Commento ai vangeli di Avvento a cura di Donatella Mottin
I domenica - Luca 21,25-28.34-36
Una domenica,
questa prima di avvento, in cui le letture che la chiesa ci propone
sono strettamente collegate tra loro, soprattutto se ‘cambiamo’ l’ordine
di lettura e meditazione.
Per primo il vangelo: “In quel tempo Gesù disse: Verranno giorni…”.
In quel tempo… tempo, che si ripete costantemente, di annuncio e,
insieme, di lettura della realtà. Un tempo e una realtà difficili che
ormai, da anni, viviamo anche noi, che ci parla
di angoscia di popoli (come non pensare alle immagini di cancellazione
di umanità che la televisione e i giornali ci mostrano in questi
giorni...) e di una realtà densa di incertezza, paura e ansia. Sono
emozioni che accompagnano spesso le nostre giornate
e che a volte, oltre ad appesantire – come dice il testo di Luca – il
nostro cuore, rischiano di schiacciarlo. Eppure, la seconda lettura dal
libro di Geremia, ci ricorda che “Ecco verranno giorni...nei quali io realizzerò le promesse di bene”. Proprio quando il buio sembra coprire ogni possibilità di luce, è
necessario scoprire il bene che c’è. Se crediamo che il Signore cammina
con noi nella storia, lo sta facendo anche quando non riusciamo a
scorgere la sua presenza. Non ci resta che attendere
di vedere meglio continuando a guardare e leggere il presente, di
ricordare la promessa di Gesù “Io sono con voi” (Mt 28,20) custodendo la Parola, “sovrabbondando – come ci dice Paolo nella seconda lettura –
nell’amore verso tutti” e verso il nostro tempo, osando spostare sempre un po’ i limiti dell’amore, per “rendere saldi i nostri cuori”.
II domenica - Luca 3,1-6
Giovanni il
Battista non sa come sarà davvero l’inviato di Dio, anzi è ancora –
almeno in parte – intriso delle attese di forza e potenza del popolo
d’Israele in un tempo di oppressione da parte di
un altro popolo, quello romano. Nelle sue parole spesso emergono
annunci di castighi, di punizioni, ma si rende conto che il nuovo che
sta venendo, richiede da una parte di lasciare il vecchio e dall’altra
di rivestirsi di vita nuova. Lui stesso dopo il silenzio,
la solitudine e l’ascolto dello Spirito nel deserto, si mette in
cammino proclamando “un battesimo di conversione per il perdono dei peccati”.
La conversione prevede il ritorno a Dio attraverso un cambiamento nel
modo di pensare e di agire. Questo è
necessario, afferma il Battista, per il perdono dei peccati: è una
sfida all’autorità religiosa, visto che i sacerdoti insegnavano che il
perdono si otteneva attraverso offerte e sacrifici al Tempio. Il ritorno
a Dio chiede invece di fare spazio alle relazioni
vissute in modo nuovo, dove ci è chiesto di prenderci cura del mondo e
di ogni essere umano: raddrizzando sentieri, riempiendo burroni,
abbassando le alture, cercando di eliminare tutto ciò che impedisce o
rallenta il cammino verso relazioni autentiche con
Dio e con tutti gli esseri viventi, perché solo queste permettono a
ciascuna e a ciascuno di
ricevere la salvezza che viene dal Signore (3,6).
III domenica - Luca 3,10-18
I versetti di
questa domenica sono la continuazione, nel vangelo di Luca, di quelli
di domenica scorsa. Sono ancora protagonisti il Battista e coloro che lo
ascoltano. Sono persone che si sentono interrogate
dalle sue parole e dalla sua vita e che, a loro volta, interrogano
ponendo la domanda che, di fronte a situazioni che non comprendiamo fino
in fondo o che non pensiamo di riuscire ad affrontare, tutti noi ci
poniamo:
che cosa dobbiamo fare?
Nel testo si parla della folla, di esattori delle tasse e di soldati:
categorie di persone che possono in tempi diversi – come nei nostri –
essere facilmente sostituibili. A sorprendere, infatti, sono le risposte
di Giovanni il Battista: non pentimenti più
o meno plateali, non sacrifici, non aumenti di liturgie o digiuni; ma
azioni umanissime che fanno parte della semplicità della vita. Gesti di
solidarietà, di giustizia, di rifiuto di soprusi o violenze nei
confronti dei più deboli.
Le risposte del Battista ci indicano la strada del riappropriarci ed
immergerci totalmente nella nostra vita di ogni giorno, compiendo
piccoli gesti che aiutano a far emergere il Regno che è in mezzo a noi,
per poter essere battezzati non solo con l’acqua,
ma anche con lo Spirito.
IV domenica - Luca 1,39-45
La
Visitazione è, secondo me, l’immagine più bella dell’Avvento. Nei
versetti del vangelo di questa quarta e ultima domenica – anche se si
narra di Maria che con il suo carico di trepidazione e dubbi,
si alza e va in fretta verso la casa di Zaccaria per incontrare
Elisabetta – la protagonista è proprio quest’ultima. Elisabetta aveva
trascorso in casa, “nascostamente” (1,23) i primi mesi di
gravidanza in un dialogo che possiamo immaginare incessante,
con Dio e la creatura che le cresceva nel ventre. Una donna vecchia che
aveva atteso una vita intera (quanto ci interrogano i tempi di Dio…) di
diventare madre e che, ancor prima del cantico di Maria, prorompe in un
inno di lode quando lo Spirito le fa riconoscere,
in quella giovane donna, la madre del suo Signore. Dalle sue labbra
escono solo parole di benedizione e dal suo grembo erompe la gioia.
Sembra quasi di sentire la presenza di Dio aleggiare sopra quelle due
donne.
È proprio la vita che porta in grembo, a farle dimenticare le sofferenze
del passato: può leggerle in modo nuovo senza angustiarsi per il futuro
perché far crescere e offrire spazio di vita nuova fa assaporare, con
pienezza, ogni presente.
“Non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova, non ve ne accorgete?” (Is 43,19)
Donatella Mottin
Associazione Presenza Donna, Centro Documentazione e Studi
Annalinda Zigiotto e Davide Viadarin ci guideranno a conoscere il senso
dell’esperienza “Il Vangelo tra le case” e proporranno la riflessione e
lo scambio di vita. L’approfondimento della Parola delle domeniche di
Avvento sarà arricchito da suggerimenti metodologici.
In
occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della
violenza contro le donne del 25 novembre 2021, l'associazione Presenza
Donna propone un doppio appuntamento - nel
segno dell'arte e della preghiera - per dare voce alla consapevolezza
di questa piaga che tocca le vite di tante donne maltrattate e tanti
uomini maltrattanti.
Giovedì 25 novembre, dalle 19.00 alle 19.30 presso la Chiesa di San Lorenzo a Vicenza, vivremo insieme un breve, intenso
momento di preghiera per l'eliminazione della violenza contro le donne. Parola di Dio e parola di uomini e donne, canti e gesti per dire insieme
"Mai più".
Domenica 21 novembre presso la sede di Presenza Donna in contrà S. Francesco Vecchio 20 a Vicenza,
è stata inaugurata "Un gioco che non sono io", mostra dell'illustratrice vicentina Alice Walczer Baldinazzo. "Un gioco che non sono io" è il titolo di
una silloge poetica contro la violenza di genere, scritta da Elisa
Cordovani con le illustrazioni di Alice Walczer Baldinazzo. Una presa di
posizione per ricordarci quanto siamo fragili,
vittime o carnefici dei nostri chiaroscuri e di quelli degli altri. Un
invito a comprendere di quale "gioco", psicologico e fisico, siamo
succubi, e a tirarcene fuori. A dire
no, scegliendo l'amore per se stessi e per gli altri.
La mostra è visitabile dal 21 al 28 novembre, con i seguenti
orari: tutti i giorni 10-12; il 23, 24 e 27 novembre: 10-12 e 17-19; il 28 novembre: 10-12 e 15-18.
Gli eventi sono ad ingresso libero ed è richiesto il Green pass.
L'iniziativa è realizzata da Presenza donna
in collaborazione con Centro Culturale San Paolo, Voce dei Berici,
Servizio diocesano di pastorale giovanile, e con il sostegno del
progetto 8xMille della chiesa cattolica.
L’aumento di 1,35 miliardi del
Bilancio del Ministero della Difesa (+5,4%) traina la crescita della
spesa militare italiana complessiva calcolata dall’Osservatorio Mil€x.
Superato il muro dei 25 miliardi (25,82 in totale) con un aumento del
3,4% rispetto al 2021 e un balzo di quasi il 20% in 3 anni. Un miliardo
in più per l’acquisto di nuovi armamenti: 8,27 miliardi complessivi
(record storico) in aumento del 13,8% rispetto all’anno scorso, con un
salto del 73,6% negli ultimi tre anni (+3,512 miliardi rispetto ai 4,767
miliardi del 2019).
Anche per il bilancio previsionale dello Stato per il 2022 continua
la robusta crescita del budget per il Ministero della Difesa e della
spesa militare complessiva. Le discussioni sui fondi in discussione in
Parlamento non intervengono dunque su decisioni di spesa derivanti dal
passato (in particolare dai fondi pluriennali di investimento, destinati in grande misura alla Difesa come evidenziato da Sbilanciamoci lo scorso anno) che mettono a disposizione del comparto militare circa 850 milioni di euro in più.
L’aumento per l’anno 2022 ancora una volta netto e rilevante viene trainato dal bilancio proprio del Ministero della Difesa che sfiora complessivamente i 26 miliardi di euro (25.935 milioni per la precisione) con una crescita di 1.352 milioni di euro
(+5,4% rispetto al 2021). Ancora più del solito si tratta, come già
accennato, di un aumento derivante da decisioni prese in passato: già il bilancio a legislazione vigente prevedeva per il Ministero della Difesa un totale complessivo di 25.904 milioni dunque solamente ritoccato per circa 31 milioni dalle decisioni in discussione in manovra (Sezione I della Legge di Bilancio).
Le voci interne del Bilancio della Difesa vedono aumenti tra i 150 e i 200 milioni di euro per Marina Militare e Carabinieri, una flessione di 90 milioni per l’Aeronautica Militare e una sostanziale conferma del budget per l’Esercito. Ben più robusto l’aumento di stanziamento per i capitoli complessivamente afferenti a Stato Maggiore e Segretariato Generale della Difesa (insieme agli uffici politici e di bilancio): circa un miliardo e duecento milioni di euro in crescita determinati soprattutto, come vedremo, da stanziamenti per il procurement di nuovi sistemi d’armamento.
Come da sempre sottolineiamo, l’importo totale del Bilancio della Difesa è solo il punto di partenza per valutare la spesa militare italiana complessiva,
che deve registrare in più cifre iscritte presso altri ministeri
(principalmente il fondo per le Missioni militari all’estero che viene
istituito presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze e i fondi
che il Ministero per lo Sviluppo Economico mette a disposizione per
acquisizione e sviluppo di sistemi d’arma) e deve invece vedere
sottratta per coerenza di destinazione e tipologia di utilizzo la grande
maggioranza del bilancio dell’Arma dei Carabinieri (per lo specifico
ruolo che gioca tale struttura, in particolare la parte forestale) che
viene considerata solo per la componente legata alle missioni
all’estero. La nuova metodologia dell’Osservatorio Mil€x
sulla spesa militare, aggiornata e migliorata nel 2021, prevede inoltre
altre considerazioni (quota parte costo basi USA, ammortamenti mutui su
spesa armamenti MISE, impatto delle pensioni militari) portando ad una valutazione tendenziale della spesa militare complessiva “diretta” per il 2022 di circa 25,82 miliardi di euro (che diventano 26,49 miliardi con ulteriori costi indiretti). Ciò significa un aumento di 849 milioni rispetto alle medesime valutazioni effettuate sul 2021 con una crescita percentuale del 3,4% rispetto all’anno precedente e di addirittura dell’11,7% sul 2020 e del 19,6% sul 2019.
Il quadro sinottico delle voci principali che compongono la spesa militare previsionale italiana per il 2022 è il seguente:
2022
2021
Aumento %
MINISTERO DELLA DIFESA
Stato Maggiore, Segretariato Generale, BilanDIFE
7.980.894.002 €
6.783.656.906 €
17,65%
Esercito
5.551.699.569 €
5.547.954.688 €
0,07%
Marina Militare
2.241.884.450 €
2.020.782.729 €
10,94%
Aeronautica Militare
2.891.680.221 €
2.978.096.301 €
-2,90%
Carabinieri
543.000.000 €
586.000.000 €
-7,34%
MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO
Capitoli di spesa acquisizione nuovi sistemi d’armamento
2.892.498.073 €
3.258.851.803 €
-11,24%
MINISTERO DELLA DIFESA
Fondo missioni all’estero (solo parte militare)
1.257.750.000 €
1.334.610.000 €
-5,76%
INPS
Quota pensioni militari
2.300.000.000 €
2.300.000.000 €
0,00%
ALTRI FONDI diretti
164.247.720 €
164.247.720 €
0,00%
TOTALI
25.823.654.035 €
24.974.200.147 €
3,40%
Come è evidente dalle voci principali, ancora una volta siamo di fronte ad un aumento
legato in particolare a nuovi investimenti in sistemi d’arma con fondi
che oltretutto vengono sempre più messi direttamente a disposizione
della Difesa, mentre si riduce la quota parte destinata ad investimenti militari sul bilancio del Ministero dello Sviluppo Economico.
Come ogni anno i dati sono raggruppati in macro voci e non forniscono
alcun dettaglio su quali siano i sistemi d’armamento che verranno
acquisiti (come invece viene poi fatto nel Documento Programmatico
Pluriennale del Ministero della Difesa) ma la destinazione è chiara: sui
capitoli specificamente legati all’investimento troviamo poco oltre i
5,39 miliardi di euro (in crescita di ben 1,3 miliardi) allocati nel
Bilancio del Ministero della Difesa e 2,89 miliardi complessivi (- 350
milioni rispetto allo scorso anno) in quello del Ministero per lo
Sviluppo Economico, che comprendono tra gli altri fondi anche
105 milioni per gli interessi sui mutui accesi dallo Stato per conferire
in anticipo alle aziende le cifre stanziate per specifici progetti
d’arma pluriennale. Ciò porta dunque ad un nuovo record di fondi
destinati all’acquisto di nuove armi che arrivano ad un totale di 8,27
miliardi, superiore di un miliardo (+13,8%) alla cifra complessiva del
2021 (che a sua volta costituiva un massimo storico)e con un salto del 73,6% negli ultimi tre anni (+3,512 miliardi rispetto ai 4,767 miliardi del 2019).
Questo ultimo dato è conseguente alla quantità senza precedenti di nuovi programmi di riarmo che il Ministero della Difesa sta sottoponendo al Parlamento a ritmo serrato e che quindi saranno avviati il prossimo anno.
Il trascinamento verso l’alto delle spese militari è dunque
determinato dall’acquisto di nuove armi con un effetto sempre più
marcato dei fondi pluriennali di investimento definiti con tempistica
precedente all’impatto della pandemia (e quindi nemmeno debitori dei
soldi derivanti dal PNRR) ma non toccati in alcun modo dal Governo negli
ultimi due Bilanci dello Stato.
*MIL€Xè l’osservatorio sulle spese militari italiane, fondato nel 2016 su iniziativa di Enrico Piovesana e Francesco Vignarca, con la collaborazione delMovimento Nonviolento, e nell’ambito delle attività della Rete Italiana per il Disarmo poi divenutaRete Italiana Pace e Disarmo.
Anche in seguito al tragico ma non certo inaspettato fallimento della COP26, nei media e nelle istituzioni internazionali si sta ricominciando a parlare di “decrescita”. Il termine continua a sollevare diverse domande sulle prospettive per realizzare questo cambiamento di rotta, ma di certo è esattamente l’opposto della recessione, come si vede nelle sei differenze chiave elencate in questo articolo. La decrescita è una riduzione pianificata della produzione di energia e risorse progettata per riportare l’economia in equilibrio con il mondo vivente in un modo che riduca la disuguaglianza e migliori il benessere umano. È importante chiarire che non riguarda solo la riduzione del PIL, ma quella della quantità di risorse. Da una prospettiva ecologica, questo è ciò che conta. Naturalmente, è importante sapere e accettare che questa riduzione porterà probabilmente a una diminuzione del tasso di crescita del PIL, o anche a un suo declino. Dobbiamo essere pronti a gestire questo risultato in modo sicuro e giusto. Questo è ciò che la decrescita si propone di fare. In questo breve saggio del 2020, Jason Hickel, antropologo e scrittore inglese, ci introduce alle ragioni e a una definizione di decrescita, approfondendo alcuni questioni rilevanti per il contesto di crisi climatica che stiamo attraversando
Immagine tratta da https://www.eldesconcierto.cl/
Introduzione e definizione alla decrescita
La civiltà umana attualmente sta superando una
serie di limiti planetari critici e affronta una crisi multidimensionale
di disgregazione ecologica, che comprende pericolosi cambiamenti
climatici, acidificazione degli oceani, deforestazione e collasso della
biodiversità (Lenton et al., 2020; Rockström et al., 2009; Steffen et
al., 2015; Steffen et al., 2018). Contrariamente alla narrazione
generale sull’Antropocene, questa crisi non è causata dagli esseri umani
in quanto tali, ma da un particolare sistema economico: un
sistema che è predestinato all’espansione perpetua, sproporzionatamente a
beneficio di una piccola minoranza di ricchi (Moore, 2015).
La relazione tra crescita economica e disgregazione ecologica è ormai
ben dimostrata dalla ricerca empirica. Nell’economia mainstream,
l’affermazione dominante è che dobbiamo continuare a perseguire la
crescita perpetua (vedi Hickel, 2018a), e quindi dobbiamo cercare di
disaccoppiare il PIL dagli impatti ecologici e rendere la crescita
“verde”. Sfortunatamente, le speranze di una crescita verde hanno poco fondamento. Non
ci sono prove storiche di disaccoppiamento a lungo termine del PIL
dall’uso delle risorse (come misurato dall’impronta materiale), e tutti i
modelli esistenti prevedono che ciò non possa essere raggiunto nemmeno
in condizioni ottimistiche (Hickel & Kallis, 2020; Vadén, Lähde,
Majava, Järvensivu, Toivanen, & Eronen 2020; Vadén et al. 2020b). Il
disaccoppiamento assoluto del PIL dalle emissioni può essere raggiunto
semplicemente sostituendo i combustibili fossili con l’energia
rinnovabile; ma questo non può essere fatto abbastanza velocemente per
rispettare i bilanci del carbonio per 1,5°C e 2°C se l’economia continua
a crescere ai tassi abituali. Più crescita significa più domanda di
energia, e più domanda di energia rende ancora più difficile coprirla
con le rinnovabili nel breve tempo che ci rimane (Hickel & Kallis,
2020; Raftery et al., 2017; Schroder & Storm, 2020).
Alla luce di queste prove, gli scienziati e gli economisti
ecologici chiedono sempre più un passaggio a strategie di
“post-crescita” e “decrescita”. Il rapporto speciale del 2018
dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) indica che, in
assenza di tecnologie speculative a emissioni negative, l’unico modo
fattibile per rimanere entro il budget di carbonio sicuri è che le
nazioni ad alto reddito rallentino attivamente il ritmo della produzione
e del consumo di materiali (Grubler et al., 2018; IPCC, 2018). La
riduzione del flusso di materiali riduce la domanda di energia, il che
rende più facile realizzare una rapida transizione alle rinnovabili.
Questo approccio è anche ecologicamente coerente: ridurre il flusso di
materiale non solo ci aiuta ad affrontare il cambiamento climatico, ma
rimuove anche la pressione su altri limiti planetari.
Questo è noto come “decrescita”. La decrescita è una
riduzione pianificata della produzione di energia e risorse progettata
per riportare l’economia in equilibrio con il mondo vivente in un modo
che riduca la disuguaglianza e migliori il benessere umano
(Kallis, 2018; Latouche, 2009). È importante chiarire che la decrescita
non riguarda la riduzione del PIL, ma piuttosto la riduzione della
quantità di risorse. Da una prospettiva ecologica, questo è ciò che
conta. Naturalmente, è importante accettare il fatto che questa
riduzione porterà probabilmente a una diminuzione del tasso di crescita
del PIL, o addirittura a un declino del PIL stesso, e dobbiamo essere
pronti a gestire questo risultato in modo sicuro e giusto. Questo è ciò
che la decrescita si propone di fare.
Mentre la teoria della decrescita sta attirando una crescente
attenzione tra gli accademici e i movimenti sociali, per le persone che
si avvicinano per la prima volta all’idea, ciò solleva una serie di
domande. Qui mi propongo di affrontare diverse questioni riguardanti la
terminologia, la recessione economica e l’economia politica
internazionale, nonché il divario Nord-Sud.
Il linguaggio della decrescita
Molte delle obiezioni alla decrescita hanno a che fare con il termine
stesso. Alcune persone si preoccupano che la decrescita introduca
confusione perché non è, di fatto, l’opposto della crescita. Quando la
gente dice “crescita” normalmente intende la crescita del PIL, quindi si
potrebbe ragionevolmente supporre che la decrescita sia allo stesso
modo focalizzata sulla riduzione del PIL. I sostenitori della decrescita
sono quindi condannati a chiarire perennemente che la decrescita non
riguarda la riduzione del PIL, ma piuttosto la riduzione del flusso di
materiale ed energia. Sembrerebbe che questo crei problemi inutili.
Ma, in realtà, il problema qui nasce dalla parola crescita, non dalla
decrescita. In realtà, le persone perseguono la crescita non per
aumentare un numero astratto (il PIL), ma perché vogliono consumare o
fare di più, il che ovviamente richiede l’uso di più materiali ed
energia. Così, quando gli economisti e i politici parlano di crescita,
in realtà intendono un aumento dei materiali e dell’energia (e in
particolare un aumento dei materiali e dell’energia mercificati),
anche se questo non è dichiarato apertamente. La preoccupazione per il
PIL è un feticcio che oscura questo fatto; fa sembrare che la crescita
sia immateriale quando in realtà non lo è. Se la crescita del PIL non
fosse accompagnata da un aumento dei consumi materiali, la gente non la
perseguirebbe (che senso ha avere un reddito più alto se non ti permette
di espandere le spese militari, comprare case più grandi e macchine più
veloci, o pagare persone che facciano cose per te?). In questo senso la
decrescita, con la sua attenzione alla riduzione dell’uso di materiali
ed energia (e alla riduzione dei modelli di mercificazione), è in
effetti un opposto appropriato alla crescita, e chiarisce infatti ciò
che la crescita stessa è in realtà.
Ora, ci si potrebbe chiedere, perché usare il termine
decrescita, quando si potrebbe semplicemente dire “vogliamo ridurre il
consumo di energia e materiali” ed evitare la confusione? Ci sono alcune
ragioni per questo. In primo luogo, la maggior parte degli
economisti sarebbero d’accordo sul fatto che ridurre il consumo di
energia e di materiali è importante, ma presumono che questo possa
essere realizzato continuando a perseguire la crescita economica allo
stesso tempo (anzi, potrebbero anche credere che una maggiore crescita
alla fine porterà a una riduzione del consumo). Abbiamo bisogno di un
modo per distinguere la posizione della decrescita da questa ipotesi
standard di “crescita verde”. Se accettiamo l’evidenza empirica che la
crescita verde è improbabile da raggiungere, allora dobbiamo accettare
che la riduzione della produzione avrà un impatto sul PIL stesso e
dobbiamo concentrarci su come ristrutturare l’economia in modo che
questo possa essere gestito in modo sicuro e giusto. Per questo,
“decrescita” è un termine semplice e comodo che ci permette di chiarire
cosa è in gioco, e concentra la mente su ciò che è necessario.
I sostenitori della decrescita spesso sostengono che la parola decrescita è utile come parola ‘missile’.
Per un numero crescente di persone è ovvio che la crescita perpetua è
un problema; per loro, la decrescita sembra intuitivamente corretta come
risposta alla crisi ecologica, e possono salire a bordo immediatamente.
Altre persone hanno una reazione iniziale negativa alla parola, ma è
comunque utile in questi casi nella misura in cui sfida e sconvolge i
presupposti delle persone su come l’economia dovrebbe funzionare,
mettendo in discussione qualcosa che è generalmente dato per scontato
come naturale e buono. In molti casi, le reazioni iniziali negative
lasciano il posto alla contemplazione (i paesi ad alto reddito hanno
davvero bisogno di più crescita?), poi alla curiosità (forse possiamo
davvero prosperare con meno produzione, e anche meno output?) e poi
all’indagine (quali sono le prove empiriche rilevanti?) che alla fine
porta le persone a cambiare le loro opinioni. Questo tipo di
trasformazione intellettuale è permesso, non inibito, dall’uso di un
termine provocatorio. Cercare di evitare la provocazione, o
cercare di essere agnostici sulla crescita, crea un ambiente in cui gli
assunti problematici rimangono non identificati e non esaminati in
favore di una conversazione educata e dell’accordo. Questo non è un modo efficace per far progredire la conoscenza, specialmente quando la posta in gioco è così alta.
Alcune persone si preoccupano di usare la decrescita perché è
un termine “negativo”, piuttosto che positivo. Ma è negativo solo se
partiamo dal presupposto che più crescita è buona e desiderabile. Se
vogliamo sfidare questo presupposto, e sostenere il contrario (che più
crescita è inutile e dannosa, e che sarebbe meglio se rallentassimo),
allora decrescita è un termine positivo. Prendiamo le parole
colonizzazione e decolonizzazione, per esempio. Sappiamo che coloro che
si impegnarono nella colonizzazione pensavano che fosse una buona cosa.
Dalla loro prospettiva – che è stata la prospettiva dominante in Europa
per la maggior parte degli ultimi 500 anni – la decolonizzazione
sembrerebbe quindi negativa. Ma il punto è proprio quello di sfidare la prospettiva dominante, perché la prospettiva dominante è sbagliata.
Infatti, oggi possiamo essere d’accordo che questa posizione – una
posizione contro la colonizzazione – è corretta e preziosa: siamo contro
la colonizzazione, e crediamo che il mondo sarebbe migliore senza di
essa. Questa non è una visione negativa, ma positiva; una visione
intorno alla quale vale la pena riunirsi. Allo stesso modo, possiamo e
dobbiamo aspirare a un’economia senza crescita così come aspiriamo a un
mondo senza colonizzazione.
Possiamo portare questa osservazione un passo avanti.
È importante riconoscere che la parola ‘crescita’ è diventata una
specie di termine propagandistico. In realtà, ciò che sta accadendo è un
processo di accumulazione da parte delle élite, la mercificazione dei
beni comuni e l’appropriazione del lavoro umano e delle risorse naturali
– un processo che è molto spesso di carattere coloniale. Questo
processo, che è generalmente distruttivo per le comunità umane e per
l’ecologia, viene presentato come crescita. La crescita suona naturale e
positiva (chi potrebbe mai essere contro la crescita?) così le persone
sono facilmente persuase a comprarla e a sostenere politiche che ne
genereranno di più, quando altrimenti non potrebbero. La crescita è
l’ideologia del capitalismo, nel senso gramsciano del termine. È il
principio fondamentale dell’egemonia culturale del capitalismo. La
parola decrescita è potente ed efficace perché identifica questo trucco e
lo rifiuta. La decrescita chiede l’inversione dei processi che
stanno dietro la crescita: chiede la disaccumulazione, la
decommodificazione e la decolonizzazione.
video in inglese - Less is More, Meno è Più
Decrescita vs. Recessione
Un’altra domanda comune sulla decrescita ha a che fare con le
recessioni. Infatti, quando la recessione COVID-19 ha colpito, alcuni
detrattori della decrescita l’hanno indicata come un esempio del perché
la decrescita sarebbe un disastro. Per la maggior parte, questo non è un
argomento in buona fede, ma piuttosto un tentativo intenzionale di
fuorviare, perché è impossibile fare questo errore con una lettura anche
sommaria della letteratura reale sulla decrescita. Infatti, la
decrescita è in tutto e per tutto l’opposto di una recessione. Abbiamo
parole diverse per loro perché sono cose diverse. Ecco sei differenze chiave che vale la pena notare:
La decrescita è una politica pianificata e coerente per
ridurre l’impatto ecologico, ridurre la disuguaglianza e migliorare il
benessere. Le recessioni non sono pianificate e non mirano a nessuno di
questi risultati. Non sono destinate a ridurre l’impatto
ecologico (anche se questo potrebbe in alcuni casi essere un risultato
non voluto), e certamente non sono destinate a ridurre la disuguaglianza
e a migliorare il benessere – anzi, fanno il contrario.
La decrescita ha un approccio discriminante alla riduzione dell’attività economica.
Cerca di ridimensionare la produzione ecologicamente distruttiva e
socialmente meno necessaria (cioè la produzione di SUV, armi, carne di
manzo, trasporto privato, pubblicità e obsolescenza pianificata), mentre
espande settori socialmente importanti come la sanità, l’istruzione,
l’assistenza e la convivialità. Le recessioni, al contrario, non
discriminano così saggiamente. Infatti, molto spesso distruggono settori
socialmente importanti mentre potenziano settori socialmente meno
necessari. Nell’attuale crisi della COVID, per esempio, le scuole, le
strutture ricreative e i trasporti pubblici sono colpiti negativamente,
mentre Amazon si espande e le azioni si riprendono.
La decrescita introduce politiche per prevenire la disoccupazione, e in effetti anche per migliorare l’occupazione,
ad esempio tramite la riduzione della settimana lavorativa,
l’introduzione di garanzie di lavoro con un salario di sussistenza e la
promozione di programmi di riqualificazione per spostare le persone dai
settori in declino. La decrescita è esplicitamente focalizzata sul
mantenimento e sul miglioramento dei mezzi di sussistenza delle persone
nonostante la riduzione dell’attività economica aggregata. Le
recessioni, al contrario, si traducono in disoccupazione di massa e la
gente comune soffre la perdita dei mezzi di sussistenza.
La decrescita cerca di ridurre l’ineguaglianza e di condividere il reddito nazionale e globale in modo più equo,
ad esempio con una tassazione progressiva e politiche di salari minimi.
Le recessioni, al contrario, tendono a peggiorare la disuguaglianza. Di
nuovo, la crisi COVID presenta un esempio di questo, dove i pacchetti
di risposta (QE, salvataggi aziendali, ecc.) hanno reso i ricchi più
ricchi (specificamente i proprietari di beni) e i miliardari hanno
aggiunto miliardi alla loro ricchezza, a differenza di tutti gli altri:
il 50% più povero dell’umanità ha perso 4,4 miliardi di dollari al
giorno (Sumner et al., 2020).
La decrescita cerca di espandere i beni e i servizi pubblici universali, come la salute, l’istruzione, i trasporti e gli alloggi,
al fine di decommodificare i beni fondamentali di cui le persone hanno
bisogno per condurre una vita dignitosa. Le recessioni, al contrario,
generalmente comportano misure di austerità che tagliano la spesa per i
servizi pubblici.
La decrescita è parte di un piano per
realizzare una rapida transizione alle energie rinnovabili, ripristinare
i suoli e la biodiversità, e invertire il declino ecologico.
Durante le recessioni, al contrario, i governi tipicamente abbandonano
questi obiettivi per concentrarsi invece su come far ripartire la
crescita, qualunque sia il costo ecologico.
Abbiamo parole diverse per recessione e decrescita perché sono cose diverse. Le
recessioni avvengono quando le economie dipendenti dalla crescita
smettono di crescere: è un disastro che rovina la vita delle persone ed
esacerba le ingiustizie. La decrescita richiede un diverso tipo di
economia: un’economia che non richiede la crescita come priorità, e che
può fornire giustizia e benessere anche mentre la produzione diminuisce.
La decrescita e il buen vivir
La decrescita e il Sud globale
Alcune persone si preoccupano che i sostenitori della decrescita
vogliano vedere la decrescita applicata universalmente, in tutti i
paesi. Questo sarebbe problematico, perché chiaramente molti paesi
poveri hanno di fatto bisogno di aumentare l’uso di risorse ed energia
per soddisfare i bisogni umani. In realtà, i sostenitori della
decrescita sono chiari sul fatto che sono specificamente i paesi ad alto
reddito che hanno bisogno di decrescere (o, più specificamente, i paesi
che superano con un margine significativo la quota equa pro capite dei
confini del pianeta; vedi Hickel, 2019), non il resto del mondo. Di
nuovo, poiché la decrescita si concentra sulla riduzione
dell’uso di risorse ed energia in eccesso, non si applica alle economie
che non sono caratterizzate da un uso eccessivo di risorse ed energia.
Questo ci porta a un’importante implicazione della politica
di decrescita. La stragrande maggioranza dei problemi ecologici è
guidata da un eccesso di consumo nel Nord globale, e tuttavia ha
conseguenze che danneggiano in modo sproporzionato il Sud.
Possiamo vedere questo sia in termini di emissioni che di estrazione di
materiale: (1) Il Nord è responsabile del 92% delle emissioni globali di
CO2 in eccesso rispetto al limite planetario di sicurezza (Hickel,
2020a), eppure il Sud soffre la maggior parte dei danni legati al
cambiamento climatico (sia in termini di costi monetari che di perdita
di vite umane); (2) I paesi ad alto reddito dipendono da una grande
appropriazione netta di risorse dal resto del mondo (equivalente al 50%
del loro consumo totale). In altre parole, il consumo di risorse nel
Nord ha un impatto ecologico che si registra in gran parte nel Sud
(Dorninger et al., 2020).
In termini sia di emissioni che di uso delle risorse, quindi,
l’eccesso di consumo nel Nord si basa su modelli di colonizzazione:
l’appropriazione della giusta quota di beni comuni atmosferici del Sud, e
il saccheggio degli ecosistemi del Sud. Da questa prospettiva, la
decrescita nel Nord rappresenta un processo di decolonizzazione nel Sud,
nella misura in cui libera le comunità del Sud dalle pressioni della
colonizzazione atmosferica e dell’estrattivismo materiale.
Eppure, alcuni si preoccupano che la decrescita nel Nord possa avere
un impatto negativo sulle economie del Sud. Dopo tutto, molte economie
del Sud globale dipendono pesantemente dalle esportazioni di materie
prime e manufatti leggeri verso il Nord. Se la domanda del Nord
diminuisce, dove prenderanno le loro entrate? Questa potrebbe sembrare
una domanda ragionevole a prima vista, ma poggia su una logica
problematica, vale a dire, che l’eccesso di consumo nel Nord deve
continuare a crescere, anche se causa una rottura ecologica che
danneggia in modo sproporzionato il Sud, perché è necessario per lo
sviluppo del Sud ed è in definitiva per il bene del Sud stesso. Questo
argomento riecheggia la logica del colonialismo, vale a dire che
l’operato che il colonizzatore fa a suo beneficio, come l’estrazione e
lo sfruttamento delle risorse in loco, è in definitiva un bene per il
colonizzato. Per esempio, Nicholas Kristof, in una colonna del
New York Times intitolata “Tre urrà per le fabbriche del sudore” ha
sostenuto che le fabbriche del sudore sono il modo migliore per far
uscire la gente dalla povertà, quindi ne abbiamo bisogno di più: se ci
preoccupiamo dei poveri, non dovremmo boicottare i prodotti delle
fabbriche del sudore ma piuttosto consumarne di più.
La fallacia di questo argomento non dovrebbe aver bisogno di essere sottolineata. Ovviamente,
il modo migliore per ridurre la povertà non è più sfruttamento, ma più
giustizia economica: il Sud dovrebbe ricevere prezzi equi per il lavoro e
le risorse che rende all’economia globale. Nessuno
suggerirebbe mai che un’azienda americana che paga i lavoratori
americani 2 dollari al giorno sia un buon modo per ridurre la povertà in
America; insisteremmo sul fatto che per ridurre la povertà è necessario
pagare un salario adeguato. Ma per qualche ragione questa logica non
viene applicata ai lavoratori del Sud, probabilmente perché ridurrebbe
il tasso di accumulazione del surplus tra le aziende del Nord e i paesi
che dipendono dal lavoro e dalle risorse del Sud. In altre parole, la
giustizia per il Sud (salari equi per il lavoro e prezzi equi per le
risorse) comporterebbe la decrescita nel Nord. Dovremmo abbracciare
questo risultato. Infatti, abbandonare il perseguimento della crescita
nel Nord sarebbe vantaggioso nella misura in cui eliminerebbe la
pressione costante applicata dai governi e dalle imprese del Nord per
deprimere i costi del lavoro e delle risorse nel Sud.
Questo ci porta a un altro punto correlato. La decrescita nel
Nord crea spazio per le economie del Sud per allontanarsi dal loro
ruolo forzato di esportatori di manodopera a basso costo e di materie
prime, e per concentrarsi invece sulle riforme sociali: costruire
economie incentrate sulla sovranità, l’autosufficienza e il benessere
umano. Questo è stato l’approccio perseguito dalla maggior
parte dei governi del Sud globale nei decenni immediatamente
post-coloniali, durante gli anni ’60 e ’70, prima dell’imposizione
dell’aggiustamento strutturale neoliberale dagli anni ’80 in poi
(Hickel, 2018b). L’aggiustamento strutturale ha cercato di smantellare
le riforme sociali in tutto il Sud per creare nuove frontiere per
l’accumulazione del Nord. In uno scenario di decrescita la pressione per
questo “aggiustamento” sarebbe attenuata, e i governi del Sud si
troverebbero più liberi di perseguire un’economia più incentrata
sull’uomo (Hickel, 2020b; Nirmal & Rocheleau, 2019). Anche qui,
diventa chiaro che la decrescita nel Nord rappresenta la
decolonizzazione nel Sud.
Naturalmente, il Sud globale non ha bisogno e non dovrebbe aspettare la decolonizzazione; può liberarsi delle catene da solo. Qui
ho in mente la nozione di “delinking” di Samir Amin: il rifiuto di
sottomettere la politica di sviluppo nazionale agli imperativi del
capitale del Nord. Per esempio, i governi del Sud globale potrebbero
organizzarsi collettivamente per aumentare i prezzi del loro lavoro e
delle loro risorse, e potrebbero mobilitarsi per chiedere termini di
commercio e finanza più equi, e una rappresentanza più democratica nella
governance globale (come hanno fatto con il Nuovo Ordine Economico
Internazionale nei primi anni ’70). Queste idee sono oggi rappresentate
nel discorso del post-sviluppo. Oltre a rifiutare i principi della
globalizzazione neoliberale, il pensiero del post-sviluppo rifiuta anche
la nozione (introdotta dai colonizzatori e dalle istituzioni
finanziarie internazionali) che la crescita del PIL debba essere
perseguita per se stessa, preferendo invece un focus sul benessere umano
(Escobar, 2015; Kothari et al., 2019).
In entrambi i casi, la decolonizzazione nel Sud secondo queste linee causerebbe probabilmente la decrescita nel Nord. Questo
è vero in un senso molto concreto. In questo momento, le nazioni ad
alto reddito mantengono alti livelli di reddito e di consumo attraverso
un continuo processo di appropriazione netta (di terra, lavoro, risorse
ed energia) dal Sud, attraverso uno scambio ineguale: in altre parole,
cercano di deprimere i prezzi del lavoro e delle risorse al di sotto del
prezzo medio globale (Dorninger et al., 2020). Questa è una
continuazione dei principi di base del rapporto coloniale, anche se
(nella maggior parte dei casi) senza l’occupazione. Porre fine a questa
relazione di sfruttamento significherebbe porre fine al modello di
appropriazione netta o porre fine allo scambio ineguale, entrambi i
quali risulterebbero probabilmente in una riduzione del tasso di
accumulazione del surplus da parte delle élite economiche, e in una
riduzione della crescita guidata da questa accumulazione nel Nord, ma a
beneficio delle comunità e delle ecologie nel Sud globale.
*****
Testo originale: Jason Hickel (2020): What does degrowth mean? A few points of clarification, Globalizations, DOI: 10.1080/14747731.2020.1812222. Traduzione di Mario Sassi e Olga Abbiani.
Suor Alessandra Smerilli, F.M.A. (Vasto, 14 novembre 1974), è
un'economista, accademica e religiosa italiana, docente di economia
politica e statistica presso la Pontificia facoltà di scienze
dell'educazione Auxilium.
Negli Stati Uniti la chiamano già “The great resignation”: tra luglio e
agosto otto milioni di persone hanno abbandonato il posto di lavoro,
almeno un quarto di loro non aveva alternative occupazionali. Anche in
Germania e nel Regno Unito ci sono cifre da record.
La costruzione di alloggi è scesa al minimo non solo a causa
dell’aumento dei prezzi dei materiali e dei ritardi nella consegna, ma
anche per la mancanza di manodopera. Nel Regno Unito ci sono quasi un milione di posti di lavoro vacanti. Secondo il Financial Times, in Europa c’è bisogno di 400.000 camionisti per regolarizzare il trasporto merci. Il premio Nobel per l’economia Paul Krugman pensa che durante la pandemia i lavoratori abbiano imparato molte cose. Lo scompiglio creato dalla pandemia è stato un’esperienza in cuimolti si sono resi conto, durante i mesi di inattività forzata, di quanto odiassero il lavoro che svolgevano. È
dai tempi delle grandi lotte del movimento operaio e sindacale degli
anni Sessanta che non si assisteva più a un abbandono così massiccio dei
posti di lavoro. Ora si tratta di un movimento di base, senza qualcuno
che lo diriga, ma potente nel senso che molti lavoratori rifiutano la
schiavitù salariata, come Lenin definiva l’occupazione. È vero che,
dopo quel momento luminoso per i lavoratori, il capitalismo è stato in
grado di ricomporre il dominio su nuove basi, come il toyotismo e
l’automazione del lavoro in fabbrica, ma anche espellendo intere nidiate
di giovani dal mercato del lavoro. Le nuove tecnologie messe al
servizio dell’accumulazione del capitale hanno reso precario il lavoro e
causato un calo dei salari, condizioni contro le quali milioni di
persone si stanno ora ribellando.
Foto Pixabay
Penso che ci siano alcune cose da imparare da questo movimento.
Innanzitutto dobbiamo ricordare, in linea con Silvia Federici e altri,
che il lavoro salariato non è la via dell’emancipazione, come
erroneamente abbiamo ritenuto per molto tempo, in particolare quelli di
noi che provengono dal campo marxista.Possiamo contare
su un numero sempre maggiore di realtà imprenditoriali che sono in
grado di creare posti di lavoro al di fuori del mercato capitalista, con
piccole iniziative sia nel campo della produzione che in quello dei
servizi.
Centinaia di migliaia di persone svolgono lavori creati da collettivi
autogestiti, dove controllano i loro tempi e i loro modi di fare, senza
capisquadra o padroni, sulla base dell’aiuto reciproco, della
collaborazione e dello spirito di comunità. Si dirà che sono pochi e
marginali, se si guarda alla grande produzione capitalista, ma si
dimentica che i movimenti anti-sistemici nascono sempre ai margini, mai
al centro.
foto tratta da https://www.fao.org
In secondo luogo dobbiamo cogliere l’importanza strategica di
questa forma di lavoro, quando è collettiva. Gli indigeni, molti
contadini e molti abitanti delle periferie urbane, ad esempio, svolgono
lavori non salariati con i quali riescono a vivere dignitosamente. C’è
una qualche relazione tra la notevole capacità di resistenza, di lotta e
di trasformazione dei popoli indigeni e il fatto che lavorano
comunitariamente? In Brasile, ad esempio, questi popoli rappresentano
l’1 per cento della popolazione totale, ma sono il principale attore
collettivo contro il cambiamento climatico e per la conservazione della
vita, nonché un soggetto collettivo in grado di sfidare il sistema con
una tale forza che le classi dominanti lo considerano un nemico da
sconfiggere.
Ventisette milioni di persone sono vittime di sfruttamento selvaggio nelle maquiladoras. Foto tratta da La Marea
Il terzo insegnamento, in questa lista, riguarda la scala, come
ci insegna Fernand Braudel. Il capitalismo è figlio della grande scala;
ha potuto spalancare le ali solo con la conquista dell’America che ha
spalancato le porte del mercato globale. Il capitalismo può essere
arginato e tenuto a freno soltanto su piccola scala, quella della
comunità, del villaggio. La fabbrica, con migliaia di
lavoratori, e la campagna, con migliaia di ettari di monocolture, devono
essere gestite da specialisti, poiché le comunità non possono
controllare la massa. Questi personaggi, una volta arrivati al potere
statale, saranno i nuovi borghesi. In ogni caso, sono un ostacolo ai
cambiamenti, come dimostrano le lotte del ventesimo secolo.
Questa è una svolta della storia. Di fronte alle nebbie
che ci circondano nella tempesta, solo l’etica e una lettura accurata
della storia e del presente possono illuminare il cammino dei popoli.
In
occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della
violenza contro le donne del 25 novembre 2021, l'associazione Presenza
Donna propone un doppio appuntamento - nel
segno dell'arte e della preghiera - per dare voce alla consapevolezza
di questa piaga che tocca le vite di tante donne maltrattate e tanti
uomini maltrattanti.
Giovedì 25 novembre, dalle 19.00 alle 19.30 presso la Chiesa di San Lorenzo a Vicenza, vivremo insieme un breve, intenso
momento di preghiera per l'eliminazione della violenza contro le donne. Parola di Dio e parola di uomini e donne, canti e gesti per dire insieme
"Mai più".
Domenica 21 novembre, invece, alle 17.00 presso la sede di Presenza Donna in contrà S. Francesco Vecchio 20 a Vicenza,
sarà inaugurata "Un gioco che non sono io", mostra dell'illustratrice vicentina Alice Walczer Baldinazzo. "Un gioco che non sono io" è il titolo di
una silloge poetica contro la violenza di genere, scritta da Elisa
Cordovani con le illustrazioni di Alice Walczer Baldinazzo. Una presa di
posizione per ricordarci quanto siamo fragili,
vittime o carnefici dei nostri chiaroscuri e di quelli degli altri. Un
invito a comprendere di quale "gioco", psicologico e fisico, siamo
succubi, e a tirarcene fuori. A dire
no, scegliendo l'amore per se stessi e per gli altri.
All'inaugurazione
della mostra interverranno le due autrici in un dialogo condotto da
Carlo Trentin, e con l'accompagnamento musicale di Thomas Sturaro.
La mostra sarà
visitabile dal 21 al 28 novembre, con i seguenti
orari: tutti i giorni 10-12; il 23, 24 e 27 novembre: 10-12 e 17-19; il 28 novembre: 10-12 e 15-18.
Gli eventi sono ad ingresso libero ed è richiesto il Green pass. Per l'inaugurazione della mostra è obbligatoria la
prenotazione scrivendo una mail a info@presdonna.it o un messaggio Whatsapp al 371 49993198. L'iniziativa è realizzata da Presenza donna
in collaborazione con Centro Culturale San Paolo, Voce dei Berici,
Servizio diocesano di pastorale giovanile, e con il sostegno del
progetto 8xMille della chiesa cattolica.
Intervista a Ed Hawkins.Lo scienziato dell’Ipcc e autore delle «warming stripes», spiega perché il bivio a cui si trova oggi il pianeta è inaggirabile: «La scienza ormai è chiara. Finora la Terra si è scaldata di 1,1 gradi. Per provare a stare sotto l’1,5 bisogna dimezzare entro il 2030 le emissioni di CO2 e arrivare allo "zero netto" nel 2050. Troppe promesse alla Cop26 - avverte - Servono impegni concreti e puntuali in ogni paese, altrimenti supereremo la soglia di intervento»
La celebre visualizzazione in «warming stripes» del riscaldamento del pianeta
C’è un grafico che mostra l’aumento della temperatura con i colori. Sono le «warming stripes», strisce verticali colorate e ordinate cronologicamente, che dal blu per la temperatura più fredda al rosso per quella più calda, rappresentano l’aumento della temperatura media globale dal 1850 a oggi. È forse il modo più immediato di comprendere il riscaldamento globale dell’ultimo secolo, ed è un’idea del climatologo inglese Ed Hawkins, autore dell’ultimo rapporto Ipcc. In questa intervista ci spiega lo stato del clima e gli ostacoli maggiori all’azione politica necessaria per evitare le conseguenze più devastanti della crisi climatica.
Professor Hawkins, può spiegare il legame tra gli eventi meteorologici estremi e il cambiamento climatico?
Dall’ultimo rapporto Ippc è chiaro che le attività umane – principalmente la combustione di combustibili fossili – finora hanno riscaldato il pianeta di circa 1,1 gradi. Una delle conseguenze di questo riscaldamento è che ha reso gli eventi estremi, come le ondate di calore e le forti piogge, più intensi e più frequenti. Quindi stiamo già sentendo gli effetti del riscaldamento del mondo sugli eventi meteorologici estremi.
Avrà sentito del medicane che ha colpito l’Italia meridionale. Considera i medicane e altri eventi meteo estremi una manifestazione fisica del cambiamento climatico?
Abbiamo sempre avuto fenomeni estremi. Ora però quando abbiamo un’ondata di calore è più calda di quanto sarebbe stata senza il cambiamento climatico, quando abbiamo forti precipitazioni, cade più pioggia. E così l’impatto e il rischio di inondazioni è maggiore quando un ciclone tropicale o un medicane colpisce la terraferma, perché il livello del mare è più alto. Quindi il cambiamento climatico sta aumentando gli impatti e gli effetti degli eventi meteorologici.
Può parlare delprogetto «warming stripes»e del relativo hashtag #ShowYourStripes? Come è nato, cos’è e come ha cambiato la visualizzazione dei dati per il pubblico?
È iniziato circa tre anni fa, per un festival di letteratura a Hay, nel Regno Unito. Stavo cercando un modo per dimostrare gli effetti del mondo che si sta scaldando a un pubblico non abituato a vedere grafici scientifici. Così ho usato una serie di strisce colorate per rappresentare i cambiamenti di temperatura nella stessa città di Hay, usando una striscia all’anno e i colori che rappresentano la temperatura in quel particolare anno. Si possono vedere i colori cambiare da blu a rosso negli ultimi 130 anni circa.
Ho visto le persone capire immediatamente ciò che stavo condividendo e ho pensato che le strisce possono comunicare il riscaldamento nel modo più semplice e chiaro possibile anche a un pubblico ampio. Il progetto ShowYourStripes mostra le variazioni di temperatura per ogni stato e anche per le città. È importante capire che il riscaldamento globale non è un concetto astratto, ma ci sta influenzando tutti, qui e ora.
LE «WARMING STRIPES» DELL’ITALIA
Si può notare facilmente il riscaldamento del nostro paese iniziato dagli anni’80 ed esploso in modo crescente dal 2000 a oggi (sulla destra delle immagini)
È d’accordo con chi dice che gli ostacoli alle soluzioni della crisi climatica non riguardano la scienza? Da decenni ormai ci sono certezze sulle cause e su alcuni effetti di questo fenomeno, e le proiezioni degli scienziati sono sempre più accurate.
Sì, lo sappiamo da molto tempo. Abbiamo osservato per la prima volta che il mondo si stava riscaldando e che questo era legato all’aumento osservato dell’anidride carbonica fin dal 1938.
L’Ipcc ha concluso nel 1995 che c’era un effetto percepibile dell’attività umana sulle temperature. E abbiamo capito che i gas serra riscaldavano il pianeta già negli anni 1850, 1860. Quindi non è una novità.
Come scienziati del clima non sappiamo tutto sul clima, ma ne sappiamo abbastanza per informare la politica delle conseguenze molto gravi se le temperature continuano a salire. I politici hanno tutte le informazioni necessarie per prendere decisioni.
Quindi quali pensa che siano i principali ostacoli all’azione climatica oggi?
Ci sono molti fattori. Non possiamo spegnere ogni centrale a carbone o a gas da un giorno all’altro. Ci vuole tempo. Ma ovviamente più velocemente lo facciamo, meno gravi saranno le conseguenze.
Non è semplice trovare un punto d’incontro, ogni nazione ha economie e priorità diverse. Poi ci sono interessi da parte di alcuni paesi e compagnie che sono molto dipendenti dai combustibili fossili e che non vogliono fare questa transizione. E hanno negato e prodotto disinformazione per decenni, rallentando ogni azione.
C’è un processo dall’alto da parte dei governi ma abbiamo anche bisogno di un processo dal basso per motivare i politici e i governi, e prendere le decisioni più velocemente.
Qui ShowYourStripes può entrare in gioco, può iniziare queste conversazioni a livello locale raggiungendo diversi tipi di pubblico e permettendo un modo molto semplice di comunicare.
Inondazioni a Sydney, in Australia, nel marzo 2021 – foto Ap
Recentemente lei ha scritto: «Siamo a un bivio». E lo ha dimostrato anche attraverso la visualizzazione dei dati con le strisce. Che cosa intende?
Dobbiamo fare delle scelte. Siccome siamo noi a causare i cambiamenti climatici, le nostre azioni possono fare la differenza in ciò che accadrà dopo. Quindi sì, siamo a un bivio. Possiamo scegliere di percorrere la strada della riduzione immediata e su larga scala delle nostre emissioni, arrivare più rapidamente allo «zero netto» e finire in un mondo in cui le conseguenze sono minori.
Oppure possiamo scegliere di fare alcuni piccoli cambiamenti che richiedono più tempo e finire in un mondo più caldo. Oppure possiamo girarci dall’altra parte e continuare a bruciare combustibili fossili.
Gli scienziati hanno fornito informazioni sulle conseguenze di tutte queste diverse scelte e le hanno presentate al pubblico e ai politici. Ora decidere quale strada prendere è una scelta collettiva.
Come sta andando la Cop? Cosa pensa dei risultati finora?
Penso che si stiano dando molte informazioni su promesse e impegni. Ma ciò di cui abbiamo bisogno sono politiche concrete e piani attuati in ogni paese per ridurre le emissioni. Le promesse sono già state fatte e non mantenute. Per esempio quelle sulla deforestazione. Poi le nazioni ricche hanno promesso di stanziare 100 miliardi di dollari in finanziamenti per il clima, e abbiamo tradito anche quella promessa.
C’è una mancanza di fiducia, credo, e abbiamo bisogno di ristabilire quella fiducia dimostrando che faremo ciò che diciamo. Più velocemente vedremo queste azioni implementate, più crescerà la fiducia e più diminuiranno le conseguenze climatiche negative.
Quali sarebbero, dal punto di vista scientifico, le cose principali su cui i governi devono accordarsi e agire il prima possibile?
La scienza è molto chiara. Se i politici vogliono limitare l’aumento della temperatura globale a meno di due gradi, o 1,5 gradi, allora dobbiamo più o meno dimezzare le emissioni entro il 2030 e raggiungere lo «zero netto» intorno al 2050.
Serve un’azione molto rapida nel prossimo decennio per iniziare a diminuire le emissioni, perché se continuiamo a emettere avremo superato i limiti del budget di carbonio. E andremmo oltre quelle soglie. Quindi dobbiamo iniziare subito e poi continuare in maniera costante.
Questo perché le emissioni sono cumulative. Può spiegare cosa significa?
Sì, le emissioni di anidride carbonica sono cumulative. Quello che pompiamo nell’atmosfera rimarrà lì per secoli. Altri gas serra sono un po’ diversi. Il metano, per esempio, ha una vita molto più breve. E così, riducendo le emissioni di metano, ne ridurremmo effettivamente la concentrazione nell’atmosfera.
Ma per l’anidride carbonica ogni quantità che aggiungiamo rimarrà «lassù». E così la concentrazione continuerà a salire fino al punto in cui non ne emetteremo più. Quindi, il riscaldamento dovuto alle nostre emissioni di anidride carbonica è permanente, a meno che non possiamo estrarla di nuovo dall’atmosfera.
Quindi il tempo è davvero molto importante.
Moltissimo. Ridurre le emissioni rapidamente chiude o rallenta «il rubinetto» dell’anidride carbonica nell’atmosfera.
Come si possono superare i problemi di comunicazione scientifica al pubblico?
Penso che sia utile il processo dell’Ipcc perché riunisce autori da tutto il mondo. Passiamo anni a setacciare le prove e a riunirci per scrivere conclusioni di consenso che vengono riviste da migliaia di altri scienziati in modo aperto. Lo ritengo un processo molto utile per costruire la fiducia.
Poi penso che parlare della storia della scienza aiuti. Ci sono famosi scienziati del passato, come Fourier, Foote, Tyndall, Arrhenius, Callendar e tanti altri che hanno lavorato su questi problemi ben prima di qualsiasi grande movimento ambientalista.
E infine c’è una scienza fondamentale di base, penso che siano tutti aspetti molto utili da sottolineare quando parliamo al pubblico.