lunedì 28 febbraio 2022

Smilitarizzare le menti per disarmare il conflitto. La prima cosa da fare contro la guerra in Ucraina

dalla pagina https://www.pressenza.com/it/2022/02/smilitarizzare-le-menti-per-disarmare-il-conflitto-la-prima-cosa-da-fare-contro-la-guerra-in-ucraina/

(Foto di Laika)


Nessuna delle caste al potere voleva una grande guerra in Europa

nel senso di perseguirla attivamente.

Al contempo esse, sia pure con finalità e interessi diversi,

neppure volevano rinunciare alla guerra, agli armamenti

e alla politica delle minacce come mezzo della politica internazionale,

per questo vi scivolarono dentro”

[Ekkehart Krippendorf, Lo stato e la guerra. L’insensatezza delle politiche di potenza]


Se per comprendere le ragioni di un conflitto è necessario allargare lo sguardo, nello spazio e nel tempo , a maggior ragione quando il conflitto si trasforma colpevolmente in guerra aperta è necessario sottrarsi alla logica perversa dello scontro amico/nemico e assumere un punto di vista più generale e complesso, per cercarne le possibili vie d’uscita. A questo scopo, condannare l’aggressione militare di Vladimir Putin all’Ucraina è necessario, ma non sufficiente. E se a farlo sono quelli che hanno condotto occupazioni militari ventennali in Afghanistan ed Iraq (per tacere delle altre), provocando immani catastrofi umanitarie, non è neanche credibile: sono parte del problema, non della soluzione. Anziché inviare altre armi sul terreno di guerra, come stanno facendo i governi occidentali, bisogna uscire dalla logica bellica sulla quale si fondano tutte le politiche di potenza che hanno portato, come con-cause, a questa incredibile e anacronistica situazione ed entrare nelle ragioni profonde del conflitto, riconoscendo ragioni e torti dei diversi attori in campo, per trovare un punto di mediazione sostenibile per tutti. Sottrarsi alla logica dell’escalation, farsi “costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera”, come scriveva Alex Langer, renitenti alla banalità del male della guerra che, ovunque, è già dentro la maggior parte delle menti consentendo agli arsenali di traboccare di armi, alle guerre di moltiplicarsi sul pianeta, ai profitti delle industrie degli armamenti di crescere senza fine. O smilitarizziamo le menti e impariamo a risolvere i conflitti senza violenza – con un lavoro paziente, costante e quotidiano – o la violenza della guerra distruggerà l’umanità, più prima che poi.

Esito previsto della “seconda guerra fredda”

Poiché – come ribadisce il vecchio saggio Edgar Morin – “la condanna di Putin non deve impedirci di comprendere attraverso quali insiemi di interazioni e retroazioni siamo arrivati al grado di radicalizzazione che produce disastri”, andiamo a vedere qualcuna di queste interazioni e retroazioni, dando la parola ad alcuni di coloro che hanno studiato con attenzione l’assetto geopolitico dell’Europa dopo l’abbattimento del muro di Berlino. Già nel 1997 il diplomatico USA George F. Kennan, profondo conoscitore dell’ex Unione Sovietica, si era espresso così sul New York Time: “L’allargamento della Nato è il più grave errore della politica americana dalla fine della guerra fredda. Si può prevedere che una simile decisione potrebbe infiammare le tendenze nazionaliste, antioccidentali e militariste nell’opinione pubblica russa, avere un effetto avverso sullo sviluppo della democrazia russa, ripristinare l’atmosfera della Guerra Fredda nelle relazioni Est-Ovest e spingere la politica estera russa in direzioni a noi decisamente sgradite”. E solo pochi giorni fa l’ex ambasciatore italiano alla Nato ed a Mosca, Sergio Romano, ha fatto le seguenti dichiarazioni in un’intervista a il fatto quotidiano (23 febbraio 2022): “A mio avviso, dopo la Guerra Fredda, l’Occidente avrebbe dovuto avviare la smobilitazione della Nato. Era una struttura nata al tempo della contrapposizione con il Patto di Varsavia. Collassato quest’ultimo non aveva senso tenere in piedi un assetto militare che sarebbe stato visto come struttura di pura aggressione”. Del resto già Johan Galtung – fondatore dell’International Peace Research, di Transcend, network per la pace e lo sviluppo, e consulente per anni dell’ONU – aveva avvertivo che la “seconda Guerra Fredda tra USA/NATO/AMPO (l’accordo militare tra USA e Giappone) e Russia/India/Cina non durerà a lungo”, che “una nazione globale con interessi globali (USA) ha le sue ragioni per portare le alleanze a linee di rottura radicali ed esplosive, per esempio tra cattolici/protestanti e slavi/ortodossi” e che “un incidente minore lungo il confine tra Polonia e Ucraina e queste faglie erutteranno lava come vulcani, con potenze nucleari dappertutto e senza alcun paese neutrale in mezzo a fare da cuscinetto, come furono Finlandia, Svezia, Austria e Jugoslavia durante la prima Guerra Fredda. Un’Eurasia dominata dagli USA è un’ipotesi folle: avere il mondo intero come propria sfera d’interesse può essere definito come megalomania” (Affrontare il conflitto. Trascendere e trasformare, 2008).

Storia contro-fattuale e storia reale

Del resto con un esercizio di storia contro-fattuale non è difficile immaginare che cosa accadrebbe a parti invertite: ossia se una potenza militare nucleare, come la Cina o la stessa Russia, stringessero un’alleanza strategica con il Canada o il Messico, capace di portare la minaccia nucleare ai confini degli Stati Uniti. In realtà non è strettamente necessario questo esercizio di fantasia, visto che nel 1962 si sfiorò davvero una guerra nucleare – a posizionamenti contrapposti – perché, dopo il fallito tentativo della CIA di far cadere la rivoluzione cubana di Fidel Castro e Che Guevara con il tentativo di invasione della cosiddetta “Baia dei porci”, l’Unione Sovietica aveva dispiegato alcuni missili nucleari a Cuba, a 90 miglia della coste della Florida, anche in risposta a quelle statunitensi dispiegate in Turchia, Italia e Gran Bretagna, e gli USA minacciarono la guerra se non fossero state rimosse. L’arte della diplomazia che seppero mettere allora in campo i presidenti Kennedy e Chruščёv, con la mediazione di papa Giovanni XXIII, portarono invece allo smantellamento dei missili sovietici a Cuba, all’impegno USA di non invadere l’isola e allo smantellamento di quei missili statunitensi in Europa. Non finirono invece le ingerenze USA in quell’America Latina che considerano – da sempre e per sempre – non solo la loro “sfera d’influenza”, ma un vero e proprio “cortile di casa”: dal supporto della CIA al colpo di stato in Cile contro il governo socialista di Salvador Allende al sostegno economico alla “contra” nella rivoluzione in Nicaragua, dalle armi agli squadroni della morte in Salvador e nel Guatemala alle molte altre ingerenze storicamente documentate (vedi, per esempio, Noam Chomsky, Anno 501, la conquista continua, 1993; Daniele Ganser, Breve storia dell’impero americano, 2021).

Una guerra iniziata nel 2014

Inoltre, gli stessi mezzi di informazione che ci comunicano, momento per momento, l’evoluzione della guerra dopo l’aggressione russa all’Ucraina, si era dimenticati di raccontarci in questi anni che la guerra era già in corso nell’Ucraina dell’est, dove la maggioranza russofona della regione del Donbass – con le auto-proclamate repubbliche indipendenti di Doneck e Lugansk, oggi riconosciute unilateralmente da Mosca – voleva l’autonomia fin dal 2014 dal resto del paese, dopo la rivoluzione (o il colpo di stato?) filo-occidentale, contro la volontà del governo centrale il quale non ha mai messo in pratica i cosiddetti “protocolli di Minsk” 1 e 2, che prevedono l’autonomia a statuto speciale di quelle provincie, ma – al contrario – si è servito di milizie neoaziste per reprimerne l’insubordinazione. Una guerra cosiddetta “a bassa intensità”, ma che aveva fatto già 14.000 vittime e decine di migliaia profughi accolti dalla Russia. Del resto, la stessa Europa che non ha fatto niente per agevolare una composizione pacifica del conflitto in Ucraina (ma ha venduto armi sia all’Ucraina che alla Russia) – solo trent’anni fa – riconoscendo immediatamente l’autoproclamata indipendenza della Croazia dalla Federazione Jugoslava – aveva agevolato la rinascita dei nazionalismi europei e la decennale guerra fratricida che ne scaturì nei Balcani, aprendo la stura ai fascismi contrapposti, fino al bombardamento di USA e alleati (governo D’Alema in Italia) sulla Serbia, anche perché questa non voleva riconoscere l’analogo indipendentismo nazionalista albanese della regione del Kosovo. Quando si dice “due pesi e due misure”…

L’Ucraina come pedina

Quindi, per riassumere, la situazione è quella descritta efficacemente d Ray Acheson scrittrice e attivista statunitense della Women’s International League for Peace and Freedom, nell’intervista a Altreconomia: “Dietro la crisi attuale c’è una storia di violenza militarizzata ed economica. La Russia e gli Stati Uniti hanno un approccio imperialista al di fuori dei propri confini interferendo, attraverso azioni militari ed economiche, in Paesi che ritengono essere all’interno delle loro “sfere di influenza”. Entrambi usano il militarismo, l’aggressione e i legami economici forzati per guidare la loro condotta nelle relazioni internazionali, ed entrambi affrontano l’ineguaglianza interna, la povertà e la resistenza attraverso azioni di polizia e punizione. I governi di entrambi i Paesi si criticano a vicenda per lo stesso tipo di comportamento: la Russia critica l’imperialismo statunitense, eppure invade e occupa i suoi vicini, bombarda i civili e si impegna in attacchi informatici contro infrastrutture critiche che danneggiano le persone comuni. Gli Stati Uniti criticano la Russia come un’autocrazia, ma negli ultimi decenni hanno rovesciato governi democraticamente eletti se solo minacciavano gli interessi degli Stati Uniti, costruiscono basi e si impegnano in guerre e operazioni militari in centinaia di Paesi in tutto il mondo, e investono miliardi di dollari in spese militari mentre molti dei cittadini statunitensi vivono senza assistenza sanitaria, alloggi o sicurezza alimentare. Entrambi i Paesi hanno rinforzato eserciti, alleanze militari e arsenali nucleari per sfidare l’altro. L’Ucraina, in questo contesto, è una pedina utilizzata da entrambe le parti”.

A questo punto, che fare?

Arrivati a questo punto, con l’Europa tornata – suo malgrado, non avendo una politica comune autonoma dalla Nato – teatro di guerra al centro di politiche di potenza contrapposte, che cosa c’è da fare? Di sicuro non aggiungere armi su armi, come i paesi della Nato hanno scelto sciaguratamente di fare, inviandone ancora all’Ucraina. Dopodiché, come singoli, nell’immediato, possiamo supportare gli obiettori di coscienza russi al servizio militare che chiedono ai soldati russi di “non partecipare alle ostilità, non divenire criminali di guerra e di rifiutare il servizio militare” e, contemporaneamente, supportare i pacifisti ucraini che chiedono ancora, ripetutamente, “alle leadership di entrambi gli stati e alle forze militari di fare un passo indietro e sedere al tavolo delle negoziazioni”, che ribadiscono che “la pace in Ucraina e nel mondo può essere ottenuta solo in modo nonviolento, che la guerra è un crimine contro l’umanità” e che sono “determinati a non supportare nessun tipo di guerra sforzandosi per l’eliminazione di tutte le cause di guerra”, diffondendo la loro voce, anziché quella di chi soffia – da un lato e dall’altro – sul fuoco della guerra. Come organizzazioni, chiedere, insieme a Rete Italiana Pace e Disarmo al governo italiano ed all’Unione europea di “prodigarsi per una cessazione degli scontri con tutti i mezzi della diplomazia e della pressione internazionale, con principi di neutralità attiva ed evitando qualsiasi pensiero di avventure militari insensate; chiedere alla Russia il ritiro delle proprie forze militari da tutto il territorio ucraino e la revoca immediata del riconoscimento dell’indipendenza delle Repubbliche del Donbass; attivarsi per garantire un passaggio sicuro alle agenzie internazionali e alle organizzazioni non governative al fine di garantire assistenza umanitaria alla popolazione coinvolta dal conflitto; chiedere il riconoscimento da parte dell’Ucraina dell’autonomia del Donbass prevista dagli accordi di Minsk ma mai attuata, il rispetto della popolazione russofona, la cessazione dei bombardamenti in Donbass, lo scioglimento delle milizie di matrice nazista; una volta arrivati al cessate il fuoco prodigarsi per una conseguente de-escalation della crisi nel pieno rispetto del diritto internazionale, affidando alle Nazioni Unite il compito di gestire e risolvere i conflitti tra Stati con gli strumenti della diplomazia, del dialogo, della cooperazione, del diritto internazionale; cessare qualsiasi tipo di ingerenza indebita nella vita interna dell’Ucraina; favorire l’avvio di trattative per un sistema di reciproca sicurezza che garantisca sia l’UE che la Federazione Russa”.

La guerra chiede il conto: prima, dov’erano tutti?

Le cose da fare sono tante, dunque, ma non bastano ancora, perché non è sufficiente attivarsi per la pace quando cadono le bombe. Quel che mi colpisce di più leggendo commenti ed editoriali di intellettuali, scrittori e commentatori (al netto degli immancabili con l’elmetto in testa permanente) è l’incredulità, lo smarrimento e lo spaesamento rispetto al ritorno della guerra vera, non lontana e digitale, ma analogica e vicina, anche nel cuore dell’Europa, con tutte le imprevedibili conseguenze che può portare con se. E allora mi domando dov’erano tutti mentre, per esempio, il Bollettino degli scienziati atomici da tre anni, consecutivamente, ci ricorda che siamo a soli 100 secondi dall’apocalisse nucleare? Dov’erano tutti mentre la Campagna per la proibizione delle armi nucleari (che ha vinto anche il Nobel per la pace) cercava di fare sottoscrivere il Trattato approvato all’ONU da tutte le potenze nucleari? Dov’erano tutti mentre gli scienziati premi Nobel di tutto il mondo, ancora poche settimane fa, hanno chiesto di ridurre almeno del 2% le spese militari globali, raddoppiate negli ultimi vent’anni, dall’Afghanistan in avanti? Dov’erano tutti mentre si ammodernavano gli arsenali con le almeno 13.000 testate nucleari di ultimissima generazione puntate contro le teste di tutti e aumentavano incredibilmente le spese militari mondiali che hanno raggiunto – in piena pandemia – la cifra record di 2000 miliardi di dollari, sottratti, per esempio, alla sanità e all’istruzione? Dov’erano tutti mentre le campagne per il disarmo e la nonviolenza, nazionali e internazionali, denunciavano tutto questo, dimostrandone l’insensatezza (come facevo, nel mio piccolo, anche in Disarmare il virus della violenza)? Se vuoi la pace, prepara la pace, insegnava Aldo Capitini, invece abbiamo lasciato che – nel silenzio e nell’indifferenza – si preparassero a tutte le latitudini politiche di potenza fondate sulla violenza delle armi. Il tema del disarmo è stato rimosso dall’agenda della cultura, della politica, dell’informazione. Ed oggi, che la guerra chiede il conto, siamo increduli, smarriti, spaesati e non capiamo come questo sia di nuovo possibile.

Dunque, per essere realisti

Dunque, per essere realisti, o ci decidiamo a smilitarizzare le menti, disarmare gli arsenali a cominciare da quelli nucleari, a dismettere le politiche di potenze e ad archiviare la guerra e fare – finalmente e definitivamente – un salto di civiltà, imparando a risolvere i conflitti con la nonviolenza, oppure la guerra archivierà l’umanità. Tertium non datur.

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Sergio Romano, ex ambasciatore italiano alla NATO e a Mosca, ha rilasciato la seguente dichiarazione durante una intervista a Il Fatto Quotidiano (23 febbraio 2022): “A mio avviso, dopo la Guerra Fredda, l’Occidente avrebbe dovuto avviare la smobilitazione della NATO. Era una struttura nata al tempo della contrapposizione con il Patto di Varsavia. Collassato quest’ultimo non aveva senso tenere in piedi un assetto militare che sarebbe stato visto come struttura di pura aggressione”.