“Una
manciata di temi in classe scritti per partecipare a un concorso
promosso dall’Assessorato alle Politiche Educative di Roma
diventa un libro a tutto tondo per l’impegno e la volontà
di molti, ma soprattutto per la sincerità e l’intensità
dei racconti dovuti ai ragazzi giunti da lontano nelle nostre
scuole o ai loro compagni italiani pronti a colmare con
l’immaginazione ogni distanza.”
"NON
SAPEVO CHI FOSSE L'ITALIA"
La
storia di Bogdan
Quel
maledetto 21 dicembre 1989! Saranno in pochi a dimenticarlo e fra
questi mio padre. Sembrava un giorno come tanti altri quando
all'improvviso le piazze si riempirono di gente, in modo caotico,
rumoroso.
Non
era un giorno di festa e le persone non ridevano, ma
gridavano scalmanate, un gruppo imprecava contro l'altro; era uno
scontro fra manifestanti di opposte fazioni, a favore e contro il
regime dittatoriale.
Tra
i ribelli c'era anche mio padre al quale, fermato dalla polizia, fu
ordinato di sparare sui suoi amici, gli stessi con i quali aveva
combattuto per la libertà.
Egli
ebbe la forza di rifiutare e per questo fu inseguito e
arrestato; a causa di ciò perse il suo lavoro in fabbrica.
Non
meno dura divenne la vita di mia madre che, giornalmente, andando in
ufficio, rischiava di morire colpita da una pallottola vagante o
dilaniata da una bomba. Sparare e tirare granate, infatti, era
divenuta la normalità.
Quando
avveniva tutto ciò io avevo solamente quattro anni. Un giorno,
mentre stavo a casa da solo, per strada qualcuno sparò e la
pallottola, attraverso la finestra, si conficcò nel muro. Io, come
mia abitudine, mi trovavo in salotto per vedere la televisione e,
senza accorgermene, mi trovai in guerra. Ricordo che ero molto triste
perché raramente potevo uscire, era di
ventato
rischioso persino andare all'asilo.
Avevo
molta paura sia di giorno che di notte, perché si
sentivano sempre spari ed esplosioni; anche quando, raramente,
tutto tornava alla normalità, gli spari comparivano nei miei incubi
di bambino'
Un
giorno i miei genitori decisero di espatriare in cerca di pace e di
libertà e l'Italia fu la meta sognata.
Prima
partì mio padre, poi lo raggiungemmo io e mia madre.
Non
sapevo "chi" fosse l'Italia, ma dai loro discorsi capivo
che era sicuramente un'amica che ci aspettava affettuosamente.
Nonostante ciò non ero del tutto felice, specialmente il giorno
della partenza, salutando i nonni... le lacrime della mamma... le
lacrime della nonna.
Sentivo
che mi sarebbe mancata molto anche la mia casa con tutte
le cose che mi avevano tenuto compagnia.
Una
volta giunti alla frontiera ci fu da parte nostra un urlo di gioia!
Non sapevamo quale sarebbe stato il nostro futuro, ma sapevamo cosa
avevamo lasciato nel nostro recente passato e ciò ci bastava.
"QUANDO
CREDEVO CHE TUTTO IL MONDO FOSSE UGUALE"
La
storia di Subana
Non
tutti hanno gli stessi motivi per emigrare, ma una persona decide di
lasciare il proprio paese quando veramente ha qualcosa che causa
gravi problemi; il motivo può essere politico, di lavoro o per
vivere meglio in paesi che offrono maggiori possibilità di studio,
cure mediche, ecc.
Tutti
gli emigranti pensano di trascorrere la vita più serenamente che nel
passato, nessuno però ha piacere di trovarsi in un paese straniero,
perché cambiare le proprie usanze, le tradizioni, gli amici mi
sembra una delle cose più "soffocanti" che esistano, e
anch'io ho avuto questa sensazione: mi sembrava di stare nel buio.
Papà
aveva deciso di lasciare il Bangladesh, anche se si stava molto bene
economicamente in quel periodo, e assicurava a noi figli un futuro
più tranquillo. Io avevo cinque anni e non mi ricordo bene, ma mi
sembra che non avevo proprio capito che ci stava lasciando: però,
dopo, sentendo la sua voce per telefono capivo che ci mancava; non
solo io, ma tutte le persone che hanno un familiare all'estero ne
sentono la mancanza, è come una mutilazione.
Papà
era stato un paio di anni in Germania, dopo si trasferì in Italia
dove pensò di far venire mamma per qualche tempo; mamma non era
d'accordo per niente, perché non voleva stare lontana dai figli e
così dopo qualche tempo papà decise di far venire anche noi quattro
bambini. Io non sapevo ancora che cosa si intendeva per cambiamento
di paese: avevo solo nove anni e credevo che tutto il mondo fosse
uguale e che quel villaggio fosse come quando andavamo a trovare
nonna.
Il
giorno in cui dovevamo partire fu molto faticoso, eravamo tutti
occupati a fare qualcosa ed i parenti stavano intorno a noi come se
li dovessimo lasciare per sempre: era la prima volta che eravamo così
uniti.
Non
immaginavamo proprio di essere in Italia il giorno seguente, ma era
vero, stavo sull'aereo quando capii che ormai non potevo più
ritornare e andavo verso un altro paese che non sapevo neanche da
quale parte si trovava.
Arrivata
in Italia, mi trovai in un mondo tutto diverso dal mio: la verità è
che mi sembrava di essere nata allora e di dover apprendere tutto
come un neonato che non sa niente del mondo che vede per la prima
volta.
Non
capivo gli altri quando parlavano, non riuscivo a farmi capire dagli
altri bambini; dovevo vestire in modo diverso sia per il clima sia
per sembrare "uguale"; avevamo cambiato il modo di
mangiare, perché il nostro cibo non si trovava, almeno in Sicilia;
avevamo difficoltà a rispettare le nostre ricorrenze religiose
perché non erano le stesse degli italiani.
Con
cultura, lingua, religione diverse sicuramente si incontrano
difficoltà, solo che qualcuno riesce a superarle facilmente, invece
qualcuno no.
Io
ed i miei fratelli, anche se dovevamo ritornare in Bangladesh e
avevamo portato i nostri libri per studiare, iniziammo a imparare la
lingua italiana da un amico indiano di papà che stava da tempo in
Sicilia. Sì, anche noi siamo stati per due anni in Sicilia, dove
c'era qualche somiglianza con il Bangladesh: la mentalità delle
persone non era del tutto diversa, forse perché i siciliani vivono
ancora con culture originali, un po' antiche. Per mettere a posto
tutti i documenti ci voleva un anno; quindi noi bambini fummo
iscritti alla scuola italiana. Ero piccola e non riuscivo a
distinguere bene gli italiani che erano contenti di avermi tra loro.
Comunque, riuscii facilmente ad inserirmi nella classe, nonostante la
difficoltà della comunicazione che spesso mi faceva stare in
silenzio, ma ho avuto e continuo ad avere l'aiuto dei miei coetanei
che non mi lasciano sola. Ormai mi trovavo bene, avevo fatto
amicizia, però due anni sono pochi per creare un rapporto
confidenziale con gli italiani perché le differenze possono generare
diffidenze ed equivoci.
Trasferirci
dalla Sicilia a Roma per me è stata un'altra migrazione perché ho
cambiato di nuovo il mio mondo; io non ero d'accordo, però ho
dovuto, per stare vicino a papà che ha negozi a Roma. Una cosa molto
particolare che non notavo all'inizio e che invece oggi noto, è che
in Italia mi sento più a contatto con la mia famiglia, perché qua è
l'unica cosa che ho. A questo proposito mi viene subito da pensare a
tutte quelle persone straniere in Italia che non hanno con loro la
propria famiglia e a quanto faticano per trovare un lavoro, e non
tutti sono fortunati; ognuno non vede l'ora di tornare al proprio
paese.
Forse
è falso, però devo dire che è molto difficile, all'età mia (oggi
ho quindici anni), avere amici tra i coetanei perché dopo sei anni
non ho ancora capito il modo di pensare degli italiani.
Certo
ognuno di noi è "diverso", ma siamo anche tutti "uguali".
Spesso sento dire così, però non si riesce a trovare l'uguaglianza
tra uomini.
“ERA
UNA GIORNATA CALDA, SENZA UNA NUVOLA IN CIELO”
La
storia di Casimiro
Ciao,
sono un polacco di nome Casimiro, ho quattordici anni, sono arrivato
in Italia clandestinamente.
Io
vivevo nella periferia di Radom in un piccolo appartamento con i miei
quattro fratelli ed i miei genitori.
Purtroppo
le nostre condizioni di vita erano pessime, nonostante i grandissimi
sacrifici fatti dai miei genitori.
Per
questo, già da tempo, cercavamo una soluzione per andarcene da quel
paese. Anche i miei vicini avevano i nostri stessi problemi, ed uno
di questi, il 25 luglio 1996, ci avvertì che c'era la possibilità
di entrare in Italia clandestinamente con un TIR.
Ci
fu subito un momento di euforia, ma quando il vicino ci disse il
prezzo del viaggio i nostri visi si rattristarono. Infatti, bisognava
pagare un milione di lire a testa. Per noi, che già eravamo in sette
e per di più poveri, dare un milione di lire a, testa era davvero
troppo.
Per
raggiungere i sette milioni di lire avremmo dovuto vendere la casa,
spendere tutti i nostri soldi e arrivare in Italia più poveri di
come eravamo.
Nonostante
questo, i miei genitori non si scoraggiarono e decisero di tentare il
tutto per tutto. Presa questa decisione, mio padre e il nostro vicino
contattarono il conducente del TIR che ci diede appuntamento il
giorno 3 agosto in un capannone vicino casa mia.
Il
giorno dell'appuntamento eravamo lì pronti. Era una giornata calda e
senza una nuvola in cielo. Con dieci minuti di ritardo arrivò il
TIR. Il conducente ci fece salire dietro e ci accorgemmo che
trasportava dei frigoriferi. Il camionista ci fece vedere come
potevamo sistemarci poi uscì, chiuse gli sportelli e calò il buio.
Mia
madre mi disse che sarebbe stato un viaggio lungo e quindi sarebbe
stato meglio tentare di dormire.
Io
mi sdraiai, chiusi gli occhi e cominciai a pensare a come sarebbe
stato vivere in Italia però da ricchi.
Mentre
viaggiavo con la mente, improvvisamente mi addormentai.
Per
tutto il tempo dormii, anche se ovviamente dormivo male, un po' per
il caldo, un po' per l'aria viziata che si era creata nel TIR e un
po' perché dormivo sul duro ferro. Ad un tratto mi svegliai vedendo
della luce.
Il
camionista aveva aperto gli sportelloni. Ci disse di prendere una
boccata d'aria e di nasconderci poi nei frigo perché, essendo vicini
alla frontiera, era un modo per evitare di essere scoperti.
Allora
uscimmo, respirammo un po' d'aria buona. Successivamente rientrammo e
ci sistemammo ognuno in un frigorifero. Poco dopo sentii di nuovo il
TIR fermarsi, probabilmente eravamo arrivati alla frontiera.
Ebbi
subito una grande paura, le gambe mi tremavano, ma tentavo di tenerle
ferme per evitare di fare rumore.
Dopo
alcuni attimi di paura il TIR ripartì e viaggiò ancora fino ad una
città di nome Milano.
Arrivati,
scendemmo tutti contenti perché il viaggio era finito bene. Rimaneva
però ancora il problema di come fare per vivere, ma almeno una cosa
l'avevamo ottenuta: eravamo arrivati in Italia.