sabato 22 febbraio 2020

Un pensiero fertile

un articolo del giugno 2019, dalla pagina https://comune-info.net/un-pensiero-fertile/

Gabriella Falcicchio

Gandhi, Rosa Parks, Tonino Bello, Aldo Capitini, Alexander Langer…: c’è poco spazio nella scuola e nell’università per gli uomini, le donne e i movimenti che hanno messo al centro la nonviolenza, con tutta la sua forza e la sua fragilità. «La nonviolenza non è una corrente culturale, non è un fenomeno letterario, non è un pensiero filosofico o politico – scrive Gabriella Falcicchio su Educazione aperta – È anche tutto questo e lo è in modo fine e innovativo, ma nessuno di questi aspetti né il loro insieme basta a qualificarla. Davanti alla domanda “cos’è la nonviolenza?”, una risposta sintetica ed efficace è “la nonviolenza è un metodo di lotta”… Un pensiero fertile e capace di fertilizzare il terreno dell’umano se diventa pratica, più disaccordo e dissenso che consenso, più conflitto che compromesso…»

Un disegno di Mauro Biani per la Marcia della pace Perugia-Assisi 2018

Abbiamo tentato di non dare la morte né col pensiero né con l’atto, per vedere se la realtà ci seguisse? [Aldo Capitini]
Da circa diciassette anni sono entrata in contatto con la tradizione di pensiero e di azione nonviolenta. Andando in profondità, sia sul piano culturale sia nel coinvolgimento esistenziale e nel cambiamento delle pratiche quotidiane, ho constatato che assumere come faro costante la tensione alla nonuccisione-nonmenzogna-noncollaborazione, la triade capitiniana della nonviolenza, illumina porzioni impreviste di realtà e ne mette in luce anche l’invisibile violenza. E dapprima impercettibilmente, poi in modo sempre più poderoso, qualcosa comincia a cambiare dentro e intorno a sé. Il faro è ben riassunto nella domanda che Aldo Capitini si pone in Religione aperta: “Abbiamo tentato di non dare la morte né con l’atto né col pensiero, per vedere se la realtà ci seguisse?”, una frase che interpella ogni essere umano alla concretezza di un’azione intimamente aderente al valore chiave della nonviolenza: il tu, i tu, i Tutti. E che mette ciascuno davanti alla propria responsabilità individuale, indipendentemente dall’entità dell’azione. Anche nel più piccolo ambito, l’azione nonviolenta apre un varco nella realtà-com’essa-è, avviando una tramutazione, cioè la sua trasformazione strutturale.
A febbraio ho cominciato un corso destinato ai giovani sotto i trent’anni finalizzato a far conoscere a un livello molto iniziale la storia appassionante di uomini e donne che hanno scelto di esercitare un’azione sociale e collettiva nonviolenta, per ottenere diritti ed emancipazione da forme di oppressione, talora estremamente violente, e per ritessere l’ordito della vita sociale su basi radicalmente diverse. Abbiamo cominciato partendo dai libri, molti dei quali in edizione originale, che mi porto dietro in una specie di valigetta delle meraviglie e ho preso a raccontare con quell’entusiasmo che vuole trasmettere curiosità e contagiare l’appassionamento.
Delle persone presenti, soprattutto quelle che si approcciavano al corso senza una conoscenza pregressa, la cifra comune è stato lo stupore. Era lo stupore di venire a conoscere per la prima volta episodi di vita, aneddoti, storie di uomini e donne talmente noti da essere del tutto sconosciuti (uno per tutti, Gandhi), di cui talvolta si ignorava del tutto l’esistenza e l’enorme impatto sulla vita socio-politica di popoli interi (si pensi a James Lawson, che condusse la celebre campagna di Nashville) o che si pensava capitati dentro un’azione di protesta quasi per caso, invece che con una precisa regia di lotta (è il caso di Rosa Parks).
A scuola non si raccontano queste storie, che pure darebbero respiro e speranza. A scuola si continua imperterriti a coltivare la retorica di guerra, non solo nelle discipline storiche, ma anche trasversalmente, e non si parla di tutto il resto, lasciando i bambini, i ragazzi, i giovani talmente affamati di senso da smettere di avere fame. Li abituiamo all’astenia, a un cibo privo di nutrienti.
C’è una enorme responsabilità educativa della generazione adulta in questo vuoto deprimente, dove si è smesso di dar da bere agli assetati, di dar da mangiare agli affamati, di consolare gli afflitti, di vestire gli ignudi e di accogliere gli stranieri. In quei princìpi così basilari per la convivenza umana (e oltre), c’è anche l’abc dell’educazione, alfabeto educativo che sembra una lingua incomprensibile per la deriva di disumanità a cui assistiamo.

La nonviolenza racconta e vuole continuare a raccontare una storia diversa, relazioni diverse, possibilità di apertura a un futuro diverso sia per gli umani che possono sceglierla, sia per tutti i viventi, che possono beneficiarne in conseguenza.
Questa storia si intesse tenendo conto di alcuni elementi chiave che servono a dare una cornice di comprensione a questa tradizione di pensiero e di azione. Il primo elemento è che la nonviolenza è un prodotto umano ed è stata incarnata in esseri umani. Essa non presenta dogmi a cui aderire fideisticamente, né assoluti di alcun tipo. Questo ci dice molte cose: innanzitutto che mitizzare o santificare gli uomini e le donne che l’hanno rappresentata è un errore. Abbiamo bisogno di conoscerla proprio per cogliere l’umano in ciascuna delle personalità, il limite, il radicamento tutto terreno che, anche se ha un forte afflato spirituale, resta storicamente collocato. Come tale, la tradizione nonviolenta è criticabile e rinnovabile di continuo, esprime cioè una generatività che non si ferma ai casi esemplari, ma riannoda ogni volta i nessi con la storia, con gli eventi, con i bisogni emergenti e da questi fa scaturire processi nonviolenti, dinamiche, addivenendo a orizzonti nuovi. Senza dubbio ci sono principi e valori di fondo che restano saldi come criteri orientativi di natura pratica (i tre sopra citati), rispetto ai quali occorre ricordare per un costante e salutare esercizio di umiltà che con ogni probabilità mille volte inciamperemo e cadremo, tuttavia neppure quei valori sono da intendere in senso assoluto e manicheo, quanto come punti di arrivo della tensione a sovvertire una realtà inadeguata, vettori di un processo progressivo di allargamento e gemmazione permanente.

In questo la saggezza che Alexander Langer possedeva nell’usare le parole si mostra in quei comparativi che lo identificano: lentius, profundius, suavius. Il senso di quel “più lenta, più profonda, più gentile” non è solo nei contenuti che ne fanno un manifesto della visione nonviolenta più vicina alla contemporaneità, ma anche nel suffisso comparativo, che rivela la logica prettamente nonviolenta dell’aggiunta, il metodo capitiniano che non distrugge ciò che è stato, ma “aggiunge tramutando”. Un processo dunque, un cammino.
E non è certo un caso che camminare rappresenti la pratica e la metafora più cara alla nonviolenza. Walking è uno dei libri di Henry David Thoreau, atto rivoluzionario sotto molti punti di vista allora, nell’800 americano che conservava i tratti della natura selvatica e della wilderness mostrando quanto stantia fosse la cultura umana rispetto alla vitalità della natura, come dopo, quando le “marce” (la marcia del sale, le marce di Selma, la marcia Perugia-Assisi) sono diventate espressione di collettività che lottano per i diritti e più che mai oggi, che optare per la pedovia rappresenta un atto di dissenso alla società dell’accelerazione.
In questo cammino, dunque, uno degli errori in cui è più facile incorrere è la mitizzazione o la riduzione a stereotipo. Quando voglio cominciare a sgretolare l’iconografia della nonviolenza, chiedo di descrivermi che immagine si formi nella mente quando pensiamo a Gandhi. Ecco che compare il vecchietto seminudo, molto magro, con un telo bianco intorno alla vita, seduto a gambe incrociate, alla meglio in piedi con un bastoncino in mano. L’icona di Gandhi insomma, peraltro unica presenza nell’immaginario comune che ignora il Gandhi brillante avvocato e giornalista che vestiva all’occidentale, con camicia, pantaloni e giacca, personalità piena di chiaroscuri che attraversa un tortuoso percorso di formazione tra tre continenti.
È facile che la costruzione del mito avvenga dopo morti tragiche e il rischio di depauperamento del valore delle opere è sempre dietro l’angolo. A proposito di Martin Luther King, questo è particolarmente evidente, come evidenzia Massimo Rubboli, se si pensa all’operazione di merchandising dell’icona del reverendo, con tanto di copyright su testi e immagini e royalties annesse.
Molto diversa la situazione di don Tonino Bello, intorno al quale non c’è business, ma il tentativo di istituzionalizzazione (come accadde a suo tempo con Francesco d’Assisi), con quel mix di elogio verboso e occultamento delle caratteristiche più rivoluzionarie che serve a normalizzare tutti i radicali, gli estremisti, quelli a cui ogni blando riformismo sta stretto perché vedono con quale dolore, con quali tragedie i deboli, i pallidi, gli smorti (il lessico è capitiniano) chiedono (e spesso non chiedono, in un tragico silenzio di resa alla sconfitta) aiuto perché la realtà venga rivoluzionata, non solo alleggerita di qualche gravame.
In questo processo di depotenziamento del messaggio tramutativo, Capitini sconta una sorte tutta particolare, perché non assurgendo alla notorietà dei “pezzi grossi” mondiali, il rischio di “provincializzazione” (o regionalizzazione) non è mai stato veramente superato. È come se quella descrizione di Calogero sia diventata un anatema: Capitini era e resta agli occhi dei più “spiacevolmente anormale”, fastidioso. Davanti al suo nome, si continua a storcere il naso, oppure ad assentire con posa di chi ben ricorda quei tempi. Difatti a conoscere Capitini sono in pochi, a parlare di Capitini sono spesso in pochissimi e si finisce per ripetere – non senza deformazioni a proprio gusto – quello che chiunque potrebbe conoscere leggendo direttamente i libri – fruibilissimi – di Aldo.
Peccato mortale, che però evidenzia un aspetto: la generatività di questo pensiero necessita di pratiche, non solo di analisi. Capitini e tutto il pensiero nonviolento hanno bisogno certamente di studiosi che sappiano andare a fondo, filologicamente e storicamente rigorosi, ma non è sufficiente. La nonviolenza non è una corrente culturale, non è un fenomeno letterario, non è un pensiero filosofico o politico. È anche tutto questo e lo è in modo fine e innovativo, ma nessuno di questi aspetti né il loro insieme basta a qualificarla. Davanti alla domanda “cos’è la nonviolenza?”, una risposta sintetica ed efficace è “la nonviolenza è un metodo di lotta”. Questa espressione racchiude la visione del mondo e delle relazioni, il radicamento nella persuasione personale, l’orizzonte politico, e soprattutto l’azione come componente necessaria alla sopravvivenza e alla vivezza della nonviolenza stessa. Studiare Capitini come un filosofo o come un pedagogista, come uomo di cultura è un errore di metodo, perché non si può comprendere in profondità senza accordarsi a lui nella compresenza. Se la nonviolenza cessa di essere “vita da provare”, in cui ognuno persegue i propri “esperimenti con la verità”, organizzare convegni, pubblicare volumi e curare numeri monografici di riviste può persino avere l’effetto di insterilire il dibattito in verbosità avvizzite sul consueto ripetersi. Si tratta invece di un pensiero fertile e capace di fertilizzare il terreno dell’umano se diventa pratica, incarnandosi, cercando nuove vie di espressione e di liberazione. Del resto, la nonviolenza serve a modificare la realtà, non a descriverla, né ancor meno a vagheggiarla in forma di perfezione; serve ad avviare e sostenere dinamiche in cui la realtà prende la forma di quello che ancora non è e richiede più divergenza che convergenza, più disaccordo e dissenso che consenso, più conflitto che compromesso. E senza dubbio, più disposizione al decentramento di sé che territorialità narcisistica. La nonviolenza è di tutti, è dei Tutti e se viene meno a questo richiamo, cessa di esistere.