Nei prossimi giorni, il 30 e 31 ottobre, si terrà a Roma sotto la
presidenza di Draghi il G 20; potremmo dire, data la drammaticità della situazione mondiale sia riguardo alla crisi climatica che alla pandemia
del Covid, che esso abbia all’ordine del giorno la salvezza del mondo.
Noi non abbiamo modo di influire sulle sue decisioni, ma un po’ sul
serio e un po’ per celia potremmo immaginare di scrivere a quegli
illustrissimi personaggi una lettera che dica più o meno così:
Illustrissimi Signori e Signore,
Con grande gioia vi accogliamo a Roma dove siete convenuti per la vostra
riunione del G 20 che ha all’ordine del giorno, per dirla con una sola
parola, la salvezza del mondo. Non vogliamo darvi suggerimenti riguardo
alla vostra agenda, perché senz’altro voi avete tutte le conoscenze e la
sapienza per decidere che fare. Vogliamo solo ricordarvi le due
ispirazioni fondamentali che potete ricavare dal fatto di riunirvi
questa volta a Roma.
1 - La prima è quella che deriva dalla stessa origine leggendaria di
Roma, di cui si dice che i suoi due fondatori, Romolo e Remo, fossero
stati allattati e allevati da una lupa. Questo ci ricorda che l’uomo e
la donna, una volta messi al mondo, sono presi in carico dalla Natura
che li nutre e li cura e ne assicura la vita nella sua identità umana
senza eguali ma anche in relazione con tutti gli animali. Tocca ora a
voi, che siete capi di Stato e di governo, di restituire alla Natura
questo dono e pagare questo debito, adottando decisioni e politiche
globali capaci di rispondere al gemito della Terra con ben altra
radicalità e urgenza rispetto a quelle adottate fin qui, per far fronte
alla crisi ecologica e riparare i danni arrecati all’aria, ai mari, alle
foreste e agli animali di cui si stanno estinguendo sempre nuove
specie. Anche qui, per dirla con una sola parola, non solo occorre
uscire dai combustibili fossili, ma ricostruire l’integrità devastata
del mondo vivente e dare lunga vita alla Terra.
2 - La seconda ispirazione è senza dubbio quella che viene dall’aver
Sede a Roma il Papa, primo vescovo della Chiesa romana e vorremmo
aggiungere, assumendo come è proprio della politica la contemporaneità,
di questo papa che si chiama Francesco. Ciò fa sì che l’ispirarsi al
fatto di riunirsi dov’è anche questa Sede romana non possa avere alcuna
implicazione partigiana o escludente, come poteva essere fino a qualche
decennio fa quando il cattolicesimo definiva se stesso come l’unica
religione vera e la Chiesa cattolica come unica arca fuori della quale
non potesse darsi salvezza; l’ispirazione che oggi ne può venire è al
contrario universale e includente sia per il riconoscimento operato dal
Concilio Vaticano Secondo dei doni di Dio profusi come semi in tutte le
religioni e le culture, sia per l’affermazione di fraternità tra tutti
gli uomini che papa Francesco ha condiviso con ogni religione e ha
esteso in particolare all’Islam con cui nel patto di Abu Dhabi ha
firmato l’attestazione che “le diversità di religione… sono una sapiente
volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani”. Lo stesso
papa nel messaggio ai Movimenti popolari del 16 ottobre scorso ha
chiesto a se stesso e a tutti gli altri leader religiosi “di non usare
mai il nome di Dio per fomentare guerre o colpi di Stato”. Questa
ispirazione può pertanto essere oggi tale da incoraggiare tutti i
responsabili della vita sulla Terra a perseguire l’unità umana, a
adottare un’ecologia integrale, a far proprio il Trattato già varato
dall’ONU per la proibizione di tutte le armi nucleari, a promuovere la
fine della corsa al riarmo e delle relative spese, nonché a indurre a
una conversione dell’ideologia delle Forze Armate; tutto ciò al fine di
costruire un mondo in cui rimangano come unici uccisi dal fuoco delle
Forze Armate quelli uccisi per sbaglio nei set cinematografici di
Hollywood.
Cari partecipi del G 20,
Oltre a richiamare queste due associazioni di idee legate al fatto che
vi riunite a Roma vogliamo informarvi che a Roma è stata da poco
istituita una Scuola che promuove il pensiero e cerca le vie per dar
luogo alla stesura e all’adozione per tutto il mondo di una Costituzione
della Terra. È una proposta che vogliamo portare alla vostra attenzione
quasi che voi, come responsabili di popoli e protagonisti decisivi
della scena mondiale, di tale Scuola poteste essere i primi docenti e
discepoli. Sarebbe bello infatti che fra voi sorgessero persone
iniziative e politiche che facessero proprio questo progetto, lo
includessero nelle tematiche presenti nella comunità delle Nazioni e lo
portassero a buon fine, in modo che la Terra intera possa avere la sua
Costituzione: una Legge fondamentale che garantisca diritti e doveri a
tutti gli uomini e le donne del pianeta e che con il supporto di
efficaci garanzie giuridiche ed istituzionali assicuri che la Terra sia
salva, la vita sia prospera e la storia continui.
Contro ogni giusto allarme riguardo al rischio di poteri invasivi,
vogliamo sottolineare che una Costituzione del mondo non è un governo
del mondo, ma è una regola che nella pluralità e autonomia dei regimi
politici e degli ordinamenti istituisca la sovranità del diritto su
tutti i poteri pubblici e privati del mondo; le Costituzioni hanno
offerto molte volte e per molto tempo le più alte esperienze di
giustizia e di pace nei nostri singoli Stati, sicché si può pensare che
il modello costituzionale esteso sul piano globale possa mantenere
analoghe promesse per tutti i Paesi.
Anche la sfida della pandemia conduce nella stessa direzione, suggerendo
di instaurare una politica dei beni comuni dell’umanità che non si
possano né comprare né vendere, che siano fuori commercio e messi a
disposizione di tutti da un’economia di liberazione, a cominciare dalla
decisione della non brevettabilità dei vaccini contro il Covid e dei
farmaci salvavita.
Che tale proposta non sia mai stata formulata fin qui non depone contro
la sua attuabilità, ma deriva piuttosto dal fatto che finora da ogni
punto del pianeta la Terra è apparsa frammentata e divisa e il corso
storico si è andato svolgendo attraverso contrapposizioni etniche,
religiose, culturali e politiche via via apparse come insormontabili,
sicché una Costituzione di tutta la Terra sembrava impensabile; ma oggi
la Terra può essere osservata dall’alto come un tutto globale e anzi un
poliedro, come dice il Papa, e come si sa al mutamento del punto di
vista corrisponde il mutamento delle cose; oggi in realtà le divisioni
identitarie, pur feconde e inviolabili nel loro ordine, non sono più
tali da precludere unità più costruttive e più vaste. Né questa
costruzione di un ordinamento costituzionale mondiale può essere
considerata un’utopia di intellettuali, se negli anni 80 del 900 un
mondo ricomposto nella pace, “senza armi nucleari e non violento” fu
proposto da due grandi compagini statali, l’Unione Sovietica e l’India,
pur appartenenti a mondi diversi, i cui popoli insieme rappresentavano
un quinto dell’umanità.
Questa è la lettera che ci piacerebbe ricevessero i “Grandi” e ne tenessero conto.
Con i più cordiali saluti
La 49ª Settimana Sociale dei cattolici italiani è anche social.
Tutte le sessioni dell’evento “Il pianeta che speriamo. Ambiente,
lavoro, futuro. #tuttoèconnesso”, in programma dal 21 al 24 ottobre,
potranno essere seguite in streaming sul sito www.settimanesociali.it e sui canali YouTube e Facebook della Conferenza Episcopale Italiana: www.facebook.com/conferenzaepiscopaleitaliana/www.youtube.com/ChiesaCattolicaItaliana.
La pagina Facebook delle Settimane Sociali (www.facebook.com/Settimanesociali/)
invece offrirà aggiornamenti, interviste, brevi video. Gli hashtag
dell’appuntamento sono:
#ilpianetachesperiamo; #tuttoèconnesso; #settimanesociali.
“L’impegno per una comunicazione integrale passa anche dalla capacità di
farsi prossimi negli ambienti digitali. Per questo abbiamo previsto una
narrazione che sappia coniugare le diverse possibilità offerte dalle
nuove tecnologie. La partecipazione e la condivisione riceveranno
sicuramente un impulso in più. Verranno allargati i confini per mettere
in circolo idee, progetti, riflessioni perché in gioco c’è il futuro di
tutti. D’altronde #tuttoèconnesso”, afferma Vincenzo Corrado, direttore
dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della CEI.
Papa Bergoglio.«Un reddito minino o salario universale, affinché ogni persona in questo mondo possa accedere ai beni più elementari della vita. E giusto lottare per una distribuzione umana di queste risorse. Ed è compito dei governi stabilire schemi fiscali e redistributivi affinché la ricchezza di una parte sia condivisa con equità, senza che questo presupponga un peso insopportabile, soprattutto per la classe media che - generalmente, quando ci sono questi conflitti, è quella che soffre di più»
Il Papa, parlando ai Movimenti Popolari è tornato a chiedere «il salario universale e la riduzione della giornata lavorativa: «Un reddito minino o salario universale, affinché ogni persona in questo mondo possa accedere ai beni più elementari della vita – ha detto Bergoglio -. E giusto lottare per una distribuzione umana di queste risorse. Ed è compito dei governi stabilire schemi fiscali e redistributivi affinché la ricchezza di una parte sia condivisa con equità, senza che questo presupponga un peso insopportabile, soprattutto per la classe media che – generalmente, quando ci sono questi conflitti, è quella che soffre di più». Quanto alla riduzione della giornata lavorativa «occorre analizzarla seriamente. Nel XIX secolo gli operai lavoravano 12, 14, 16 ore al giorno. Quando conquistarono la giornata di 8 ore non collassò nulla, come invece alcuni settori avevano previsto. Allora – insisto – lavorare meno affinché più gente abbia accesso al mercato del lavoro è un aspetto che dobbiamo esplorare con urgenza. Non ci possono essere tante persone che soffrono per l’eccesso di lavoro e tante altre che soffrono per la mancanza di lavoro».
Così mi piace chiamarvi, “poeti sociali”. Perché voi siete poeti
sociali, in quanto avete la capacità e il coraggio di creare speranza
laddove appaiono solo scarto ed esclusione. Poesia vuol dire creatività,
e voi create speranza. Con le vostre mani sapete forgiare la dignità di
ciascuno, quella delle famiglie e quella dell’intera società con la
terra, la casa e il lavoro, la cura e la comunità. Grazie perché la
vostra dedizione è parola autorevole, capace di smentire i rinvii
silenziosi e tante volte “educati” a cui siete stati sottoposti, o a cui
sono sottoposti tanti nostri fratelli. Ma pensando a voi credo che la
vostra dedizione sia principalmente un annuncio di speranza. Vedervi mi
ricorda che non siamo condannati a ripetere né a costruire un futuro
basato sull’esclusione e la disuguaglianza, sullo scarto o
sull’indifferenza; dove la cultura del privilegio sia un potere
invisibile e insopprimibile e lo sfruttamento e l’abuso siano come un
metodo abituale di sopravvivenza. No! Questo voi lo sapete annunciare
molto bene. Grazie.
Grazie per il video che abbiamo appena condiviso. Ho letto le
riflessioni dell’incontro, la testimonianza di quello che avete vissuto
in questi tempi di tribolazione e di angoscia, la sintesi delle vostre
proposte e delle vostre aspirazioni. Grazie. Grazie di rendermi
partecipe del processo storico che state attraversando e grazie di
condividere con me questo dialogo fraterno, che cerca di vedere il
grande nel piccolo e il piccolo nel grande, un dialogo che nasce nelle
periferie, un dialogo che giunge a Roma e nel quale tutti possiamo
sentirci invitati e interpellati. «Per incontrarci e aiutarci a vicenda
abbiamo bisogno di dialogare» (Enc. Fratelli tutti, 198), e quanto!
Avete avvertito che la situazione attuale meritava un nuovo incontro.
Lo stesso ho sentito io. Anche se non abbiamo mai perso il contatto –
sono già passati sei anni, credo, dall’ultimo incontro generale –. In
questo tempo sono successe molte cose, tante sono cambiate. Si tratta di
cambiamenti che segnano punti di non ritorno, punti di svolta, crocevia
in cui l’umanità è chiamata a scegliere. Occorrono nuovi momenti di
incontro, discernimento e azione congiunta. Ogni persona, ogni
organizzazione, ogni Paese, e il mondo intero, ha bisogno di cercare
questi momenti per riflettere, discernere e scegliere. Perché ritornare
agli schemi precedenti sarebbe davvero suicida e, se mi consentite di
forzare un po’ le parole, ecocida e genocida. Sto forzando!
In questi mesi molte delle cose da voi denunciate sono risultate del
tutto evidenti. La pandemia ha fatto vedere le disuguaglianze sociali
che colpiscono i nostri popoli e ha esposto – senza chiedere permesso né
scusa – la straziante situazione di tanti fratelli e sorelle, quella
situazione che tanti meccanismi di post-verità non hanno potuto
occultare.
Molte cose che davamo per scontate sono cadute come un castello di
carte. Abbiamo sperimentato come, da un giorno all’altro, il nostro modo
di vivere può cambiare drasticamente, impedendoci, per esempio, di
vedere i nostri familiari, compagni e amici. In molti Paesi gli Stati
hanno reagito. Hanno ascoltato la scienza e sono riusciti a porre limiti
per garantire il bene comune e hanno frenato almeno per un po’ questo
“meccanismo gigantesco” che opera in modo quasi automatico, dove i
popoli e le persone sono semplici ingranaggi (cfr S. Giovanni Paolo II,
Enc. Sollicitudo rei socialis, 22).
Tutti abbiamo subito il dolore della chiusura, ma a voi come sempre è
toccata la parte peggiore. Nei quartieri privi di infrastrutture di
base (dove vivono molti di voi e milioni e milioni di persone), è
difficile restare in casa; non solo perché non si dispone di tutto il
necessario per portare avanti le misure minime di cura e di protezione,
ma semplicemente perché la casa è il quartiere. I migranti, le persone
prive di documenti, i lavoratori informali senza reddito fisso si sono
visti privati, in molti casi, di qualsiasi aiuto statale e
impossibilitati a svolgere i loro compiti abituali, aggravando la loro
già lacerante povertà. Una delle espressioni di questa cultura
dell’indifferenza è che sembrerebbe che questo “terzo” sofferente del
nostro mondo non rivesta sufficiente interesse per i grandi media e per
chi fa opinione. Non appare. Rimane nascosto, “rannicchiato”.
Voglio fare riferimento anche a una pandemia silenziosa che da anni
colpisce i bambini, gli adolescenti e i giovani di ogni classe sociale; e
credo che, in questo tempo d’isolamento, sia cresciuta ancora di più.
Si tratta dello stress e dell’ansia cronica, legata a diversi fattori
come l’iperconnettività, lo smarrimento e la mancanza di prospettiva di
futuro, che si aggrava senza un vero contatto con gli altri – famiglie,
scuole, centri sportivi, oratori, parrocchie –; insomma, si aggrava per
la mancanza di un vero contatto con gli amici, perché l’amicizia è la
forma in cui l’amore risorge sempre.
È evidente che la tecnologia può essere uno strumento di bene, ed è
uno strumento di bene, che permette dialoghi come questo e tante altre
cose, ma non può mai sostituire il contatto tra noi, non può mai
sostituire una comunità in cui radicarci e in cui far sì che la nostra
vita diventi feconda.
E, parlando di pandemia, non possiamo non interrogarci sul flagello
della crisi alimentare. Nonostante i progressi della biotecnologia,
milioni di persone sono state private di alimenti, benché questi siano
disponibili. Quest’anno venti milioni di persone in più si sono viste
trascinate a livelli estremi di insicurezza alimentare, salendo a
[molti] milioni di persone. L’indigenza grave si è moltiplicata. Il
prezzo degli alimenti è aumentato notevolmente. I numeri della fame sono
orribili, e penso, per esempio, a Paesi come Siria, Haiti, Congo,
Senegal, Yemen, Sud Sudan; ma la fame si fa sentire anche in molti altri
Paesi del mondo povero e, non di rado, anche nel mondo ricco. È
possibile che le morti annuali legate alla fame possano superare quelle
del Covid. [1] Ma questo non fa notizia, questo non genera empatia.
Desidero ringraziarvi perché avete sentito come vostro il dolore
degli altri. Voi sapete mostrare il volto della vera umanità, quella che
non si costruisce voltando le spalle alla sofferenza di chi sta
accanto, ma nel riconoscimento paziente, impegnato e spesso perfino
doloroso del fatto che l’altro è mio fratello (cfr Lc 10,25-37) e che i suoi dolori, le sue gioie e le sue sofferenze sono anche i miei (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 1). Ignorare chi è caduto è ignorare la nostra stessa umanità che grida in ogni nostro fratello.
Cristiani e non, avete risposto a Gesù che ha detto ai suoi discepoli
davanti alla gente affamata: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mt
14,16). E dove c’era scarsità, il miracolo della moltiplicazione si è
ripetuto in voi che avete lottato instancabilmente perché a nessuno
mancasse il pane (cfr Mt 14,13-21). Grazie!
Come i medici, gli infermieri e il personale sanitario nelle trincee
sanitarie, voi avete messo il vostro corpo nella trincea dei quartieri
emarginati. Ho presenti molti, tra virgolette, “martiri” di questa
solidarietà, dei quali ho saputo tramite voi. Il Signore ne terrà conto.
Se tutti quelli che per amore hanno lottato insieme contro la
pandemia potessero anche sognare insieme un mondo nuovo, come sarebbe
tutto diverso! Sognare insieme.
2. Beati
Voi siete, come vi ho detto nella lettera che vi ho inviato lo scorso anno, [2]
un vero esercito invisibile; siete parte fondamentale di quella umanità
che lotta per la vita di fronte a un sistema di morte. In questa
dedizione vedo il Signore che si fa presente in mezzo a noi per donarci
il suo Regno. Gesù, quando ci ha presentato il “protocollo” con il quale
saremo giudicati – cfr Mt 25 –, ci ha detto che la salvezza
consisteva nel prendersi cura degli affamati, dei malati, dei
prigionieri, degli stranieri, insomma, nel riconoscere e servire Lui in
tutta l’umanità sofferente. Perciò mi sento di dirvi: «Beati quelli che
hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati» ( Mt 5,6); «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» ( Mt 5,9).
Vogliamo che questa beatitudine si estenda, permei e unga ogni angolo
e ogni spazio dove la vita si vede minacciata. Ma ci succede, come
popolo, come comunità, come famiglia e persino individualmente, di dover
affrontare situazioni che ci paralizzano, dove l’orizzonte scompare e
lo smarrimento, il timore, l’impotenza e l’ingiustizia sembrano
impossessarsi del presente. Sperimentiamo anche resistenze ai
cambiamenti di cui abbiamo bisogno e a cui aspiriamo, resistenze che
sono profonde, radicate, che vanno al di là delle nostre forze e
decisioni. È ciò che la Dottrina sociale della Chiesa ha chiamato
“strutture di peccato”, che siamo chiamati anche noi a convertire e che
non possiamo ignorare nel momento in cui pensiamo al modo di agire. Il
cambiamento personale è necessario, ma è anche imprescindibile adeguare i
nostri modelli socio-economici, affinché abbiano un volto umano, perché
tanti modelli lo hanno perso. E, pensando a queste situazioni, divento
insistente nel chiedere. E inizio a chiedere. A chiedere a tutti. E a
tutti voglio chiedere in nome di Dio.
Ai grandi laboratori, che liberalizzino i brevetti. Compiano un gesto
di umanità e permettano che ogni Paese, ogni popolo, ogni essere umano,
abbia accesso al vaccino. Ci sono Paesi in cui solo il tre, il quattro
per cento degli abitanti è stato vaccinato.
Voglio chiedere, in nome di Dio, ai gruppi finanziari e agli
organismi internazionali di credito di permettere ai Paesi poveri di
garantire i bisogni primari della loro gente e di condonare quei debiti
tante volte contratti contro gli interessi di quegli stessi popoli.
Voglio chiedere, in nome di Dio, alle grandi compagnie estrattive –
minerarie, petrolifere –, forestali, immobiliari, agroalimentari, di
smettere di distruggere i boschi, le aree umide e le montagne, di
smettere d’inquinare i fiumi e i mari, di smettere d’intossicare i
popoli e gli alimenti.
Voglio chiedere, in nome di Dio, alle grandi compagnie alimentari di
smettere d’imporre strutture monopolistiche di produzione e
distribuzione che gonfiano i prezzi e finiscono col tenersi il pane
dell’affamato.
Voglio chiedere, in nome di Dio, ai fabbricanti e ai trafficanti di
armi di cessare totalmente la loro attività, che fomenta la violenza e
la guerra, spesso nel quadro di giochi geopolitici il cui costo sono
milioni di vite e di spostamenti.
Voglio chiedere, in nome di Dio, ai giganti della tecnologia di
smettere di sfruttare la fragilità umana, le vulnerabilità delle
persone, per ottenere guadagni, senza considerare come aumentano i
discorsi di odio, il grooming [adescamento di minori in internet], le fake news [notizie false], le teorie cospirative, la manipolazione politica.
Voglio chiedere, in nome di Dio, ai giganti delle telecomunicazioni
di liberalizzare l’accesso ai contenuti educativi e l’interscambio con i
maestri attraverso internet, affinché i bambini poveri possano ricevere
un’educazione in contesti di quarantena.
Voglio chiedere, in nome di Dio, ai mezzi di comunicazione di porre
fine alla logica della post-verità, alla disinformazione, alla
diffamazione, alla calunnia e a quell’attrazione malata per lo scandalo e
il torbido; che cerchino di contribuire alla fraternità umana e
all’empatia con le persone più ferite.
Voglio chiedere, in nome di Dio, ai Paesi potenti di cessare le
aggressioni, i blocchi e le sanzioni unilaterali contro qualsiasi Paese
in qualsiasi parte della terra. No al neocolonialismo. I conflitti si
devono risolvere in istanze multilaterali come le Nazioni Unite. Abbiamo
già visto come finiscono gli interventi, le invasioni e le occupazioni
unilaterali, benché compiuti sotto i più nobili motivi o rivestimenti.
Questo sistema, con la sua logica implacabile del guadagno, sta
sfuggendo a ogni controllo umano. È ora di frenare la locomotiva, una
locomotiva fuori controllo che ci sta portando verso l’abisso. Siamo
ancora in tempo.
Ai governi in generale, ai politici di tutti i partiti, voglio
chiedere, insieme ai poveri della terra, di rappresentare i propri
popoli e di lavorare per il bene comune. Voglio chiedere loro il
coraggio di guardare ai propri popoli, di guardare negli occhi la gente,
e il coraggio di sapere che il bene di un popolo è molto più di un
consenso tra le parti (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 218).
Si guardino dall’ascoltare soltanto le élite economiche tanto spesso
portavoce di ideologie superficiali che eludono le vere questioni
dell’umanità. Siano al servizio dei popoli che chiedono terra, casa,
lavoro e una vita buona. Quel “buon vivere” aborigeno che non è la
“dolce vita” o il “dolce far niente”, no. Quel buon vivere umano che ci
mette in armonia con tutta l’umanità, con tutto il creato.
Voglio chiedere anche a noi tutti, leader religiosi, di non usare mai
il nome di Dio per fomentare guerre o colpi di Stato. Stiamo accanto ai
popoli, ai lavoratori, agli umili e lottiamo insieme a loro affinché lo
sviluppo umano integrale sia una realtà. Gettiamo ponti di amore perché
la voce della periferia, con il suo pianto, ma anche con il suo canto e
la sua gioia, non provochi paura ma empatia nel resto della società.
E così sono insistente nel chiedere.
È necessario che insieme affrontiamo i discorsi populisti
d’intolleranza, xenofobia, aporofobia – che è l’odio per i poveri –,
come tutti quelli che ci portano all’indifferenza, alla meritocrazia e
all’individualismo, queste narrative sono servite solo a dividere i
nostri popoli e a minare e neutralizzare la nostra capacità poetica, la
capacità di sognare insieme.
3. Sogniamo insieme!
Sorelle e fratelli, sogniamo insieme! E poiché chiedo questo con voi,
insieme a voi, voglio anche trasmettervi alcune riflessioni sul futuro
che dobbiamo costruire e sognare. Ho detto riflessioni, ma forse
bisognerebbe dire sogni, perché in questo momento non bastano il
cervello e le mani, abbiamo bisogno anche del cuore e
dell’immaginazione: abbiamo bisogno di sognare per non tornare indietro.
Abbiamo bisogno di utilizzare quella facoltà tanto eccelsa dell’essere
umano che è l’immaginazione, quel luogo dove l’intelligenza,
l’intuizione, l’esperienza, la memoria storica si incontrano per creare,
comporre, avventurarsi e rischiare. Sogniamo insieme, perché sono stati
proprio i sogni di libertà e di uguaglianza, di giustizia e di dignità,
i sogni di fraternità a migliorare il mondo. E sono convinto che
attraverso questi sogni passa il sogno di Dio per tutti noi, che siamo
suoi figli.
Sogniamo insieme, sognate tra voi, sognate con altri. Sappiate che
siete chiamati a partecipare ai grandi processi di cambiamento, come vi
ho detto in Bolivia: «Il futuro dell’umanità è in gran parte nelle
vostre mani, nella vostra capacità di organizzare, di promuovere
alternative creative» (Discorso ai movimenti popolari, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015). È nelle vostre mani.
“Ma queste sono cose irraggiungibili”, dirà qualcuno. Sì, ma hanno la
capacità di metterci in movimento, di metterci in cammino. E proprio lì
sta tutta la vostra forza, tutto il vostro valore. Perché siete capaci
di andare al di là delle miopi autogiustificazioni e dei
convenzionalismi umani che riescono solo a continuare a giustificare le
cose così come stanno. Sognate! Sognate insieme. Non cadete in quella
rassegnazione dura e perdente… Il Tango lo esprime bene: “Dai che va
tutto bene! Che tanto è lo stesso. Laggiù all’inferno ci incontreremo!”.
No, no, per favore, non cascateci. I sogni sono sempre pericolosi per
quanti difendono lo status quo, perché mettono in discussione la
paralisi che l’egoismo del forte e il conformismo del debole vogliono
imporre. E qui c’è una sorta di patto non fatto ma che è inconscio:
quello tra l’egoismo dei forti e il conformismo dei deboli. Ma non può
funzionare così. I sogni trascendono gli angusti limiti che ci vengono
imposti e ci propongono nuovi mondi possibili. E non sto parlando di
fantasticherie basse che confondono il vivere bene con il divertirsi,
che non è altro che passare il tempo per riempire il vuoto di senso e
così restare alla mercé della prima ideologia di turno. No, non è
questo, ma sognare per quel buon vivere in armonia con tutta l’umanità e
con il creato.
Ma qual è uno dei pericoli più grandi che dobbiamo affrontare oggi?
Durante la mia vita – non ho quindici anni, una certa esperienza ce l’ho
– ho potuto rendermi conto che da una crisi non si esce mai uguali. Da
questa crisi della pandemia non usciremo uguali: o ne usciremo migliori o
ne usciremo peggiori, come prima no. Non ne usciremo mai uguali. E oggi
dobbiamo affrontare insieme, sempre insieme, questa domanda: “Come
usciremo da questa crisi? Migliori o peggiori? Certamente vogliamo
uscirne migliori, ma per questo dobbiamo rompere i legacci di ciò che è
facile e dell’accettazione passiva del “non c’è alternativa”, del
“questo è l’unico sistema possibile”, quella rassegnazione che ci
annienta, che ci porta a rifugiarci solo nel “si salvi chi può”. E per
questo bisogna sognare. Mi preoccupa il fatto che, mentre siamo ancora
paralizzati, ci sono già progetti avviati per riarmare la stessa
struttura socioeconomica che avevamo prima, perché è più facile.
Scegliamo il cammino difficile, usciamone migliori.
In Fratelli tutti
ho utilizzato la parabola del Buon Samaritano come la rappresentazione
più chiara di questa scelta impegnata nel Vangelo. Mi diceva un amico
che la figura del Buon Samaritano viene associata da una certa industria
culturale a un personaggio mezzo tonto. È la distorsione che provoca
l’edonismo depressivo con cui s’intende neutralizzare la forza
trasformatrice dei popoli, e specialmente della gioventù.
Sapete che cosa mi viene in mente adesso, insieme ai movimenti
popolari, quando penso al Buon Samaritano? Sapete che cosa mi viene in
mente? Le proteste per la morte di George Floyd. È chiaro che questo
tipo di reazione contro l’ingiustizia sociale, razziale o maschilista
può essere manipolato o strumentalizzato da macchinazioni politiche o
cose del genere; ma l’essenziale è che lì, in quella manifestazione
contro quella morte, c’era il “samaritano collettivo” (che non era per
niente scemo!). Quel movimento non passò oltre, quando vide la ferita
della dignità umana colpita da un simile abuso di potere. I movimenti
popolari sono, oltre che poeti sociali, “samaritani collettivi.
In questi processi ci sono così tanti giovani che io sento speranza…;
ma ci sono molti altri giovani che sono tristi, che forse per sentire
qualcosa in questo mondo hanno bisogno di ricorrere alle consolazioni a
buon mercato che offre il sistema consumistico e narcotizzante. E altri –
è triste – altri scelgono proprio di uscire dal sistema. Le statistiche
di suicidi giovanili non vengono pubblicate nella loro totale realtà.
Quello che voi fate è molto importante, ma è anche importante che
riusciate a contagiare le generazioni presenti e future con ciò che fa
ardere il vostro cuore. In questo avete un duplice lavoro o
responsabilità. Restare attenti, come il Buon Samaritano, a tutti quelli
che sono feriti lungo la strada ma, al tempo stesso, far sì che molti
di più si uniscano in questo atteggiamento: i poveri e gli oppressi
della terra lo meritano, la nostra casa comune ce lo chiede.
Voglio offrire alcune piste. La Dottrina sociale della Chiesa non
contiene tutte le risposte, ma ha alcuni principi che possono aiutare
questo cammino a concretizzare le risposte e aiutare sia i cristiani sia
i non cristiani. A volte mi sorprende che ogni volta che parlo di
questi principi alcuni si meravigliano e allora il Papa viene catalogato
con una serie di epiteti che si utilizzano per ridurre qualsiasi
riflessione alla mera aggettivazione screditante. Non mi fa arrabbiare,
mi rattrista. Fa parte della trama della post-verità che cerca di
annullare qualsiasi ricerca umanistica alternativa alla globalizzazione
capitalista; fa parte della cultura dello scarto e fa parte del
paradigma tecnocratico.
I principi che espongo sono misurati, umani, cristiani, compilati nel Compendio elaborato dall’allora Pontificio Consiglio “Giustizia e Pace” [3].
È un piccolo manuale della Dottrina sociale della Chiesa. E a volte,
quando i Papi, sia io, sia Benedetto, o Giovanni Paolo II, diciamo
qualcosa, c’è gente che si meraviglia: “Da dove ha preso questo?”. È la
dottrina tradizionale della Chiesa. C’è molta ignoranza in questo. I
principi che espongo stanno in quel libro, al capitolo quarto. Voglio
chiarire una cosa: sono inseriti in questo Compendio e questo Compendio è
stato voluto da san Giovanni Paolo II. Raccomando a voi, e a tutti i
leader sociali, sindacali, religiosi, politici e imprenditoriali di
leggerlo.
Nel capitolo quarto di questo documento troviamo principi come
l’opzione preferenziale per i poveri, la destinazione universale dei
beni, la solidarietà, la sussidiarietà, la partecipazione, il bene
comune, che sono mediazioni concrete per attuare a livello sociale e
culturale la Buona Novella del Vangelo. E mi rattrista quando alcuni
fratelli della Chiesa s’infastidiscono se ricordiamo questi orientamenti
che appartengono a tutta la tradizione della Chiesa. Ma il Papa non può
non ricordare questa dottrina anche se molto spesso dà fastidio alla
gente, perché a essere in gioco non è il Papa ma il Vangelo.
E in questo contesto, vorrei riprendere brevemente alcuni principi
sui quali contiamo per portare avanti la nostra missione. Ne menzionerò
due o tre, non di più. Uno è il principio di solidarietà. La solidarietà
non solo come virtù morale ma come principio sociale, principio che
cerca di affrontare i sistemi ingiusti allo scopo di costruire una
cultura della solidarietà che esprima – dice letteralmente il Compendio –
«la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene
comune» (n. 193).
Un altro principio è quello di stimolare e promuovere la
partecipazione e la sussidiarietà tra i movimenti e tra i popoli, capace
di limitare qualsiasi schema autoritario, qualsiasi collettivismo
forzato o qualsiasi schema stato-centrico. Non si può utilizzare il bene
comune come scusa per schiacciare l’iniziativa privata, l’identità
locale o i progetti comunitari. Pertanto, questi principi promuovono
un’economia e una politica che riconoscano il ruolo dei movimenti
popolari, «della famiglia, dei gruppi, delle associazioni, delle realtà
territoriali locali, in breve, di quelle espressioni aggregative di tipo
economico, sociale, culturale, sportivo, ricreativo, professionale,
politico, alle quali le persone danno spontaneamente vita e che rendono
loro possibile una effettiva crescita sociale». Questo nel numero 185 del Compendio.
Come vedete, cari fratelli, care sorelle, sono principi equilibrati e
ben stabiliti nella Dottrina sociale della Chiesa. Con questi due
principi credo che possiamo compiere il prossimo passo dal sogno
all’azione. Perché è tempo di agire.
4. Tempo di agire
Spesso mi dicono: “Padre, siamo d’accordo, ma in concreto, che
dobbiamo fare?”. Io non ho la risposta, perciò dobbiamo sognare insieme e
trovarla insieme. Tuttavia, ci sono misure concrete che forse possono
permettere qualche cambiamento significativo. Sono misure che si trovano
nei vostri documenti, nei vostri interventi, e di cui ho tenuto molto
conto, sulle quali ho meditato e ho consultato esperti. In incontri
passati abbiamo parlato dell’integrazione urbana, dell’agricoltura
familiare, dell’economia popolare. A queste, che ancora richiedono di
continuare a lavorare insieme per concretizzarle, mi piacerebbe
aggiungerne altre due: il salario universale e la riduzione della
giornata lavorativa.
Un reddito minino (l’RMU) o salario universale, affinché ogni persona
in questo mondo possa accedere ai beni più elementari della vita. È
giusto lottare per una distribuzione umana di queste risorse. Ed è
compito dei Governi stabilire schemi fiscali e redistributivi affinché
la ricchezza di una parte sia condivisa con equità, senza che questo
presupponga un peso insopportabile, soprattutto per la classe media –
generalmente, quando ci sono questi conflitti, è quella che soffre di
più –. Non dimentichiamo che le grandi fortune di oggi sono frutto del
lavoro, della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnica di migliaia
di uomini e donne nel corso di generazioni.
La riduzione della giornata lavorativa è un’altra possibilità. Il
reddito minimo è una possibilità, l’altra è la riduzione della giornata
lavorativa. E occorre analizzarla seriamente. Nel XIX secolo gli operai
lavoravano dodici, quattordici, sedici ore al giorno. Quando
conquistarono la giornata di otto ore non collassò nulla, come invece
alcuni settori avevano previsto. Allora – insisto – lavorare meno
affinché più gente abbia accesso al mercato del lavoro è un aspetto che
dobbiamo esplorare con una certa urgenza. Non ci possono essere tante
persone che soffrono per l’eccesso di lavoro e tante altre che soffrono
per la mancanza di lavoro.
Ritengo che siano misure necessarie, ma naturalmente non sufficienti.
Non risolvono il problema di fondo, e non garantiscono neppure
l’accesso alla terra, alla casa e al lavoro nella quantità e qualità che
i contadini senza terra, le famiglie senza una casa sicura e i
lavoratori precari meritano. Non risolveranno nemmeno le enormi sfide
ambientali che abbiamo davanti. Ma ho voluto menzionarle perché sono
misure possibili e segnerebbero un positivo cambiamento di direzione.
È bene sapere che in questo non siamo soli. Le Nazioni Unite hanno
cercato di stabilire alcune mete attraverso i cosiddetti Obiettivi di
Sviluppo Sostenibile (OSS), ma purtroppo non conosciute dai nostri
popoli e dalle periferie; e questo ci ricorda l’importanza di
condividere e di coinvolgere tutti in questa ricerca comune.
Sorelle e fratelli, sono convinto che il mondo si veda più
chiaramente dalle periferie. Bisogna ascoltare le periferie, aprire loro
le porte e permettere loro di partecipare. La sofferenza del mondo si
capisce meglio insieme a quelli che soffrono. Nella mia esperienza,
quando le persone, uomini e donne, che hanno subito nella propria carne
l’ingiustizia, la disuguaglianza, l’abuso di potere, le privazioni, la
xenofobia, nella mia esperienza vedo che capiscono meglio ciò che vivono
gli altri e sono capaci di aiutarli ad aprire, realisticamente, strade
di speranza. Quanto è importante che la vostra voce sia ascoltata,
rappresentata in tutti i luoghi in cui si prendono decisioni! Offrirla
come collaborazione, offrirla come una certezza morale di ciò che si
deve fare. Sforzatevi di far sentire la vostra voce, e anche in quei
luoghi, per favore, non lasciatevi incasellare e non lasciatevi
corrompere. Due parole che hanno un significato molto grande, del quale
non parlerò ora.
Riaffermiamo l’impegno che abbiamo preso in Bolivia: mettere
l’economia al servizio dei popoli per costruire una pace duratura
fondata sulla giustizia sociale e sulla cura della Casa comune.
Continuate a portare avanti la vostra agenda di terra, casa e lavoro.
Continuate a sognare insieme. E grazie, grazie sul serio, perché mi
lasciate sognare con voi.
Chiediamo a Dio di effondere la sua benedizione sui nostri sogni. Non
perdiamo le speranze. Ricordiamo la promessa che Gesù ha fatto ai suoi
discepoli: “Sarò sempre con voi” (cfr Mt 28,20); e ricordandola,
in questo momento della mia vita, voglio dirvi che anche io sarò con
voi. L’importante è che siate consapevoli che Lui è con voi. Grazie!
___________________
[1] “Il virus della fame si moltiplica”, rapporto dell’Oxfam del 9 luglio 2021, in base al Global Report on Food Crises (GRFC) del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite.
In un
videomessaggio rivolto ai partecipanti al IV incontro mondiale dei
movimenti popolari, Francesco lancia un forte appello ai potenti del
pianeta a lavorare per un mondo più giusto, solidale e fraterno. Chiede
la cancellazione del debito dei Paesi poveri, il bando delle armi, la
fine delle aggressioni e delle sanzioni, la liberalizzazione dei
brevetti perché tutti abbiano accesso al vaccino. Due le proposte da
attuare nell’immediato: il salario minimo e la riduzione della giornata
lavorativa
Michele Raviart- Città del Vaticano
Sognare insieme un mondo migliore dopo la pandemia, cercando di
superare le resistenze che impediscono il raggiungimento di “quel buon
vivere in armonia con tutta l’umanità e con il creato” che si ottiene
solo attraverso libertà, uguaglianza, giustizia e dignità. Cambiare “un
sistema di morte” chiedendo, in nome di Dio, a chi detiene il potere
politico ed economico, di mutare lo status quo e permettere che ai nostri sogni si infiltri “il sogno di Dio per tutti noi, che siamo suoi figli”.
È quanto Papa Francesco propone, in un lungo videomessaggio, ai
rappresentanti dei movimenti popolari, riuniti in videoconferenza per il
loro quarto incontro mondiale organizzato dal Dicastero per il servizio
dello sviluppo umano integrale.
Poeti sociali che creano speranza
I movimenti popolari e le persone che loro rappresentano e aiutano
sono quelli che hanno sofferto di più per la pandemia. Il Papa li chiama
“poeti sociali” per “la capacità e il coraggio di creare speranza” e
dignità:
Vedervi mi ricorda che non siamo condannati a ripetere né a
costruire un futuro basato sull’esclusione e la disuguaglianza, sullo
scarto o sull’indifferenza; dove la cultura del privilegio sia un potere
invisibile e insopprimibile e lo sfruttamento e l’abuso siano come un
metodo abituale di sopravvivenza. No! Questo voi lo sapete annunciare
molto bene.
I più colpiti dalla pandemia
“La pandemia - ribadisce Francesco - ha fatto vedere le
disuguaglianze sociali che colpiscono i nostri popoli e ha esposto –
senza chiedere permesso né perdono – la straziante situazione di tanti
fratelli e sorelle”. Tutti “abbiamo subito il dolore della chiusura” e
“abbiamo sperimentato come, da un giorno all’altro, il nostro modo di
vivere può cambiare drasticamente” ma, sebbene “in molti Paesi gli Stati
hanno reagito”, “hanno ascoltato la scienza e sono riusciti a porre
limiti per garantire il bene comune”, “a voi come sempre è toccata la
parte peggiore”:
Nei quartieri che sono privi d’infrastruttura di base (dove vivono
molti di voi e milioni di persone) è difficile restare in casa; non
solo perché non si dispone di tutto il necessario per portare avanti le
misure minime di cura e di protezione, ma semplicemente perché la casa è
il quartiere. I migranti, le persone prive di documenti, i lavoratori
informali senza reddito fisso, si sono visti privati, in molti casi, di
qualsiasi aiuto statale e impossibilitati a svolgere i loro compiti
abituali, aggravando la loro già lacerante povertà.
Stress tra i giovani e crisi alimentare: gli effetti nascosti del virus
Una situazione talmente evidente da non potere essere occultata da
“tanti meccanismi di post-verità” e anche un’espressione della cultura
dell’indifferenza, come se “questo terzo sofferente del nostro mondo non
rivesta sufficiente interesse per i grandi media e per chi fa
opinione”. Un mondo che rimane “nascosto, rannicchiato”, come altri
aspetti poco noti della vita sociale che la pandemia ha peggiorato. Lo
stress e l’ansia cronica di bambini, adolescenti e giovani, ad esempio,
aggravati dall’isolamento e dalla mancanza di contatto reale con gli
amici. “L’amicizia è la forma in cui l’amore risorge sempre”, ricorda
infatti il Papa, e sebbene sia evidente che la tecnologia possa essere
uno strumento di bene, “non può mai sostituire il contatto”. “Non fa
notizia”, “non genera empatia”, nemmeno la crisi alimentare, che
potrebbe generare nell’immediato futuro più morti annuali di quelli per
il Covid-19.
Quest’anno venti milioni di persone in più si sono viste
trascinate a livelli estremi di insicurezza alimentare, salendo a
(molti) milioni di persone. L’indigenza grave si è moltiplicata. Il
prezzo degli alimenti è aumentato notevolmente. I numeri della fame sono
orribili, e penso, per esempio, a paesi come Siria, Haiti, Congo,
Senegal, Yemen, Sud Sudan; ma la fame si fa sentire anche in molti altri
Paesi del mondo povero e, non di rado, anche nel mondo ricco.
Sentire come proprio il dolore degli altri
Eppure, in questo contesto, gli operatori dei movimenti popolari
hanno sentito come loro il dolore degli altri. “Cristiani e non”, dice
il Papa “avete risposto a Gesù che ha detto ai suoi discepoli di fronte
alla gente affamata: voi stessi date loro da mangiare”.
Come i medici, gli infermieri e il personale sanitario nelle
trincee sanitarie, voi avete messo il vostro corpo nella trincea dei
quartieri emarginati. Ho presente molti, tra virgolette, “martiri”, di
questa solidarietà, dei quali ho saputo tramite voi. Il Signore ne terrà
conto. Se tutti quelli che per amore hanno lottato insieme contro la
pandemia potessero anche sognare insieme un mondo nuovo, come sarebbe
tutto diverso!
Cambiare sistema economico
Il Papa ribadisce che “da una crisi non si esce mai uguali”. Dalla
pandemia “o ne usciremo migliori o ne usciremo peggiori, come prima no”.
Per cogliere un’opportunità di miglioramento bisogna quindi
“riflettere, discernere e scegliere”, perché “ritornare agli schemi
precedenti sarebbe davvero suicida”, “ecocida e genocida”. Per uscirne
migliori è “imprescindibile adeguare i nostri modelli socio-economici
affinché abbiano un volto umano, perché tanti modelli lo hanno perso”.
Modelli che sono diventati “strutture di peccato” che persistono e che
siamo chiamati a cambiare.
Questo sistema, con la sua logica implacabile del guadagno, sta
sfuggendo o ogni controllo umano. È ora di frenare la locomotiva, una
locomotiva fuori controllo che ci sta portando verso l’abisso. Siamo
ancora in tempo.
“In nome di Dio”, l’appello del Papa ai potenti della terra
Di qui l’appello forte al cambiamento rivolto per nove volte “in nome di Dio” a chi conta e ha il potere di decidere.
A tutti voglio chiedere in nome di Dio. Ai grandi laboratori,
che liberalizzino i brevetti. Compiano un gesto di umanità e permettano
che ogni Paese, ogni popolo, ogni essere umano, abbia accesso al
vaccino. Ci sono Paesi in cui solo il tre, il quattro per cento degli
abitanti è stato vaccinato.
Voglio chiedere, in nome di Dio, ai gruppi finanziari e agli organismi internazionali
di credito di permettere ai Paesi poveri di garantire i bisogni primari
della loro gente e di condonare quei debiti tante volte contratti
contro gli interessi di quegli stessi popoli.
Voglio chiedere, in nome di Dio, alle grandi compagnie
estrattive – minerarie, petrolifere –, forestali, immobiliari,
agroalimentari, di smettere di distruggere i boschi, le aree
umide e le montagne, di smettere d’inquinare i fiumi e i mari, di
smettere d’intossicare i popoli e gli alimenti.
Voglio chiedere, in nome di Dio, alle grandi compagnie alimentari
di smettere d’imporre strutture monopolistiche di produzione e
distribuzione che gonfiano i prezzi e finiscono col tenersi il pane
dell’affamato.
Voglio chiedere, in nome di Dio, ai fabbricanti e ai trafficanti di armi
di cessare totalmente la loro attività, che fomenta la violenza e la
guerra, spesso nel quadro di giochi geopolitici il cui costo sono
milioni di vite e di spostamenti.
Voglio chiedere, in nome di Dio, ai giganti della tecnologia
di smettere di sfruttare la fragilità umana, le vulnerabilità delle
persone, per ottenere guadagni, senza considerare come aumentano i
discorsi di odio, il grooming [adescamento di minori in internet], le
fake news [notizie false], le teorie cospirative, la manipolazione
politica.
Voglio chiedere, in nome di Dio, ai giganti delle telecomunicazioni di
liberalizzare l’accesso ai contenuti educativi e l’interscambio con i
maestri attraverso internet, affinché i bambini poveri possano ricevere
un’educazione in contesti di quarantena.
Voglio chiedere, in nome di Dio, ai mezzi di comunicazione di
porre fine alla logica della post-verità, alla disinformazione, alla
diffamazione, alla calunnia e a quell’attrazione malata per lo scandalo e
il torbido; che cerchino di contribuire alla fraternità umana e
all’empatia con le persone più ferite.
Voglio chiedere, in nome di Dio, ai Paesi potenti di
cessare le aggressioni, i blocchi e le sanzioni unilaterali contro
qualsiasi Paese in qualsiasi parte della terra. No al neocolonialismo. I
conflitti si devono risolvere in istanze multilaterali come le Nazioni
Unite. Abbiamo già visto come finiscono gli interventi, le invasioni e
le occupazioni unilaterali, benché compiuti sotto i più nobili motivi o
rivestimenti.
Appello ai leader politici e religiosi
Ai governi e ai politici di tutti i partiti, Francesco chiede di
evitare di “ascoltare soltanto le élite economiche” per mettersi “al
servizio dei popoli che chiedono terra, tetto, lavoro e una vita buona”,
mentre ai leader religiosi chiede di “non usare mai il nome di Dio per
fomentare guerre o colpi di Stato”. Occorre invece gettare ponti di
amore.
I Samaritani collettivi e la forza trasformatrice dei popoli
I discorsi populisti d’intolleranza, xenofobia e disprezzo per i
poveri, continua il Papa, sono narrative che portano all’indifferenzae
all’individualismo, dividendo i popoli per impedirgli di sognare
insieme un mondo migliore. In questa sfida a sognare, i movimenti
popolari fungono da “samaritani collettivi”. Il Buon Samaritano, ricorda
il Papa - lungi dall’essere quel “personaggio mezzo tonto” ritratto da
“una certa industria culturale” che vuole “neutralizzare la forza
trasformatrice dei popoli e specialmente della gioventù” – è infatti la
rappresentazione più chiara di un’opzione impegnata nel Vangelo.
Sapete che cosa mi viene in mente adesso, insieme ai movimenti
popolari, quando penso al Buon Samaritano? Sapete che cosa mi viene in
mente? Le proteste per la morte di George Floyd. È chiaro che questo
tipo di reazione contro l’ingiustizia sociale, razziale o maschilista
può essere manipolato o strumentalizzato da macchinazioni politiche o
cose del genere; ma l’essenziale è che lì, in quella manifestazione
contro quella morte, c’era il “samaritano collettivo” (che non era per
niente scemo!). Quel movimento non passò oltre, quando vide la ferita
della dignità umana colpita da un simile abuso di potere.
La Dottrina sociale della Chiesa dà fastidio a molti
Papa Francesco propone alcuni principi tradizionali della Dottrina
sociale della Chiesa, come l’opzione preferenziale per i poveri, la
destinazione universale dei beni, la solidarietà, la sussidiarietà, la
partecipazione, il bene comune.
A volte mi sorprende che ogni volta che parlo di questi principi
alcuni si meravigliano e allora il Papa viene catalogato con una serie
di epiteti che si utilizzano per ridurre qualsiasi riflessione alla mera
aggettivazione screditante. Non mi fa arrabbiare, mi rattrista. Fa
parte della trama della post-verità che cerca di annullare qualsiasi
ricerca umanistica alternativa alla globalizzazione capitalista; fa
parte della cultura dello scarto e fa parte del paradigma tecnocratico.
Francesco si dice rattristato quando “alcuni fratelli della Chiesa
s’infastidiscono se ricordiamo questi orientamenti che appartengono a
tutta la tradizione della Chiesa” e invita tutti a leggerne un compendio
nel “piccolo manuale” di Dottrina Sociale della Chiesa voluto da San
Giovanni Paolo II.
Il Papa non può non ricordare questa Dottrina anche se molto
spesso dà fastidio alla gente, perché a essere in gioco non è il Papa ma
il Vangelo.
Impegno per il bene comune e libertà
Francesco indica in particolare due principi: la solidarietà, intesa
come “determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene
comune”, e la sussidiarietà che contrasta “qualsiasi schema autoritario,
qualsiasi collettivismo forzato o qualsiasi schema stato-centrico”.
Infatti - sottolinea - non si può utilizzare il bene comune “come scusa
per schiacciare l’iniziativa privata, l’identità locale o i progetti
comunitari”.
Salario minimo e riduzione della giornata lavorativa
È “tempo di agire” e il Papa propone alcune misure concrete: un
reddito minimo (o salario universale) e la riduzione della giornata
lavorativa. In questo modo ogni persona potrebbe permettersi di
“accedere ai beni più elementari della vita”.
È giusto lottare per una distribuzione umana di queste risorse. Ed
è compito dei Governi stabilire schemi fiscali e redistributivi
affinché la ricchezza di una parte sia condivisa con equità, senza che
questo presupponga un peso insopportabile, soprattutto per la classe
media, generalmente, quando ci sono questi conflitti, è quella che
soffre di più.
I vantaggi della riduzione della giornata lavorativa, per il Papa si possono ritrovare nella storia:
Nel XIX secolo gli operai lavoravano dodici, quattordici, sedici
ore al giorno. Quando conquistarono la giornata di otto ore non collassò
nulla, come invece alcuni settori avevano previsto. Allora – insisto –
lavorare meno affinché più gente abbia accesso al mercato del lavoro è
un aspetto che dobbiamo esplorare con una certa urgenza. Non ci possono
essere tante persone che soffrono per l’eccesso di lavoro e tante altre
che soffrono per la mancanza di lavoro.
Ascoltare la voce delle periferie
Infine, Francesco, ricorda l’importanza di ascoltare le periferie, il luogo da dove “il mondo si vede più chiaramente”.
Bisogna ascoltare le periferie, aprire loro le porte e permettere
loro di partecipare. La sofferenza del mondo si capisce meglio insieme a
quelli che soffrono. Nella mia esperienza, quando le persone, uomini e
donne, che hanno subito nella propria carne l’ingiustizia, la
disuguaglianza, l’abuso di potere, le privazioni, la xenofobia, nella
mia esperienza vedo che capiscono meglio ciò che vivono gli altri e sono
capaci di aiutarli ad aprire, realisticamente, strade di speranza.
Ambiente.Ormai il surriscaldamento è sotto gli occhi di tutti, anche se i politici che non mostrano segni di conversione. Ognuno di noi dovrà prendere coscienza della realtà, unirsi agli altri e formare lentamente grandi movimenti popolari per scardinare questo «Sistema di morte». Diamoci da fare, perché la Speranza nasce dal basso
Manifestazione contro l'emergenza climatica in India
La ventiseiesima Conferenza delle Parti (COP 26) si terrà dal 1 al 13 novembre a Glasgow (Scozia) per affrontare la drammatica situazione ambientale del Pianeta. Il Pianeta è sull’orlo dell’abisso: «La Terra non ha mai affrontato una crisi simile per 65 milioni di anni, dalla quinta estinzione – ha affermato Noam Chomsky. Ora siamo nel bel mezzo della sesta estinzione. Questa è la crisi più grave della storia umana». Perfino il nostro Presidente del Consiglio Draghi è stato costretto ad affermare: «Con le politiche attuali, il riscaldamento rischia di aumentare di tre gradi. L’Occidente sta facendo poco o niente contro il riscaldamento globale». Ne abbiamo avuto la prova l’estate scorsa con un Pianeta in fiamme dalla California alla Siberia.
Ormai il surriscaldamento è sotto gli occhi di tutti, anche dei politici che non mostrano però segni di conversione. Giustamente Greta Thunberg, a Milano per Youth 4 Climate (Giovani per il Clima) ha apostrofato i discorsi dei politici come «bla, bla, bla». Come Draghi, che riconosce il disastro climatico, ma persegue politiche che lo alimentano. D’altronde, Draghi è l’uomo della Goldman Sachs, della Banca d’Italia, della Bce. Draghi è il padre del Pnrr che offre rinnovato sostegno alla cricca del cemento e delle Grandi Opere: autostrade, aeroporti, Alta Velocità, Tav, Ponte di Messina…. (come abbiamo dimenticato Alex Langer con quel suo «più lento, più profondo, più soave»!).
E per mascherare tutto questo, Draghi ha creato il Ministero della Transizione Ecologica (qualcuno ha giustamente detto che si tratta del Ministero della Finzione Ecologica!). Di fatto, come è possibile che si scelga ministro della Transizione Ecologica un uomo che non si è mai interessato di ambiente, un uomo che proviene dall’industria delle armi, da Finmeccanica (oggi Leonardo)? Tant’è che oggi sta già parlando di nucleare, idrogeno blu, inceneritori, stoccaggi di CO2 sottoterra, di trivellazioni in mare… Inoltre Draghi ha stilato il Pnrr senza aggiornare i target climatici, ma utilizzando i vecchi obiettivi della riduzione della CO2 del 40%, mentre la Ue lo ha già alzato a 55%.
Per di più non c’è nessun accenno nel Pnrr dell’agri-business, uno dei più importanti inquinatori. Il problema centrale è che il nostro stile di vita occidentale è insostenibile. Infatti se tutti vivessero come vive il 10% del mondo, avremmo bisogno di due o tre pianeti.
Alcuni esempi: nei paesi benestanti noi consumiamo a testa ogni anno 100 Kg di carne all’anno. Se tutta l’umanità consumasse la stessa quantità di carne, avremmo bisogno di un altro pianeta solo per questo. Il consumo sfrenato dell’1% della popolazione mondiale inquina il doppio dei paesi impoveriti, i quali pagano pesantemente il surriscaldamento. Le conseguenze di tutto questo scempio di beni sono ora sotto i nostri occhi, ma rifiutiamo di leggere la realtà e di fare una inversione di marcia.
«Questo comportamento evasivo – ci ammonisce Papa Francesco nellaLaudato Si’– ci serve per mantenere i nostri stili di vita, di produzione e di consumo. E’ il modo in cui l’essere umano si arrangia ad alimentare tutti i vizi autodistruttivi: cercando di non vederli, rimandando le decisioni importanti, facendo tutto come se nulla fosse» (59).
Ecco perché i paesi benestanti continuano a rimandare le decisioni di uscire dai fossili e da uno stile di vita insostenibile. Noi dobbiamo capire che solo uno stile di vita più sobrio, più essenziale, più umano può salvarci: il Pianeta però sopravviverà, ma non l’uomo, che si è trasformato nella più feroce delle bestie. «Negli ultimi 60 anni abbiamo percorso la strada sbagliata, dell’illimitata crescita capitalista – afferma il noto antropologo Amitav Ghosh (India). Le emissioni sono solo sintomi di una malattia ben più grave che è una malattia dell’anima… Viviamo una crisi di valori». E aggiunge: «Quello che oggi chiamiamo ‘sviluppo’ è solo un Sistema per spingere la gente a desiderare sempre di più e cosi rendendola scontenta. Il Capitalismo è una macchina che produce scontento da colmare con il desiderio che si nutre di consumismo». E non dobbiamo aspettarci nulla dai governi che sono parte integrante di questa malattia.
Ognuno di noi dovrà prendere coscienza della realtà, unirsi agli altri e formare lentamente grandi movimenti popolari per scardinare questo «Sistema di morte». Dal basso, insieme possiamo fare molto. E dato che il cuore del problema sono le banche che investono in fossili, dobbiamo avere il coraggio del disinvestimento, cioè di togliere i nostri soldi da quelle banche che pagano per i fossili.
Banca San Paolo fra il 2016 e il 2020 ha stanziato per i fossili 13,7 miliardi di dollari. Unicredit (anche se si è impegnata di disinvestire nei fossili entro il 2028) investe 8 miliardi di dollari in società come Total, Eni.
Se tutti, cristiani e non, seguissero seriamente l’insegnamento di Papa Francesco nellaLaudato Si’, dovrebbero «disinvestire» da quelle banche che investono in carbone, petrolio e gas . Se unitariamente facessimo questo, potremmo scuotere i nostri governi, prigionieri delle Banche.
Diamoci da fare, perché la Speranza nasce dal basso.
Stiamo vivendo un periodo storico estremamente contradditorio
e complicato, dove finiamo per scontrarci per un vaccino fatto o
rifiutato, per un’azione giusta o sbagliata, per l’adesione o il
sospetto verso le tecnologie.
Temi
attuali ed importanti, occasioni per andare a cercare dentro il
conflitto ed imparare. Ma anche forse solo una parte di un problema
molto più grande: quello dell’economia della guerra, che subiamo tutte e
tutti.
In guerra con la natura
Continua senza sosta la guerra che
non si è mai fermata: quella di predazione della natura, della nostra
madre Terra. Avviene a livello del suolo, coi disboscamenti, gli
incendi, l’uso di pesticidi e di sementi modificate geneticamente, le
speculazioni edilizie, le espropriazioni industriali e militari, gli
allevamenti intensivi. Avviene a livello del sottosuolo, attraverso
un’estrazione continua di idrocarburi e, al contempo e in ottemperanza
all’ era tecno e green con i i computer e gli smartphone dappertutto e
l’elettrificazione dei mezzi di trasporto, l’accanita ricerca di
minerali rari, come il litio, il cotlan, il cobalto, la cui estrazione
mineraria rischia di far saltare interi ecosistemi. Questa guerra non
risparmia l’acqua: i continui sversamenti di petrolio e carburanti nei
mari, le “isole” di plastica negli oceani, la contaminazione dei
fondali, delle coste e degli stagni costieri, così come l’inquinamento
delle falde acquifere, da parte dell’industria e di una zoo-agricoltura
intensiva, ci stanno pian piano sottraendo l’elemento base della vita.
Né certo la guerra contro la natura risparmia l’aria, la sostanza che
respiriamo: la riempiamo di anidride carbonica fino a creare una vera e
propria cappa nell’atmosfera, in larga misura responsabile del brusco
innalzamento medio della temperatura e dei cambiamenti climatici, col
conseguente aumento degli eventi catastrofici, come siccità, alluvioni,
uragani, tempeste.
Questa
guerra è portata avanti da un sistema economico-finanziario basato sul
profitto e che usa tutte le sue armi per mantenere ed ampliare il
proprio potere, cieco davanti alle conseguenze dei suoi atti, sordo
davanti alle grida degli altri esseri, col fiuto riservato al denaro,
ruvido, senza più tatto, col gusto di metallo del comando.
Le guerre fra gli stati e i popoli
In
relazione a questo principio di accaparramento selvaggio delle risorse
naturali si sono, fin da tempi remoti, scatenate le guerre fra gli
uomini, fra le nazioni, fra i popoli. Per rimanere agli ultimi cento,
centodieci anni: abbiamo avuto due guerre mondiali, una guerra fredda,
l’egemonia USA, e poi un’infinità di scontri locali o macro-regionali,
che hanno interessato per lo più il Medioriente, l’Africa, il sud-est
asiatico e l’America Latina, ma che si sono concretizzati anche in
Europa, col conflitto balcanico.
Oggi,
oltrepassati i primi venti anni del terzo millennio, ci ritroviamo
davanti a guerre quasi secolari, come quella fra palestinesi e
israeliani, o fra russi ed ukraini, o a guerre nuove, per
l’accaparramento delle risorse idriche, o delle risorse minerarie, come
qua e là in tutti i continenti. Dietro queste guerre si annidano gli
interessi delle multinazionali finanziarie e quelli delle grandi potenze
politico-militari, per avere accesso alle risorse, o per contrastare
chi può averne accesso. Viviamo in un’economia di guerra, dove la
produzione e la vendita di armi sempre più sofisticate e letali fa il
paio con i proventi miliardari delle ricostruzioni post-belliche.
Il
conflitto uomo-natura e le guerre fra Stati appaiono quindi fenomeni
intimamente allacciati e che si alimentano a vicenda. Per fare un
esempio, così come l’estrazione di diamanti da parte di potentati
economici senza scrupoli diventa causa di guerra fra le popolazioni
dell’Africa centrale, le stesse ostilità armate e i massacri fra i
civili portano a loro volta ad ulteriori catastrofi ambientali, quali
incendi, avvelenamenti delle acque, distruzione dei raccolti, carestie.
Similmente le guerre per il controllo del petrolio e del gas in Iraq, in
Libia, in Siria hanno portato, oltre ad innumerevoli eccidi, ad
ulteriori predazioni delle risorse e a nuovi squilibri ambientali che,
con molte probabilità, diventeranno carburante per altre guerre fra gli
uomini.
Uscire dal cerchio
Uscire da questo circolo vizioso sembrerebbe oggi impresa impossibile.
Abbiamo
alterato e stiamo avvelenando tutti gli elementi che consentono la vita
umana e mammifera sulla Terra, innescando processi che appaiono sempre
più irreversibili. Il sistema capitalistico del profitto e delle
diseguaglianze sociali ha trovato nella globalizzazione la sua apoteosi
e, insieme, l’inizio del suo declino. Perché diventerà presto sempre più
chiaro a tutti che salvarsi dalla catastrofe planetaria non sarà
possibile, mantenendo questo sistema.
Il
movimento internazionale giovanile lanciato da Greta Thumberg
rappresenta una scossa importante e le nuove generazioni stanno facendo
forse un piccolo salto storico, riguardo alla coscienza dell’equilibrio
uomo-natura, proprio nel momento in cui sono potenzialmente più a
rischio di assuefazione alla “virtualità” delle nuove tecnologie di
massa. Tuttavia questa generazione dovrà avere del tempo per comprendere
meglio i legami fra il conflitto uomo-natura e il conflitto uomo contro
uomo.
Perché è
necessaria ma non basta la contestazione, neppure la ribellione,
occorre creare un progetto costruttivo e cominciare a sperimentarlo. Più
riusciremo a farlo, più isole di autogestione locale nasceranno, meno
saremo dipendenti dall’economia di guerra dei potenti e più convinceremo
con l’esempio altri. L’esempio non è solo un corollario della teoria:
solo la pratica crea effervescenza, impegno ed unità.
L’economia
di guerra in cui stiamo vivendo è lo specchio di un’ecologia rimasta
nei libri di scuola. Eppure se in greco antico eikos significa casa,
logos significa principio, fondamento, nomos vuol dire ordinamento,
possiamo meglio capire che mettere insieme ecologia ed economia dovrà
essere l’impegno dell’umanità oggi e nel prossimo futuro.