domenica 27 febbraio 2022

PUTIN E GLI INIZI DELLA “CRISI UCRAINA”

dalla pagina https://www.laciviltacattolica.it/articolo/putin-e-gli-inizi-della-crisi-ucraina/

Quaderno 4028

pag. 162 - 176

Anno 2018

Volume II

 
21 Aprile 2018
 

Putin tra nazionalismo e crisi economica

Vladimir Putin, dopo la «campagna di Siria» in appoggio a Damasco e dopo il vertice di Sochi[1] del 22 novembre 2017 – definito, con grande soddisfazione del padrone di casa, la «Yalta mediorientale» –, è considerato, in ambito internazionale, uno dei leader mondiali più importanti e influenti, dal quale dipenderà in buona parte il futuro del nuovo assetto mediorientale.

In patria ha continuato a mantenere alto «l’indice di gradimento» tra la popolazione, avendo raggiunto il massimo di consenso dopo l’occupazione della Crimea. Infatti, secondo un sondaggio del 2016 del centro Levada – l’unico istituto di ricerche demoscopiche indipendente della Russia –, egli sarebbe sostenuto dall’82% dei cittadini russi, anche se, secondo le indagini più recenti, questa percentuale sarebbe più bassa, ma in ogni caso notevole[2].

Nelle recenti elezioni presidenziali (18 marzo 2018), che si sono svolte strategicamente nel quarto anniversario dell’annessione della Crimea, la riconferma per la quarta volta di Putin alla guida del Pae­se è stata «quasi plebiscitaria» (76,7%), come non era mai avvenuto in precedenza (nel 2012 Putin riportò il 63,6% dei voti)[3]. Anche l’affluenza alle urne è stata più alta che nelle votazioni passate (67%)[4], sebbene il suo avversario storico Aleksej Navalny, al quale i giudici russi hanno impedito di candidarsi alle presidenziali, avesse condotto una battaglia per convincere l’elettorato giovanile a boicottare le urne.

Inoltre, la narrazione di una Russia accerchiata dai nemici esterni, cioè da alcuni Paesi occidentali come gli Stati Uniti, la Francia e l’Inghilterra, è stata ulteriormente favorita dall’ultimo scontro diplomatico con il Regno Unito: il primo ministro Theresa May, infatti, ha accusato direttamente Putin di essere il mandante del tentato omicidio (avvelenamento con un agente nervino, il «novichok») di una ex spia e di sua figlia, che si trovavano a Salisbury. Anche questo fatto – duramente condannato da tutte le cancellerie occidentali –, abilmente sfruttato dalla propaganda, potrebbe aver contribuito alla strepitosa vittoria di Putin.

In realtà, già prima delle elezioni il problema di Putin non era tanto quello di vincere, quanto di «come vincere senza esagerare» in modo da allontanare dalle elezioni presidenziali ogni sospetto di brogli: un rischio inutile, visto il successo scontato[5]. Secondo alcuni analisti, la grande popolarità del Presidente, oltre che ai risultati ottenuti in ambito internazionale, è dovuta all’attività di controllo esercitata nei confronti di ogni opposizione. Nonostante le difficoltà economiche nel quale il Paese versa – anche a causa delle sanzioni economiche (di recente ulteriormente inasprite) poste dagli Usa e dall’Ue –, Putin è considerato dalla maggioranza dei russi come colui che è in grado di garantire una certa stabilità economica al Paese. «L’alto grado di approvazione per le politiche di Putin si basa – secondo il sociologo Lev Gudkov, direttore del centro Levada –, oltre che sull’attuale ondata di entusiasmo patriottico-militare, anche sulla mancanza di alternative e su alcune illusioni»[6]. Tra i russi, osserva lo studioso, c’è la convinzione che il loro Presidente continuerà a garantire al popolo l’attuale livello di benessere.

Sotto il profilo politico non vanno però sottovalutate le limitazioni imposte dalla dirigenza russa alle libertà delle persone e dei gruppi sociali. Di fatto, a partire dal 2012, Putin ha imposto dei limiti sia alla libertà di stampa, sia al diritto di manifestare il dissenso politico. Inoltre, nel 2016 ha creato la Rosgvardija (Guardia nazionale della Federazione), una forza di polizia sotto il suo diretto controllo, che ha il compito di reprimere ogni forma di opposizione[7]. A quanto pare, però, questi elementi di criticità non hanno avuto molto peso sul voto delle presidenziali.

Va ricordato che la situazione economica della Russia attualmente non è troppo florida, sebbene il Presidente, nella conferenza stampa di fine anno (14 dicembre 2017), abbia dichiarato che «ormai il peggio è passato», e che anzi l’inflazione nel prossimo anno sarebbe scesa del 2,2% e il Pil sarebbe cresciuto dell’1,6%[8]. Ma alcuni fatti di non secondaria importanza continuano a intralciare la ripresa economica del Paese: tra essi segnaliamo la persistenza delle sanzioni economiche comminate principalmente dagli Usa e dall’Ue inizialmente in relazione all’annessione della Crimea (18 marzo 2014), il crollo del prezzo del petrolio sul mercato internazionale e le recenti spese militari per la guerra in Siria.

Secondo il Fondo monetario internazionale, il Pil russo è passato dai 2.200 miliardi di dollari del 2013 ai 1.200 dello scorso anno, facendo scendere il Paese all’ottavo posto tra le grandi potenze economiche del pianeta, dietro l’Italia, la Spagna e la Corea del Sud. La Russia insomma è un gigante con i piedi di argilla, la cui potenza economica – come pure quella militare –, secondo lo statista Henry Kissinger, è stata sempre sopravvalutata per motivi politici.

Va però ricordato che nel marzo 2017 la Russia è stata attraversata da un’ondata di proteste giovanili, attivata dal blogger Aleksej Navalny. I giovani hanno manifestato in molte piazze, in maniera pacifica, contro la corruzione del Governo e della sua amministrazione[9]. Ciò indica che in Russia si sta sviluppando una nuova generazione – quella cresciuta sui social network –, che non si sente pienamente rappresentata da Putin e che probabilmente ha disertato le urne elettorali[10].

Come si spiega allora il fenomeno della popolarità di Putin nel suo Paese? Infatti, nonostante le difficoltà economiche di cui si è detto, i russi continuano a credere in lui e a rieleggerlo alla guida dello Stato. Secondo gli analisti, questo sostegno è aumentato di un terzo dopo l’annessione della Crimea, cioè nel momento in cui la crisi economica si è fatta sentire in modo più forte. «Noi russi stiamo peggio di prima, ma questo non significa che stiamo malissimo – ha risposto a un giornalista occidentale uno dei tanti sostenitori del Presidente –. Putin ha restituito ai russi la fiducia in se stessi. Siamo un Paese grande e forte»[11].

Dopo il crollo dell’Urss, e dopo le umiliazioni subite negli anni passati dalla Russia, Putin ha saputo ridare al suo Paese l’orgoglio di essere una grande nazione. Un sentimento patriottico che ha raggiunto il suo culmine con l’annessione della Crimea, considerata dai russi come parte integrante della nazione. Inoltre, la ricomparsa della Russia sullo scacchiere politico internazionale – ad esempio, in Medio Oriente e in Siria –, dopo anni di assenza e di esclusione, è considerata dai russi come un fatto giusto e dovuto. La vita delle persone potrà anche essere miserabile, «ma l’importante è che la Russia torni ad essere una grande nazione rispettata o, meglio ancora, temuta»[12].

Vale la pena di ripercorrere gli eventi che spinsero Putin all’annessione della Crimea. Queste vicende si intrecciarono con complesse questioni geopolitiche e geostrategiche – in particolare, con i rapporti sempre più tesi tra l’Ue e la Russia – e, in ultima analisi, con i fatti della cosiddetta «seconda rivoluzione di Kiev» e con i suoi esiti non ancora del tutto definiti.

La «seconda rivoluzione» ucraina

La «seconda rivoluzione» ucraina, dopo quella «arancione» del 2004 capeggiata dalla pasionaria Julija Tymošenko, scoppiò nel 2013, non appena terminarono le trattative tra il Governo ucraino e l’Unione Europea per la firma di un «accordo commerciale di associazione», finalizzato a creare una zona di libero scambio tra Bruxelles e Kiev. La firma del trattato era prevista per la fine di novembre, ma il presidente ucraino, filorusso, Viktor Janukovyč, in un primo tempo favorevole all’accordo, alla fine decise di rimandarla. Egli cambiò idea dopo l’incontro che ebbe con Putin il 9 novembre 2013 all’aeroporto militare di Mosca. Questo cambiamento però non è da attribuire soltanto agli «argomenti convincenti» circa l’opportunità di scegliere un’altra strada, che il Presidente russo seppe presentare al suo interlocutore, ma anche alla responsabilità dello stesso Governo di Janukovyč di aver portato l’Ucraina a una grave crisi economica, dovuta pure al diffuso sistema di corruzione e al malgoverno. Questo fatto mise in fibrillazione l’opposizione e le forze filo-occidentali del Paese, che concordarono di fare pressione sul Governo perché sottoscrivesse l’accordo; perciò mobilitarono migliaia di persone, che per settimane occuparono piazza dell’Indipendenza (Maidan), nel centro di Kiev, come era avvenuto in altre importanti circostanze.

In alternativa all’accordo, il Governo – su suggerimento di Putin – proponeva l’istituzione di una commissione – formata da Ue, Ucraina e Russia – per discutere le questioni di carattere economico di comune interesse, in modo da creare una sorta di mercato unico euro-asiatico, vantaggioso per tutti i Paesi aderenti. La proposta fu però bocciata da Bruxelles. Nel frattempo, Putin era impegnato a creare un’unione doganale – Unione economica eurasiatica (Uee) – tra la Russia e alcuni ex membri dell’Urss, quali la Bielorussia e il Kazakistan, e voleva che l’Ucraina, che era il suo maggiore partner commerciale nella regione, vi aderisse[13]. L’Uee, che sarebbe sorta un anno dopo, modellata in parte sull’Unione europea, avrebbe favorito gli scambi, il movimento delle persone, delle merci e dei capitali finanziari tra i Paesi aderenti.

Secondo Sergio Romano, questa istituzione aveva anche una finalità politica molto significativa, quella cioè di «creare uno spazio euroasiatico, che avrebbe avuto più o meno le dimensioni dell’Urss». Con la sua adesione, l’Ucraina, secondo Putin, avrebbe convinto altri Paesi della regione a entrare nell’Unione; la sua assenza, invece, avrebbe «regalato all’Ue, e prima o poi alla Nato, una terra slava, legata alla Russia da vincoli storici e religiosi»[14]. L’Ucraina era troppo fragile per essere un Paese indipendente e, abbandonata al suo destino, sarebbe finita nell’orbita della Polonia e degli Stati Uniti. Ciò Putin non poteva in nessun modo permetterlo e, per impedirlo, era disposto perfino a ricorrere alla forza.

Secondo i partiti di opposizione, la firma dell’accordo avrebbe avvicinato l’Ucraina all’Europa e avrebbe ridato forza alla debole economia nazionale, da anni in fase di recessione e ora vicina alla bancarotta. Per essi, l’Europa rappresentava un sogno di benessere e di ordine sociale. Nel frattempo, gli attacchi della polizia contro i manifestanti di piazza dell’Indipendenza sortirono l’effetto di inasprire lo scontro tra i rivoltosi – decisi ad andare avanti anche con la violenza – e il Governo. La piazza era controllata da una sorta di «presidio rivoluzionario», ben organizzato ed efficiente, il quale assicurava che la pressione dei manifestanti fosse continua e non desse tregua al Governo. Grazie a un sofisticato sistema logistico, numerosi autobus trasportavano ogni giorno nella capitale sempre nuovi manifestanti dalle province occidentali (quelle cioè più avverse al Governo in carica).

Per l’Ue e per gli Stati Uniti era importante che l’Ucraina – considerata uno Stato «cuscinetto» tra la Russia, l’Ue e la zona-Nato – venisse strategicamente controllata da Bruxelles piuttosto che da Mosca. In una importante pubblicazione del 1997, il politologo Zbigniew Brzezinski scriveva che l’Ucraina era il cardine geopolitico della regione, «nel senso che la sua stessa esistenza di Stato indipendente contribuiva alla trasformazione della Russia. Senza l’Ucraina, questa avrebbe cessato di essere un impero euroasiatico»[15] per diventare una grande potenza centro-asiatica, cosa che Putin avrebbe voluto scongiurare. Questo però stava a significare che la cosiddetta «nazione di confine» era costretta a scegliere tra i due contendenti, cioè tra due diverse zone di influenza politico-militare: o ripararsi sotto l’ombrello protettivo della Russia, o ripararsi sotto quello della Nato[16].

L’Ucraina tra Europa e Russia

Un vertice dell’Unione Europea, tenutosi a Praga il 7 maggio 2009, aveva fissato i criteri di massima della politica comunitaria nei confronti dei Paesi dell’Est. In quell’occasione fu stilato un ambizioso programma, dal titolo «Partenariato orientale». Con esso si intendeva aiutare le ex Repubbliche sovietiche a progredire sulla via della democrazia, della libertà e del benessere economico, senza escludere un loro futuro ingresso nella Ue. L’adesione a tale programma avrebbe comportato un sostanziale allineamento di quei Paesi alle direttive dell’Unione sia in materia economica sia in materia politica, il che presupponeva una loro presa di distanza da Mosca.

Di fatto l’Unione Europea, soprattutto dopo il conflitto in Geor­gia (agosto 2008), si attivò per stipulare un accordo con l’Ucraina, perché la riteneva il Paese strategicamente più importante tra quelli dell’ex Unione Sovietica. Le due parti decisero di definire la propria collaborazione sottoscrivendo l’«accordo di associazione», che prevedeva una sorta di partenariato tra Kiev e Bruxelles in diversi settori.

In alternativa, o meglio, in opposizione al progetto di Bruxelles, Putin propose ai Paesi ex sovietici la creazione di un’«unione doganale-commerciale» formata dalla nuova Uee e dall’Ue. Queste, a loro volta, su un piano di parità, avrebbero stabilito insieme le regole del mercato comune, valide per uno spazio economico che avrebbe dovuto estendersi da Vladivostok a Lisbona. Questo progetto fu presentato da Putin a Berlino, nel novembre 2009, agli imprenditori tedeschi, senza però trovare il consenso sperato. Secondo il Presidente russo, entrambe le parti avrebbero tratto beneficio da un accordo di questo tipo[17].

Il presidente Janukovyč, fino al novembre 2013, portò avanti i negoziati sia con Bruxelles sia con Mosca, per valutare la proposta più vantaggiosa per il suo Paese. L’Ue propose all’Ucraina aiuti economici pari a 600 milioni di euro in cambio della sottoscrizione dell’«accordo di associazione»: una somma importante, ma non sufficiente per appianare l’enorme debito accumulato negli anni. Nei mesi successivi, infatti, il Paese avrebbe dovuto restituire ai creditori circa 15 miliardi di euro, e le riserve monetarie erano quasi esaurite. Il Fondo monetario internazionale era disposto a concedere un credito all’Ucraina, ma alle stesse condizioni della Grecia: taglio delle sovvenzioni statali, aumento della pressione fiscale, deprezzamento della valuta locale. Per Janukovyč, si trattava di condizioni inaccettabili. Da un punto di vista politico, l’adozione di tali misure restrittive avrebbe pregiudicato certamente una sua riconferma alle elezioni del 2015.

L’Ue, tra le altre condizioni, poneva anche il pieno rispetto dei diritti umani da parte dell’autorità pubblica, e in particolare l’immediata scarcerazione di Julija Tymošenko. L’ex primo ministro ucraino – eroina della rivoluzione arancione e acerrima nemica del Presidente in carica – era stata condannata a 7 anni di reclusione per malversazione di fondi pubblici. Gli europei, invece, facendo proprie le ragioni dell’opposizione, ritenevano tali accuse infondate e dettate soltanto da motivazioni di ordine politico.

Alla fine Janukovyč, per colmare le casse vuote dello Stato e per «motivazioni di sicurezza nazionale», rimandò la sottoscrizione dell’«accordo di associazione» e accettò la generosa offerta di Putin, che comprendeva il versamento di 15 miliardi di dollari e il 30% di sconto sul gas. Da parte sua, l’Ucraina si impegnava a instaurare rapporti più stretti di natura commerciale con la Russia, in modo «da rendere il mercato interno pronto a un rapporto alla pari con quello europeo», che era l’obiettivo che Putin intendeva raggiungere con la summenzionata unione doganale[18].

Con il passare delle settimane le proteste in piazza dell’Indipendenza si sono fatte sempre più accese[19]. La rivolta era capeggiata da alcuni partiti dell’opposizione e dal bellicoso partito nazionalista di destra Pravyj Sektor, che agli attacchi della polizia e delle forze antisommossa rispose con la violenza. Il 18 febbraio, quando la polizia cercò di sgomberare piazza Maidan, lo scontro tra dimostranti e forze dell’ordine si fece più violento; divenne una vera e propria guerra urbana quando i manifestanti, capeggiati dagli ultranazionalisti, si misero in marcia per assaltare l’edificio del Parlamento[20]. In quella circostanza il bilancio delle vittime fu alto: morirono 18 persone, tra cui 7 poliziotti.

Da quando si diffuse la notizia che il Governo aveva dato ordine di sgomberare piazza dell’Indipendenza e di eliminare con la forza i presìdi, la tensione aumentò, causando altre vittime da entrambe le parti. I fatti di piazza Maidan, come previsto, vennero letti e valutati dalle cancellerie e dalla stampa internazionali in modo differente: per gli uni (in particolare per gli alleati di Putin), si trattava di un’insurrezione organizzata da gruppi di estrema destra per rovesciare un Governo legittimamente eletto dagli ucraini; per gli altri (innanzitutto la stampa europea), si trattava di una lotta di popolo per ristabilire in Ucraina la democrazia e il rispetto dei diritti umani, calpestati da un Presidente asservito alla Russia.

La mattina del 20 febbraio infatti, alcuni tiratori scelti, non identificati, spararono sulla folla, uccidendo più di 70 persone e ferendone un centinaio. Tra le vittime vi furono sia dimostranti sia agenti di polizia in servizio. Per conto di chi avevano agito i cecchini? Finora non è stato chiarito[21].

Per evitare una guerra civile, il presidente francese Hollande e la cancelliera tedesca Merkel contattarono telefonicamente Putin, al fine di farsi mediatori tra le parti in lotta, per ristabilire al più presto l’ordine. Nella notte tra il 20 e il 21 febbraio fu firmato un accordo fra l’opposizione e il Governo, con la mediazione dei ministri degli Esteri della Germania, della Francia, della Polonia e della Russia. In esso si chiedeva che il presidente Janukovyč si dimettesse al più presto e che venissero indette nuove elezioni entro il dicembre del 2014. Nei giorni seguenti, inoltre, si sarebbe dovuto formare un Governo di transizione.

Quando due esponenti dell’opposizione che avevano partecipato alle trattative salirono sul palco per annunciarne l’esito, vennero accolti con fischi e insulti, perché avevano trattato con il «tiranno». In quel momento il leader nazionalista Volodimir Parasjuk – capo di un gruppo militante di ex soldati, fondato nelle ultime settimane dal Consiglio di Euromaidan, il movimento sorto dalle proteste di piazza dell’Indipendenza – prese la parola e disse: «Parlo a nome del mio gruppo. Se entro domani alle 10 non si conferma che Janukovyč si è dimesso, con le nostre armi scateneremo una tempesta di fuoco. È una promessa».

Nella notte il presidente Janukovyč fuggì a Mosca e cercò riparo e protezione da Putin. Il giorno seguente, il 22 febbraio, le unità di autodifesa del leader di Euromaidan Andrij Parubij occuparono il centro storico di Kiev e tutti i palazzi del potere, chiedendo le dimissioni del Presidente. Subito dopo, la maggioranza dei deputati (328 su 450), riuniti in seduta straordinaria, votò per la sua destituzione. La sera precedente la Tymošenko, appena liberata dal carcere, aveva annunciato la sua volontà di candidarsi per le elezioni presidenziali.

Putin, da parte sua, ritenne responsabili del «colpo di Stato» soprattutto le potenze occidentali, che avrebbero favorito, e forse anche orchestrato, il cambio di regime a Kiev e avrebbero «stracciato» l’accordo raggiunto la notte precedente tra le parti. Secondo il Presidente russo, l’Europa avrebbe dovuto in ogni caso prendere le distanze dalla rivolta e dalla nuova dirigenza politica delegittimandola, ma ciò non era avvenuto. Per Putin, il «colpo di Stato» in Ucraina rappresentò il superamento della cosiddetta «linea rossa», fissata da tempo dal Cremlino. A tale proposito, il Presidente ricordava come gli Usa e le organizzazioni non governative avessero fomentato l’insoddisfazione popolare in Paesi come la Georgia e l’Ucraina per favorire un cambio di regime di orientamento anti-russo[22].

Sin dall’inizio della sua presidenza Putin aveva ricordato agli occidentali l’intesa raggiunta tra l’Ue e la Russia dopo il crollo del Muro di Berlino, la quale prevedeva che la Nato non avrebbe cercato di estendere la propria influenza oltre i Paesi dell’Unione. Assicurazione che fu ribadita in diverse circostanze e che era una delle condizioni poste dall’ex Unione Sovietica per la riunificazione tedesca[23].

Un altro punto di discussione di Putin con gli occidentali – in particolare con gli Stati Uniti – riguardava lo scudo antimissile installato in Europa. Secondo i dirigenti della Nato, esso sarebbe stato orientato contro l’Iran; agli occhi di Putin, invece, esso rappresentava innanzitutto una minaccia per il suo Paese, dal momento che i missili posizionati in Romania e in Polonia avrebbero potuto raggiungere in pochi minuti obiettivi russi.

Nel contesto delle accese invettive di Mosca contro quanto era successo a Kiev, e delle assicurazioni della stessa che i cittadini russofoni non sarebbero stati abbandonati al loro destino, iniziarono i preparativi per l’annessione della Crimea e per la resistenza di alcune regioni della Donbass – terra di origine del Presidente destituito e tradizionalmente legata alla Russia – al «colpo di Stato» consumato a Kiev.

L’annessione della Crimea alla Russia

Il rapporto tra l’Ucraina e la Russia divenne ancora più teso quando il nuovo Governo, appena costituito, abrogò la legge sulle minoranze linguistiche che era stata approvata nel 2012 dall’esecutivo precedente. Essa prevedeva che la lingua che veniva parlata in una regione da almeno il 10% della popolazione potesse diventare in quel luogo lingua ufficiale. In Crimea, abitata per più della metà da una popolazione di lingua russa, questa era diventata la lingua ufficiale; con la nuova disposizione, invece, essa sarebbe tornata a essere semplicemente una lingua locale[24].

L’abrogazione della legge diede avvio ufficialmente alla protesta. In realtà, sembra che Putin avesse già deciso l’annessione della Crimea in precedenza, in occasione di una riunione d’urgenza, convocata nella notte tra il 22 e il 23 febbraio, alla quale avevano partecipato i capi delle forze speciali russe e il ministro della Difesa, e nella quale egli aveva deciso «di salvare la vita al presidente ucraino» e «di riportare di nuovo la Crimea alla Russia»[25]. La Crimea, infatti, nel 1954 era stata «donata» dal presidente Nikita Krusciov (originario di quel Paese) all’Ucraina, per commemorare il 300° anniversario del trattato di Perejaslav tra i cosacchi ucraini e la Russia[26].

Per la Russia, questa piccola penisola, posizionata sui «mari caldi» – per lungo tempo contesa tra l’Impero russo e quello ottomano –, è molto importante dal punto di vista militare e strategico. In essa si trova la base navale di Sebastopoli, che era stata concessa in «affitto» a Mosca fino al 2042, oltre a una serie di caserme e di importanti postazioni militari. La località consente alla flotta russa di raggiungere rapidamente il Mediterraneo, la penisola balcanica e il Medio Oriente, in particolare Tartus, in Siria, unica base navale posseduta dalla Russia fuori del suo territorio.

Dopo questi fatti, il Parlamento della Crimea fissò per il 16 marzo 2014 un referendum di annessione della penisola alla Russia. Secondo gli organizzatori della consultazione elettorale, più 97% dei votanti (circa un milione e mezzo di persone) si espresse a favore[27].

Gli Stati Uniti e le potenze europee protestarono per la violazione della sovranità dell’Ucraina e delle clausole del Memorandum di Budapest del 1994, con il quale la Russia si era impegnata a non violare l’integrità territoriale delle Repubbliche ex sovietiche. A queste obiezioni Putin si limitò a rispondere che le misure adottate dal suo Governo erano del tutto ragionevoli alla luce dei recenti fatti di Kiev. Alla richiesta di Obama di non procedere all’annessione della Crimea, che avrebbe comportato conseguenze gravi sul piano del diritto internazionale, Putin rispose: «Il voto è stato regolare, lo hanno potuto constatare gli osservatori internazionali e centinaia di giornalisti – anche americani – presenti, che hanno potuto girare liberamente per i seggi». E per rassicurare il presidente Usa, aggiunse: «Tuttavia non ci saranno altre annessioni, e soprattutto mi impegno a trattare con l’Ucraina e a distendere la situazione»[28].

Il 18 marzo 2014, al Cremlino, Putin ratificò l’annessione della Crimea alla Russia. Il 27 marzo l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione numero 68/262, condannò l’annessione della Crimea da parte della Russia e respinse la validità del referendum del 16 marzo. La comunità internazionale, in particolare l’Ue, subito dopo applicò le sanzioni economiche minacciate, che in seguito furono inasprite per i fatti del Donbass. Misure che del resto il Presidente aveva già previsto. A giudicare dai rilevatori economici, esse non risultarono inefficaci: di fatto hanno contribui­to in questi ultimi anni al forte rallentamento dell’economia russa, la quale ora deve fare i conti anche con il crollo del prezzo del petrolio e con la svalutazione del rublo[29].

L’inizio del conflitto nel Donbass

Nel Donbass, cioè nell’Ucraina orientale, nelle regioni di Donesk, Luhansk e Charkiv intanto continuava la lotta tra gli indipendentisti filorussi e i governativi. Il Governo di Kiev accusò Putin di fomentare il conflitto, che aveva già prodotto diverse migliaia di vittime, e di rifornire militarmente i ribelli. Putin ribadì che non avrebbe abbandonato i russi dell’Ucraina, né quelli che abitavano in altri Paesi. I russi che combattevano a fianco degli indipendentisti non indossavano le uniformi militari del loro Paese e dichiaravano agli osservatori occidentali di essere dei volontari. Putin dichiarò di essere favorevole a trovare una soluzione negoziale tra le parti, in modo da porre fine alla guerra.

I rappresentanti dell’Ucraina, della Russia, del movimento separatista e alcuni delegati dell’Osce si ritrovarono a Minsk, capitale della Bielorussia, per discutere un accordo. Il protocollo sottoscritto dai partecipanti il 5 settembre 2014 era piuttosto pretenzioso e fissava gli elementi centrali di un processo finalizzato a portare la pace nella regione. Conteneva 13 punti che, tra l’altro, prevedevano una tregua, lo scambio di prigionieri, il riconoscimento di uno status speciale nelle regioni di Donesk e di Luhansk e l’accordo di far allontanare le armi pesanti al di fuori della linea di contatto. La Commissione tripartita poi continuò a lavorare sul protocollo senza raggiungere un vero accordo.

Nel febbraio del 2015, sempre a Minsk, i colloqui ripresero, con la mediazione della Germania e della Francia. I punti in discussione erano ancora quelli del primo protocollo. Tutto questo mentre il conflitto continuava e il numero dei morti, purtroppo, cresceva. Putin stava inviando alle potenze europee e agli Stati Uniti un messaggio molto chiaro: egli non avrebbe mai accettato l’ingresso dell’Ucraina nella zona d’influenza politica dell’Unione Europea e che venisse difesa dall’ombrello protettivo della Nato. Molteplici voci della comunità internazionale, nel frattempo, hanno più volte ribadito che la pace si ottiene soltanto rispettando il diritto delle popolazioni coinvolte e la legalità internazionale.

continua