mercoledì 15 luglio 2015

70º anniversario del bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki

dalla pagina http://presenzalongare.blogspot.it/2015/07/70-anniversario-silenzio-per-hiroshima.html

Per far memoria del bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki
  • giovedì 6, venerdì 7, sabato 8, Domenica 9 agosto 2015
  • dalle ore 7 alle 12
  • davanti alla base USA Site Pluto a Longàre, Riviera Berica, Vicenza

domenica 12 luglio 2015

Partecipazione al II incontro mondiale dei movimenti popolari

dalla pagina http://www.paxchristi.it/?p=10673

unnamed-6_1436481984Centro Expo Feria, Santa Cruz de la Sierra (Bolivia) Giovedì, 9 luglio 2015 Sorelle e fratelli, buon pomeriggio! Qualche mese fa ci siamo incontrati a Roma [28.10.2014] ed ho presente quel primo nostro incontro. Durante questo periodo vi ho portato nel mio cuore e nelle mie preghiere. Sono contento di rivedervi qui, a discutere sui modi migliori per superare le gravi situazioni di ingiustizia che soffrono gli esclusi in tutto il mondo. Grazie, Signor Presidente Evo Morales, perché accompagna così risolutamente questo Incontro. Quella volta a Roma ho sentito qualcosa di molto bello: fraternità, decisione, impegno, sete di giustizia. Oggi, a Santa Cruz de la Sierra, ancora una volta sento lo stesso. Grazie per tutto ciò. Ho saputo anche dal cardinale Turkson presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, che molti nella Chiesa si sentono più vicini ai movimenti popolari. Me ne rallegro molto! Vedere la Chiesa con le porte aperte a tutti voi, mettersi in gioco, accompagnare, e programmare in ogni diocesi, ogni Commissione di Giustizia e Pace, una reale collaborazione, permanente e impegnata con i movimenti popolari. Vi invito tutti, Vescovi, sacerdoti e laici, comprese le organizzazioni sociali nelle periferie urbane e rurali, ad approfondire tale incontro. Dio ci consente di rivederci nuovamente oggi. La Bibbia ci ricorda che Dio ascolta il grido del suo popolo e anch’io desidero unire la mia voce alla vostra: le famose “tre t”: terra, casa e lavoro per tutti i nostri fratelli e sorelle. L’ho detto e lo ripeto: sono diritti sacri. Vale la pena, vale la pena di lottare per essi. Che il grido degli esclusi si oda in America Latina e in tutta la terra. Prima di tutto, iniziamo riconoscendo che abbiamo bisogno di un cambiamentoCi tengo a precisare, affinché non ci sia fraintendimento, che parlo dei problemi comuni a tutti i latino-americani e, in generale, a tutta l’umanità. Problemi che hanno una matrice globale e che oggi nessuno Stato è in grado di risolvere da solo. Fatto questo chiarimento, propongo di porci queste domande:
  • Sappiamo riconoscere, sul serio, che le cose non stanno andando bene in un mondo dove ci sono tanti contadini senza terra, molte famiglie senza casa, molti lavoratori senza diritti, molte persone ferite nella loro dignità?
  • Riconosciamo che le cose non stanno andando bene quando esplodono molte guerre insensate e la violenza fratricida aumenta nei nostri quartieri?
  • Sappiamo riconoscere che le cose non stanno andando bene quando il suolo, l’acqua, l’aria e tutti gli esseri della creazione sono sotto costante minaccia?
1. E allora, se riconosciamo questo, diciamolo senza timore: abbiamo bisogno e vogliamo un cambiamento. Voi nelle vostre lettere e nei nostri incontri – mi avete informato sulle molte esclusioni e sulle ingiustizie subite in ogni attività di lavoro, in ogni quartiere, in ogni territorio. Sono molti e diversi come molti e diversi sono i modi di affrontarli. Vi è, tuttavia, un filo invisibile che lega ciascuna delle esclusioni. Non sono isolate, sono unite da un filo invisibile. Possiamo riconoscerlo? Perché non si tratta di problemi isolati. Mi chiedo se siamo in grado diriconoscere che tali realtà distruttive rispondono ad un sistema che è diventato globale. Sappiamo riconoscere che tale sistema ha imposto la logica del profitto ad ogni costo, senza pensare all’esclusione sociale o alla distruzione della natura? Se è così, insisto, diciamolo senza timore: noi vogliamo un cambiamento, un vero cambiamento, un cambiamento delle strutture. Questo sistema non regge più, non lo sopportano i contadini, i lavoratori, le comunità, i villaggi … E non lo sopporta più la Terra, la sorella Madre Terra, come diceva san Francesco. Vogliamo un cambiamento nella nostra vita, nei nostri quartieri, nel salario minimo, nella nostra realtà più vicina; e pure un cambiamento che tocchi tutto il mondo perché oggi l’interdipendenza planetaria richiede risposte globali ai problemi locali. La globalizzazione della speranza, che nasce dai Popoli e cresce tra i poveri, deve sostituire questa globalizzazione dell’esclusione e dell’indifferenza! Oggi vorrei riflettere con voi sul cambiamento che vogliamo e di cui vi è necessità. Sapete che recentemente ho scritto circa i problemi del cambiamento climatico. Ma questa volta, voglio parlare di un cambiamento nell’altro senso. Un cambiamento positivo, un cambiamento che ci faccia bene, un cambiamento che potremmo dire redentivo. Perché ne abbiamo bisogno. So che voi cercate un cambiamento e non solo voi: nei vari incontri, nei diversi viaggi, ho trovato che esiste un’attesa, una ricerca forte, un desiderio di cambiamento in tutti i popoli del mondo. Anche all’interno di quella minoranza in diminuzione che crede di beneficiare di questo sistema regna insoddisfazione e soprattutto tristezza. Molti si aspettano un cambiamento che li liberi da questa tristezza individualista che rende schiavi. Il tempo, fratelli, sorelle, il tempo sembra che stia per giungere al termine; non è bastato combattere tra di noi, ma siamo arrivati ad accanirci contro la nostra casa. Oggi la comunità scientifica accetta quello che già da molto tempo denunciano gli umili: si stanno producendo danni forse irreversibili all’ecosistema. Si stanno punendo la terra, le comunità e le persone in modo quasi selvaggio. E dopo tanto dolore, tanta morte e distruzione, si sente il tanfo di ciò che Basilio di Cesarea – uno dei primi teologi della Chiesa – chiamava lo “sterco del diavolo”. L’ambizione sfrenata di denaro che domina. Questo è lo “sterco del diavolo. E il servizio al bene comune passa in secondo piano. Quando il capitale diventa idolo e dirige le scelte degli esseri umani, quando l’avidità di denaro controlla l’intero sistema socio-economico, rovina la società, condanna l’uomo, lo fa diventare uno schiavo, distrugge la fraternità interumana, spinge popolo contro popolo e, come si vede, minaccia anche questa nostra casa comune, la sorella madre terra. Non voglio dilungarmi a descrivere gli effetti negativi di questa sottile dittatura: voi li conoscete. E non basta nemmeno segnalare le cause strutturali del dramma sociale e ambientale contemporaneo. Noi soffriamo un certo eccesso diagnostico che a volte ci porta a un pessimismo parolaio o a crogiolarci nel negativo. Vedendo la cronaca nera di ogni giorno, siamo convinti che si può fare nulla, ma solo prendersi cura di sé e della piccola cerchia della famiglia e degli affetti. Cosa posso fare io, raccoglitore di cartoni, frugatrice tra le cose, raccattatore, riciclatrice, di fronte a problemi così grandi, se appena guadagno quel tanto per mangiare? Cosa posso fare io artigiano, venditore ambulante, trasportatore, lavoratore escluso se non ho nemmeno i diritti dei lavoratori? Cosa posso fare io, contadina, indigeno, pescatore che appena appena posso resistere all’asservimento delle grandi imprese? Che cosa posso fare io dalla mia borgata, dalla mia baracca, dal mio quartiere, dalla mia fattoria quando sono quotidianamente discriminato ed emarginato? Che cosa può fare questo studente, questo giovane, questo militante, questo missionario che calca quartieri e luoghi con un cuore pieno di sogni, ma quasi nessuna soluzione ai suoi problemi? Potete fare molto. Potete fare molto! Voi, i più umili, gli sfruttati, i poveri e gli esclusi, potete fare e fate molto. Oserei dire che il futuro dell’umanità è in gran parte nelle vostre mani, nella vostra capacità di organizzare e promuovere alternative creative nella ricerca quotidiana delle “tre t”, d’accordo? – lavoro, casa, terra – e anche nella vostra partecipazione attiva ai grandi processi di cambiamento, cambiamenti nazionali, cambiamenti regionali e cambiamenti globali. Non sminuitevi!

2. Voi siete seminatori di cambiamento. Qui in Bolivia ho sentito una frase che mi piace molto: “processo di cambiamento”. Il cambiamento concepito non come qualcosa che un giorno arriverà perché si è imposta questa o quella scelta politica o perché si è instaurata questa o quella struttura sociale. Sappiamo dolorosamente che un cambiamento di strutture che non sia accompagnato da una sincera conversione degli atteggiamenti e del cuore finisce alla lunga o alla corta per burocratizzarsi, corrompersi e soccombere. Bisogna cambiare il cuore. Per questo mi piace molto l’immagine del processo, i processi, dove la passione per il seminare, per l’irrigare con calma ciò che gli altri vedranno fiorire sostituisce l’ansia di occupare tutti gli spazi di potere disponibili e vedere risultati immediati. La scelta è di generare processi e non di occupare spazi. Ognuno di noi non è che parte di un tutto complesso e variegato che interagisce nel tempo: gente che lotta per un significato, per uno scopo, per vivere con dignità, per “vivere bene”, dignitosamente, in questo senso. Voi, da parte dei movimenti popolari, assumete i compiti di sempre, motivati dall’amore fraterno che si ribella contro l’ingiustizia sociale. Quando guardiamo il volto di quelli che soffrono, il volto del contadino minacciato, del lavoratore escluso, dell’indigeno oppresso, della famiglia senza casa, del migrante perseguitato, del giovane disoccupato, del bambino sfruttato, della madre che ha perso il figlio in una sparatoria perché il quartiere è stato preso dal traffico di droga, del padre che ha perso la figlia perché è stata sottoposta alla schiavitù; quando ricordiamo quei “volti e nomi” ci si stringono le viscere di fronte a tanto dolore e ci commuoviamo, tutti ci commuoviamo. Perché “abbiamo visto e udito” non la fredda statistica, ma le ferite dell’umanità sofferente, le nostre ferite, la nostra carne. Questo è molto diverso dalla teorizzazione astratta o dall’indignazione elegante. Questo ci tocca, ci commuove e cerchiamo l’altro per muoverci insieme.Questa emozione fatta azione comunitaria non si comprende unicamente con la ragione: ha un “più” di senso che solo la gente capisce e che dà la propria  particolare mistica ai veri movimenti popolari. Voi vivete ogni giorno, impregnati, nell’intrico della tempesta umana. Mi avete parlato delle vostre cause, mi avete reso partecipe delle vostre lotte, già da Buenos Aires, e vi ringrazio.Voi, cari fratelli, lavorate molte volte nella dimensione piccola, vicina, nella realtà ingiusta che vi è imposta, eppure non vi rassegnate, opponendo una resistenza attiva al sistema idolatrico che esclude, degrada e uccide. Vi ho visto lavorare instancabilmente per la terra e l’agricoltura contadina, per i vostri territori e comunità, per la dignità dell’economia popolare, per l’integrazione urbana delle vostre borgate e dei vostri insediamenti, per l’autocostruzione di abitazioni e lo sviluppo di infrastrutture di quartiere, e in tante attività comunitarie che tendono alla riaffermazione di qualcosa di così fondamentale e innegabilmente necessario come il diritto alle “tre t”: terra, casa e lavoro. Questo attaccamento al quartiere, alla terra, all’occupazione, al sindacato, questo riconoscersi nel volto dell’altro, questa vicinanza del giorno per giorno, con le sue miserie – perché ci sono, le abbiamo – e i suoi eroismi quotidiani, è ciò che permette di esercitare il mandato dell’amore non partendo da idee o concetti, bensì partendo dal genuino incontro tra persone, perché abbiamo bisogno di instaurare questa cultura dell’incontro, perché non si amano né i concetti né le idee, nessuno ama un concetto, un’idea, si amano le persone. Il darsi, l’autentico darsi viene dall’amare uomini e donne, bambini e anziani e le comunità: volti, volti e nomi che riempiono il cuore. Da quei semi di speranza piantati pazientemente nelle periferie dimenticate del pianeta, da quei germogli di tenerezza che lottano per sopravvivere nel buio dell’esclusione, cresceranno alberi grandi, sorgeranno boschi fitti di speranza per ossigenare questo mondo. Vedo con gioia che lavorate nella dimensione di prossimità,prendendovi cura dei germogli; ma, allo stesso tempo, con una prospettiva più ampia, proteggendo il bosco. Lavorate in una prospettiva che non affronta solo la realtà settoriale che ciascuno di voi rappresenta e nella quale è felicemente radicato, ma cercate anche di risolvere alla radice i problemi generali di povertà, disuguaglianza ed esclusione. Mi congratulo con voi per questo. E’ indispensabile che, insieme alla rivendicazione dei vostri legittimi diritti, i popoli e le loro organizzazioni sociali costruiscano un’alternativa umana alla globalizzazione escludente. Voi siete seminatori del cambiamento. Che Dio vi conceda coraggio, gioia, perseveranza e passione per continuare la semina! Siate certi che prima o poi vedremo i frutti. Ai dirigenti chiedosiate creativi e non perdete mai il vostro attaccamento alla prossimità, perché il padre della menzogna sa usurpare nobili parole, promuovere mode intellettuali e adottare pose ideologiche, ma se voi costruite su basi solide, sulle esigenze reali e sull’esperienza viva dei vostri fratelli, dei contadini e degli indigeni, dei lavoratori esclusi e delle famiglie emarginate, sicuramente non sbaglierete. La Chiesa non può e non deve essere aliena da questo processo nell’annunciare il Vangelo. Molti sacerdoti e operatori pastorali svolgono un compito enorme accompagnando e promuovendo gli esclusi di tutto il mondo, al fianco di cooperative, sostenendo l’imprenditorialità, costruendo alloggi, lavorando con abnegazione nel campo della salute, dello sport e dell’educazione. Sono convinto che la collaborazione rispettosa con i movimenti popolari può potenziare questi sforzi e rafforzare i processi di cambiamento. Teniamo sempre nel cuore la Vergine Maria, umile ragazza di un piccolo villaggio sperduto nella periferia di un grande impero, una madre senza tetto che seppe trasformare una grotta per animali nella casa di Gesù con un po’ di panni e una montagna di tenerezza. Maria è un segno di speranza per la gente che soffre le doglie del parto fino a quando germogli la giustizia. Prego la Vergine Maria, così venerata dal popolo boliviano, affinché faccia sì che questo nostro Incontro sia lievito di cambiamento. 3. Infine vorrei che pensassimo insieme alcuni compiti importanti per questo momento storico, perché vogliamo un cambiamento positivo per il bene di tutti i nostri fratelli e sorelle, questo lo sappiamo. Vogliamo un cambiamento che si arricchisca con lo sforzo congiunto dei governi, dei movimenti popolari e delle altre forze sociali, ed anche questo lo sappiamo. Ma non è così facile da definire il contenuto del cambiamento, si potrebbe dire il programma sociale che rifletta questo progetto di fraternità e di giustizia che ci aspettiamo. Non è facile definirlo. In tal senso, non aspettatevi da questo Papa una ricetta. Né il Papa né la Chiesa hanno il monopolio della interpretazione della realtà sociale né la proposta di soluzioni ai problemi contemporanei. Oserei dire che non esiste una ricetta. La storia la costruiscono le generazioni che si succedono nel quadro di popoli che camminano cercando la propria strada e rispettando i valori che Dio ha posto nel cuore. Vorrei, tuttavia, proporre tre grandi compiti che richiedono l’appoggio determinante dell’insieme di tutti i movimenti popolari:

3.1. Il primo compito è quello di mettere l’economia al servizio dei popoli: gli esseri umani e la natura non devono essere al servizio del denaro. Diciamo NO a una economia di esclusione e inequità in cui il denaro domina invece di servire. Questa economia uccide. Questa economia è escludente. Questa economia distrugge la Madre Terra. L’economia non dovrebbe essere un meccanismo di accumulazione, ma la buona amministrazione della casa comune. Ciò significa custodire gelosamente la casa e distribuire adeguatamente i beni tra tutti. Il suo scopo non è solo assicurare il cibo o un “decoroso sostentamento”. E nemmeno, anche se sarebbe comunque un grande passo avanti, garantire l’accesso alle “tre t” per le quali voi lottate. Un’economia veramente comunitaria, direi una economia di ispirazione cristiana, deve garantire ai popoli dignità, «prosperità senza escludere alcun bene» (Giovanni XXIII, Lett. enc. Mater et Magistra [15 maggio 1961], 3: AAS 53 (1961), 402). Quest’ultima frase la disse il Papa Giovanni XXIII cinquant’anni fa. Gesù dice nel Vangelo che a chi avrà dato spontaneamente un bicchier d’acqua a un assetato, ne sarà tenuto conto nel Regno dei cieli. Ciò comporta le “tre t”, ma anche l’accesso all’istruzione, alla salute, all’innovazione, alle manifestazioni artistiche e culturali, alla comunicazione, allo sport e alla ricreazione. Un’economia giusta deve creare le condizioni affinché ogni persona possa godere di un’infanzia senza privazioni, sviluppare i propri talenti nella giovinezza, lavorare con pieni diritti durante gli anni di attività e accedere a una pensione dignitosa nell’anzianità. Si tratta di un’economia in cui l’essere umano, in armonia con la natura, struttura l’intero sistema di produzione e distribuzione affinché le capacità e le esigenze di ciascuno trovino espressione adeguata nella dimensione sociale. Voi, e anche altri popoli, riassumete questa aspirazione in un modo semplice e bello: “vivere bene” – che non è lo stesso che “passarsela bene”. Questa economia è non solo auspicabile e necessaria, ma anche possibile. Non è un’utopia o una fantasia. È una prospettiva estremamente realistica. Possiamo farlo. Le risorse disponibili nel mondo, frutto del lavoro intergenerazionale dei popoli e dei doni della creazione, sono più che sufficienti per lo sviluppo integrale di «ogni uomo e di tutto l’uomo» (Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio [26 marzo 1967], 14: AAS 59 (1967), 264). Il problema, invece, è un altro. Esiste un sistema con altri obiettivi. Un sistema che oltre ad accelerare in modo irresponsabile i ritmi della produzione, oltre ad incrementare nell’industria e nell’agricoltura metodi che danneggiano la Madre Terra in nome della “produttività”, continua a negare a miliardi di fratelli i più elementari diritti economici, sociali e culturali. Questo sistema attenta al progetto di Gesù, contro la Buona Notizia che ha portato Gesù. L’equa distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è semplice filantropia. E’ un dovere morale. Per i cristiani, l’impegno è ancora più forte: è un comandamento. Si tratta di restituire ai poveri e ai popoli ciò che appartiene a loro. La destinazione universale dei beni non è un ornamento discorsivo della dottrina sociale della Chiesa. E’ una realtà antecedente alla proprietà privata. La proprietà, in modo particolare quando tocca le risorse naturali, dev’essere sempre in funzione dei bisogni dei popoli. E questi bisogni non si limitano al consumo. Non basta lasciare cadere alcune gocce quando i poveri agitano questo bicchiere che mai si versa da solo. I piani di assistenza che servono a certe emergenze dovrebbero essere pensati solo come risposte transitorie, occasionali. Non potrebbero mai sostituire la vera inclusione: quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale. In questo cammino, i movimenti popolari hanno un ruolo essenziale, non solo nell’esigere o nel reclamare, ma fondamentalmente nel creare. Voi siete poeti sociali: creatori di lavoro, costruttori di case, produttori di generi alimentari, soprattutto per quanti sono scartati dal mercato mondiale. Ho conosciuto da vicino diverse esperienze in cui i lavoratori riuniti in cooperative e in altre forme di organizzazione comunitaria sono riusciti a creare un lavoro dove c’erano solo scarti dell’economia idolatrica. E ho visto che alcuni sono qui. Le imprese recuperate, i mercatini liberi e le cooperative di raccoglitori di cartone sono esempi di questa economia popolare che emerge dall’esclusione e, a poco a poco, con fatica e pazienza, assume forme solidali che le danno dignità. Come è diverso questo rispetto al fatto che gli scartati dal mercato formale siano sfruttati come schiavi! I governi che assumono come proprio il compito di mettere l’economia al servizio della gente devono promuovere il rafforzamento, il miglioramento, il coordinamento e l’espansione di queste forme di economia popolare e di produzione comunitaria. Ciò implica migliorare i processi di lavoro, provvedere infrastrutture adeguate e garantire pieni diritti ai lavoratori di questo settore alternativo. Quando Stato e organizzazioni sociali assumono insieme la missione delle “tre t” si attivano i principi di solidarietà e di sussidiarietà che permettono la costruzione del bene comune in una democrazia piena e partecipativa.

3.2. Il secondo compito è quello di unire i nostri popoli nel cammino della pace e della giustizia. I popoli del mondo vogliono essere artefici del proprio destino. Vogliono percorrere in pace la propria marcia verso la giustizia. Non vogliono tutele o ingerenze in cui il più forte sottomette il più debole. Chiedono che la loro cultura, la loro lingua, i loro processi sociali e le loro tradizioni religiose siano rispettati. Nessun potere di fatto o costituito ha il diritto di privare i paesi poveri del pieno esercizio della propria sovranità e, quando lo fanno, vediamo nuove forme di colonialismo che compromettono seriamente le possibilità di pace e di giustizia, perché «la pace si fonda non solo sul rispetto dei diritti dell’uomo, ma anche su quello dei diritti dei popoli, in particolare il diritto all’indipendenza» (Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 157). I popoli dell’America Latina hanno partorito dolorosamente la propria indipendenza politica e, da allora, portano avanti quasi due secoli di una storia drammatica e piena di contraddizioni cercando di conquistare la piena indipendenza. In questi ultimi anni, dopo tante incomprensioni, molti Paesi dell’America Latina hanno visto crescere la fraternità tra i loro popoli. I governi della regione hanno unito le forze per far rispettare la propria sovranità, quella di ciascun Paese e quella della regione nel suo complesso, che in modo così bello, come i nostri antichi padri, chiamano la “Patria Grande”. Chiedo a voi, fratelli e sorelle dei movimenti popolari, di avere cura e di accrescere questa unità. Mantenere l’unità contro ogni tentativo di divisione è necessario perché la regione cresca in pace e giustizia. Nonostante questi progressi, ci sono ancora fattori che minano lo sviluppo umano equo e limitano la sovranità dei paesi della “Patria Grande” e di altre regioni del pianeta. Il nuovo colonialismo adotta facce diverse. A volte, è il potere anonimo dell’idolo denaro: corporazioni, mutuanti, alcuni trattati chiamati “di libero commercio” e l’imposizione di mezzi di “austerità” che aggiustano sempre la cinta dei lavoratori e dei poveri. Come Vescovi latino-americani lo denunciamo molto chiaramente nel Documento di Aparecida, quando affermano che «le istituzioni finanziarie e le imprese transnazionali si rafforzano fino al punto di subordinare le economie locali, soprattutto indebolendo gli Stati, che appaiono sempre più incapaci di portare avanti progetti di sviluppo per servire le loro popolazioni» (V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano [2007], Documento conclusivo, 66). In altre occasioni, sotto il nobile pretesto della lotta contro la corruzione, il traffico di droga e il terrorismo – gravi mali dei nostri tempi che richiedono un intervento internazionale coordinato – vediamo che si impongono agli Stati misure che hanno poco a che fare con la soluzione di queste problematiche e spesso peggiorano le cose. Allo stesso modo, la concentrazione monopolistica dei mezzi di comunicazione che cerca di imporre alienanti modelli di consumo e una certa uniformità culturale è un altro modalità adottata dal nuovo colonialismo. Questo è  il colonialismo ideologico. Come dicono i Vescovi dell’Africa, molte volte si pretende di convertire i paesi poveri in «pezzi di un meccanismo, parti di un ingranaggio gigantesco» (Giovanni Paolo II, Esort. ap. Ecclesia in Africa [14 settembre 1995], 52: AAS 88 [1996], 32-33; cfr Lett. enc.Sollicitudo rei socialis [30 dicembre 1987], 22: AAS 80 [1988], 539). Occorre riconoscere che nessuno dei gravi problemi dell’umanità può essere risolto senza l’interazione tra gli Stati e i popoli a livello internazionale. Ogni atto di ampia portata compiuto in una parte del pianeta si ripercuote nel tutto in termini economici, ecologici, sociali e culturali. Persino il crimine e la violenza si sono globalizzati. Pertanto nessun governo può agire al di fuori di una responsabilità comune. Se vogliamo davvero un cambiamento positivo, dobbiamo accettare umilmente la nostra interdipendenza, cioè la nostra sana interdipendenza. Ma interazione non è sinonimo di imposizione, non è subordinazione di alcuni in funzione degli interessi di altri. Il colonialismo, vecchio e nuovo, che riduce i paesi poveri a semplici fornitori di materie prime e manodopera a basso costo, genera violenza, povertà, migrazioni forzate e tutti i mali che abbiamo sotto gli occhi… proprio perché mettendo la periferia in funzione del centro le si nega il diritto ad uno sviluppo integrale. E questo, fratelli, è inequità, e l’inequità genera violenza che nessuna polizia, militari o servizi segreti sono in grado di fermare. Diciamo NO, dunque, a vecchie e nuove forme di colonialismo. Diciamo SÌ all’incontro tra popoli e culture. Beati coloro che lavorano per la pace. Qui voglio soffermarmi su una questione importante. Perché qualcuno potrà dire, a buon diritto, “quando il Papa parla di colonialismo dimentica certe azioni della Chiesa”. Vi dico, a malincuore: si sono commessi molti e gravi peccati contro i popoli originari dell’America in nome di Dio. Lo hanno riconosciuto i miei predecessori, lo ha detto il CELAM, il Consiglio Episcopale Latinoamericano, e lo voglio dire anch’io. Come san Giovanni Paolo II, chiedo che la Chiesa «si inginocchi dinanzi a Dio ed implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli» (Bolla Incarnationis mysterium [29 novembre 1998], 11: AAS 91 [1999], 140). E desidero dirvi, vorrei essere molto chiaro, come lo era san Giovanni Paolo II: chiedo umilmente perdono, non solo per le offese della propria Chiesa, ma per i crimini contro le popolazioni indigene durante la cosiddetta conquista dell’America. E insieme a questa richiesta di perdono, per essere giusti, chiedo anche che ricordiamo migliaia di sacerdoti e vescovi, che opposero fortemente alla logica della spada con la forza della Croce. Ci fu peccato, ci fu peccato e abbondante, ma non abbiamo chiesto perdono, e per questo chiediamo perdono, e chiedo perdono, però là, dove ci fu il peccato, dove ci fu abbondante peccato, sovrabbondò la grazia mediante questi uomini che difesero la giustizia dei popoli originari. Chiedo anche a tutti voi, credenti e non credenti, di ricordarvi di tanti vescovi, sacerdoti e laici che hanno predicato e predicano la Buona Notizia di Gesù con coraggio e mansuetudine, rispetto e in pace – ho detto vescovi, sacerdoti e laici; non mi voglio dimenticare delle suore, che anonimamente percorrono i nostri quartieri poveri portando un messaggio di pace e di bene -, che nel loro passaggio per questa vita hanno lasciato commoventi opere di promozione umana e di amore, molte volte a fianco delle popolazioni indigene o accompagnando i movimenti popolari anche fino al martirio. La Chiesa, i suoi figli e figlie, sono una parte dell’identità dei popoli dell’America Latina. Identità che, sia qui che in altri Paesi, alcuni poteri sono determinati a cancellare, talvolta perché la nostra fede è rivoluzionaria, perché la nostra fede sfida la tirannia dell’idolo denaro. Oggi vediamo con orrore come il Medio Oriente e in altre parti del mondo si perseguitano, si torturano, si assassinano molti nostri fratelli a causa della loro fede in Gesù. Dobbiamo denunciare anche questo: in questa terza guerra mondiale “a rate” che stiamo vivendo, c’è una sorta – forzo il termine – di genocidio in corso che deve fermarsi. Ai fratelli e alle sorelle del movimento indigeno latinoamericano,lasciatemi esprimere il mio più profondo affetto e congratularmi per la ricerca dell’unione dei loro popoli e delle culture; unione che a me piace chiamare “poliedro”: una forma di convivenza in cui le parti mantengono la loro identità costruendo insieme una pluralità che, non mette in pericolo, bensì rafforza l’unità. La loro ricerca di questo multiculturalismo, che combina la riaffermazione dei diritti dei popoli originari con il rispetto dell’integrità territoriale degli Stati, ci arricchisce e ci rafforza tutti.

3.3. Il terzo compito, forse il più importante che dobbiamo assumere oggi, è quello di difendere la Madre Terra. La casa comune di tutti noi viene saccheggiata, devastata, umiliata impunemente. La codardia nel difenderla è un peccato grave. Vediamo con delusione crescente che si succedono uno dopo l’altro vertici internazionali senza nessun risultato importante. C’è un chiaro, preciso e improrogabile imperativo etico ad agire che non viene soddisfatto. Non si può consentire che certi interessi – che sono globali, ma non universali – si impongano, sottomettano gli Stati e le organizzazioni internazionali e continuino a distruggere il creato. I popoli e i loro movimenti sono chiamati a far sentire la propria voce, a mobilitarsi, ad esigere – pacificamente ma tenacemente – l’adozione urgente di misure appropriate. Vi chiedo, in nome di Dio, di difendere la Madre Terra. Su questo argomento mi sono debitamente espresso nella Lettera enciclica Laudato si’, che credo vi sarà consegnata alla fine.

4. Per terminare, vorrei dire ancora una volta: il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. E’ soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi ed anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento. Io vi accompagno. E ciascuno, ripetiamo insieme dal cuore: nessuna famiglia senza casa, nessun contadino senza terra, nessun lavoratore senza diritti, nessun popolo senza sovranità, nessuna persona senza dignità, nessun bambino senza infanzia, nessun giovane senza opportunità, nessun anziano senza una venerabile vecchiaia.
Proseguite nella vostra lotta e, per favore, abbiate molta cura della Madre Terra. Credetemi, sono sincero, lo dico dal cuore: prego per voi, prego con voi e desidero chiedere a Dio nostro Padre di accompagnarvi e di benedirvi, che vi colmi del suo amore e vi difenda nel cammino, dandovi abbondantemente quella forza che ci fa stare in piedi: quella forza è la speranza. E una cosa importante: la speranza non delude! E, per favore, vi chiedo di pregare per me. E se qualcuno di voi non può pregare, con tutto rispetto, gli chiedo che mi pensi bene e mi mandi “buona onda”. Grazie!

venerdì 10 luglio 2015

Cos'è il TTIP

E' un trattato di liberalizzazione commerciale transatlantico funzionale ad abbattere dazi e dogane tra Europa e Stati Uniti rendendo il commercio più fluido e penetrante tra le due sponde dell’oceano.

L’idea sembrerebbe buona... 
Perché qualcuno lo definisce “pericoloso”? 

Ecco la posizione della Campagna Stop TTIP

Questo trattato, che viene negoziato "in segreto" [i mezzi di comunicazione di massa NON ne parlano e i parlamenti nazionali NON sono particolarmente coinvolti] tra Commissione UE e Governo USA, vuole costruire un blocco geopolitico offensivo nei confronti di Paesi emergenti come Cina, India e Brasile [BRICS] creando un mercato interno in cui le cui regole non verranno più determinate dai nostri Governi ma modellate da organismi tecnici sovranazionali sulle esigenze dei grandi gruppi transnazionali.
 
Approfondimenti qui

SEGUITE TUTTI GLI AGGIORNAMENTI sul sito ufficiale della campagna Stop TTIP a questo link

lunedì 6 luglio 2015

L'Isis sta vincendo? Non è vero...

da Famiglia Cristiana n. 27, 5 luglio 2015

30/06/2015  Per vincere bisogna che qualcuno combatta. Ma nessuno sta combattendo contro l'Isis. USA e Arabia Saudita sperano che i jihadisti abbattano il loro nemico Assad. E lasciano fare.

Non è vero che l’Isis sta vincendo. Anzi: guardiamoci da coloro che lo dicono. Perché si vince contro qualcuno o qualcosa. Mentre nessuno si batte per sconfiggere l’Isis. Nata in Iraq (il nome del suo capo, Al Baghdadi, vuol dire appunto “di Baghdad”) nel periodo in cui gli sciiti iracheni erano bersagliati dagli attentati, cresciuta in Siria nella lotta contro il regime sciita degli Assad, la milizia è stata aiutata in ogni modo da Paesi come Arabia Saudita, Turchia, Kuwait, Qatar e USA.

L’autorevole Brookings Institution ha calcolato che la sola amministrazione Obama ha investito un miliardo di dollari nei gruppi anti-Assad e partecipato all’addestramento di circa 10 mila combattenti. Nemmeno  quando l’Isis ha occupato  un terzo dell’Iraq ci si è davvero mobilitati per sconfiggerlo: si è solo costruita una barriera (fatta di di soldati iracheni e curdi e di milizie, più le incursioni aeree) per impedirgli di arrivare alle regioni irachene ricche di petrolio, lasciandolo però libero di devastare la Siria in nome della lotta contro Assad, oltre a consentirgli di occupare la parte dell'Iraq più popolata di cristiani.

Ben altro impegno era possibile. Gli stessi Paesi, quando hanno voluto darsi da fare sul serio, cioè contro i ribelli sciiti dello Yemen, hanno messo in campo in poche ore 100 mila soldati, 100 aerei da combattimento  e sono scesi in campo.
L’attentato nella moschea del Kuwait era rivolto contro gli sciiti, proprio come l’analoga strage del 22 maggio in Arabia Saudita. Se davvero volessimo eliminare l’Isis dovremmo allearci ai Paesi sciiti (Iran, Siria, Libano, Iraq) e combattere. Ma non vogliamo, perché Arabia Saudita e USA sperano che i miliziani facciano crollare Assad e magari anche il Libano. In altre parole: sauditi e americani [statunitensi] sperano che l'Isis li aiuti a sconfiggere i loro tradizionali nemici.

Una scommessa cinica e azzardata, perché non c'è solo l'Isis in giro. Nel frattempo abbiamo abbandonato la Somalia e trasformato la Libia nel regno del caos con la guerra del 2011, regalando così all’estremismo altro terreno e altri guadagni: petrolio, migranti (i soli jihadisti libici pare ricavino dal traffico quasi 400 milioni di dollari l’anno), sequestri e ricatti. Gli altri scommettono con le loro strategie. A noi europei, come sempre incapaci di una strategia degna di tal nome, restano le stragi, i barconi dei disperati e i gesti dei folli esaltati dall’esempio di Al Baghdadi.

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leggi anche:
http://socialevicenza.blogspot.it/2015/06/isis.html
http://socialevicenza.blogspot.it/2015/01/isis-solo-una-riforma-dellislam-puo.html
http://socialevicenza.blogspot.it/2015/05/un-intervento-di-george-friedman.html

 

sabato 4 luglio 2015

Enzo Bianchi, "L'undicesimo comandamento"

dalla pagina http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/06/19/lundicesimo-comandamento30.html

Francesco si rivolge a tutti, come fece Giovanni XXIII, papa santo e profeta, con la Pacem in terris quando la emanò dedicandola «a tutti gli uomini di buona volontà». Così delinea un parallelo tra la tragica minaccia della guerra all'inizio degli anni Sessanta, «mentre il mondo vacillava sull'orlo di una crisi nucleare», e il «deterioramento globale dell'ambiente» che stiamo provocando, "degradazione" già denunciata come "drammatica" e foriera di una possibile "catastrofe ecologica" da Paolo VI nella sua Lettera apostolica Octogesima adveniens del 1971. Ci troviamo cioè di fronte a una minaccia per l'umanità paragonabile alla catastrofe nucleare: per questo il suo monito risuona accorato e urgente.

Anche la modalità con cui papa Francesco ha costruito l'enciclica e lo stile assunto fanno parte dell'insegnamento stesso. Francesco non è un papa autoreferenziale che citi solo il magistero suo o dei papi precedenti: certo, come in tutti i documenti pontifici c'è innanzitutto la Sacra Scrittura che risulta ispirante, ci sono i padri della Chiesa e il magistero precedente, dal concilio ai papi dell'ultimo secolo, a volte però con scelte e discriminazioni eloquenti. Ma nella Laudato si' troviamo citati anche documenti degli episcopati di tutto il mondo: dalle Americhe all'Oceania, dall'Africa del Sud all'Asia fino all'Europa. Il papa attinge anche al magistero episcopale, come capo del collegio cui spetta il discernimento e la conferma nella fede.

Accanto a questo respiro collegiale ci sono anche dati assolutamente nuovi e sorprendenti. È la prima volta che in un'enciclica papale vengono citati testi di cristiani appartenenti ad altre Chiese: due paragrafi presentano il pensiero e l'azione infaticabile del Patriarca ecumenico Bartholomeos, chiamato nel mondo il "patriarca verde" per la sua costante attenzione all'ecologia. Bartholomeos è un grande amico e fratello di Francesco, che condivide con lui una forte convergenza di sensibilità e «la speranza della piena comunione ecclesiale».

Ma, tra gli autori citati nell'enciclica, si deve ricordare la presenza di un filosofo, peraltro protestante, Paul Ricoeur e i numerosi rimandi a pensatori cattolici come Romano Guardini e il "sospettato" Teilhard de Chardin. Una sorpresa ancor più grande in questo senso è trovare il rimando a «un maestro spirituale, Ali-Khawwas», mistico musulmano sufi del XV secolo.

Così l'enciclica ha un autentico respiro cattolico [= universale], ecumenico e capace di riconoscere la ricerca e la sapienza delle genti della Terra. Papa Francesco non solo rilegge le pagine della Genesi che narrano la creazione di tutto il cosmo ad opera di Dio, ma lo fa da cristiano, attraverso il Nuovo Testamento, e comprende la creazione come opera trinitaria, ossia come opera di Dio compiuta attraverso il Figlio, la Parola, nella forza del suo compagno inseparabile, il soffio, lo Spirito. L'universo non solo è opera di Dio, ma è abitato dalla presenza di Dio, è destinato alla salvezza, alla divinizzazione. Solo in questa "sovraconoscenza" della realtà della creazione in Cristo, attraverso Cristo e in vista di Cristo è possibile comprendere la vocazione umana e la vocazione di tutto il cosmo che attende redenzione e trasfigurazione.

Questa ripresa cristiana di una teologia della creazione è abbastanza rara, per lo più sconosciuta ai credenti, eppure decisiva per poter, come dice Agostino, "adorare la terra" come sgabello della signoria di Dio. Certo, l'ebraismo e il cristianesimo hanno liberato l'uomo dall'idolatria, dall'alienazione agli elementi celesti e terrestri, hanno demitizzato la natura, ma non hanno mai cessato di guardare ad essa non come a un semplice scenario per l'uomo, ma come a una comunità di creature che Dio aveva giudicato realtà "buona e bella", creature che l'uomo deve custodire, ordinare, proteggere perché la vita fiorisca e la convivenza sia foriera di pace e di felicità.

contnua

venerdì 3 luglio 2015

Raniero La Valle, "Laudato si', non a spese dei poveri né della Terra"

dalla pagina http://ranierolavalle.blogspot.it/2015/06/a-tutti.html

C’è un debito estero dei Paesi poveri che non viene con­do­nato, e anzi si è tra­sfor­mato in uno stru­mento di con­trollo mediante cui i Paesi ric­chi con­ti­nuano a depre­dare e a tenere sotto scacco i Paesi impo­ve­riti, dice il papa (e la Gre­cia è lì a testi­mo­niare per lui). Ma il “debito eco­lo­gico” che il Nord ricco e dis­si­pa­tore ha con­tratto nel tempo e soprat­tutto negli ultimi due secoli nei con­fronti del Sud che è stato spo­gliato, nei con­fronti dei poveri cui è negata per­fino l’acqua per bere e nei con­fronti dell’intero pia­neta avviato sem­pre più rapi­da­mente al disa­stro eco­lo­gico, all’inabissamento delle città costiere, alla deva­sta­zione delle bio­di­ver­sità, non viene pagato, dice il papa ( e non c’è Troika o Euro­zona o Banca Mon­diale che muova un dito per esigerlo).
La denun­cia del papa («il mio appello», dice Fran­ce­sco) non è gene­rica e rituale, come quella di una certa eco­lo­gia “super­fi­ciale ed appa­rente” che si limita a dram­ma­tiz­zare alcuni segni visi­bili di inqui­na­mento e di degrado e magari si lan­cia nei nuovi affari dell’economia “verde”, ma è estre­ma­mente cir­co­stan­ziata e pre­cisa: essa arriva a lamen­tare che la deser­ti­fi­ca­zione delle terre del Sud cau­sata dal vec­chio colo­nia­li­smo e dalle nuove mul­ti­na­zio­nali, pro­vo­cando migra­zioni di ani­mali e vege­tali neces­sari al nutri­mento, costringe all’esodo anche le popo­la­zioni ivi resi­denti; e que­sti migranti, in quanto vit­time non di per­se­cu­zioni e guerre ma di una mise­ria aggra­vata dal degrado ambien­tale, non sono rico­no­sciuti e accolti come rifu­giati, ma sbat­tuti sugli sco­gli di Ven­ti­mi­glia o al di là di muri che il mondo anche da poco appro­dato al pri­vi­le­gio si affretta ad alzare, come sta facendo l’Ungheria. L’«appello» del papa giunge poi fino ad accu­sare che lo sfrut­ta­mento delle risorse dei Paesi colo­niz­zati o abu­sati è stato tale che dalle loro miniere d’oro e di rame sono state pre­le­vate le ric­chezze e in cam­bio si è lasciato loro l’inquinamento da mer­cu­rio e da dios­sido di zolfo ser­viti per l’estrazione.

Que­sta enci­clica rap­pre­senta un salto di qua­lità nella rifles­sione sull’ambiente, si potrebbe dire che apre una seconda fase nella ela­bo­ra­zione del discorso eco­lo­gico, così come accadde nel costi­tu­zio­na­li­smo quando dalla prima gene­ra­zione dei diritti, quelli rela­tivi alle libertà civili e poli­ti­che, si passò alla con­si­de­ra­zione dei diritti di seconda e terza gene­ra­zione, sociali, eco­no­mici, ambien­tali, e cam­biò il con­cetto stesso di democrazia.
Ora il discorso della giu­sti­zia sociale e della con­di­zione dei poveri, a cui nei Paesi del Sud «l’accesso alla pro­prietà dei beni e delle risorse per sod­di­sfare le pro­prie neces­sità vitali è vie­tato da un sistema di rap­porti com­mer­ciali e di pro­prietà strut­tu­ral­mente per­versi», viene intro­dotto orga­ni­ca­mente da papa Fran­ce­sco nella que­stione eco­lo­gica, sic­ché essa non riguarda più sem­pli­ce­mente l’ambiente fisico, il suolo, l’aria, l’acqua, le fore­ste, le altre spe­cie viventi, ma assume la vita e il destino di tutti gli esseri umani sulla terra, diventa un’«ecologia inte­grale», a cui è dedi­cato l’intero capi­tolo quarto dell’enciclica: «Non ci sono due crisi sepa­rate, una ambien­tale e un’altra sociale, bensì una sola e com­plessa crisi socio-ambientale», dice il papa; e la prima cosa da sapere, come dicono i vescovi boli­viani ma anche molte altre Chiese, è che i primi a essere col­piti da «quello che sta suc­ce­dendo alla nostra casa comune» sono i poveri. E il salto di qua­lità è anche nel rigore dell’analisi, nella cura con cui ven­gono ricer­cate tutte le con­nes­sioni tra i diversi feno­meni ed eco­si­stemi, e anche nell’onestà con cui si dice che non tutto pos­siamo sapere, che la scienza deve fare ancora un grande cam­mino, e che non si può pre­su­mere di pre­ve­dere gli svi­luppi futuri, sic­ché il prin­ci­pio di pre­cau­zione diventa un obbligo di sag­gezza e di rispetto per l’umanità di domani, con­tro l’ideologia della ricerca imme­diata del pro­fitto e dell’egoismo realizzato.
Si può capire allora come con que­sta enci­clica che comin­cia con un can­tico di san Fran­ce­sco e fini­sce con una pre­ghiera in forma di poe­sia, l’idillio del mondo ricco con papa Fran­ce­sco sia finito. «Tocca i cuori di quanti cer­cano solo van­taggi a spese dei poveri e della terra», dice il papa nella sua pre­ghiera. «Non occu­parti di poli­tica, per­ché l’ambiente è poli­tica», gli dicono i ric­chi. E men­tre da un lato quello che negli Stati Uniti non si fa chia­mare Bush per ripren­dersi in fami­glia il governo dell’America dice che non si farà det­tare la sua agenda dal papa, dall’altro quello che da noi pub­blica sulle sue felpe mes­saggi di raz­zi­smo e di guerra dice che non c’è pro­prio di che essere per­do­nati per le porte chiuse in fac­cia ai pro­fu­ghi e tutti i «clan­de­stini» vor­rebbe met­terli a Santa Marta.
«Que­sto papa piace troppo» diceva la destra più zelante, allar­mata al vedere masse intere di per­sone in tutto il mondo affa­sci­nate da un pen­siero diverso dal pen­siero unico. Però si faceva finta di niente, spe­rando che la gente non capisse. Il papa diceva che l’attuale sistema non ha volto e fini vera­mente umani, e sta­vano zitti. Diceva che que­sta eco­no­mia uccide, e sta­vano zitti. Diceva che l’attuale società, in cui il denaro governa (Marx diceva «il capi­tale») è fon­data sull’esclusione e lo scarto di milioni di per­sone, e sta­vano zitti. Diceva ai poli­tici che erano cor­rotti, e sta­vano zitti. Diceva ai disoc­cu­pati di lot­tare per il lavoro e ai poveri di lot­tare con­tro l’ingiustizia, e face­vano il Jobs Act.
Ma con que­sta enci­clica il gioco di far finta di non capire non sarà più pos­si­bile. Biso­gnerà stare o dalla parte di Fran­ce­sco o con­tro di lui, per­ché non sta facendo una pre­dica, sta chie­dendo una scelta. E que­sto vale non solo per i poli­tici, per gli opi­nio­ni­sti, per i gior­nali, vale anche per i vescovi, per i car­di­nali. E vale anche per i sem­plici fedeli per­ché, scrive Fran­ce­sco «dob­biamo rico­no­scere che alcuni cri­stiani impe­gnati e dediti alla pre­ghiera, con il pre­te­sto del rea­li­smo e della prag­ma­ti­cità, spesso si fanno beffe delle pre­oc­cu­pa­zioni per l’ambiente».
Quello che infatti da Fran­ce­sco è posto davanti al mondo è il pro­blema vero: «il grido della terra» è anche il «grido dei poveri», ma nel monito che si leva dai poveri per­ché la loro vita non vada per­duta, c’è un monito che riguarda tutti, per­ché senza un rime­dio, senza un cam­bia­mento, senza un’assunzione di respon­sa­bi­lità uni­ver­sale la vita di tutti sarà perduta.
Ed è per que­sto che l’enciclica di papa Fran­ce­sco è rivolta a «ogni per­sona che abita que­sto pia­neta»: non ai cat­to­lici, e nem­meno agli «uomini di buona volontà», come faceva la «Pacem in ter­ris» di Gio­vanni XXIII, in cui si poteva sospet­tare ancora un resi­duo di esclu­sione, nei con­fronti di qual­cuno che even­tual­mente fosse di volontà non buona. Qui papa Fran­ce­sco abbrac­cia vera­mente tutti (come ne sono figura essen­zia­lis­sima per il cri­stiano le brac­cia di Cri­sto aperte sulla croce) e si pone non come capo di una Chiesa, e nem­meno come pro­feta dei cre­denti, ma come padre della intera uma­nità. Per­ché il mes­sag­gio è il seguente: non que­sta o quella Potenza o Isti­tu­zione, non que­sto o quello Stato, non quel par­tito o movi­mento, ma solo l’unità umana, solo la intera fami­glia umana giu­ri­di­ca­mente costi­tuita e agente come sog­getto poli­tico può pren­dere in mano la terra e assi­cu­rarne la vita per l’attuale e le pros­sime generazioni.
 
Raniero La Valle

giovedì 2 luglio 2015

2 luglio: fra memoria e denuncia

riceviamo da Coordinamento Cristiani per la Pace:
Preparando il 2 luglio al Dal Molin:
fra memoria e denuncia

Con le lettere aperte inviate al Presidente della Repubblica e a Michelle Obama sulla questione Dal Molin abbiamo invitato numerose Autorità nazionali e internazionali, civili e militari, ad esercitare forme di moral suasion affinché venga riconosciuto ai cittadini di Vicenza “rispetto, trasparenza e legalità”.
Come noto il direttore generale del Comune di Vicenza è stato iscritto nel registro degli indagati dalla Procura della Repubblica di Vicenza per l'ipotesi di reato di abuso d’ufficio relativamente al PIRUEA Cotorossi (Borgo Berga) e altre indagini sono in corso da parte di Anac (Autorità Nazionale Anti Corruzione) e Corte dei Conti.
Non conoscendo i motivi della rinnovata fiducia del Sindaco Variati all'arch. Bortoli (la registrazione dell'intervento del Sindaco al Consiglio Comunale dell'11.06.2015 risulta essere stata danneggiata ed è pertanto incomprensibile), registriamo l'innalzarsi di un autentico muro di gomma da parte del direttore del settore infrastrutture, ing. Diego Galiazzo, e del Segretario generale del Comune di Vicenza, Antonio Caporrino, in merito alla sistematica negazione del diritto ad ottenere l'accesso agli atti nei termini previsti dalla legge. Segnaliamo, solo a titolo di esempio, la richiesta di accesso agli atti – oggetto fra l'altro delle lettere aperte al Presidente Mattarella e a Michelle Obama- relativa alla viabilità di viale Ferrarin presentata il 4.3.2014, oltre 15 mesi fa.
Elementi qualificanti dell'azione nonviolenta sono: il rispetto dell'avversario, la ricerca del dialogo, la ricerca di una onorevole via d'uscita dai conflitti, la gradualità nelle azioni da intraprendere.

Il 2 luglio provvederemo – con altri cittadini - a sottoscrivere la nostra prima denuncia. Lo faremo anche al Dal Molin, all'interno del programma della giornata che avrà come tema “2 luglio 2013-2015: la persistente illegalità Italia-Usa a Vicenza”, in un giorno particolarmente simbolico, memori dell'orazione civile “2 luglio: giornata di lutto cittadino” (*) pronunciata dallo storico Emilio Franzina di fronte alla statua dell'indipendenza a Monte Berico alla vigilia dell'apertura della base USA Dal Molin avvenuta – per l'appunto – il 2 luglio 2013.

(*) l'orazione civile di E. Franzina è stata pubblicata anche su “Voliamo la pace”, fascicolo distribuito [ pdf ] ai partecipanti alla 47. marcia per la pace promossa dalla C.E.I. (Conferenza Episcopale Italiana) a Vicenza il 31.12.2014.
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segnaliamo anche: 2 luglio: "Vicenza in lutto"