dalla pagina https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/davvero-il-lavoro-ci-ha-stancato-non-per-soldi-ma-per-amore
Sono stati a lungo esposti, nel Battistero della città di Parma – capolavoro di Benedetto Antelami, XII secolo – le statue raffiguranti 'I Mesi'. Nessuna immagine sacra, nessun santo e nessuna Madonna (come è avvenuto invece in altre consimili costruzioni) ma semplicemente statue, veramente splendide, di uomini al lavoro: chi con la zappa e chi con l’aratro, chi giovane, guarda alla primavera e chi, anziano, guarda all’inverno (ma senza perdere la speranza che verrà).
Guardando quelle immagini e scorrendo le pagine dei giornali di queste ultime settimane (con le malinconiche notizie da una parte degli sfruttati del lavoro e dall’altra dei 'furbetti' dei sussidi statali) mi sono domandato se esista ancora, oggi, una vera e propria passione per il lavoro, per la costruzione della 'Città di Dio' (per i credenti) o almeno della 'Città dell’uomo' (per i non credenti). In pagine famose, il grande sociologo tedesco Max Weber si era posto il problema se, con l’avvento della società borghese, il lavoro fosse ancora una «vocazione» o fosse diventato semplicemente una «professione», se fosse realizzato cioè essenzialmente ai fini di una gratificazione personale, monetaria od onoraria.
Non citava, e forse non conosceva, le splendide pagine di Charles Pèguy sul senso e la bellezza del lavoro, sul contributo che esso arreca al miglioramento del mondo e degli stessi uomini, sulla sua capacità di realizzare in pienezza ogni essere umano. Chi, oggi, ama il lavoro? Pochi e sparuti gruppi di persone, ritengo. Ciò che prevalentemente si ama è soltanto il frutto del lavoro, il suo corrispettivo monetario: tanto più alta è la retribuzione del lavoro quanto più alta è la considerazione in cui esso è tenuto (e viceversa). Se questo è vero, perché mai dovrebbe stupirci il fatto – del resto comune a tutte le società industriali – che non vi sia, o quasi, nessuna affezione al lavoro e che ci si consideri tanto più fortunati, e potenzialmente felici, lavorando poco e guadagnando molto? Il lavoro, invece, è un grande fattore di umanizzazione, di costruzione di rapporti reali fra le persone, di valorizzazione degli impegni e delle attitudini. Né è sempre vero che le soddisfazioni del lavoro sono direttamente proporzionali alla sua resa monetaria.
Non mancano, per fortuna, oasi di lavoro gratuito, di disinteressato impegno per gli altri, di umile e semplice servizio agli altri (basterebbe pensare alle donne che 'non lavorano' fuori casa, diventate quasi delle paria nella società borghese). Come ridurre la distanza che intercorre fra il lavoro come 'merce' che vale tanto più quanto più alto è il suo costo, e il lavoro come 'servizio', seppure a volte pesante e gravoso? Per fortuna non mancano donne e uomini che sanno cogliere, del lavoro umano, questo importante aspetto; ma, guardando alla disoccupazione giovanile, e pensando al rigido collegamento che viene fatto fra lavoro e guadagno (al punto che 'non vale la pena' di lavorare se non si è 'giustamente' pagati...), non stupisce troppo che esista uno sconcertante divario fra disoccupazione e lavori non accettati (evidentemente, si intende, quando si tratti di lavori 'umani' ed equamente retribuiti). Il problema italiano non è quello del lavoro che non c’è, ma quello del lavoro che si accetta e si rende accettabile.
È un fatto, però, che l’idea che il lavoro contribuisca al bene dell’umanità, alla bellezza di una regione, alla vita di una pur umile famiglia non passa per la testa di una parte di coloro che appaiono disponibili soltanto al lavoro breve e ben pagato. Non erano di questa idea gli antichi lavoratori del Medioevo, consapevoli – già molto prima di Marx – che «il lavoro non è una merce» e che, anche partendo dalla vita semplice è possibile costruire la città e, per il credente, costruire la città di Dio.