dalla pagina https://comune-info.net/la-trama-della-vita/
Paolo Cacciari
La cura della terra tramite il lavoro agricolo è il più importante
presidio della “trama della vita”. Questa consapevolezza – radicata
ancora oggi nelle culture indigene e contadine – è stata brutalmente
offuscata dal sistema alimentare industrializzato che oggi punta al
business del food-tech, la creazione nei laboratori di ingegneria
genetica di nuove materie prime per produrre “falsi vegetali” e cibo
artificiale. Nel suo ultimo straordinario libro, Dall’avidità alla cura,
Vandana Shiva spiega come gli esseri umani sono “la nuova materia
prima” da cui estrarre dati e geni per condizionarne i comportamenti.
Uno scenario distopico, violento e transumano, le cui origini affondano
nell’illusione della superiorità dell’uomo sulla natura, dell’intelletto
sul corpo, del maschio sulla donna, degli europei su tutte le altre
popolazioni. Tuttavia il pensiero di Shiva è tutt’altro che
apocalittico: il suo messaggio è che “possiamo scegliere” tra la vera e
la falsa conoscenza, tra la competizione e la cooperazione, tra la
l’eterodirezione e l’autodeterminazione. Si tratta, prima di tutto, di
imparare a guardare il mondo dal basso, da raso terra, lì dove la vita
prende origine
 |
Tratta da unsplash.com |
Per Vandana Shiva “seminare semi di un altro futuro” non è una metafora.
Così come “coltivare giardini di speranza” e “intrecciare ghirlande
d’amore” non sono attività ludiche, ma chiamate all’impegno comune per
una “democrazia della Terra”, come spiega in Dall’avidità alla cura. L’economia necessaria per un’economia sostenibile (emi, 2022, pp. 215, euro 16).
La sua vita di scienziata e di attivista, da trentacinque anni, dalla fondazione del centro di ricerca e di formazione Nadvanya in India, è stata dedicata a dimostrare che la strada per cambiare il mondo inizia dalle pratiche agricole.
Sono le foglie verdi delle piante che raccolgono le “benedizioni del
sole”, catturano la anidride carbonica in eccesso dall’atmosfera e
permettono di trasformare l’acqua e le altre sostanze del terreno
assorbite dalle radici in carboidrati e proteine, restituendo al terreno
“carbonio vivo”. Vale a dire: “Siamo vivi grazie alle piante” [p.155].
Le piante donano tutto il nutrimento primario necessario alla vita
animale. La cura della terra tramite il lavoro agricolo è quindi il primo e più importante presidio della “trama della vita”.
Ogni essere vivente è interconnesso e interdipendente. Siamo parte
della natura e “membri di una unica famiglia”. Siamo vivi e sani fino a
che la natura è viva, ricca di biodiversità, capace di auto-organizzarsi
e di rigenerarsi. “La salute del pianeta e la nostra salute non sono
separabili” [p.7].
Questa consapevolezza – ben radicata ancora oggi nelle
culture indigene e contadine – è stata brutalmente offuscata
dall’avvento di “un sistema alimentare industrializzato, militarizzato e
globalizzato guidato dall’avidità” [p.147] che ha violato i limiti e l’integrità degli ecosistemi,
interrompendo i cicli ecologici e nutrizionali della vita. Le riprove
sono evidenti e non serve più nemmeno ricordarle: perdita di
biodiversità e di fertilità dei suoli, estinzione delle specie animali,
inquinamenti di ogni genere, malattie croniche e pandemie,
surriscaldamento dei mari e dell’atmosfera, crisi idriche. Secondo le
stime ritenute corrette da Vandana Shiva le emissioni di gas serra
prodotte dal sistema agricolo e alimentare raggiungono il 50 per cento
del totale.
Rifondare su basi totalmente diverse – agroecologiche – il
sistema agricolo e alimentare è quindi una priorità assoluta per
salvaguardare l’abitabilità del pianeta. I saperi, le tecniche, le esperienze necessarie per una conversione ecologica dell’agricoltura
ci sarebbero già tutti e la loro efficacia è ampiamente dimostrata dal
lavoro di un’infinità di fattorie ecologiche in ogni continente. La
produzione alimentare misurata in capacità nutrizionale di un ettaro di
terreno coltivato condotto seguendo i principi della agricoltura
biologica, con coltivazioni miste, a piccola scala e ad altra
occupazione, può essere maggiore fino a cinquecento volte rispetto alle
monoculture industrializzate [p.190]. Per non parlare dei minori impatti
ambientali, delle migliori condizioni di lavoro, della sovranità
alimentare delle comunità locali, dell’eliminazione degli squilibri di
potere che si creano nelle “ragioni di scambio” tra paesi esportatori e
importatori di derrate alimentari.
Il “fallimento della rivoluzione verde” (cioè dell’introduzione
massiva della chimica in agricoltura) è oramai chiaro anche alle grandi
corporation del “cartello dei veleni” (IG Farber, Monsanto, Dupont,
Union Cardibe, Standard Oil e poche altre) che dalla produzione di gas
ed esplosivi a uso militare sono passate ai fertilizzanti e ai
pesticidi. Ma la risposta che viene ora dal “grande capitale” costituito
da “una manciata di miliardari” arricchitisi con le tecnologie digitali
è ancora peggiore: il nuovo business si chiama food-tech.
Ossia, la creazione nei laboratori di ingegneria genetica di nuove
materie prime per produrre “falsi vegetali” e cibo artificiale.
La Bill & Melinda Gates Agricultural Innovation, ad esempio, ha
fondato l’impresa Impossible Burger [p.120]. Altri colossi della
bioingegneria hanno lanciato Beyond Meat, Ginkgo Biowarks, Pivot Bio
Food e altri marchi ancora. Ovviamente, promettono di sfamare il mondo
con cibi a basso prezzo. In realtà lo affameranno ancora di più e,
attraverso l’“agricoltura di precisione” programmata dagli algoritmi e
controllata a distanza da droni e satelliti, renderanno i lavoratori
agricoli ancora meno autonomi e più poveri, appendici delle macchine e
pagati secondo le leggi del mercato. Ma non solo loro. Per
Vandana Shiva l’idea che accomuna la fusione del grande capitale Big Ag,
Big Tech, Big-Data, Big-Pharma e Big Finance è considerare “le nostre
menti e i nostri corpi come la colonia finale. Siamo la miniera e la
fogna. Siamo la materia prima e la discarica” [72]. Sono gli esseri
umani “la nuova materia prima” da cui estrarre dati e geni (data e
genetic mining) per condizionarne i comportamenti. Siamo
entrati in una “nuova economia tecno-feudale” [184], scrive Vandana
Shiva che non si discosta molto dalla definizione di “paleotecnica” che
già Lewis Munford dette alla “megamacchina” termoindustriale delle prime
rivoluzioni tecnologiche.
Uno scenario distopico e apocalittico, violento e transumano,
le cui origini – indagate in alcuni tra i più interessanti capitoli del
libro – vengono da lontano. Per Vandana Shiva la nostra civiltà
occidentale è ancora prigioniera del paradigma baconiano-cartesiano del
“dominio dell’uomo sull’universo” [p.59] e del “pregiudizio
antropocentrico”. Vale a dire: l’illusione della superiorità dell’uomo
sulla natura, dell’intelletto sul corpo, del maschio sulla donna, degli
europei su tutte le altre popolazioni della terra. “Un progetto
patriarcale violento che voleva schiavizzare la natura” [p.60], che ha
accompagnato l’hibris di conquista dei colonizzatori e giustificato una
economia politica basata su estrattivismo
e crescita senza fine, trasformando la società in una “macchina da
soldi”. Qui vanno ricercate le cause profonde del collasso ecologico e
delle ingiustizie sociali, poiché: “In un mondo interconnesso dal punto
di vista ecologico la negazione dei diritti della natura si traduce
nella negazione di diritti umani” [p.12].
Ma il pensiero di Shiva è tutt’altro che apocalittico. Il suo
messaggio è che “possiamo scegliere” [p.153] tra la vera e la falsa
conoscenza, tra la competizione e la cooperazione, tra la
l’eterodirezione e l’autodeterminazione, tra l’oikonomia e la
crematistica, per tornare ad Aristotele. Possiamo scegliere di
organizzare la cooperazione sociale attorno ad “economie vive”, capaci
di cura, compassione e accudimento, rigenerative, circolari, plurali…
una “vera green economy”. Per riuscirci, però, è necessario cambiare la
visione delle cose, scendere dalla presunzione di essere al vertice
della piramide evolutiva, ricomporre le divisioni che ci hanno separato
gli uni dagli altri e dalla natura. Shiva dice: “Le piante possono
insegnarci visioni del mondo e valori che ci aiutano a vivere in armonia
con la natura, le altre specie e noi” [p.156]. Lo chiama “pensiero vegetale”
e ricorda il filosofo Michael Marder: “Solo rifiutandoci di riconoscere
l’intelligenza con un’eccezione nell’ordine della vita e nel processo
evolutivo, potremmo addentrarci nel terreno inesplorato del pensiero
vegetale” [176]. Ad esempio, pensiamo all’intelligenza dei fungi
micorrizici che ricercano e forniscono ciò di cui le piante hanno
bisogno. Insomma, dovremmo imparare a riconoscere quella intelligenza
ecologica superiore, emotiva, compassionevole e premurosa che tiene
assieme la rete della vita.
Con questo libro Vandana Shiva ci offre un affresco completo
nella sua lunga ricerca e ci sprona a guardare il mondo dal basso, da
raso terra, lì dove la vita prende origine.