Il ritmo di distruzione del pianeta con cui viviamo non conosce rallentamento. La distruzione avviene passo dopo passo, ora dopo ora, metro quadro per metro quadro, e anche quando sarebbe possibile contrastarla questa, si devono fare i conti con alterazioni climatiche che riducono ulteriormente le possibilità di invertire la rotta in tempo utile. La filosofa francese Corine Pelluchon dice che i limiti tra Natura e Cultura sono stati superati, e che abbiamo invaso gli spazi della vita selvatica oltre l’immaginabile. Questa interpenetrazione non porterà che nuove malattie o epidemie come quella che stiamo vivendo ora. Pelluchon chiama a un nuovo illuminismo, che definisce ‘nuovo convivialismo’. Dovrebbe permetterci una nuova era di co-abitazione tra pari in modo democratico, basata sulla tutela del pianeta quale pre-condizione della vita insieme. Quanto tempo abbiamo però per questo ‘renouveau culturel’, per invertire la rotta? Altro che ‘Ripartenza’… Può forse il capitano di una nave che ha ormeggiato in una baia di rifugio, dopo una tempesta improvvisa, riaccendere i motori e riprendere il largo se non sa verso dove dirigersi? Quello che dovremmo fare è molto semplice: ritirarci fisicamente, indietreggiare la linea dei nostri eserciti avidi di risorse e lasciare che la Natura riprenda terreno
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Le notizie che giungono sono a dir poco allarmanti, o meglio deprimenti, perché non si nota inversione di tendenza. Il ritmo di distruzione del mondo in cui viviamo non conosce rallentamento.
L’unico momento in cui abbiamo sperato in una inversione di tendenza è stato con l’arrivo del Coronavirus. Ci ha costretti a stare fermi, a non esagerare, a risparmiare, a osservare, e per la prima volta dall’inizio della rivoluzione industriale, le emissioni annuali di CO2 sono diminuite, invece di aumentare, si è visto il cielo sopra Pechino e New Delhi, e ricci e volpi hanno attraversato strade e ferrovie senza essere schiacciati da un’auto in corsa.
Una gravidanza dura dieci mesi lunari prima che un essere umano possa vedere la luce, ma bastano pochi secondi per soffocare la vita dello stesso. La cattedrale gotica di Reims venne costruita in sessantaquattro anni (1211-75), ma bastarono pochi bombardamenti durante il primo conflitto mondiale per sventrarla. Un albero come la quercia, per raggiungere la propria maestosità, ha bisogno di crescere almeno un secolo; bastano però poche ore di lavoro per segarlo alla base.
La natura vivente costruisce sistemi complessi e dinamici, sistemi che trasformano il tempo in organizzazione, che scambiano energia, materia ed informazione, e generano ordine e armonia.
Vi è un principio in natura che è l’entropia, che si rifà al ciclo dell’energia, e che misura il passaggio dallo stato di ordine a quello di disordine, ovvero di trasformazione irreversibile, di dissipazione irreversibile dell’energia in calore. Secondo alcuni fisici, come l’universo ha avuto inizio con un big bang, così è destinato a “morire” dissipando la propria energia in calore. Ebbene, che cosa fa la Natura?
La vita sul pianeta si basa su un continuo processo di rigenerazione dove l’energia viene assorbita e rivalorizzata, pensiamo alla fotosintesi, per renderla sorgente di vita.
Il tempo, in fondo, è una misura del passaggio tra ordine e disordine, dell’avanzamento del processo di dissipazione e di degrado, e la Natura vivente contrasta questo processo, ne rallenta i ritmi, producendo ecosistemi complessi, auto-organizzati, generando un effetto neg-entropico.
Lo stesso sequestro e immagazzinamento dei combustibili fossili quale prodotto della decomposizione di materia organica nel sottosuolo o sul fondo del mare da parte del pianeta ha rappresentato la soluzione che ha permesso di ridurre la CO2 atmosferica, e mantenere la composizione dell’atmosfera compatibile con la vita organica[1]. Il padre di questa lettura ecologica dei principi della termodinamica è stato Ilya Prigogine, seguito da Francisco Varela[2].
Che cosa fa invece l’Uomo? Distruggendo gli ecosistemi e rilasciando sostanze inquinanti nell’ambiente è diventato un produttore netto di entropia a scala planetaria al pari di un cataclisma.
Quando una catastrofe naturale o quando la pressione antropica accelerano i tempi del degrado, la Natura fatica a ritrovare la sua funzione di riorganizzazione e di assorbimento dell’entropia, e il tempo scorre dunque implacabile.
È incredibile come questo principio della distruzione abbia un corrispettivo anche nella storia della civiltà. In fondo, la quercia e la cattedrale di Reims o la vita di una persona sono l’espressione della stessa cosa: di quanto tempo sia richiesto per raggiungere la maturità, la bellezza, la complessità, che stanno insieme. E di come basti poco per distruggere tutto questo.
Questo senso della distruzione è qualcosa difficile da misurare, da catalogare e ancor di più da spiegare. Un pilota che sgancia bombe su un quartiere sa che sta distruggendo la vita e quel complesso reticolato di relazioni umane e spazi sociali che producono bellezza, eppure lo fa.
Un taglialegna che abbatte una foresta secolare ai Tropici sa che sta distruggendo un tesoro di diversità biologica e deturpando i caratteri distintivi della meraviglia che genera, eppure lo fa. Perché? È questo un mistero forse irrisolvibile.
Con l’arrivo dell’emergenza climatica, tutto sembra assumere una finalità ineluttabile, un corso definitivo, superiore alle nostre volontà, legato a un destino trascendente, dove la vita perde pezzi giorno dopo giorno.
Quanto sta avvenendo non è comparabile agli effetti della collisione con un meteorite o di uno sconvolgimento tellurico di grandi proporzioni. La distruzione avviene infatti passo dopo passo, ora dopo ora, metro quadro per metro quadro, e anche quando sarebbe possibile contrastare questa distruzione, si devono fare i conti con alterazioni climatiche che riducono ulteriormente le possibilità di invertire la rotta in tempo utile.
Ecco che la distruzione si manifesta nella scomparsa di specie animali e vegetali, ma anche di culture legate ad esse, e con esse dei saperi e delle arti che tali culture hanno elaborato.
Pensiamo ai nostri fiumi e laghi, alle civiltà legate ad essi, in quanto tutte le grandi antiche culture sono nate lungo dei fiumi, e le città sono state costruite attorno a corsi o sorgenti di acqua dolce.
Anche questo fa parte dei misteri della vita, perché gli ecosistemi di acqua dolce non rappresentano che lo 0,01% della superficie acquea della Terra. Pensiamo a quanto la vita sia legata a qualcosa di infinitamente raro e prezioso! E per avere un’idea della ricchezza biologica di quegli spazi così ridotti, pensiamo che il 51% di tutte le specie di pesci vive in acque dolci.
Tutto questo potrebbe far parte di una bella favola, ma la realtà si sta dimostrando più crudele di qualsiasi racconto, e il segnale di tale crudeltà sta nella scomparsa fisica di questo capitale di ricchezza.
Oggi, ben ottanta specie di pesci di acqua dolce sono già state dichiarate estinte dall’IUCN (International Union for Conservation of Nature) e altre dieci sopravvivono solo in cattività.
Nel 2020, solamente nelle Filippine sono state dichiarate estinte quindici specie di pesci di acqua dolce. Anche paesi avanzati come gli Stati uniti, la Svizzera o Israele registrano estinzioni. In Israele, uno di questi, la Tristamella sacra, era un piccolo pesce della famiglia dei Ciclidi legato ad un luogo che mi è particolarmente caro, il lago di Tiberiade, il luogo della moltiplicazione dei pani e dei pesci da parte di Cristo, ma anche del suo discorso delle Beatitudini[3], una dei massimi momenti di poesia della storia dell’Umanità.
Questo pesce è scomparso con la scomparsa dei margini acquitrinosi dove si riproduceva, dovuta ai massicci prelievi idrici. Ricordo di aver assistito al più rosso dei tramonti che i miei occhi abbiano mai visto, seduto proprio su una rocca della costa nord-orientale di quel lago, quella stessa rocca da dove secondo i Vangeli si buttarono nel lago i porci in cui si erano rifugiati gli spiriti immondi cacciati dal corpo di un indemoniato da Cristo[4].
Dunque, anche i luoghi più sacri non vengono risparmiati dallo spettro dell’estinzione. Forse, quei pesci moltiplicati dal Figlio di Dio erano proprio delle Tristamella Sacra, e la loro scomparsa un ‘segno dei tempi nuovi’. Nuovi e spaventosi.
Per restare nel mondo dei pesci di acqua dolce, un terzo di loro sono a rischio di estinzione. Anche la banale anguilla, che risale i fiumi per raggiungere la maturità e poi cerca il mar dei Sargassi per deporre le uova, è sulla via del declino irreversibile.
Tra il 1980 ed il 2000, vi è stato un calo del reclutamento delle ceche[5] nei fiumi compreso tra il 95 ed il 99% rispetto alla situazione precedente al 1980. L’inquinamento dei fiumi, le barriere (dighe, centrali idroelettriche, ecc.) che impediscono la risalita, e la pesca per l’esportazione o l’allevamento intensivo hanno segnato il loro destino. Ricordo quelle notti passate sul molo del porto sul lago di Garda, con la canna immobile protesa verso l’acqua ed un campanello sulla sua punta, sperando che abboccasse.
E quella volta che abboccò, la mia prima anguilla, ma inesperto me la feci sfuggire tra le mani perché non sapevo quanto fosse straordinariamente scivolosa. Se Anguilla anguilla si riprenderà, non lo sa nessuno, neppure i vecchi pescatori del lago.
È il suo destino di pesce migratore, incapace di restare nello stesso luogo, in un’epoca di nuove frontiere e fili spinati, ad averla condannata a morire. Raggiungerà le acque dolci o salmastre europee solo dopo tre anni di peripezie, alla pari di molti profughi afghani o subsahariani. E come per loro, stiamo forse assistendo anche alle ultime stagioni migratorie per questo animale.
La filosofa francese Corine Pelluchon dice che i limiti tra Natura e Cultura sono stati superati, e che abbiamo invaso gli spazi della vita selvatica oltre l’immaginabile, e questa interpenetrazione non porterà che nuove malattie o epidemie come quella che stiamo vivendo ora.
Il tessuto della vita è fatto di lotte, pericoli, ristrettezze e strategie di sopravvivenza, e il superamento dei limiti espone a tali rischi non solo gli animali, ma anche l’Homo sapiens sapiens.
La filosofa chiama a un nuovo illuminismo, che definisce il ‘nuovo convivialismo’ , che ci permetta di superare questa crisi per una nuova era di co-abitazione tra pari in modo democratico, che si basi sulla tutela del pianeta quale pre-condizione della vita insieme.
Quanto tempo abbiamo però per questo ‘renouveau culturel’? Abbiamo aspettato un secolo e mezzo perché i principi della ‘Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino’ del 1789 fossero riconosciuti dalla comunità delle nazioni nella sua carta fondamentale. Ora, non abbiamo tutti questi decenni per invertire la rotta.
Altro che ‘Ripartenza’… Può forse il capitano di una nave che ha ormeggiato in una baia di rifugio, dopo una tempesta improvvisa, riaccendere i motori e riprendere il largo se non sa verso dove dirigersi?
Avremmo bisogno di un brutale arresto di tutte le azioni distruttive, entropiche, dalle grandi dighe ai pozzi di estrazione petrolifera, dalla moltiplicazione del traffico motorizzato alle nuove città, dalla zootecnia industriale al taglio delle foreste.
Area in Amazon Forest deforested for cattle and remaining forest. |
Chi ha il coraggio di dire: “Stop!”? Chi? Nemmeno il neo-ministro italiano della Transizione ecologica è stato capace di questo, e uno dei suoi primi atti è stato di dare il via libera a undici autorizzazioni all’apertura di nuovi pozzi per idrocarburi per terra e per mare.
A chi interessa se abbiamo perso per sempre un centinaio di specie di pesce, e con essi bellezza, diversità genetica e risorse ittiche? Se non mangeremo più il Capitone che ha sempre dato sapore alle nostre Vigilie natalizie? Se non potremo più bagnarci nei nostri fiumi, laddove le nostre nonne avevano strofinato i panni?
Estinzione, è per sempre, e con essa scompaiono i nostri ricordi, le nostre storie, le radici della nostra cultura, dai cibi che consumiamo, al modo in cui abitiamo, alle poesie che recitiamo. Quello che dovremmo fare è molto semplice: ritirarci fisicamente, indietreggiare la linea dei nostri eserciti avidi di risorse e lasciare che la Natura riprenda terreno.
Come ha proposto il biologo E.O. Wilson, secondo il quale l’Umanità dovrebbe cedere il 50% degli spazi alla Natura, in un accordo di pace di portata storica, un vero e proprio trattato che comporti il ritorno di praterie, lagune, coste e foreste alla Natura in cambio della sopravvivenza delle civiltà per come le abbiamo conosciute finora.
Forse, ci dovremo affidare a degli sconosciuti eroi, persone di frontiera, entità visionarie, personaggi originali, che non riescono ad accettare di sottostare a questa accelerazione irreversibile verso l’entropia.
Questi personaggi esistono, ma quanti siano non lo sappiamo con esattezza. Di quanti Noé abbiamo bisogno per evitare l’estinzione di massa delle specie viventi sul pianeta? Di quante arche? Vorrei qui raccontarvi di almeno due di loro.
Uno di loro si chiama laboratorio Avantea, e sta a Cremona. È lì che nel dicembre dell’anno scorso vennero trasferiti 14 ovociti appena prelevati dall’ultimo esemplare femmina vivente di rinoceronte bianco settentrionale.
In quel laboratorio, sono stati portati a maturità e fecondati con lo sperma congelato dell’ultimo maschio, deceduto nel 1980. Questi embrioni, ora conservati a basse temperature, verranno presto impiantati nell’utero di una femmina di rinoceronte bianco meridionale, un’altra sottospecie, sperando che possa partorire dei cuccioli.
Se l’impresa riuscirà, il rinoceronte bianco settentrionale sarà geneticamente salvo, anche se i cuccioli non avranno genitori da cui imparare come si vive nella savana e come si bruca bene l’erba. La ‘conoscenza sociale’ della specie è già andata perduta, ma la specie forse no.
Un altro è un cuoco di Cadice, Ángel Léon, che sta sperimentando la commestibilità dei semi di una pianta marina, la Zostera marina. Questa pianta, che nel Mediterraneo è presente solo in alcune zone circoscritte, produce dei semi alla sua base che hanno un potere nutritivo altamente superiore a quello del riso, e che, se coltivata, permetterebbe di offrire un prodotto proteico straordinario per l’alimentazione umana senza dover ricorrere al disboscamento, né ai pesticidi, né all’irrigazione, e che ricostituirebbe praterie sommerse che rappresentano l’habitat di molte specie dei bassi fondali. Inoltre, tali praterie marine hanno una capacità di cattura del CO2 trentacinque volte più veloce di quella delle foreste tropicali. L’idea venne al cuoco leggendo di una popolazione indigena del Messico, i Seri, che utilizzavano grani di una pianta marina nella loro alimentazione. È un cerchio magico che potrebbe chiudersi, nel quale gli indigeni e la loro sapienza antica salvano la civiltà moderna dall’autodistruzione.
Cuoco di Cadice, Ángel Léon |
Non so se queste buone notizie basteranno a risollevarci il morale, e anche i faits divers, a un certo punto, perdono il loro potere su di noi. La capacità di rettificazione nell’Umanità esiste, e si manifesta in mille buoni esempi, ma non è sufficientemente veloce, non quanto il corrente ritmo di estinzione e distruzione degli ecosistemi.
Potremmo dire: è colpa del Capitalismo, questa selvaggia ideologia del profitto ad ogni costo, del primato dei beni materiali e dei capitali in valuta sulle condizioni di sopravvivenza di uomini ed esseri viventi, e di giustizia sociale.
Questo, però, non è sufficiente. Ogni nostra scelta incide sugli equilibri del sistema, e la somma delle nostre scelte incide sulle politiche dei nostri governi.
Saranno i nostri debiti o crediti verso il pianeta – come consumatori, imprenditori, educatori o politici – a fare la differenza, e per questi si misurerà la nostra responsabilità. Se ce ne sarà il tempo.
Tunisi, 13 aprile 2021.
[1] Il ciclo del carbonio è stato studiato e spiegato in termini moderni da Laura Conti fin dagli anni ’70.
[2] Vi consiglio di leggere La fine delle certezze, di Prigogine, e Autopoiesi e cognizione, di Varela.
[3] Vangelo secondo Matteo, 5, 1-12.
[4] Episodio raccontato nei vangeli di Marco, Luca e Matteo.
[5] Le ceche sono le anguille di piccole dimensioni (60–90 mm), che risalgono, colonizzano le acque interne, dove raggiungeranno lo stadio maturo.