Caro fratello vescovo mons. Marcianò,
è di oggi la notizia della sua nomina a
nuovo Ordinario Militare. Non ce la faccio a congratularmi con lei,
perché considero una sconfitta per un cristiano entrare nei ranghi delle
forze armate e per di più entrarci attraverso la porta della Chiesa. Al
suo predecessore, mons. Pelvi, avevo scritto alcune lettere per aprire
un dialogo sul senso evangelico dei cappellani militari, ma è stato
sempre un monologo: non ho mai ricevuto risposta. Mi auguro miglior
fortuna con lei.
Riducendo al massimo la questione,
osservo che il personale delle forze armate ha sì diritto all’assistenza
spirituale, ma senza che coloro che la prestano accedano ai ranghi
militari, diventino cioè organici ad un’istituzione nata ed esistente
per fare la guerra. Anzi, restandone fuori, essi avrebbero la
possibilità di assumere uno sguardo critico più libero, di essere essi
stessi esempio di nonviolenza, che rifugge dalle attività belliche e da
tutto ciò che ne costituisce supporto e strumento. Insomma, esempio di
una scelta diversa.
Sì, perché la pace e la guerra sono
concetti che vanno tenuti sempre distinti, soprattutto in un’epoca in
cui ingannevolmente e interessatamente essi vengono continuamente
sovrapposti, confusi, diluiti l’uno nell’altro, fino a far affermare al
Ministro della Difesa che per amare la pace bisogna armare la pace. La
Chiesa non può prestarsi a queste alchimie
linguistico-politico-affaristiche, il Papa stesso ha ricordato con forza
che le guerre hanno tutte un comune denominatore: vendere le armi.
La pace è un’altra cosa.
Lei ha oggi stesso indirizzato un
saluto “Ai sacerdoti e ai fedeli della Chiesa Ordinariato Militare”, in
cui si legge che i militari sono “a servizio della vita e della pace” la quale, in quanto cammino, richiede passi per costruirla. E lei elenca tali passi: “passi
di dialogo con tutti, di rispetto reciproco e rispetto dei diritti
umani; passi di ordine e libertà, di legalità e onestà, di giustizia e
solidarietà, di lotta contro i soprusi e la corruzione, contro ogni
forma di violenza o discriminazione; passi di protezione delle città
dell’uomo, nella loro dimensione sociale e politica, nel loro patrimonio
di storia e arte; passi di preservazione della natura e dell’ambiente,
di custodia della straordinaria bellezza del Creato. Soprattutto, passi
di difesa e promozione di ogni vita umana nella sua stupenda dignità:
dei più deboli e poveri, dei piccoli e indifesi, dei carcerati e
perseguitati, dei senzatetto e disperati, degli abbandonati ed esclusi,
di coloro che vivono diverse forme di malattia o disabilità, dei tanti
profughi e immigrati che continuano a sbarcare nelle nostre coste dopo
viaggi in cui trovano anche la morte, continuando a sollecitare il
nostro impegno e il nostro amore“.
Le forze armate, di cui lei si
accinge a far parte e con un elevato grado gerarchico, sono la negazione
di questi passi.
La guerra dialoga solo con le
pallottole, che sibilando nell’aria portano messaggi di morte; la guerra
è esattamente la forma di violenza più scientificamente studiata ed
organizzata; non si distingue per giustizia e solidarietà, ma discrimina
tra amici e nemici, schiaccia, corrompe, fa prigionieri. La guerra non
protegge gli esseri umani né le loro città: bombarda e distrugge
l’ambiente, le risorse per la vita e le opere d’arte. Ma soprattutto non
difende i poveri e i disabili, ma fa andare in rovina le case
producendo senzatetto e mutilati. La guerra non promuove la dignità dei
profughi ma li genera, ed essi, come primo impegno ed atto d’amore, con
la loro condizione ci chiedono di smettere di inviare truppe ed armi che
riducono in polvere le loro vite.
Il primo servizio alla pace che è
possibile fare come sacerdote o vescovo impegnato nella cura pastorale
dei militari è questo: uscire ed invitare ad uscire da quella fabbrica
di morte.
Un saluto fraterno.
Napoli, 10 ottobre 2013
Antonio Lombardi (Pax Christi)