Ricordo che ero molto triste perché raramente potevo uscire, era di
ventato rischioso persino andare all'asilo.
Avevo molta paura sia di giorno che di notte, perché si sentivano sempre spari ed esplosioni; anche quando, raramente, tutto tornava alla normalità, gli spari comparivano nei miei incubi di bambino'
Un giorno i miei genitori decisero di espatriare in cerca di pace e di libertà e l'Italia fu la meta sognata.
Prima partì mio padre, poi lo raggiungemmo io e mia madre.
Non sapevo "chi" fosse l'Italia, ma dai loro discorsi capivo che era sicuramente un'amica che ci aspettava affettuosamente. Nonostante ciò non ero del tutto felice, specialmente il giorno della partenza, salutando i nonni... le lacrime della mamma... le lacrime della nonna.
Sentivo che mi sarebbe mancata molto anche la mia casa con tutte le cose che mi avevano tenuto compagnia.
Una volta giunti alla frontiera ci fu da parte nostra un urlo di gioia! Non sapevamo quale sarebbe stato il nostro futuro, ma sapevamo cosa avevamo lasciato nel nostro recente passato e ciò ci bastava.

 
"QUANDO CREDEVO CHE TUTTO IL MONDO FOSSE UGUALE"

La storia di Subana

Non tutti hanno gli stessi motivi per emigrare, ma una persona decide di lasciare il proprio paese quando veramente ha qualcosa che causa gravi problemi; il motivo può essere politico, di lavoro o per vivere meglio in paesi che offrono maggiori possibilità di studio, cure mediche, ecc.
Tutti gli emigranti pensano di trascorrere la vita più serenamente che nel passato, nessuno però ha piacere di trovarsi in un paese straniero, perché cambiare le proprie usanze, le tradizioni, gli amici mi sembra una delle cose più "soffocanti" che esistano, e anch'io ho avuto questa sensazione: mi sembrava di stare nel buio.
Papà aveva deciso di lasciare il Bangladesh, anche se si stava molto bene economicamente in quel periodo, e assicurava a noi figli un futuro più tranquillo. Io avevo cinque anni e non mi ricordo bene, ma mi sembra che non avevo proprio capito che ci stava lasciando: però, dopo, sentendo la sua voce per telefono capivo che ci mancava; non solo io, ma tutte le persone che hanno un familiare all'estero ne sentono la mancanza, è come una mutilazione.
Papà era stato un paio di anni in Germania, dopo si trasferì in Italia dove pensò di far venire mamma per qualche tempo; mamma non era d'accordo per niente, perché non voleva stare lontana dai figli e così dopo qualche tempo papà decise di far venire anche noi quattro bambini. Io non sapevo ancora che cosa si intendeva per cambiamento di paese: avevo solo nove anni e credevo che tutto il mondo fosse uguale e che quel villaggio fosse come quando andavamo a trovare nonna.
Il giorno in cui dovevamo partire fu molto faticoso, eravamo tutti occupati a fare qualcosa ed i parenti stavano intorno a noi come se li dovessimo lasciare per sempre: era la prima volta che eravamo così uniti.
Non immaginavamo proprio di essere in Italia il giorno seguente, ma era vero, stavo sull'aereo quando capii che ormai non potevo più ritornare e andavo verso un altro paese che non sapevo neanche da quale parte si trovava.
Arrivata in Italia, mi trovai in un mondo tutto diverso dal mio: la verità è che mi sembrava di essere nata allora e di dover apprendere tutto come un neonato che non sa niente del mondo che vede per la prima volta.
Non capivo gli altri quando parlavano, non riuscivo a farmi capire dagli altri bambini; dovevo vestire in modo diverso sia per il clima sia per sembrare "uguale"; avevamo cambiato il modo di mangiare, perché il nostro cibo non si trovava, almeno in Sicilia; avevamo difficoltà a rispettare le nostre ricorrenze religiose perché non erano le stesse degli italiani.
Con cultura, lingua, religione diverse sicuramente si incontrano difficoltà, solo che qualcuno riesce a superarle facilmente, invece qualcuno no.
Io ed i miei fratelli, anche se dovevamo ritornare in Bangladesh e avevamo portato i nostri libri per studiare, iniziammo a imparare la lingua italiana da un amico indiano di papà che stava da tempo in Sicilia. Sì, anche noi siamo stati per due anni in Sicilia, dove c'era qualche somiglianza con il Bangladesh: la mentalità delle persone non era del tutto diversa, forse perché i siciliani vivono ancora con culture originali, un po' antiche. Per mettere a posto tutti i documenti ci voleva un anno; quindi noi bambini fummo iscritti alla scuola italiana. Ero piccola e non riuscivo a distinguere bene gli italiani che erano contenti di avermi tra loro. Comunque, riuscii facilmente ad inserirmi nella classe, nonostante la difficoltà della comunicazione che spesso mi faceva stare in silenzio, ma ho avuto e continuo ad avere l'aiuto dei miei coetanei che non mi lasciano sola. Ormai mi trovavo bene, avevo fatto amicizia, però due anni sono pochi per creare un rapporto confidenziale con gli italiani perché le differenze possono generare diffidenze ed equivoci.
Trasferirci dalla Sicilia a Roma per me è stata un'altra migrazione perché ho cambiato di nuovo il mio mondo; io non ero d'accordo, però ho dovuto, per stare vicino a papà che ha negozi a Roma. Una cosa molto particolare che non notavo all'inizio e che invece oggi noto, è che in Italia mi sento più a contatto con la mia famiglia, perché qua è l'unica cosa che ho. A questo proposito mi viene subito da pensare a tutte quelle persone straniere in Italia che non hanno con loro la propria famiglia e a quanto faticano per trovare un lavoro, e non tutti sono fortunati; ognuno non vede l'ora di tornare al proprio paese.
Forse è falso, però devo dire che è molto difficile, all'età mia (oggi ho quindici anni), avere amici tra i coetanei perché dopo sei anni non ho ancora capito il modo di pensare degli italiani.
Certo ognuno di noi è "diverso", ma siamo anche tutti "uguali". Spesso sento dire così, però non si riesce a trovare l'uguaglianza tra uomini. 


“ERA UNA GIORNATA CALDA, SENZA UNA NUVOLA IN CIELO”

La storia di Casimiro

Ciao, sono un polacco di nome Casimiro, ho quattordici anni, sono arrivato in Italia clandestinamente.
Io vivevo nella periferia di Radom in un piccolo appartamento con i miei quattro fratelli ed i miei genitori.
Purtroppo le nostre condizioni di vita erano pessime, nonostante i grandissimi sacrifici fatti dai miei genitori.
Per questo, già da tempo, cercavamo una soluzione per andarcene da quel paese. Anche i miei vicini avevano i nostri stessi problemi, ed uno di questi, il 25 luglio 1996, ci avvertì che c'era la possibilità di entrare in Italia clandestinamente con un TIR.
Ci fu subito un momento di euforia, ma quando il vicino ci disse il prezzo del viaggio i nostri visi si rattristarono. Infatti, bisognava pagare un milione di lire a testa. Per noi, che già eravamo in sette e per di più poveri, dare un milione di lire a, testa era davvero troppo.
Per raggiungere i sette milioni di lire avremmo dovuto vendere la casa, spendere tutti i nostri soldi e arrivare in Italia più poveri di come eravamo.
Nonostante questo, i miei genitori non si scoraggiarono e decisero di tentare il tutto per tutto. Presa questa decisione, mio padre e il nostro vicino contattarono il conducente del TIR che ci diede appuntamento il giorno 3 agosto in un capannone vicino casa mia.
Il giorno dell'appuntamento eravamo lì pronti. Era una giornata calda e senza una nuvola in cielo. Con dieci minuti di ritardo arrivò il TIR. Il conducente ci fece salire dietro e ci accorgemmo che trasportava dei frigoriferi. Il camionista ci fece vedere come potevamo sistemarci poi uscì, chiuse gli sportelli e calò il buio.
Mia madre mi disse che sarebbe stato un viaggio lungo e quindi sarebbe stato meglio tentare di dormire.
Io mi sdraiai, chiusi gli occhi e cominciai a pensare a come sarebbe stato vivere in Italia però da ricchi.
Mentre viaggiavo con la mente, improvvisamente mi addormentai.
Per tutto il tempo dormii, anche se ovviamente dormivo male, un po' per il caldo, un po' per l'aria viziata che si era creata nel TIR e un po' perché dormivo sul duro ferro. Ad un tratto mi svegliai vedendo della luce.
Il camionista aveva aperto gli sportelloni. Ci disse di prendere una boccata d'aria e di nasconderci poi nei frigo perché, essendo vicini alla frontiera, era un modo per evitare di essere scoperti.
Allora uscimmo, respirammo un po' d'aria buona. Successivamente rientrammo e ci sistemammo ognuno in un frigorifero. Poco dopo sentii di nuovo il TIR fermarsi, probabilmente eravamo arrivati alla frontiera.
Ebbi subito una grande paura, le gambe mi tremavano, ma tentavo di tenerle ferme per evitare di fare rumore.
Dopo alcuni attimi di paura il TIR ripartì e viaggiò ancora fino ad una città di nome Milano.
Arrivati, scendemmo tutti contenti perché il viaggio era finito bene. Rimaneva però ancora il problema di come fare per vivere, ma almeno una cosa l'avevamo ottenuta: eravamo arrivati in Italia.